Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Agli inizi del secolo i settori più qualificati della Chiesa e i riformatori protestanti denunciano le condizioni di degrado e di ignoranza diffuse nel clero, sia maschile che femminile. La questione, i cui aspetti moralistici sono di gran lunga inferiori a quelli di ordine più propriamente strutturale e giurisdizionale, verrà affrontata dal Concilio di Trento i cui decreti di riforma nella lunga durata modificano sostanzialmente la società ecclesiastica. Ne risultano rafforzate le istituzioni diocesane e la funzione sacerdotale.
Inefficienze e disciplinamento
Cronache e novellistica del primo Cinquecento restituiscono di norma la rappresentazione di un clero a dir poco inadeguato e impreparato a svolgere i compiti assegnatigli. L’immagine dominante è quella della corruzione e degli abusi imperanti in tutto il mondo ecclesiastico, dalle alte gerarchie fino al più modesto curato di campagna, nei conventi maschili come in quelli femminili, tra i frati eremiti come fra le file del clero secolare. Il disordine morale imputato al clero nel periodo precedente al concilio di Trento si configura sotto molteplici aspetti: si va dall’accusa di ignoranza a quella di inserire pratiche superstiziose, se non veri e propri riti magici, nella liturgia sacra; dal cumulo dei benefici alla mancata osservanza dell’obbligo della residenza; dalla frequentazione di osterie e spettacoli pubblici alla pratica del gioco e dell’usura; dal concubinato a crimini sessuali di vario genere; dalla bestemmia allo spergiuro; dalla celebrazione della messa senza l’abito talare alla scarsa igiene e inadeguata manutenzione degli altari; dalle angherie verso i laici alla negligenza nelle attività assistenziali e caritative; dall’ubriachezza alla partecipazione a duelli, se non addirittura ad aggressioni e omicidi, in un lungo elenco che, rispetto alla quanto mai ricca casistica offerta al riguardo dalla propaganda protestante –ma anche da fonti interne all’area cattolica –non può offrire in questa sede che pochi essenziali riferimenti. Di un problema di “riforma delle membra” è la Chiesa stessa ad avvertire l’esigenza sin dai primi anni del Cinquecento, prima ancora cioè che il dilagare della polemica protestante renda la questione più urgente e spinosa per l’intrecciarsi di altre e più complesse dinamiche che finiscono con lo spostare l’attenzione delle gerarchie romane dagli aspetti pastorali della Riforma cattolica a quelli più propriamente repressivi della lotta all’eresia. Le istanze riformatrici avevano trovato modo di esprimersi nel Concilio Lateranense V, convocato dal papa Giulio II nel 1512 e continuato da Leone X, allorché viene sottoposto alla discussione generale il Libellus, redatto nel 1513 da due patrizi veneziani, Vincenzo Quirini e Tommaso Giustiniani, entrati poi nell’ordine camaldolese rispettivamente con i nomi di Pietro e Paolo. Gli autori espongono un ampio programma di riforma del governo della Chiesa, in vista dei nuovi compiti di ampiezza mondiale a cui essa è ormai preposta. Tra le tante disfunzioni dell’organizzazione ecclesiastica che essi lamentano – l’eccessivo proliferare degli ordini religiosi, la mondanità delle corti cardinalizie, la non residenza dei vescovi nelle sedi delle loro diocesi, i contrasti a volte anche violenti tra i predicatori dei vari ordini, i privilegi giurisdizionali dei regolari nel governo dei monasteri femminili – il problema più grave è per loro rappresentato dall’ignoranza diffusa tra il clero. Molti sono i religiosi che non sanno né leggere né scrivere, pochissimi sono coloro che possiedono quel minimo di conoscenze di latino necessarie per un’esatta interpretazione delle Sacre Scritture e forse ancora meno quelli che svolgono regolarmente e con competenza l’ufficio preminente al quale sono preposti, ovverosia l’attività catechistica nei confronti del popolo.
