Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La politica coloniale è in piena espansione all’inizio del secolo, provocando quella rivalità tra le potenze europee che trova il suo compimento nella prima guerra mondiale. L’opinione pubblica manifesta però un sostegno alle politiche sciovinistiche e imperialiste anche nel dopoguerra, convinta della relazione indissolubile tra il possesso delle colonie e l’aumento della ricchezza nazionale. Dopo la seconda guerra mondiale si avvia definitivamente il processo di decolonizzazione anche se, in molti casi, persiste un legame di dipendenza, se non di subordinazione, dei nuovi Stati nei confronti della madrepatria.
L’età classica dell’imperialismo: eventi storici e risvolti sociali e politici
John Atkinson Hobson
Le radici economiche dell’imperialismo
Fin tanto che l’Inghilterra mantenne un virtuale monopolio sui mercati mondiali per certe importanti categorie di prodotti manufatti, l’imperialismo non fu necessario. [...] L’intrusione di questi paesi nei nostri vecchi mercati, e persino nei nostri possedimenti, ci impongono con la massima urgenza l’adozione di energiche misure che ci assicurino nuovi mercati. Tali nuovi mercati devono trovarsi in paesi finora arretrati, soprattutto nei tropici, dove vivono popolazioni numerose con possibilità di aumento e di sviluppo dei bisogni economici. [...] L’esperienza insegna che il mezzo più sicuro per assicurarsi e sviluppare tali mercati quello di stabilire protettorati oppure di annettere dei territori. [...] Per quanto costoso, per quanto rischioso questo processo di espansione imperiale possa essere, è indispensabile alla continuità dell’esistenza e del progresso del nostro paese. se noi lo abbandoniamo, dovremo accontentarci di cedere lo sviluppo del mondo ad altre nazioni.
J.A. Robinson, “Imperialismo. Uno studio”, in F. Catalano, Stato e società nei secoli, Messina - Firenze, G. D’Anna, 1966
Il XX secolo si apre proprio con la rivolta dei boxer, ovvero con la violenta reazione dei cinesi contro i “diavoli stranieri”, avvenuta nel giugno del 1900, che tenta invano di contrastare la perniciosa penetrazione economica e l’influenza politica delle potenze coloniali europee, in particolare della Gran Bretagna, della Francia e della Germania, iniziate a partire dalla prima metà del XIX secolo con i famosi trattati diseguali, che hanno imposto l’apertura forzata dei più importanti porti cinesi ai mercanti, inglesi soprattutto, con la legalizzazione dell’importazione dell’oppio e con il controllo delle dogane. Nelle mire di Londra, la Cina deve servire come mercato di assorbimento dei manufatti inglesi e dell’oppio dell’India, da molto tempo colonizzata dalla Gran Bretagna.
Gli inizi del nuovo secolo, almeno fino al 1914, se non addirittura fino alla seconda guerra mondiale, sono identificati come l’età classica dell’imperialismo o dell’imperialismo “nuovo”, la cui fisionomia si delinea con nettezza già a partire dagli anni Settanta-Ottanta dell’Ottocento: una sempre più agguerrita concorrenza politica, militare ed economica delle potenze europee e un conseguente, vorticoso, espansionismo territoriale.
