Il Comune prima dell’Unità
Scrivere la storia del Comune di Venezia dalla caduta della Repubblica all’Unità significa aprire una pagina di storia nuova, quella di un’istituzione che la città non aveva ancora conosciuto nella sua vita millenaria, e ripercorrere una vicenda intrisa di continuità e di fratture. Perdurante la scarsa autonomia del Comune, severamente tutelato nei propri atti e rigorosamente controllato nel bilancio. Mutevoli, invece, gli atteggiamenti dei governi centrali rispetto al Comune: quello napoleonico pretese di farne il braccio operativo della propria politica d’intervento urbanistico e gli addossò inoltre competenze amplissime in materia assistenziale, fino a snaturarne la fisionomia originaria e a sconvolgerne gli assetti finanziari e patrimoniali; l’austriaco lo ricondusse entro i binari dell’uniformità amministrativa, pur con qualche attenzione per le specifiche esigenze di una capitale e, soprattutto, di una città unica nel suo genere; infine il governo rivoluzionario del ’48, pressato da inesauribili esigenze finanziarie, lo chiamò a proprio garante degli impegni che assumeva. Ulteriore elemento di discontinuità fu la risposta di quanti erano chiamati a ricoprire le cariche civiche: quasi tutti pronti a dedicarsi silenziosamente all’autoamministrazione della città fino al 1848, senza adesione, ma anche senza rifiuto pregiudiziale dei principi politici delle dominazioni straniere. Atteggiamento che si trasformò radicalmente negli anni seguenti, quando il Municipio e l’aula consiliare divennero per alcuni la sede per manifestare concretamente la propria fedeltà all’Austria, e per molti palestra di opposizione antiasburgica e di affermazione del proprio desiderio d’indipendenza nazionale.
Le monarchie amministrative di tipo moderno — che sullo scorcio del secolo andavano formandosi e sostituendosi agli Stati d’antico regime — prevedevano, tra l’altro, la delega in sede locale, vincolata da un sistema di controlli, di specifiche competenze che sarebbero rimaste pressoché immutate lungo tutto l’Ottocento e che anche oggi appartengono in gran parte alla sfera comunale. Si trattava della creazione e del mantenimento di un insieme d’infrastrutture (strade, acque, ponti, edifici pubblici, acquedotti) nonché dell’erogazione di una serie di servizi pubblici essenziali (illuminazione, annona, sanità, istruzione, assistenza, polizia municipale, acquartieramento di truppe, mercati, ecc.)(1).
L’organo rappresentativo e decisionale del Comune era il consiglio comunale, quello esecutivo, denominato consiglio dei savi e poi congregazione municipale, era composto da savi, poi assessori, con a capo il podestà. L’accesso ai consigli comunali avveniva per cooptazione. Il podestà era proposto dal consiglio e nominato dal sovrano; gli assessori venivano nominati direttamente dallo stesso consiglio, ma le autorità di governo potevano ratificare o meno la scelta. Le cariche potevano essere affidate a esponenti dei ceti superiori: ex patrizi, ‘borghesi’ emergenti, comunque solo a proprietari fondiari nel comune o, in numero significativamente inferiore, ricchi imprenditori. L’ufficio municipale era strutturato in referati (assessorati) e poteva contare su una propria burocrazia.
L’atto di nascita ufficiale del Comune di Venezia è un decreto napoleonico del 5 febbraio 1806, ma non si possono tralasciare alcuni provvedimenti del primo governo austriaco nel Veneto (1798-1805). All’arrivo degli austriaci l’organizzazione municipale era del tutto estranea alla città di Venezia che, da Serenissima capitale della Repubblica aristocratica, veniva da secoli direttamente amministrata dagli organi centrali dello Stato. L’esigenza di crearvi un Municipio e l’evidente difficoltà di sconvolgere d’un tratto assetti istituzionali inveterati e sistemi burocratici consolidati, unite all’incertezza del momento, indussero alla ricerca di una soluzione transitoria e di ripiego. Sorse così, il 31 marzo 1798, la congregazione nobile delegata(2), formata, appunto, da dieci ex patrizi — a riprova della buona capacità negoziale che il ceto aveva mantenuto nei confronti dei nuovi dominatori —, per amministrare la città e il Dogado (la striscia di territorio prospiciente l’Adriatico da Grado a Cavarzere, cui la Repubblica aveva da sempre conferito uno status giuridico e amministrativo particolare), assumendo molte delle future competenze municipali. Per la sua struttura, tuttavia, la congregazione nobile delegata non si configurava tanto come un organo d’autonomia locale, quanto piuttosto come un dipartimento governativo e, in effetti, alcune norme sembrano considerarla tale(3).
Prima di cessare d’esistere, confluendo il 24 novembre 1803 nel regio capitanato provinciale — lontano progenitore delle successive prefetture e delegazioni —, la congregazione nobile delegata aveva elaborato un regolamento di polizia urbana, emanato il 21 aprile 1798(4), e avviato «un’attività di qualche consistenza» nella manutenzione di strade, rii e manufatti cittadini(5). Le carte d’archivio testimoniano anche l’attività capillare per l’ospitalità delle truppe in transito, sia in case private che nelle caserme, che la congregazione svolgeva volta per volta su ordine governativo e non, come avverrà in seguito, per competenza delegata dalla legge. Di fatto la congregazione non godeva di autonomia finanziaria: riscuoteva imposte relative alle acque e sulle arti cittadine già spettanti alle magistrature venete, ma non aveva un proprio bilancio e quindi fungeva da semplice esattore. Anche sul fronte dei lavori pubblici agiva in maniera del tutto subordinata: individuata l’opera da eseguire, presentava una proposta al governo e, ottenuti approvazione e finanziamento, bandiva l’appalto(6).
Con l’ingresso nel Regno d’Italia napoleonico Venezia perde definitivamente condizione, ruolo e fisionomia amministrativa di città capitale. Il successivo ritorno all’Austria la eleverà nuovamente a quel rango, in quanto sede di un governo, ma sarà poco più di un privilegio senza sostanza, che dovrà dividere con Milano, Trieste, Lubiana e tante altre capitali periferiche della monarchia asburgica. Sintomo inequivocabile dello scadimento è l’omologazione: Venezia diventa Comune, alla stregua di ogni altra città provinciale. L’amministrazione locale passa al nuovo ente municipale, che ha proprie cariche, uffici, patrimonio, entrate. Il decreto di Eugenio di Beauharnais del 5 febbraio 1806(7) istituì la Municipalità di Venezia e designò il primo podestà, Daniele Renier, e il primo consiglio municipale dei savi. Le nomine calarono dall’alto: solo due anni dopo sarà istituito il consiglio comunale, che si riunirà per la prima volta il 15 febbraio 1808 nella composizione del consiglio dettata da Napoleone l’8 dicembre 1807(8). Al decreto del 5 febbraio seguì quello del 22 maggio 1806(9), che sistemava economia e finanze del nuovo Comune, individuandone le rendite e le spese, definitivamente scorporate da quelle dello Stato. Al Comune venivano così addossate le spese generali previste dalle leggi e, inoltre, quelle per lavori stradali («lo spurgo e la riparazione e manutenzione dei canali interni della città, ponti e rive», assieme alla «riparazione e manutenzione delle contrade», ossia delle pubbliche vie) e per l’illuminazione notturna. Per farvi fronte il Municipio poteva contare sui due tradizionali cespiti dei Comuni napoleonici (e poi austriaci): l’addizionale sul dazio e la sovrimposta sull’estimo.