Il cuore della questione non risiede evidentemente solo in considerazioni di tipo etico: la corruzione dei tempi o l’immoralità del clero non costituiscono di per sé sole una spiegazione esaustiva. Né tanto meno può ricondursi tutto al nesso tra degenerazione dei costumi e necessità della riforma. Anche perché il quadro a fosche tinte che si è finora delineato va quanto meno mitigato ricordando almeno l’esperienza dei rami riformati di molti ordini e congregazioni religiose guadagnati all’osservanza agli inizi del secolo, di predicatori che coinvolgono emotivamente le folle con il tono acceso dei loro discorsi, del gran numero di letterati italiani viventi in abito clericale, o la presenza presso le maggiori corti principesche dell’epoca di monache e sante donne in quotidiano dialogo con Dio: testimonianze di come alcuni settori del clero fossero profondamente impegnati nella ricerca di una più severa vita religiosa. Le ragioni della percezione negativa delle condizioni del clero, così spesso ripetute da riformatori e moralisti dell’epoca, sembrano piuttosto riconducibili a una serie di disfunzioni strutturali che non possono non condizionare l’organizzazione ecclesiastica e la stessa vita religiosa dei fedeli. Ci si riferisce innanzitutto alle modalità di conferimento dei benefici ecclesiastici. Esiste, alla base del problema, l’incompatibilità tra beneficio e ufficio, tra rendite ed esercizio della cura delle anime, con il conseguente diffuso abuso della non residenza. E se da un lato, a livello delle alte gerarchie così come per il basso clero, per molti la carriera ecclesiastica costituisce solo un modo sicuro per assicurarsi una rendita, dall’altro sono gli stessi meccanismi curiali che consentono l’accentramento in una medesima persona di uffici residenziali e curati o l’imposizione di pensioni sulle rendite a favore di estranei.
Le sedi vescovili sono ambite dai molti candidati in lizza solo in virtù delle loro risorse economiche – dovunque in crescita, nonostante il sempre più oneroso fiscalismo pontificio – e vengono assegnate in base a criteri e a calcoli di interesse politico o per accordi convergenti delle autorità civili con la curia romana, accordi che spesso favoriscono ecclesiastici forestieri che si guardano bene dal prendere residenza presso il loro ufficio. Anche nella gestione pratica del governo delle chiese locali esiste un alto grado di conflittualità: gare, concorrenze, compromessi e liti segnano spesso la vita delle comunità in occasione della nomina dei parroci o del titolare di un patronato laicale. I decreti di riforma approvati dal concilio di Trento modificano sostanzialmente la società ecclesiastica. Il processo è certo tra quelli di lunga durata e nell’immediato incide solo parzialmente sul funzionamento dei meccanismi della curia. Ma quel che conta è la definizione normativa di annose questioni, la programmazione di nuovi strumenti di controllo e di propaganda, la modernità di vedute con cui viene progettata tutta la riorganizzazione interna della Chiesa e, non da ultimo, la reimpostazione complessiva della presenza ecclesiastica nella società civile. La svolta decisiva è rappresentata dall’introduzione dell’obbligo di residenza per i vescovi nelle sedi delle diocesi loro assegnate. Dopo un primo abbozzo della questione, tentato con il decreto del 1547, il problema è affrontato nella XXIII sessione del Concilio e ribadito in tutta la successiva normativa pontificia. Al vescovo viene fatto obbligo di tenere i sinodi provinciali con scadenza triennale e un sinodo diocesano ogni anno; di assumere personalmente l’incarico della predicazione quaresimale nella chiesa cattedrale; di esaminare periodicamente lo stato materiale delle istituzioni e la condotta del clero della propria diocesi.