Pur nel solco, in molti casi e per molti aspetti, delle precedenti esperienze colonialistiche del secolo XIX, il primo decennio del Novecento, affrancatosi dalla “grande depressione” (1873-1896) e in piena corsa agli armamenti, costituisce un periodo di accelerazione e di svolta sociale, politica, culturale ed economica nell’ambito dell’età dell’imperialismo: agli inizi, nel 1902, si conclude la guerra anglo-boera, cominciata nel 1899, che segna il successo dell’espansionismo coloniale perseguito dal liberale inglese Joseph Chamberlain (1836-1914) e la perdita d’indipendenza della Repubblica boera; a partire dagli ultimi anni del secolo, Guglielmo II (1859-1941), abbandonata la circospezione bismarckiana e ispirato dal pangermanesimo, intensifica il riarmo e l’interventismo militare, isolando sempre più il Reich in ambito internazionale; nel 1905 si conclude a favore del Giappone la guerra russo-giapponese, scoppiata per il predominio in Corea, che avrà come conseguenza in Russia la rivoluzione “democratico-borghese” contro l’autocrazia zarista. Sempre nel 1905, dopo che la Gran Bretagna ha firmato l’entente cordiale con i Francesi per il reciproco riconoscimento dei possedimenti in Africa, scoppia la prima crisi marocchina che vede la Francia e la Germania contendersi l’egemonia sul Marocco, vieppiù indebitato e politicamente indebolito, seguita, per le stesse ragioni, nel 1911 da una seconda crisi marocchina, risoltasi con l’abbandono da parte dei Tedeschi della regione maghrebina in cambio del ritiro dei Francesi dal Nuovo Camerun; negli stessi anni l’Italia muove una guerra vittoriosa contro la Libia, appartenente al fatiscente Impero ottomano. Ma il vero cuore dei contrasti, agli inizi del XX secolo, dopo che la maggior parte dell’Africa, dell’Asia e delle isole del Pacifico è stata spartita, torna a essere l’Europa e si può dire che il fuoco bellico si sia propagato dal Marocco alla Tripolitania, dalla Tripolitania ai Balcani, dai Balcani all’Europa, dall’Europa al mondo. Infatti questi avvenimenti, insieme agli irredentismi balcanici – come ha scritto lo storico tedesco Wolfgang Mommsen – fanno “tremare sin dalle fondamenta l’equilibrio del potere in Europa e conducono – in parte direttamente e in parte indirettamente – allo scatenamento della prima guerra mondiale”.
È quella dell’imperialismo un’età significativa dell’Europa contemporanea perché in essa sono rintracciabili specifici e comuni caratteri e aspetti politici, sociali ed economici e perché con essa si diffonde soprattutto l’imperialismo “formale”, ovvero quella forma di dominio totale che si manifesta non solo con l’invasione e poi la destrutturazione economica e finanziaria, come era avvenuto con l’imperialismo “informale”, liberoscambista, ma anche con il controllo militare e politico-amministrativo delle lontane colonie. È un rapporto, quello tra conquistatori e conquistati, sempre relativo a due entità politicamente e geograficamente distinte, che può dar luogo a diversi e connessi tipi di dipendenza, giuridicamente classificabili come colonie (i cui residenti sono effettivi sudditi della madrepatria, ma senza avere tutti i diritti di cittadinanza), come protettorati (i quali conservano la personalità giuridica di Stati autonomi) oppure come mandati, diffusisi soltanto dopo la prima guerra mondiale, cioè quei territori amministrati per via fiduciaria fino a data da destinarsi. Ed è proprio questo dominio diretto a rendere l’Europa, insieme all’emigrazione e alla supremazia tecnologica e culturale, “cuore del mondo”, ma anche a rendere il suo imperialismo un insieme di rapporti e squilibri generatore più o meno rapidamente di tensioni e conflitti tra le potenze concorrenti e tra queste e i Paesi sottomessi.
In questo periodo emerge la moderna società di massa e diviene sempre più influente un’opinione pubblica orientata in senso militaristico e sciovinistico e al contempo si manifesta pienamente – causa ed effetto insieme – la lunga e irreversibile crisi della cultura e della “coscienza” europea. Una crisi che non è solo una “rivoluzione intellettuale” dalle nietzschiane sembianze, una filosofia destabilizzatrice delle certezze del razionalismo classico, del positivismo e della scienza occidentali, ma è anche e soprattutto il diffondersi di un pensiero, pur attraverso una molteplicità di correnti filosofiche, basato, come si è espresso lo storico napoletano Giuseppe Galasso, su “un irrazionalismo volontaristico” che dilaga “negli spiriti ben al di là di ogni scuola o speculazione filosofica, fin nei modi di pensiero e di discorso e nell’attività quotidiana”. E se “al positivismo avevano corrisposto in politica la democrazia e la socialdemocrazia”, l’irrazionalismo finisce con il riflettersi “a sua volta in movimenti politici che, anche se di opposto segno fra loro, [hanno] in comune un attivismo antidemocratico, antiriformistico, antipacifistico, tendente a sconvolgere lo status quo interno ed esterno europeo, secondo la volontà direttiva di ristrette élite”.
Inoltre, si accelera e si diffonde il processo d’industrializzazione, commercializzazione e razionalizzazione produttiva e con esso la concorrenza industriale e commerciale, nonché la pratica protezionistica e monopolistica, così come più diretto e incisivo diventa l’intervento dello Stato e del capitale bancario e finanziario nell’economia delle nazioni europee, sempre più rivolta ai settori “strategici”, come l’industria pesante strettamente legata alla politica degli armamenti (è la cosiddetta seconda rivoluzione industriale). Di qui le pressioni e l’influenza sempre più incisiva e decisiva delle “cricche strategiche”, politiche, militari, economiche e finanziarie, che hanno in serbo aspettative di guadagni e glorie ritenuti, non senza errore, sicuri.