In sostanza, sia pure con qualche aggiustamento dovuto alla peculiare natura della città, veniva estesa a Venezia l’applicazione delle leggi italiche — a loro volta improntate al modello dell’Impero francese — sull’amministrazione comunale, in particolare di quel decreto dell’8 giugno 1805, uno dei capisaldi dell’impianto istituzionale napoleonico, testo di marcata impronta autoritaria e fortemente accentratore(10). Per effetto di quella legge il podestà e il consiglio comunale di Venezia sarebbero stati di nomina regia, sia pure su proposta del consiglio medesimo. Proposta che non aveva potuto, ovviamente, aver luogo in occasione delle nomine del 1806, quando erano stati scelti d’autorità anche i savi. Sempre in forza di quella legge il bilancio comunale doveva sottostare all’approvazione del Ministero dell’Interno; mentre il prefetto, quasi signore assoluto del dipartimento, aveva la possibilità di respingere qualsiasi decisione del consiglio comunale. Il Comune diventava, insomma, l’estrema appendice di un sistema di potere centralizzato, l’organo chiamato all’esecuzione di decisioni che venivano prese altrove(11).
In pochi mesi Venezia aveva assunto un ruolo fondamentale per la politica napoleonica in Italia e la produzione normativa continuava, incalzante, a investirla. Il 9 gennaio 1807 veniva istituita la commissione all’ornato, presieduta dal podestà e — come l’omologa milanese — incaricata dei «progetti occorrenti pel miglioramento simetrico de’ fabbricati fronteggianti le strade; e per l’allargamento e rettifilo delle strade stesse», da eseguire «a richiesta delle rispettive Municipalità»(12). Dietro il pungolo di una burocrazia agguerrita e incentivata come quella napoleonica, la commissione avrebbe trovato «uno sprone continuo per opere pubbliche e per l’avvio di un imponente complesso di lavori subito messi allo studio e destinati a far da capostipiti a una ben numerosa e prolifica famiglia»(13). Il volto della città cambiava così con frenesia sconcertante, rendendo spesso irriconoscibili i nuovi spazi e le nuove orditure del tessuto urbano. La stessa piazza S. Marco, il centro e uno dei simboli del potere aristocratico, subiva pesanti interventi. Si è giustamente potuto parlare dell’età napoleonica a Venezia come di «una delle avventure storiche più controverse e radicali nella vita della città e della sua struttura urbana», in cui s’era immaginato per quest’ultima, con «pericolosa spregiudicatezza», un futuro «non ipotecato dai condizionamenti delle preesistenze»(14). Un disegno innovativo di ampio respiro, da leggere, tuttavia, esclusivamente nell’ottica politica ed economica francese, particolarmente interessata al «complesso cantieristico-militare veneziano»(15). In quest’operazione di ampia portata il ruolo del Municipio fu del tutto marginale, se non addirittura nullo, sul versante delle scelte, ma indubbiamente centrale sul piano operativo.
La pietra angolare della legislazione napoleonica per Venezia fu quel decreto del 7 dicembre 1807(16), siglato da Napoleone proprio durante il soggiorno nella città, che per il numero delle materie regolate e per la vastità degli impegni finanziari disposti è stato definito la prima «legge speciale» per la ex Dominante. La commissione all’ornato ne riceveva un ulteriore, straordinario impulso, e così tutta l’opera di sistemazione urbanistica della città. Il decreto prescriveva l’esecuzione di alcuni grandiosi lavori: il cimitero, l’illuminazione della città e in particolare della piazza S. Marco, i nuovi giardini di Castello e la continuazione della riva degli Schiavoni (che allora non venne, però, realizzata). E poi una serie di opere idrauliche e marittime, tra cui l’escavo dei canali principali, interventi sulle difese a mare (i «murazzi») e alla bocca di porto di Malamocco. Il Municipio veniva inoltre investito di competenze speciali, estranee al tradizionale ambito amministrativo locale e secondarie nella stessa legge comunale generale napoleonica, che limitava fortemente gli eventuali interventi dei Comuni in campo assistenziale. Infatti, tramite la congregazione di carità, di cui anche il podestà era membro, veniva addossata al Comune la gestione di tutti gli istituti di beneficenza cittadini, le cui spese, sia pure «per capo separato», dovevano confluire nel bilancio comunale. La cassa municipale avrebbe sborsato, a questo titolo, fino a 800.000 lire l’anno. In cambio il Comune otteneva, oltre ai cespiti propri degli istituti stessi e a una rendita di 500.000 lire sul Monte Napoleone per i loro capitali, l’introito derivante dai traghetti interni, dalla riscossione dei diritti portuali, marittimi e delle tasse sanitarie (bilanciate, però, da un ulteriore allargamento di competenza sulla sanità marittima), la proprietà di circa 4.000 case demaniali a Venezia e 6 milioni di beni indemaniati da vendere(17).
Il primo podestà di Venezia, dal 1806 al 1811, fu Daniele Renier, un ex patrizio che aveva iniziato la carriera negli anni della Repubblica come savio agli ordini e sedette poi, durante il primo periodo austriaco, in congregazione nobile delegata, per divenire quindi consigliere di governo, carica che occuperà nuovamente al ritorno dell’Austria nel 1815, dapprima incaricato del referato di acque e strade, e quindi di quello relativo alle cancellerie e all’amministrazione comunale. In queste ultime funzioni avremo più volte occasione d’incontrarlo ancora, vero padrone per tre lustri di tutti i Municipi veneti. Uomo potente e temuto, con un ampio seguito in città, radicato invero più sulle clientele che su un autentico ascendente personale, arbitro interessato delle fortune e sfortune di tanti ex patrizi, spesso sospettato di corruzione e malversazione, sicuramente autore di sotterranei maneggi di potere, Renier è una figura che s’inserisce perfettamente nel turbine amministrativo degli anni napoleonici(18).
Sul più alto scranno municipale s’insediò poi Gerolamo Bartolomeo Gradenigo, un altro ex patrizio che, più anziano di Renier(19), poteva vantare una carriera aristocratica assai più lunga e prestigiosa: podestà di Chioggia, provveditore alla sanità, savio di terraferma, era stato poi membro del senato e ambasciatore in Spagna dal 1790 al 1796. In seguito entrò anch’egli nella congregazione nobile delegata e fu savio municipale dal 1808. Reggerà il Comune fino al 31 agosto 1816, consegnandolo alla nuova amministrazione austriaca. Se le vicende politiche e amministrative del Comune napoleonico segnano dunque due profonde cesure, tanto con il passato che verso il futuro, le figure dei podestà sembrano invece inserirsi nella logica della continuità.
Con felice intuizione è stata caricata di significato simbolico la differente posizione assunta dal leone marciano nello stemma civico: «andante» e brandente la spada in grembo all’aquila napoleonica quello degli anni francesi, accovacciato e sovrastato dall’aquila bicipite quello della Restaurazione: segno della maggiore attenzione riservata alla città dai dominatori transalpini, che non dagli austriaci(20). Questo giudizio va, invero, sfumato, e chi l’ha pronunciato non ha mancato di farlo(21). Con il decreto napoleonico del dicembre 1807 è innegabile che il Comune, la cui nascita risaliva a meno di due anni prima, aveva subito assunto un ruolo centrale e determinante per la vita della città. Ma sulla distanza gli effetti di quella legge sembrano essere stati complessivamente negativi per il Municipio, le cui strutture organizzative, patrimoniali e finanziarie uscivano sconvolte da un terremoto di competenze, rendite e oneri imposti a solo vantaggio della politica francese sulla città: il grandioso impegno cui gli amministratori furono chiamati sul fronte delle opere pubbliche riservava spazi di intervento autonomo del tutto marginali, mentre la complessa gestione della beneficenza sottraeva loro energie preziose e dissanguava la cassa comunale.