La valorizzazione che ne consegue dell’ufficio episcopale si ripercuote sulla figura del curato, a sua volta stretto da una serie di obblighi pastorali – obbligatorietà della predicazione domenicale, attività catechistica per i fanciulli, celebrazione dei legati di messe – sottesi a esaltare la funzione sacerdotale e al contempo ad assicurare ai fedeli una riqualificazione complessiva dei servizi prestati. L’altra grande novità tridentina sul clero secolare è la previsione di una rete di seminari per la formazione dei chierici. Tra il 1563 e il 1570 negli Stati italiani ne vengono istituiti una settantina. In Spagna, dove già da qualche anno funzionano i seminari di Granada (1492), Tortosa (1544) e Valenza (1550), tra il 1565 e la fine del secolo vengono aperti almeno trenta nuovi istituti. Per la Francia si segnala la fondazione di seminari a Reims (1567), Pont-à-Mousson (1572), Avignone (1586), Tolosa (1590). Si tratta per lo più, però, di istituzioni fragili, dal destino incerto, spesso con difficoltà finanziarie, in grado di assicurare un regolare corso di studi a pochi allievi e che troveranno slancio e vitalità solo in epoca successiva. Per favorire la riconquista cattolica di Paesi passati alla Riforma o divisi tra la fedeltà alla Chiesa di Roma e altre confessioni religiose, sono creati anche seminari per gli esuli. Tale è a Roma il Collegio germanico, fondato nel 1552, a cui nel 1575 si aggiunge un Collegio ungherese e tre anni dopo un Seminario inglese. La maggior parte dei preti continuerà comunque a non essere formata nei seminari. La possibilità di essere ammessi agli ordini sacri anche senza aver seguito un corso regolare di studi costituisce il vero serio ostacolo al decollo delle nuove istituzioni. Ne risente la fisionomia culturale e morale complessiva del clero che, soprattutto in alcune regioni d’Europa, come il Portogallo o il Mezzogiorno d’Italia, rimane caratterizzata da livelli di modestissimo profilo. La riorganizzazione del governo della Chiesa presenta numerose altre zone d’ombra, anche perché l’applicazione dei decreti tridentini risulta di fatto subordinata alla natura delle relazioni tra gli Stati e la Santa Sede. Il rappresentante del re di Spagna rifiuta di ratificarne i decreti; in Francia Caterina de’ Medici, moglie del re Enrico II, nomina una commissione di giuristi che esprime parere negativo alla ratifica. L’esigenza è quella di continuare a fruire del placet, cosa che nei decenni successivi creerà momenti di tensione tra potere ecclesiastico e potere politico.
L’impulso decisivo alla riforma verrà piuttosto da altre forze. Innanzitutto da quel nutrito gruppo di prelati che dopo aver partecipato ai lavori del Concilio si recherà nelle proprie diocesi per attuarvi il modello pastorale delineato dal programma tridentino. Valga per tutti l’esempio di Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano dal 1565 al 1584, i cui decreti sinodali diventeranno un modello dell’azione di riforma della Chiesa anche per i vescovi impegnati nelle zone di frontiera del cattolicesimo, come Pierre Pazmanj –primate d’Ungheria (1570-1637), soprannominato il Borromeo magiaro – o il cardinale polacco Stanislao Hosius (1504-1579). Vanno ricordati ancora gli episcopati di Geronimo Seripando a Salerno (1554-1563), di Gabriele Paleotti a Bologna (1566-1597), di Cornelio Musso a Bitonto (1544-1574), di Gaspare Del Fosso a Reggio Calabria (1560-1592). Tutti si distinguono per la regolarità con cui conducono le visite pastorali, per la centralità assegnata alla funzione parrocchiale e all’affermazione di una solida presenza istituzionale e giuridica della Chiesa. Ne risulta rafforzata l’intera struttura di governo delle Chiese locali, grazie anche alla revisione della gestione dei beni episcopali. In alcuni casi il riordino amministrativo delle strutture diocesane prevede una ridefinizione del numero delle parrocchie che viene adeguato alle mutate dimensioni delle città. La diocesi di Parigi arriverà a contare 472 parrocchie. A Napoli, nel 1597, il cardinale Alfonso Gesualdo, per far fronte alle esigenze pastorali di una popolazione in continua espansione, istituisce 23 nuove parrocchie.