La politica di potenza di una nazione, intesa come potenza economica e politica insieme, se si è manifestata soprattutto come politica estera, è stato soltanto nella misura in cui questa è legata alla politica interna, economica, sociale e culturale, dei singoli Stati, che di volta in volta cercano di garantire o consolidare ordine interno e consenso, coesione sociale e progresso economico. Ed esempi in tal senso si possono agevolmente fare anche per nazioni e periodi diversi: infatti, come è stato notato, la stretta relazione intercorsa tra politica estera e politica interna si può osservare tanto in Gran Bretagna, a partire da Benjamin Disraeli (1804-1881), quanto nella Germania di Guglielmo II e poi di Hitler, così come nell’Italia giolittiana e soprattutto mussoliniana. All’origine c’è il tentativo, da parte dei governanti, di rallentare e di deviare le tensioni politiche e sociali interne, causa ed effetto della eccezionale crescita dei movimenti operai e socialisti dopo l’industrializzazione, ma c’è pure il fatto che il reluctant imperialism è ormai impraticabile a fronte di un’opinione pubblica orientata in senso “gingoista” (dal refrain londinese cantato dalla folla festante alla partenza dei soldati), “egemonico”, espansionista.
Il “riflusso” dell’imperialismo formale e l’emergere del neocolonialismo
Durante la prima guerra mondiale si assiste a un’ulteriore “ondata di cupidigie imperialistiche” che travolge “tutte le dighe della razionalità politica”, come emerge dai documenti sugli obiettivi e sui programmi di guerra, in particolar modo della Germania. Ma, al contempo, la Grande Guerra segna pure l’attenuazione, il “riflusso” dell’imperialismo formale e l’avvio del lento e travagliato processo di emancipazione politica dei popoli colonizzati. Basti pensare che nel 1919 per la firma del trattato di Versailles i dominion inglesi del Sud Africa, del Canada e della Nuova Zelanda inviano per la prima volta propri delegati, mentre gli USA con Wilson e la neonata URSS di Lenin si proclamano per l’autodeterminazione dei popoli, antimperialiste, contrarie al controllo politico-amministrativo diretto. Come ha scritto Wolfgang Mommsen: “Da allora in poi i processi di espansione imperialistica hanno perduto slancio; improvvisamente, i vari imperialismi nazionalistici si sono visti costretti alla difensiva. Soltanto le potenze fasciste e il protofascista Giappone hanno cercato ancora una volta, negli anni Trenta, di ostacolare la ruota della storia, tentando, con sforzi immensi e con un’estrema brutalità, di edificare nuovi imperi”.
È soltanto con la fine della seconda guerra mondiale, e non senza crisi e difficoltà della Francia e della Gran Bretagna fino alla seconda metà agli anni Cinquanta, che si creano le condizioni effettive per la “decolonizzazione”, dovute all’ormai matura e irresistibile rivendicazione di autonomia politica da parte di colonie che hanno partecipato con tutte le loro risorse al conflitto bellico, e dovute anche al sostegno ideologico, e non solo ideologico, dato soprattutto dall’URSS a questa causa.
E di questi anni il Commonwealth of Nations, “una famiglia di popoli sotto la sovranità puramente formale della corona britannica”, la Union Française, trasformata nel 1958 “in una federazione di Stati nella quale la Francia non godeva più di privilegi politici: la Communauté Française” (W. Mommsen).
Pur con il conseguimento dell’indipendenza, gli ex Paesi coloniali e i Paesi poveri del Sud del mondo mantengono però una forma di dipendenza e di subordinazione economica rispetto ai Paesi ricchi del Nord del mondo; questa condizione, considerata da molti come generatrice di sottosviluppo nei primi e funzionale allo sviluppo dei secondi, è definita neocolonialismo, per connotarla come una delle possibili manifestazioni dell’imperialismo indiretto, “informale”.