Il ritorno degli eserciti asburgici nel Veneto, nei mesi a cavallo tra il 1813 e il 1814, aprì una fase di transizione, durante la quale l’Austria rivide profondamente gli assetti istituzionali e la struttura amministrativa della nuova compagine statale. I Municipi, che frattanto continuavano a funzionare secondo le leggi napoleoniche, qua e là smussate e rese conformi alle nuove esigenze, subirono modifiche sostanziali, anche se il solco tracciato dalla normativa francese non fu più abbandonato. Il riordino amministrativo introdotto dalle riforme napoleoniche era, insomma, una realtà ormai acquisita e imprescindibile. Nel giro di pochi anni mutarono i rapporti di forza tra podestà e assessori: se i primi mantennero, di fatto, un ruolo di netta preminenza nell’ufficio, i secondi furono maggiormente coinvolti nei momenti decisionali, essendosi rafforzato il principio della collegialità. Ma cambiò, soprattutto, il rapporto tra Comuni e governo, nell’ambito di un’accresciuta autonomia, in realtà più annunciata che reale, perché fortemente condizionata e compressa dal sistema dei controlli e da un’occhiuta e spesso asfissiante tutela dell’esecutivo, specie al momento dell’approvazione dei bilanci annuali. E tuttavia i Municipi non furono più, come quelli napoleonici, l’estrema appendice dell’autorità governativa. La rigorosa applicazione della legislazione statale li uniformò tutti, da quello veneziano sino a quello del più remoto villaggio di montagna. Venne soffocata ogni istanza di particolarismo della periferia, ma neppure il governo ebbe più la possibilità di trasferire sui Municipi competenze loro estranee. Non scompariva il vincolo delle nomine imperiali e governative di podestà, assessori e consiglieri comunali, ma venne maggiormente rispettato quel barlume di democrazia comunale che le nuove leggi, di ispirazione teresiana, lasciavano intravedere. Semmai l’intervento delle autorità asburgiche tese a influenzare indirettamente le procedure di scelta degli amministratori.
Per tutti gli anni del secondo (1814-1848) e terzo (1849-1866) periodo austriaco il consiglio comunale di Venezia, composto di sessanta membri, dopo le prime nomine operate da delegazione e governo, si rinnovò per cooptazione, nel numero di venti consiglieri ogni anno. Quanti erano scaduti potevano rientrare in consiglio dopo un anno di «contumacia». Il consiglio, poi, nominava gli assessori, che duravano in carica per due anni ed erano immediatamente riconfermabili, dovevano però essere approvati dal governo o dalla luogotenenza. Indicava, altresì, una rosa di tre nomi, ossia una terna, fra cui l’imperatore, sentiti i pareri del governatore, del governo e della polizia, sceglieva il podestà, che durava in carica tre anni ed era pure immediatamente rinnovabile. La proposta avveniva all’interno di un’unica seduta. In un primo momento ciascun consigliere indicava un nome, quindi tutti i nomi venivano posti in votazione e i tre che ottenevano il maggior numero di voti affermativi componevano la terna. Il podestà di Venezia era l’unico nel Veneto a godere di un appannaggio connesso alla carica: riceveva dalla cassa comunale la ragguardevole cifra di 3.000 fiorini l’anno.
Il primo segno tangibile del rientro dell’Austria fu, per il Comune di Venezia, l’abrogazione del decreto napoleonico del 7 dicembre 1807: dal 1° settembre 1816, contestualmente all’entrata in vigore del nuovo sistema d’amministrazione comunale in tutto il Lombardo-Veneto le nuove leggi sui Comuni s’applicarono a Venezia «come in ogni altra città provinciale». Cadevano così le competenze del Municipio veneziano sulla sanità marittima, su gran parte delle opere idrauliche lagunari e, soprattutto, sugli istituti di beneficenza, che il Comune cessava d’amministrare, non rimanendogli che l’onere, peraltro gravosissimo, di sussidiare quelli i cui «benefizi» ricadessero a vantaggio dei soli «cittadini veneziani» e non dei forestieri. La gigantesca macchina burocratica del Comune di Venezia napoleonico veniva, insomma, smantellata e il Municipio era nuovamente e definitivamente omologato a quello degli altri capoluoghi, con tutte le conseguenze, positive e negative, che tale nuova condizione comportava(22).
La vita del Comune, la partecipazione dei ceti superiori all’autogoverno municipale, i rapporti con le autorità austriache connotano la Venezia della Restaurazione con una propria specificità, che solo in parte la rende assimilabile alle altre città venete. È, anzitutto, l’atteggiamento dei veneziani, ex patrizi, ma anche non nobili, a fare la differenza. Gelosi delle antiche prerogative e tenacemente avvinti a una tradizione che non era cessata assieme alla Repubblica aristocratica, questi manifestarono sempre una spiccata vocazione a mantenere la guida della propria città e lasciarono ben poco spazio a quella disaffezione dei notabili cittadini per le cariche municipali, che durante tutto l’arco della Restaurazione caratterizzò la storia dei Municipi veneti di terraferma. Il rifiuto dell’impegno civico dipendeva principalmente dallo svilimento delle cariche medesime, pressoché svuotate di ogni autonomia decisionale e ridotte a ruoli puramente burocratici e per giunta senza alcun corrispettivo pecuniario. Non così a Venezia, dove anzi il soldo cospicuo del podestà, unito all’alto rango connesso alla carica e, soprattutto, alla forte, orgogliosa vocazione cetuale del patriziato di mantenere almeno il governo cittadino, sia pure entro una struttura rigidamente formalizzata, avrebbe sempre contribuito a rendere appetibile la guida di Ca’ Farsetti(23).
Una disponibilità cui s’accompagnava una malcelata insofferenza nei confronti della dominazione straniera e delle scelte che l’Austria imponeva anche in tema d’amministrazione comunale. Intervenendo in un procedimento per la nomina del nuovo podestà di Venezia, dall’alto della carica che ricopriva e che lo collocava in un punto d’osservazione privilegiato, il governatore Inzaghi ebbe agio di sottolineare alle autorità imperiali le difficoltà che incontrava nel rapporto con i sudditi della città lagunare: pochi, infatti, «i veneziani che ebbero influenza nel cessato governo repubblicano» i quali, memori della propria indipendenza, avessero «rinunciato ad una certa alterigia» e chinato il capo «di buona fede all’attuale ordine di cose», rinunciando anche «al broglio ed all’intrigo veneziano»(24).
La tattica asburgica nei confronti dell’autogoverno cittadino mirava in sostanza a vanificare nella quotidianità dell’amministrazione le prerogative, in sé abbastanza ampie, che le patenti imperiali avevano concesso ai Comuni. Questi sforzi si concentrarono in una meticolosa, asfissiante azione di controllo sulle entrate e, soprattutto, sulle spese dei Municipi, nonché in un’attenta vigilanza sulle nomine di podestà e assessori. Qui, a un sostanziale rispetto delle forme legali (e perciò delle proposte formulate dal consiglio comunale) si accompagnavano quasi sempre pressioni sotterranee più o meno forti da parte delle autorità di governo (e in modo particolare di quella più vicina al Municipio, il delegato provinciale), affinché il consiglio stesso s’esprimesse per i candidati più graditi all’Austria. La volontà espressa dalla rappresentanza civica, insomma, veniva rispettata, ma si faceva in modo ch’essa costituisse il risultato di un lavoro preliminare di suggerimenti e tentativi di convincimento dei singoli consiglieri, affinché coincidesse il più possibile con le viste e i desideri governativi. In questo senso Venezia, per la quale questo genere d’interventi sono ampiamente documentati, seguiva un destino simile a quello di ogni altra città veneta. Ma la straordinaria importanza del Municipio della capitale gli faceva meritare un occhio di riguardo e delle attenzioni speciali: perciò le discussioni sulla scelta del suo capo, in seno al consiglio di governo austriaco, si rivelano come le più vivaci di cui resti testimonianza, e quelle che lasciano registrare i più netti contrasti d’opinione in seno al consiglio stesso, o tra i diversi organi che intervenivano nel procedimento.
Quando poi le autorità austriache avessero posto in atto queste sottili opere di convincimento senza ricavarne alcun frutto, non rimanevano loro che due strade: la nomina d’ufficio del nuovo podestà, oppure la restituzione della terna al consiglio comunale, perché ne formasse una nuova. Soluzione estrema la prima, che ebbe luogo in una sola occasione e solo per Venezia, in una circostanza eccezionale; intervento drastico il secondo, pure subito anche dalla capitale, che poteva provocare reazioni negative facilmente prevedibili, e che perciò veniva presentato come inevitabile conseguenza di un’irregolarità procedurale più o meno pretestuosa.
