Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il Comecon e il Patto di Varsavia vengono concepiti come strumenti del dominio sovietico nell’Europa orientale. Il primo coordina le politiche economiche, il secondo integra, sotto il dominio sovietico, gli eserciti nazionali dei Paesi satelliti.
Il Comecon e il Patto di Varsavia come strumenti del dominio sovietico
Imre Nagy
La denuncia della “degenerazione del potere” in Ungheria
La degenerazione del potere minaccia l’avvenire del socialismo e perfino le basi democratiche del nostro sistema socialista. Il potere si isola sempre più dal popolo e si contrappone sempre più ad esso. La democrazia popolare, che dovrebbe essere una variante della dittatura del proletariato in cui il potere deve essere esercitato dalla classe operaia grazie all’alleanza tra le due grandi classi lavoratrici, quella operaia e quella contadina, sta diventando a vista d’occhio una dittatura di partito. [...] Il potere non è più ispirato dagli ideali del socialismo e della democrazia, ma dallo spirito di una dittatura minoritaria che si potrebbe anche definire bonapartista. Gli obiettivi che questo potere si prefigge non sono affatto determinati dal marxismo o dagli insegnamenti del socialismo scientifico, ma dalla volontà di conservare il potere assoluto a qualsiasi prezzo e con qualsiasi mezzo.
I. Nagy, Scritti politici, Milano, Feltrinelli, 1958
Tra il 1946 e il 1948, una “cortina di ferro”, secondo la celebre espressione di Churchill (1874-1965), cala sull’Europa, spezzandola in due parti, una divisione che, nel caso della Germania, separa nazioni e anche città, e fa perdere al continente la mobilità che per secoli lo ha caratterizzato. Nessuno degli Stati gode di autonomia, ma il movimento comunista viene guidato dai Sovietici.
È motivo di acceso dibattito storiografico se Stalin (1879-1953) già dal 1945 abbia intenzione di imporre dittature comuniste nell’Europa orientale, oppure se solo a partire dal 1946, preoccupato dalle minacce occidentali, proceda alla instaurazione di regimi filosovietici. È un dato di fatto che l’esperienza del comunismo tra il 1945 e il 1989 impone un’unità a un’area, che alla fine della seconda guerra mondiale si presenta diversificata etnicamente, geograficamente ed economicamente.
Gli strumenti di controllo e di pressione che i Sovietici impongono ai propri Stati satelliti sono di tipo politico e di tipo economico. Il Cominform è una versione aggiornata della vecchia Internazionale comunista e dal 1947 prepara l’avvento al potere dei partiti comunisti nei Paesi dell’Est. Dopo il 1949 la sua vita langue e si scioglie nel 1956.
Le pressioni economiche vengono, invece, portate avanti dal Comecon, che nasce l’8 gennaio 1949 come Consiglio di reciproca assistenza economica tra i Paesi a economia socialista, in contrapposizione alle forme di cooperazione dei Paesi dell’Occidente, e per il timore sovietico che i Paesi dell’Est possano far parte del piano Marshall. Ai membri fondatori (URSS, Bulgaria, Polonia, Romania, Cecoslovacchia e Ungheria) si aggiungono l’Albania nel 1949, la RDT (Repubblica Democratica Tedesca) nel 1950, la Mongolia nel 1962, Cuba nel 1972 e il Vietnam nel 1978. Accordi vengono siglati anche con Finlandia, Iraq e Messico. Alle riunioni partecipano in qualità di osservatori numerosi Paesi del Terzo Mondo. La funzione principale è la “costruzione del socialismo” secondo i metodi sovietici.
I Paesi dell’Est europeo nei primi anni del regime comunista vivono mutamenti economici che travolgono l’assetto della proprietà e rendono lo Stato unico attore. Tra il 1946 e il 1950, l’URSS spinge i Paesi dell’Europa orientale a sviluppare un modello economico centralistico e autoritario, imitando quello staliniano degli anni Trenta. Nel 1950, con lo scoppio della guerra di Corea e l’acuirsi del confronto tra Occidente e Paesi comunisti, l’URSS preme i Paesi satelliti perché procedano a una più rapida industrializzazione, con l’adozione di politiche di piano, per incrementare soprattutto la produzione degli armamenti.
Il Comecon cerca di impedire lo sviluppo di forme di scambio commerciale tra i Paesi comunisti e quelli occidentali. Nella riunione dell’agosto 1949, ad esempio, si impone l’allargamento del commercio verso i Paesi alleati a scapito degli scambi con l’Occidente. Poiché la Cecoslovacchia non si adegua a tale direzione, viene pesantemente condannata. Il ministro del Commercio cecoslovacco è arrestato e il Paese deve cambiare radicalmente i propri partner commerciali.
Meno danneggiati dalle direttive economiche del Comecon sono i Paesi meno sviluppati: Bulgaria, Romania e Albania. Il Comecon non riesce, comunque, a organizzare in modo razionale la divisione del lavoro e delle risorse dell’Est europeo e non vengono sincronizzati i piani quinquennali dei vari Paesi.