Il carattere “proteiforme” – come lo ha definito David K. Fieldhouse dell’Università di Oxford – dell’imperialismo classico ha anche comportato una ricca gamma di analisi e interpretazioni storiche e politiche, fin dal suo primo manifestarsi. Nel 1902, infatti, viene pubblicato lo studio sull’imperialismo dell’economista radical-liberale inglese John A. Hobson che individua nell’allontanamento dai principi del liberoscambismo e nel prevalere politico delle esigenze commerciali e finanziarie (bisogno di nuovi mercati e di investimenti più redditizi) del capitalismo monopolistico le ragioni del moderno espansionismo europeo. In questa direzione negli anni successivi si sono poi sviluppate le analisi di stampo socialdemocratico e marxista che hanno ribadito, ampliato o radicalizzato e corretto le sue tesi. Il tedesco socialdemocratico Rudolf Hilferding (1877-1941) assegna una particolare importanza al ruolo svolto dal capitalismo finanziario, mentre la sua compagna di partito, Rosa Luxemburg (1870-1919), poi divenuta comunista spartachista, sostiene che l’imperialismo è essenzialmente “l’espressione politica di accumulazione del capitale” alla ricerca di occasioni di profitto. Lenin, capo dei bolscevichi russi, invece, in risposta al segretario di Engels Karl Kautsky (1854-1938) – che considera l’imperialismo una delle possibili politiche del capitalismo in grado di portare alla fine della leadership europea e alla formazione di organismi sovranazionali, ma non al crollo dell’economia di mercato – asserisce che l’imperialismo rappresenta la “fase suprema” del capitalismo, ovvero quella finanziaria e monopolistica, caratterizzata dallo stretto legame tra banca e industria e interessata soprattutto all’esportazione dei capitali e non delle merci, che avrebbe avuto come conseguenze più vistose “la spartizione dell’intera superficie terrestre tra i più grandi paesi capitalistici” e il carattere permanente della guerra.
Il sociologo e storico Joseph Schumpeter (1883-1950) nel 1919 nega la connessione tra capitalismo e imperialismo, affermando che quest’ultimo si è manifestato fin dall’antichità e nella sua forma moderna contravviene alla ragione utilitaristica propria della logica capitalistica e democratica, rivelandosi perciò arazionale e irrazionale. Secondo l’allievo di Max Weber, esso è piuttosto un’eredità del passato, lasciata dalle monarchie assolute e dalle aristocrazie guerriere, una sorta di residuale impulso atavico dell’aggressività, destinato a scomparire con il pieno dispiegarsi della razionalità economica e politica.
Storici come Chabod, Böhme, Wehler, si sono soffermati nel secondo dopoguerra sul ruolo svolto dalle nuove esigenze di politica interna nel determinare la politica estera espansionistica. Per loro l’imperialismo moderno ha cause essenzialmente “endogene”, in quanto risponde soprattutto al bisogno di rafforzare la coesione nazionale, di superare le crisi economiche, di dare risposte alle difficoltà e instabilità sociali e politiche indotte dalla modernizzazione. Sviluppo dell’economia e pace sociale sono ormai compiti assunti dallo Stato, dai quali dipende sempre di più, nei regimi democratico-parlamentari, il consenso e quindi la legittimazione del potere. Altri interpreti, come Alberto Aquarone e il già citato Mommsen, hanno stabilito uno stretto legame tra l’imperialismo e un nazionalismo che, dietro la spinta dei nuovi ceti industriali, si muta in politica di potenza. La penetrazione politica ed economica nelle aree del globo ancora sottosviluppate viene considerata “il grande compito nazionale dell’epoca” (Mommsen).
Negli ultimi decenni, oltre alla fioritura di studi dedicati a temi e aspetti sempre più specifici dell’imperialismo nella sua età classica, è prevalso pure un filone interpretativo, inaugurato da Fieldhouse, concentrato particolarmente sui problemi delle “periferie” – ovvero dei Paesi colonizzati – che avrebbero suscitato l’intervento e la reazione delle “metropoli” europee, cioè la necessaria, integrale colonizzazione. Ha scritto Fieldhouse: “In quasi tutti i casi la spiegazione ultima dell’annessione fu che il problema economico originale si era in certa misura ‘politicizzato’ e quindi richiedeva una soluzione politica […]. Per i neomarxisti esso rispecchia la crisi crescente del capitalismo avanzato. Per altri può indicare che, per una coincidenza, le attività degli europei divennero allora sempre meno compatibili con la conservazione di sistemi economici, politici e culturali indigeni in queste aree”.