Il criterio al quale le autorità asburgiche si affidavano per la selezione degli amministratori civici non fu sempre univoco. In particolare si scontravano le opposte esigenze della rappresentatività (un podestà gradito dal consiglio comunale e dalla popolazione, autorevole per sostenere i compiti esteriori e più appariscenti della carica) e della professionalità (un uomo in grado di destreggiarsi nell’ordinaria attività amministrativa, che costituiva la parte preponderante dell’impegno che gli veniva richiesto). Il problema fu sentito anche a Venezia, benché in misura attenuata rispetto ai Municipi di terraferma. Il patriziato della capitale poté quasi sempre offrire, infatti, un buon numero di soggetti idonei e disponibili.
Un breve cenno, infine, merita il ruolo della polizia nei procedimenti di nomina. Il suo intervento, sempre richiesto, poteva rivelarsi decisivo solo se rafforzava l’opinione di altre autorità. Ma in presenza di contestazioni specifiche, che investissero la sfera politica o morale, poteva sbarrare la strada a qualunque candidato. Frequentissimo il caso in cui la polizia si sbilanciasse esprimendo opinioni circa la capacità dei candidati, argomento su cui non era chiamata ad esprimersi, provocando così l’irritazione dell’esecutivo. Di fatto la sua opinione condizionava fortemente la cancelleria imperiale e lo stesso imperatore e spesso anche i governatori non restarono immuni dalla sua potente influenza(25). Tutto questo emergerà anche dalle vicende veneziane.
Per più motivi le pratiche relative alle nomine dei podestà rappresentano una fonte privilegiata per questa ricerca. Esse documentano con abbondanza di particolari quanto s’è detto sopra sulle motivazioni e le convinzioni dei ceti dirigenti veneziani, nonché sull’atteggiamento del governo austriaco. Ma non solo: la scelta di ogni nuovo podestà segnava quasi sempre un importante momento di verifica, a ogni livello (opinione pubblica, consiglio comunale, autorità di governo, polizia, cancelleria imperiale) circa l’andamento della vita municipale, che spesso veniva passata al setaccio in tutti i suoi aspetti, dando luogo a considerazioni sull’operato del podestà uscente e, in maniera più o meno esplicita, evidenziando le attese nei confronti di quello che s’andava a nominare. Accingiamoci dunque a seguire, col ritmo scandito dalla scadenza triennale, le vicende e gli uomini del Municipio veneziano nei decenni della Restaurazione.
Sin dalla primavera del 1816 l’imperatore aveva disposto la nomina del nuovo podestà di Venezia. La scelta, che in mancanza di consiglio comunale avvenne su proposta della delegazione provinciale e del governo, era caduta su Giuseppe Giovanelli, un nome sino ad allora assente dalle cariche municipali(26). La continuità era comunque assicurata dalla permanenza nell’ufficio dei savi, nelle nuove vesti di assessori. Il patrizio si sottraeva però all’impegno riuscendo ad esserne dispensato e le funzioni podestarili vennero esercitate fino al febbraio 1817 dall’assessore anziano Vincenzo Bianchini.
Il primo podestà a pieno titolo della Venezia della Restaurazione fu Marco Molin. Uomo non estraneo agli impieghi, aveva per breve tempo occupato un posto di non alto livello nella polizia austriaca durante la prima dominazione, perdendolo all’arrivo dei francesi; al momento della nomina a podestà era direttore della Casa d’industria e deputato provinciale. Nei mesi seguenti sarebbe anche stato proposto per un seggio alla congregazione centrale. Con lui continua la serie dei podestà ex patrizi, destinata ad interrompersi solo dopo l’Unità. E il patriziato probabilmente si sentiva in lui perfettamente rappresentato: le informazioni di fonte austriaca lo connotano come buon funzionario e uomo politicamente assennato («klug»), benché fosse ;rimasto intimamente nobile fino alla radice dei capelli («obwohl er Aristokrat im ;höchsten Grade verblieb»)(27).
Molin rimase podestà per soli quattordici mesi, essendo morto il 2 aprile 1818. Dopo un breve interinato dell’assessore anziano Alessandro Gritti, nell’autunno subentrò Francesco Calbo Crotta. Nato nel 1760, Calbo apparteneva all’ultima generazione di patrizi veneti che poteva vantare un cursus honorum di un certo rilievo nelle magistrature della Repubblica: fu, tra l’altro, savio agli ordini e di terraferma, provveditore alla sanità, alle decime e di comun, savio alla mercanzia, infine membro del senato. Abbandonate le cariche con l’avvento del primo governo austriaco, era stato in epoca italica consigliere di prefettura e da quel periodo era anche membro della congregazione di carità(28). Contraddittorie le fonti sulla sua figura di podestà: concluso il primo mandato triennale, il governo ne caldeggiò senza riserve, anzi con espressioni lusinghiere, la riconferma, che l’imperatore sancì addirittura «con molto piacere»(29). Ma la polizia, in un rapporto riservato al governatore, non era parsa altrettanto convinta: ricco di «cognizioni non comuni ed un’esperienza ben fondata», Calbo a suo giudizio era stato «indubitatamente» idoneo al posto, grazie anche al suo carattere «probo». Era però un personaggio molto impopolare, veniva «tacciato di superbia aristocratica, di un’ostinazione insuperabile e di un contegno inurbano» ed era disdicevole che si mostrasse poco propenso a fare beneficenza, «almeno pubblicamente»(30). Duro, questo rapporto di polizia, quanto di fatto inascoltato, forse perché conteneva un giudizio ancor più negativo sugli altri due candidati, sicché la riconferma di Calbo si presentava come una soluzione obbligata.
Sopiti tre anni prima, i dubbi su Calbo riemersero nel 1824, al momento della terza conferma, e nuovamente per impulso della polizia. La terna del consiglio comunale era formata ancora dal podestà uscente e da altri due personaggi di qualche levatura, i deputati provinciali Leonardo Gradenigo e Domenico Morosini. Contraria la polizia a tutti e tre: mentre non trovava sostanzialmente alcunché da eccepire sugli ultimi due, salvo che mancassero di particolari «talenti», sul podestà uscente, invece, si richiamava al precedente rapporto, avvertendo che l’età e il progredire della gotta che da anni l’affliggeva avevano accentuato quello «spirito dispotico già per se stesso innato al Calbo»(31). Il governo, che il governatore Inzaghi volle tenere prudentemente all’oscuro di quest’opinione, si mostrò diviso sulla proposta da formulare a Vienna: nettamente favorevole a Calbo il relatore, Daniele Renier, contrari tutti gli altri consiglieri, che lo giudicavano ormai inadatto al posto e sostenevano piuttosto la nomina di Morosini(32). Il governatore, che durante la seduta del governo aveva evitato di esprimersi, assumeva invece l’iniziativa con il supremo cancelliere Franz Saurau. Certamente, gli scriveva il 26 maggio, il podestà uscente, malato, non offriva più garanzie e Morosini gli andava preferito senz’altro. Ma neppure quest’ultimo sembrava particolarmente adatto, e il consiglio comunale avrebbe dimostrato — a suo giudizio — maggiore sensibilità se avesse proposto Andrea Giovanelli, segretario onorario di governo, che più d’ogni altro suo concittadino possedeva le qualità necessarie per guidare il Comune(33). Inzaghi proponeva, in pratica, di ignorare la volontà della rappresentanza civica, parere che a Vienna provocò un certo imbarazzo. L’imperatore respinse la terna e ordinò che fosse riformulata, avvertendo Inzaghi di inserirsi in quest’operazione con destrezza, «in guisa […] da salvare le convenienze dei già proposti». La cancelleria pretese, inoltre, un chiarimento e delle «positive notizie» su Calbo, non essendole sfuggita la stridente contraddizione fra le indicazioni governative del 1821, che avevano indotto l’imperatore alla riconferma del podestà «colle più onorevoli e lusinghiere espressioni», e quelle del 1824, di opposto tenore. Né risultava mai pervenuto a Vienna quel rapporto di polizia del 1821 che, qualora noto, avrebbe impresso già allora altro corso alla faccenda. Affrontò infine la questione più delicata, ossia l’esplicita indicazione di Inzaghi per Giovanelli. Benché «il sovrano diritto di nomina» teoricamente non fosse «circoscritto alle terne» — e lo si sarebbe ben visto proprio a Venezia alcuni anni più tardi —, pure il dicastero aulico riteneva «desiderabile» che venissero osservate tutte «le formalità legali». Perciò, qualora Giovanelli «vi trovasse la sua convenienza» — un aspetto che Inzaghi non aveva preventivamente chiarito — non c’era altra via che di procurargli un posto nella nuova terna, adoperandosi «in una guisa assai cautamente e senza esercitare una visibile influenza, e molto meno compromettere la successiva sovrana risoluzione»(34).