La cresciuta domanda di servizi religiosi delle popolazioni porterà ovunque a un notevole incremento del clero secolare. I privilegi fiscali e giudiziari goduti dagli ecclesiastici e le strategie patrimoniali delle famiglie contribuiscono a fare il resto. Sul finire del secolo la parrocchia si avvia intanto a diventare il centro della vita sacramentale e di gestione del sacro delle comunità, ma anche anagrafe e centro di assistenza. Il clero che vi è preposto non potrà non essere connotato da profili di maggiore professionalità.
Gli ordini religiosi
La decadenza degli ordini regolari denunciata da Quirini e Giustiniani nel Libellus è tale da renderli, secondo il parere dei due autori, pressoché inutili e del tutto impreparati ad affrontare i compiti pastorali che una Chiesa su scala mondiale dovrebbe imporre loro. Essi però al contempo riconoscono il loro ruolo nel plasmare la religiosità dei laici grazie a una capillare presenza sul territorio, favorita dall’assenteismo del clero secolare, e in virtù di consuetudini devozionali di cui da secoli detengono il monopolio. Le cospicue donazioni dei fedeli destinate ai monasteri sono forse il segno più evidente della fitta trama di rapporti che si intrecciano tra comunità e ordini religiosi. Attraverso la predicazione, la confessione e la diffusione di pratiche e devozioni che moltiplicano a dismisura il culto per santi, madonne e reliquie, essi assumono il ruolo di intermediari privilegiati tra sacro e profano e conquistano un incontrastato prestigio come mediatori per la salvezza delle anime. Il decreto De regularibus et monialium, approvato nell’ultima sessione del concilio di Trento, lascia sostanzialmente inalterato il privilegio dell’esenzione dalla giurisdizione episcopale detenuto dai regolari in materia di predicazione e confessione. Infatti, il rilascio della licenza per l’esercizio di tali attività viene subordinato all’autorità diocesana, ma si risolve di fatto in un atto di pura procedura formale. La nascita di nuovi ordini e congregazioni religiose, l’ininterrotta espansione degli insediamenti conventuali nei centri urbani come nelle aree rurali, l’incremento generalizzato della popolazione ecclesiastica regolare ne consoliderà ulteriormente l’indiscusso prestigio, finendo con il rafforzarne i tradizionali privilegi. Nell’arco di meno di un secolo vengono fondati – tutti in Italia, da dove poi si propagheranno negli altri Paesi europei – i Teatini (1524), i Cappuccini (1528), i Barnabiti (1533), i Somaschi (1540), la Compagnia di Gesù (1540), i Camillini (1586), i Caracciolini (1588), i Chierici Regolari della Madre di Dio (1595). Nati con finalità e funzioni diverse, all’indomani del Concilio si troveranno affiancati all’opera tradizionalmente svolta dagli ordini mendicanti, tutti impegnati allo stesso modo a combattere l’eresia, a diffondere il cattolicesimo tra gli infedeli, a consolidare la presenza della Chiesa nella vita quotidiana delle popolazioni. Strumento fondamentale del loro rinnovato impegno pastorale è la predicazione. In virtù del riconoscimento della loro maggiore professionalità, conseguita nei grandi studia degli ordini dopo anni di formazione, essi sono chiamati a ricoprire tale ufficio durante i grandi cicli di Quaresima e Avvento o per le festività dei santi, sui pulpiti delle grandi chiese cittadine, ma anche nelle più modeste pievi di campagna. Alle folle di fedeli, di cui i religiosi conoscono molto bene la struttura socio-culturale, essi trasmettono un sistema di culto e un codice morale in grado di orientare la vita religiosa e i comportamenti quotidiani. I predicatori potenziano inoltre l’efficacia del loro messaggio grazie all’uso di apparati scenografici e rituali di forte impatto emotivo e attraverso una serie di iniziative in grado di perpetuarne gli effetti sul lungo periodo, come l’istituzione di confraternite o la diffusione di nuove devozioni all’interno di filoni cultuali gestiti direttamente dalle gerarchie.