Oltre al controllo economico, l’URSS, esercita la sua pressione attraverso il controllo militare. L’alleanza, che prende il nome di Patto di Varsavia, nasce il 14 maggio 1955. Nel preambolo del patto si fa esplicito riferimento al fatto che esso nasce per bilanciare la situazione creatasi con l’istituzione della NATO. Vi partecipano URSS, Albania, Bulgaria, Ungheria, RDT, Polonia e Cecoslovacchia. Il Patto di Varsavia non è un’alleanza tra Paesi di pari grado e liberi, nessun esercito può agire in modo indipendente. Il vantaggio militare maggiore è la disponibilità di armamenti standardizzati e un addestramento comune.
L’adesione al Patto di fatto legittima la permanenza di truppe sovietiche nell’area orientale dell’Europa. L’alleanza è, infatti, concepita come uno strumento di salvaguardia della sicurezza dell’URSS e costituisce per 40 anni un meccanismo politico-militare gestito esclusivamente dai Sovietici, che agiscono, in realtà, per reprimere movimenti autonomisti dei Paesi membri.
La repressione in Ungheria e in Cecoslovacchia
Al XX congresso del PCUS del 1956 i comunisti degli altri Paesi non sono ammessi ad ascoltare la relazione di denuncia dei delitti staliniani, ma ben presto la notizia trapela. Conseguenza immediata della relazione è l’affermazione in Polonia di una nuova direzione comunista di stampo riformista, mentre in Ungheria scoppia la rivolta. Imre Nagy (1896-1958), comunista ungherese riformista, proclama la fine del sistema a partito unico, ma è l’annuncio dell’uscita del Paese dal Patto di Varsavia e la dichiarazione di neutralità a suscitare la reazione sovietica. Il tentativo di indipendenza è stroncato dall’invasione da parte delle truppe del Patto di Varsavia.
La rivolta ungherese mostra al mondo come il comunismo sia impermeabile alle richieste popolari, aumenta la tensione della guerra fredda e distrugge le simpatie di molti uomini di sinistra. All’interno dello stesso sistema comunista provoca discussioni: la Cina, favorevole alle vie nazionali al comunismo, cerca inutilmente di intercedere a favore dei leader ungheresi.
Altra prova di forza del Patto di Varsavia è la repressione della Primavera di Praga. Nonostante Alexander Dubcek(1921-1992) affermi la fedeltà al socialismo, l’amicizia verso l’URSS e la determinazione di restare nell’alleanza, tra il 20 e il 21 agosto il Paese è invaso da mezzo milione di soldati provenienti da tutti i Paesi membri del Patto, esclusa la Romania. Qualsiasi processo di riforma viene interrotto e le frontiere cecoslovacche sono sorvegliate dai paesi membri del Patto. A insistere sulla necessità della repressione sono sopratutti i regimi più intransigenti e privi dell’appoggio delle masse, cioè la Polonia e la RDT, che temono l’esempio cecoslovacco. Altri Paesi comunisti, che stanno prendendo o hanno già preso le distanze da Mosca, appoggiano, invece, il movimento. Sia il generale Tito (1892-1980) che il leader romeno Ceausescu (1918-1989) si recano a Praga nel corso della primavera, accolti in modo trionfale.
L’intervento militare contro la Primavera praghese tiene compatto il blocco sovietico per altri vent’anni, anche se la coesione è ormai assicurata apertamente dalle armi. Nel novembre 1968, in occasione della riunione dei membri del Patto, Breznev (1906-1982) enuncia la “dottrina della sovranità limitata”, secondo la quale l’URSS considera legittimo l’uso della forza per intervenire nei Paesi satelliti qualora si interrompa l’affermazione del socialismo.
Dopo l’episodio praghese, il blocco viene diviso in una serie di compartimenti non comunicanti tra loro. In pratica ciascun Paese ha stretti legami con Mosca, ma è completamente isolato dagli altri, mentre la politica estera di ogni Paese è subordinata a quella sovietica. Il Patto di Varsavia negli anni Settanta crea una maggiore integrazione degli apparati militari, ma sono gli ufficiali dell’Armata Rossa che occupano i posti di comando. Inoltre, dopo il 1968, i regimi dell’Europa orientale ritengono pericolosa qualsiasi politica riformista.
Altra conseguenza della repressione praghese è la consapevolezza che il cambiamento si possa ottenere solo con l’abbattimento del dominio comunista.
Il Comecon tra espansione economica, stagnazione e crollo dei regimi
I risultati economici dei Paesi europei del Comecon tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta sono soddisfacenti: si raggiunge la ridistribuzione dei redditi, la modernizzazione delle infrastrutture, l’innovazione agricola e industriale. Non si realizza però un benessere individuale.