Pur esposto su più fronti, Inzaghi seppe destreggiarsi con notevole abilità, escogitando un pretesto più che plausibile per respingere la terna: uno solo dei candidati aveva ottenuto la maggioranza dei voti favorevoli in consiglio comunale. Così l’iniziativa tornava al consiglio stesso, in termini che ne valorizzavano il ruolo. I candidati respinti, dal canto loro, non avevano che da incrementare la ricerca di consenso presso i loro concittadini. Il risultato tradì, però, le attese: nella nuova terna c’erano ancora i nomi di Calbo e Gradenigo, mentre mancava proprio Morosini, ossia il candidato preferito dal governo, ch’era stato sostituito da Leonardo Manin.
Prima ancora di discutere gli sviluppi della nuova situazione in consiglio di governo, Inzaghi si premurò di tornare ad informare Vienna. La più recente mossa del consiglio comunale, a suo avviso, andava considerata come un’impennata d’orgoglio dei sudditi veneziani: in qualche modo si poteva considerare scontata l’indicazione per Calbo; Gradenigo era stato proposto quasi certamente per una gara di solidarietà per «riparare lo sconcerto economico della famiglia» (con i 3.000 fiorini annuali dell’appannaggio podestarile); mentre l’indicazione per Manin tendeva ad escludere Morosini, soggetto preferito dal governo e la cui «vivacità sarebbe riuscita discara ai subalterni». Concludeva senza indicare alcun nome per la successione a Calbo, che a suo avviso l’imperatore non avrebbe dovuto comunque riconfermare(35).
Di tutt’altro avviso Daniele Renier, che già in precedenza s’era espresso, unico consigliere, in favore di Calbo e che nella seduta dell’11 febbraio 1825 tentava ancora una volta di convincere l’intero consiglio di governo a schierarsi in favore del suo protetto. Calbo, argomentava Renier, era il podestà che i veneziani volevano: aveva ottenuto alla prima votazione una maggioranza larghissima in consiglio comunale, mentre c’erano voluti ancora cinque ballottaggi per far uscire gli altri due nomi. Era effettivamente malato, ma sotto la sua guida il Comune aveva funzionato molto bene. Il governo, pur con molte perplessità e nella consapevolezza di scegliere il male minore, proponeva a Vienna nell’ordine Manin, Calbo e Gradenigo. L’imperatore operava invece una scelta mirata più alla rappresentatività che alla funzionalità e nell’estate del 1825 confermava Calbo, il quale però non portava a termine il suo terzo mandato, perché la salute lo costringeva a dimettersi e a uscire definitivamente di scena nel febbraio del 1827(36).
Per la successiva nomina, il consiglio comunale ripresentava, come tre anni prima, Domenico Morosini, con due nomi nuovi: Guido Erizzo e Giovanni Barbaro. Ma non si trattava, naturalmente, di volti sconosciuti alle cariche pubbliche: Morosini, nato nel 1768, era, assieme a Erizzo, uno degli ultimi esponenti di quella generazione patrizia che aveva intrapreso la via degli uffici sullo scorcio di vita della Repubblica: savio agli ordini, camerlengo di comun, savio alle decime; in seguito entrò in vari consigli comunali; dal 1821 sedeva in congregazione provinciale. Solo di qualche anno più anziano, Erizzo era pure stato savio agli ordini, e quindi provveditore sopra conti, patrono all’arsenal e savio di terraferma, per continuare la carriera durante tutto il primo periodo austriaco (dal 1798 al 1803 membro della congregazione nobile delegata e quindi fino al 1806 capitano provinciale di Venezia); magistrato civile di Venezia nei primi mesi del 1806, occupò altissime cariche consultive del Regno italico: consigliere di Stato e consigliere legislativo. Di gran lunga più giovane, il trentacinquenne Barbaro aveva da poco concluso il terzo biennio come assessore nel Municipio veneziano e da qualche giorno appena aveva conquistato un seggio alla congregazione provinciale(37).
Barbaro era finito nella terna perché s’era straordinariamente adoperato, nei consueti conciliaboli di corridoio che preparavano, prima della seduta ufficiale, la votazione della terna, in favore di Morosini e di Pietro Memmo. Tanto zelo e passione aveva profusi, che molti avevano ritenuto sollecitasse suffragi per sé e non avevano voluto negargli un voto(38). La giovane età e il terzo posto lo escludevano quasi automaticamente, sicché si vide subito che la lizza per la nomina a podestà era circoscritta a Morosini ed Erizzo. Il delegato conte Thurn non aveva alcuna riserva sul primo, mentre la polizia, che pure gli era favorevole, ne lodava la cultura amministrativa, ma ne sottolineava anche lo «spirito di ostinata opposizione», la grande «alterigia» e l’impopolarità cagionatagli dalle «forme orgogliose colle classi inferiori». Ricordava, infine, come fosse stato condannato nel 1800 per l’appartenenza al circolo giacobino di Pietro Dolce(39), ma la pena gli era stata condonata dal sovrano. Di Erizzo il delegato ricordava il «carattere deciso e fermo […] focoso, facile ad accendersi […] non sempre ben accetto», mentre la polizia lo giudicava addirittura «violento» e, soprattutto, assolutamente impopolare per la severità con cui aveva presieduto la commissione annonaria durante il blocco della città nel 1805(40). Ostile a Morosini già nel 1824, il potente consigliere relatore Renier tentò di ostacolarlo anche in questa occasione. Ma il suo suggerimento di respingere la terna perché vi era compreso un ex massone (Erizzo) venne bocciata dal consiglio di governo, che invece appoggiò Domenico Morosini, spianandogli così la strada verso la nomina imperiale(41).
Le speranze di buona amministrazione che le autorità austriache avevano affidato alla candidatura di Morosini andarono quasi del tutto deluse; quantomeno gli esiti della sua esperienza alla guida del Municipio furono giudicati in maniera controversa, tanto allo scadere del primo mandato che successivamente. Ma le battute iniziali del procedimento per il rinnovo della carica, nel 1830, evidenziano anzitutto l’atteggiamento di interessata flessibilità con cui il governo interpretava le norme sulla tutela dei Comuni. Nella prima terna presentata dal consiglio comunale, infatti, non tutti i proposti avevano ottenuto quella maggioranza dei voti che nel 1824 era stata ritenuta condizione imprescindibile. Ma la terna medesima aveva proseguito comunque il suo iter verso i dicasteri aulici. Spiegò Daniele Renier al consiglio di governo che il confronto con il 1824 non reggeva, giacché, viste le «circostanze d’allora», era palese che «quella disposizione fu immaginata per quel caso speciale» e dunque si poteva ora tranquillamente disapplicare(42).