Grazie alle missioni nei territori d’oltreoceano, all’attività caritativo-assistenziale svolta a favore dei gruppi marginali delle città e delle campagne e al ruolo ricoperto nel sistema educativo dei ceti dirigenti, il clero regolare avrà una parte importante nei due secoli successivi nell’affermazione della Controriforma e del cattolicesimo in Europa.
Le monache
La storia dei monasteri femminili nell’Europa del Cinquecento si intreccia con quella delle strategie patrimoniali delle aristocrazie, nel momento in cui l’introduzione del sistema della primogenitura stretta finisce per negare ai cadetti delle famiglie nobili la possibilità di matrimonio. L’origine sociale delle monache, la loro appartenenza a nobili lignaggi, la centralità della questione dell’onore nell’ideologia nobiliare, renderanno in qualche modo più urgente la riforma dei monasteri femminili rispetto ai corrispondenti rami maschili degli ordini religiosi. In molti casi sono infatti le istituzioni politiche a farsene carico, mediante la creazione di magistrature cittadine deputate al controllo dei beni monastici e della loro vita religiosa e disciplinare. Esiste contemporaneamente uno slancio espansionistico delle istituzioni ecclesiastiche femminili, alimentato dalla presenza di monache protette e contese dai principi per le loro virtù profetiche, e dalla nascita di nuovi modelli di religiosità che dà luogo alla formazione di nuovi ordini e diverse osservanze. La novità maggiore è costituita dall’estendersi dei Terzi ordini e dall’istituzione di conventi aperti, come i capitoli delle canonichesse lateranensi che non sono tenuti alla vita claustrale. Nella seconda metà del secolo, la riorganizzazione complessiva della Chiesa tridentina comporta tra le sue istanze prioritarie quella dell’introduzione della disciplina nei monasteri femminili. I decreti conciliari e la successiva normativa pontificia e sinodale limitano fortemente i margini di autogestione che fino a quel momento avevano caratterizzato la vita di molte istituzioni femminili, in virtù del divieto rivolto alle donne di vivere in comunità senza avere professato i voti solenni. Gli ordini religiosi tradizionali vengono quasi completamente esautorati dal governo dei monasteri, mentre ai vescovi è assegnato il compito di controllarne i confessori, provvedere al risanamento economico, presenziare all’elezione delle badesse e soprattutto sondare la reale vocazione delle aspiranti monache. Ovunque si assiste a un irrigidimento delle norme sulla clausura: vengono erette mura e pesanti grate di ferro alle finestre e alle porte dei conventi che così vengono di fatto isolati dal contesto della vita cittadina. L’intento congiunto della Chiesa e della società di ricondurre la disciplina nei monasteri femminili e di assicurare una più oculata gestione dei loro ingenti patrimoni non si afferma comunque in maniera pacifica e neppure troppo lineare a causa delle numerose resistenze delle monache e delle loro potenti famiglie di origine. La riforma riuscirà ad affermarsi piuttosto nelle nuove istituzioni, poste sotto la direzione spirituale dei nuovi ordini, come i Teatini e i Gesuiti. Nello scorcio del Cinquecento, ma ancor più nella prima metà del secolo successivo, dalla penisola iberica si diffonde il fenomeno della stretta osservanza e del ritorno a una condizione primitiva di vita religiosa legati al modello carmelitano di santa Teresa d’Avila. Il modello di Teresa verrà esportato oltre che nelle terre ispanizzate d’oltreoceano in tutta l’Europa cattolica. Costruito sull’intreccio tra vita attiva e vita contemplativa e sull’accettazione di regole comunitarie, esso sarà in generale il modello vincente con enorme influenza sulla vita religiosa femminile dell’epoca.