Il Comecon acquisisce una maggiore importanza negli anni Sessanta, con una nuova strategia economica, in parte per imitare la CEE e in parte per superare i limiti dei metodi stalinisti. Il Comecon diviene un organismo di coordinamento e pianificazione economica congiunta e assegna a ciascuno Stato membro compiti specifici. Si cerca di sviluppare rapporti economici multilaterali e si incoraggia la divisione socialista del lavoro, facendo sì che ciascun Paese sviluppi un determinato settore. Secondo i piani, ad esempio, RDT e Cecoslovacchia devono sviluppare soprattutto l’industria pesante, mentre la Romania il settore alimentare. La Romania, tuttavia, si oppone a questo progetto, che le impedirebbe di proseguire il processo di industrializzazione e la ridurrebbe al ruolo di fornitrice di materie prime per i Paesi più avanzati del blocco. Nel 1963 il Comecon quindi le attribuisce una maggiore autonomia economica. La collaborazione investe anche il campo della promozione della scienza e della tecnologia che dà luogo a un’integrazione culturale, soprattutto nel campo delle scienze sociali e della storiografia, attraverso il finanziamento delle accademie scientifiche sottoposte, tuttavia, all’egemonia dell’Accademia sovietica delle Scienze.
La crescita media annuale dei Paesi del Comecon tra il 1956 e il 1960 è del 7,1 percento e del 5,3 percento tra il 1961-1965, mentre in tutti i Paesi si registra una riduzione della base agricola e un abbandono delle campagne. Eccetto che in Polonia, si riprende la politica della collettivizzazione agraria, approfittando proprio della debolezza della classe contadina ormai in declino e non più in grado di difendersi come ha fatto tra la fine degli anni Quaranta e gli inizi degli anni Cinquanta. Agli inizi degli anni Sessanta la proprietà privata agricola è pressoché scomparsa.
Dopo i successi della crescita economica, le economie dei Paesi socialisti imboccano a metà degli anni Settanta una crisi economica che mette in luce tutta la loro fragilità, le crepe e le storture del sistema. Riprende ad aprirsi il divario con l’Europa occidentale e si evidenziano gli errori e i limiti economici dell’economia di piano, con apparati industriali obsoleti, antieconomici e fortemente inquinanti. Ciascun Paese cerca di porre rimedio ricorrendo all’indebitamento, ma la contrazione commerciale conseguente alla crisi economica mondiale limita le possibilità di esportazioni. I Paesi dell’Est diventano un peso economico rilevante per l’URSS, che deve rifornirli di petrolio e materie prime, in un’epoca che vede le crisi petrolifere colpire anche le economie comuniste.
Negli anni Ottanta i Paesi dell’Europa orientale sono completamente schiacciati dai debiti e devono imboccare misure di severissima austerità, riducendo drasticamente i livelli di vita delle popolazioni locali. La crisi economica genera una più generale crisi di legittimazione dei gruppi al potere e manifesta il fallimento del sistema economico e politico dei precedenti 40 anni.
Un fattore di crisi non secondario è rappresentato dall’avvento al potere in URSS nel 1985 di Gorbacev, sostenitore del socialismo e della legittimità del ruolo guida del partito, ma consapevole della necessità di procedere a riforme rigorose, che, molto al di là delle sue personali intenzioni, in realtà minano il socialismo di Stato da un punto di vista economico, ideologico e politico. È lo stesso Gorbacev (1931-) ad abbandonare la “dottrina Breznev”, dichiarando nel 1986 la legittimità di ciascun Paese a sperimentare la propria via al socialismo.
Venuto meno il ruolo militare del Patto di Varsavia, il crollo dei regimi comunisti avviene per un effetto domino iniziando dalla Polonia, che di fatto diviene, nel giugno 1989, il primo Paese non comunista. I successivi avvenimenti in Ungheria, con l’apertura del confine con l’Austria e la fuga di migliaia di Tedeschi della RDT attraverso quel varco e l’ambasciata della Germania occidentale di Budapest, lasciano indifferenti le autorità sovietiche, e segnano la fine della cortina di ferro ancor prima della caduta del muro di Berlino.
Tra il 1989 e il 1990 Gorbacev attua un ritiro graduale delle truppe sovietiche dai paesi dell’Europa orientale e nel 1990 acconsente alla riunificazione della Germania. Il Patto di Varsavia e il Comecon si sciolgono e molti Paesi alla fine degli anni Novanta diventano membri della NATO.
Il dibattito sul crollo del sistema sovietico e del comunismo in Europa è molto acceso. Due posizioni sostanzialmente si confrontano: coloro che ritengono il crollo sia dovuto a fattori interni, insiti nelle contraddizioni e nelle storture del sistema, sia economiche che politiche e alla crisi di legittimità; coloro, invece, che lo ritengono innescato da fattori esterni e mondiali. Tra questi ultimi un ruolo determinante ha giocato la leadership di Gorbacev: il ritiro, quindi, dell’URSS determina il crollo dei regimi dell’Europa orientale. Altri sostengono, invece, l’importanza del ruolo delle politiche reaganiane e thatcheriane, con la rinascita dell’economia di mercato e con una politica inflessibile di confronto con il mondo comunista, che l’URSS non sarebbe stata in grado di controbattere. Va precisato che non si può ridurre un fenomeno di tale portata storica a una singola causa, ma a diversi fattori, tra cui quello economico, il quale ha avuto gli effetti più devastanti.