Scaduto anche per Morosini il primo triennio di carica, vennero indicati per la sostituzione: lo stesso podestà uscente; Pietro Dubois de Dunilac, un ricco banchiere e mercante d’origine lionese, a Venezia da inizio secolo, membro della commissione generale di beneficenza, della Camera di commercio e consigliere comunale; infine Leonardo Manin(43). Per la prima volta, dunque, la ricca borghesia veneziana ebbe in mano una possibilità concreta di sottrarre agli ex patrizi il monopolio nella massima carica civica. Il tentativo era favorito dall’emozione e dalle speranze suscitate in città dalla recente concessione del portofranco, per la quale Dubois s’era molto adoperato a Vienna, ma ogni sforzo risultò vano: occorre infatti attendere gli anni successivi all’unificazione per incontrare seduto sulla prima poltrona di Ca’ Farsetti un uomo che non appartenesse a una famiglia iscritta nell’antico Libro d’Oro della Repubblica aristocratica. Per le autorità austriache lo scontro cetuale che si profilava fu palese non appena la terna approdò sulle loro scrivanie e questa consapevolezza condizionò l’iter dei pareri quanto il giudizio sull’operato di Morosini. Il vicedelegato Marzani e la polizia furono concordi: negativa, anche se non radicalmente, la valutazione sul podestà uscente, che non aveva corrisposto alle attese in lui riposte dopo l’eccellente servizio che aveva prestato come deputato provinciale. Carente di energia e poco avveduto, s’era scarsamente preoccupato dell’ufficio, il cui andamento lasciava alquanto a desiderare. Più indulgente della polizia, Marzani guardava però anche al prezioso bagaglio d’esperienza che Morosini aveva accumulato nei tre anni appena conclusi e che, unito alla sua assiduità, lasciava ben sperare per i tre a venire.
La proposta di Dubois, invece, per opinione unanime era scaturita sulla scia della generale esultanza per il portofranco, tanto che, secondo la polizia, avevano votato per lui anche alcuni nobili. Ma certo il patriziato nel suo insieme guardava con assai poca benevolenza all’eventualità che un borghese, e per giunta forestiero, conquistasse la carica di podestà proprio nella ex Dominante. Maneggi e pressioni sui consiglieri, informava ancora la polizia, se non erano mancati, come al solito, pure erano stati discreti. Invece Morosini aveva brigato in prima persona per avere il voto di alcuni assessori, i quali ne auspicavano ora la riconferma, confidando, a titolo di benevolenza, di avere totale libertà nella conduzione degli affari delegati alla loro sezione(44). Favorevole senza riserve a Morosini fu invece il governo, compreso il consigliere referente Renier, che aveva ora evidentemente abbandonato la passata avversione(45); favorevole, sia pure con tiepida convinzione, anche il governatore Spaur, il quale raccoglieva tutte le preoccupazioni e i suggerimenti del vicedelegato(46). La conferma imperiale in favore di Morosini giunse nella primavera del 1831 accompagnata da espressioni di viva preoccupazione sull’andamento e le sorti del Comune(47).
Le perplessità che da più parti s’erano levate trovarono un’indiretta conferma in una denuncia anonima fatta pervenire a Vienna sin dall’estate del 1831 e che gettava pessima luce sull’amministrazione Morosini. Il 6 marzo 1833 (l’enorme ritardo è dovuto a una disattenzione burocratica) Spaur non poté che ribadire i giudizi controversi di due anni prima: il podestà non brillava come amministratore e mancava di fermezza, ma meritava comunque qualche indulgenza, tanto più che ormai il secondo mandato stava spirando e si poteva ragionevolmente sperare in un’occasione di rinnovamento(48).
Attesa destinata ad andare delusa, giacché Morosini venne nuovamente indicato per la successione a se stesso, assieme a Leonardo Manin e a Giuseppe Boldù. Toccava, insomma, alle autorità austriache esporsi, se volevano congedare Morosini e imporre una nuova svolta al Comune. Il delegato Thurn e il direttore generale di polizia Cattanei non nutrivano dubbi in proposito: dei tre andava senz’altro preferito Boldù, uomo abile, attivo, fermo, con qualche esperienza (membro della commissione generale di beneficenza nel 1816; dal 1818 componente della congregazione di carità; per molti anni consigliere comunale), ricco e attento amministratore delle proprie sostanze, benamato in città. Esattamente l’opposto di Morosini, sul cui capo ricadeva, come sempre, l’accusa di scarsa energia: l’andamento del Municipio era addirittura peggiorato rispetto ai tempi del podestà Calbo; Morosini aveva lasciato campo libero agli impiegati del Comune e, opinava il delegato, era ormai difficile persuaderli che il posto non era una prebenda e che esistevano anche i doveri d’ufficio. Anche sul piano personale il podestà uscente dava adito a molte riserve: troppo dedito alla vita mondana, mentre in città si riteneva avesse cercato la carica solo per l’appannaggio. Nessuna considerazione meritava, infine, Leonardo Manin, gravemente malato e sempre sbilanciato nell’economia domestica(49). Sembra plausibile che la reiterata insistenza con la quale il consiglio comunale proponeva Manin mirasse a un triplice scopo: introdurre nella terna un candidato impresentabile, di pura facciata, per circoscrivere la scelta ai due rimanenti; offrire, nel caso pur improbabile di nomina, con lo stipendio, un soccorso economico a una ricca famiglia decaduta; indicare comunque un uomo magari poco funzionale alla carica, ma altamente rappresentativo, come avrebbe sottolineato sempre in quei mesi, in una diversa occasione, Daniele Renier, che vedeva in Manin soprattutto il nipote dell’ultimo doge, del grande sostenitore delle istituzioni benefiche veneziane, cui prima di morire aveva legato somme cospicue(50).
La dissonanza d’opinioni in seno al consiglio di governo si manifestava con tutta evidenza anche stavolta. Il referente Renier, assieme a due soli consiglieri, continuava a difendere a spada tratta Morosini, che riteneva sì carente in punto di «fermezza ed energia», ma che aveva ben lavorato per sei anni, sistemando la situazione patrimoniale del Comune e migliorando alcuni servizi essenziali, come l’illuminazione pubblica e l’estinzione degli incendi. Boldù invece, che non aveva dato subito piena disponibilità ad accettare l’incarico, gli sembrava povero d’esperienza, non avendo mai sostenuto cariche municipali. Ma la maggioranza del governo, con in testa il governatore Spaur, preferiva invece nettamente Boldù, che il 28 aprile 1834 prestava giuramento come nuovo podestà di Venezia(51).
Avvicinandosi lo scadere del triennio, il 26 settembre 1836 venne formata la terna, che comprendeva Giuseppe Boldù, podestà uscente, Pietro Francesco Giovanelli e Marco Molin(52). Ma questi ultimi negarono subito ogni disponibilità ad accettare l’eventuale nomina e si dovette riconvocare il consiglio. La successiva terna, votata il 29 dicembre, era copia di quella di tre anni prima, a posizioni invertite con Boldù salito al primo posto, Leonardo Manin al terzo e, in mezzo, Domenico Morosini. Ma anche Manin e Morosini preferivano transitare fra i rinuncianti. Si registra, così, il primo episodio significativo di rifiuto della carica di podestà a Venezia. Furono infine indicati, oltre a Boldù, Nicolò Priuli, già assessore negli anni 1828-1831, e Filippo Nani Mocenigo, assessore in carica dal 1833, dopo un lungo servizio onorario come alunno di concetto negli uffici della delegazione e del governo. Non c’era, con questa terza terna, che l’imbarazzo della scelta: per unanime giudizio delle autorità asburgiche tutti e tre i candidati offrivano solide garanzie. Lievi perplessità destavano il vivace spirito di contraddizione di Priuli e la tenacia di Boldù — che come podestà s’era particolarmente distinto durante i mesi del cholera — nel sostenere le proprie opinioni in faccia ai superiori(53). Riconfermato in carica nel luglio 1837, Boldù morirà dopo soli cinque mesi, il 23 dicembre.
L’indomani il Municipio veniva affidato all’assessore anziano Giovanni Correr, che ne avrebbe tenuta ininterrottamente la guida per i successivi vent’anni. Il volto del non ancora quarantenne conte Correr era già familiare a chiunque nelle stanze municipali, che egli frequentava assiduamente ormai dal 1821, quand’era diventato per la prima volta assessore, carica in cui fu costantemente confermato. Dal 1823 svolgeva anche funzioni d’ispettore dei civici pompieri, né smise d’esercitarle una volta podestà. Chiamato spesso nelle commissioni di beneficenza, assistenza e sanitarie, era solito non negarsi(54). Votata nel gennaio 1838 la terna per sostituire Boldù, Correr vi figurava al secondo posto, tra Nicolò Priuli e Giovan Battista Contarini, ma, stranamente, cercava di defilarsi e veniva sostituito da Filippo Nani Mocenigo. Tuttavia il particolare momento che si stava vivendo, con la preparazione dell’imminente visita dell’imperatore Ferdinando per l’incoronazione nel Lombardo-Veneto, giocò a favore di Correr. Era chiaro che di lì ad alcune settimane tutti gli occhi della monarchia sarebbero stati rivolti alla città lagunare — e alle altre città del Regno — e che il Comune avrebbe avuto un ruolo essenziale nell’accoglienza della corte e nell’organizzazione di tante cerimonie pubbliche e solenni. A nessuno sfuggiva l’esigenza di un podestà estremamente rappresentativo, in grado di destreggiarsi tra le massime cariche dello Stato asburgico e della diplomazia europea, e allo stesso tempo efficiente organizzatore. Fu quasi certamente il governatore Spaur (le nostre fonti, purtroppo, ci consentono solo una congettura) a intuire che l’uomo migliore era quel quarantenne schivo e riluttante, ma vero padrone del Municipio, che ai tanti suoi meriti aggiungeva quelli d’aver già fatto parte nel 1827 della commissione governativa preposta agli spettacoli durante il soggiorno veneziano dell’imperatore Francesco e dello zar Alessandro e d’esser stato nominato nel 1831 direttore governativo per gli spettacoli alla Fenice. Così, mentre il governo aveva inviato a Vienna la terna con Priuli, Nani Mocenigo e Contarini, esprimendosi in favore del primo, a sorpresa l’imperatore decise motu proprio — ed è l’unico caso noto in cui si sia avvalso di tale facoltà nel Veneto e, quasi certamente, anche in Lombardia — di nominare Correr podestà. Solo se questi non avesse realmente voluto accettare, la carica sarebbe passata, senza ulteriori formalità, a Nani Mocenigo(55). Posto di fronte al fatto compiuto, Correr non poté più sottrarsi all’impegno e il 13 luglio 1838 s’insediò come podestà a pieno titolo.
La statura morale e le straordinarie doti personali lo imposero subito ancor più all’attenzione delle autorità austriache e all’affetto di tutti i ceti sociali. Pur tra le difficoltà di sempre, il Comune da lui guidato riprese nuovo slancio. Perciò le tre conferme che ebbe nella carica furono scelte obbligate e scontate, successioni senza contesa e senza storia: nel 1841 (terna Correr, Marco Molin e Filippo Nani Mocenigo), nel 1844 (Correr, Nani Mocenigo e Spiridione Papadopoli, il secondo borghese a far breccia)(56) e nel 1847 (Correr, Molin e Francesco Donà dalle Rose)(57). Nel 1844, chiedendone la riconferma, il governo si esprimeva sul suo conto in termini che mai, con riferimento a un podestà, erano echeggiati nelle severe aule del consiglio governativo: Correr, che esercitava «una grande influenza morale nelle classi anche inferiori», aveva dato prove di una «straordinarissima attività, vero disinteressato zelo pel maggior vantaggio del proprio paese ed una non comune operosità nel promuovere l’esecuzione delle tante grandiose opere pubbliche che si trovano in costruzione, molte delle quali vennero infatti ultimate, e con generale soddisfazione, durante l’attuale triennio»(58). Imponendosi silenziosamente, ma fermamente, su Manin, del quale era amico, e sull’Austria, che ne apprezzava la lealtà, riuscì a traghettare il Comune attraverso la rivoluzione del ’48 e a scongiurare, al ritorno degli austriaci, le durezze della repressione, altrove pesantemente sperimentata. In seguito al blocco delle cariche, disposto dalla luogotenenza nel 1850, Correr rimase alla testa del Comune fino al 13 agosto 1857, complessivamente vent’anni e un mese. La figura di Giovanni Correr merita senz’altro un posto nella galleria dei grandi podestà e sindaci che hanno segnato profondamente, nell’Otto e Novecento, la storia delle città italiane(59).
È agevole, lungo pressoché l’intero arco della Restaurazione, seguire a grandi linee le vicende finanziarie, di bilancio, e dunque anche fiscali, del Comune di Venezia, disponendo della serie quasi integrale (1822-1842 e 1844-1846) dei bilanci consuntivi annuali(60). La Tab. 1 riporta le principali voci di spesa, considerate in percentuale sul globale delle uscite.
Il dato che balza immediatamente all’occhio è l’alto numero di voci che presentano un’uscita inferiore all’1% (e la cui incidenza risulta dunque pressoché irrilevante in una valutazione complessiva) e il concentrarsi della spesa in pochi capitoli. All’atto pratico i lavori stradali (manutenzioni e nuove opere, pulizia e illuminazione), con quasi il 30%, e la beneficenza pubblica, con il 21%, assorbono oltre metà del bilancio e questo dato basta a configurare un Comune soverchiato da una mole di opere pubbliche del tutto sproporzionata alle proprie risorse, così come quella d’una città percorsa da torme di miserabili bisognosi, accolti da istituzioni benefiche sprovviste di rendite corrispondenti. Una simile entità di lavori stradali a carico comunale è da ascrivere alla particolare natura e configurazione fisica della città, il cui ‘materiale’ — fondamenta, calli, ponti e rive — abbisogna di continui interventi di rifacimento e manutenzione, mentre i rii necessitano di periodici escavi: pesante e visibile eredità della capitale che aveva perduto il proprio rango. Alcuni dati complessivi, costruiti partendo dai bilanci e pubblicati a fine Ottocento entro una corposa relazione sull’attività del Comune(61), consentono di elaborare i valori assoluti della spesa. Dal 1810 (cui risalgono i primi dati) all’unificazione il Comune di Venezia spese 4.522.771 lire italiane per manutenzione di strade, ponti e canali; 337.734 per «riparazioni ordinarie nei gran canali» (voce presente solo nel periodo 1810-1816); 954.864 per la pulizia stradale, compresa la spalatura della neve; 10.269.006 per la pubblica illuminazione; 2.623.215 per varie voci di polizia municipale ed igiene cittadina; infine 6.193.678 per le nuove opere d’acque e strade. In totale 24.901.268 lire italiane. Questi dati globali non solo concretizzano il grandioso sforzo finanziario, ma suggeriscono alcune considerazioni sulla connotazione della spesa. Nell’intero periodo 1810-1866 la spesa per la realizzazione di nuove opere — ossia la più qualificata, quella che oggi chiameremmo «in conto capitale» — rappresenta poco più della metà di un’uscita ordinaria come l’illuminazione(62). Lo stesso confronto, effettuato però nella tabella relativa agli anni della Restaurazione, ci riporta invece a un dato pressoché pari. E in effetti, se scorriamo questi preziosi riepiloghi a stampa di fine Ottocento, ci rendiamo conto che l’illuminazione rimane costantemente stabile intorno a una media di 150.000 lire annue fino al 1848, per assestarsi quindi intorno alle 200.000 negli anni seguenti, mentre i nuovi lavori stradali conoscono fasi alterne con momenti di grande vivacità nel 1820-1825 (circa 150.000 lire di media annuale) e a partire dal 1830 (mai sotto le 100.000, con punte di oltre 300.000 nel 1833, 1834 e 1836), per ripiombare in una profonda depressione dopo il 1848 (sopra le 100.000 solo nel 1854, 1858, 1859 e 1866; punta minima di 28.000 lire nel 1857). Quest’andamento altalenante rende con tutta evidenza l’asfissia del bilancio comunale, che concedeva spazio alle spese per investimenti — e quindi consentiva agli amministratori qualche margine di autonomo intervento nella vita cittadina — solo dopo aver fronteggiato le innumerevoli spese obbligatorie che le leggi ponevano a carico dei Comuni. I picchi di uscita del 1822-1825 coincidono con un cospicuo anticipo — 900.000 lire austriache in sei anni — decretato dall’imperatore appunto per fronteggiare il degrado del ‘materiale’ cittadino; la crescita costante degli anni Trenta e Quaranta va certamente inserita nel generale miglioramento della situazione economica del Lombardo-Veneto; infine la vistosa contrazione della spesa dopo il 1848 è indice eloquente degli sforzi che il Comune dovette sostenere per onorare gli impegni che s’era assunto nei mesi della rivoluzione democratica. In ogni caso si tratta di lavori svolti senza un disegno urbanistico compiuto, interventi di pura e semplice sopravvivenza, ben lontani dall’organicità degli anni italici, anche se non manca «una certa volontà unificatrice e amalgamatrice»(63).
Tab. I. Uscite dal Comune di Venezia (1822-1842e 1844-1846) Voci di spesa % Spese ordinarie Onorari 6,91 Spese d’ufficio 0,77 Pensioni 0,87 Fitti passivi 0,93 Interessi di capitali debiti 0,91 Manutenzione di strade, ponti, canali 5,65 Manutenzione locali e beni comunali 0,25 «Spurgo» delle nevi e del fango 0,89 Illuminazione pubblica 11,25 Pie prestazioni e congrue 0,63 Beneficenza 21,07 Partite di giro 6,76 «Fazioni» militari 3,67 Spese diverse ordinarie 12,35 Spese straordinarie Nuove opere strade, ponti e canali 11,53 Nuove opere locali e beni comunali 2,41 Estinzione di capitali debiti 5,42 Impiego di capitali 1,16 Spese diverse straordinarie 6,26 Fondo di riserva 0,21
L’incidenza della voce beneficenza, con il suo 21% abbondante sul totale delle uscite, non è nemmeno lontanamente paragonabile a quella delle altre città (3% circa a Treviso e Verona come punta massima). Si tratta, evidentemente, di una peculiarità della capitale, ma anche del pesante retaggio di scelte napoleoniche che le riforme austriache non erano riuscite a cancellare completamente. A totale carico del Comune stavano gli istituti delle Terese e dei Gesuati, così come l’ospedale, di cui venivano annualmente ripianate le «vistose deficienze». Sussidi uscivano poi dalle casse municipali per la Casa di ricovero e per quella d’industria, che non arrivarono mai a mantenersi da sé, a differenza della Ca’ di Dio e delle Penitenti(64).
Anche sul versante delle entrate gli amministratori erano gravemente limitati e condizionati nelle loro scelte. Scorrendo i dati del 1822-1846 relativi alla parte attiva del bilancio, possiamo osservare come le rendite proprie del Comune costituissero appena il 13% del globale delle entrate, cui va sommato un 7% di partite di giro. Per il restante 80% il Municipio doveva rivolgersi alla leva fiscale, esigendo l’addizionale sui dazi di consumo (62%) e la sovrimposta sull’estimo (18%)(65), imposizioni assegnate dalle leggi napoleoniche ai Comuni sotto forma, appunto, di tributi addizionali rispetto a quello principale dovuto allo Stato. Sulla ripartizione del carico tra dazio (al quale tutti gli abitanti, in quanto consumatori, contribuivano) ed estimo (che gravava solo sui proprietari immobiliari nel Comune), si registrarono all’interno di ogni città veneta e nelle sedi istituzionali in cui erano rappresentati i possidenti (congregazione centrale e provinciali) fortissime tensioni. Venezia ne restò abbastanza immune, in forza della propria peculiarità. L’addizionale sul dazio rappresentava la vera ancora di salvezza del bilancio comunale, alla cui parte attiva contribuiva, lo si sottolinea nuovamente, per il 62%. Elaborazioni ufficiali calcolarono per Venezia nel 1818 e nel 1826-1828 un introito medio annuo per abitante da due a tre volte superiore a quello degli altri capoluoghi(66), ma l’indicazione va ridimensionata, giacché nel numero degli abitanti non erano certamente conteggiati quanti vivevano più o meno stabilmente nella capitale mantenendo però la residenza ufficiale nei luoghi d’origine, e i numerosi forestieri di passaggio. Pertanto l’aggravio complessivo andava ripartito su una più vasta platea di contribuenti, riducendo il dato del gettito pro capite, che non siamo dunque in grado di quantificare esattamente. Sta di fatto che, grazie anche all’elevato tenore di vita di gran parte della popolazione cittadina e, forse, a un’attenta scelta dei generi da assoggettare all’addizionale, non si levarono a Venezia contro i dazi le lamentele che ripetutamente echeggiarono contro la sovrimposta sull’estimo.
Anche qui la città scontava la propria particolarità: un patrimonio immobiliare vetusto e fortemente degradato (spesso baratro di spesa, più che fonte di rendita per i proprietari) e un territorio comunale privo del «circondario esterno», quella fascia di campagne tutt’intorno al capoluogo, che nelle altre città venete contribuiva ad allargare la base imponibile dell’estimo del Comune. L’aliquota che mediamente venne gettata fu di 4 centesimi per scudo censuario dal 1822 al 1825 (sono gli anni in cui perveniva l’anticipo imperiale per finanziare i lavori pubblici); quindi s’impennò rapidamente attorno agli 8 centesimi, corrispondenti a circa la metà della prediale ordinaria pagata al Tesoro(67). Aliquote non molto distanti da quelle delle altre città, e tuttavia gravosissime, a causa della sperequazione degli estimi provvisori (sui quali furono commisurate sino al 1846): si è potuto calcolare come la pressione fiscale sulle case di Venezia fosse doppia e tripla che altrove. Durissimi, in particolare, anche nelle valutazioni del governatore Goess, i primi anni della Restaurazione, in cui addirittura si demolirono edifici per sottrarli alla voracità del fisco. Solo nella metà degli anni Trenta, in sintonia con il generale miglioramento del quadro economico, si verificò una consistente lievitazione degli affitti, che rese più accettabile la pur forte imposizione(68).
L’andamento generale delle finanze cittadine andò soggetto, nel corso degli anni, a valutazioni oscillanti e contraddittorie. Si parlò nel 1816 di un «quadro luttuoso della situazione»(69) e s’iniziò ad invocare quel sussidio erariale che, giunto sotto forma di prestito per avviare i lavori pubblici più urgenti, risollevò alquanto le sorti del Comune nella prima metà degli anni Venti, tanto che sino alla fine del decennio non riemersero motivi di preoccupazione al momento di esaminare i bilanci annuali. Tuttavia è ragionevole dubitare che lo stato del Comune segnasse di colpo un apprezzabile miglioramento: i conti venivano appianati con sensibili aumenti della pressione fiscale. Nel 1829 il Comune fu costretto a vendere una cartella del debito pubblico del valore di 120.000 lire, proposito che la congregazione centrale definì «rovinosissimo», ma ineluttabile data la vistosa diminuzione delle entrate per i dazi che si era verificata(70). Un allarme confermato negli anni immediatamente successivi, sotto l’incalzante necessità di eseguire nuovi, dispendiosissimi lavori. Si continuano a vendere titoli pubblici per salvarsi, lamentava ancora la congregazione centrale, e tuttavia lo «sbilancio» rimaneva «spaventevole». Era lo stesso viceré a riconoscere nel 1831 che «lo stato economico» della città diveniva di anno in anno «sempreppiù inquietante», soprattutto per le spese di beneficenza, che continuavano a lievitare nonostante le sue sollecitazioni contrarie, il che era «inconcepibile»(71). Situazione destinata, peraltro, a migliorare. Nella prima metà degli anni Trenta, rivista la tariffa daziaria, l’addizionale cominciò a fruttare più d’un milione l’anno, contro le 8-900.000 lire del decennio precedente, e anche l’estimo poté sopportare un incremento di pressione fiscale. Già nel 1835 il preventivo annuale si presentava «meno rattristante», anche se il risultato s’era ottenuto «a costo della perdita di un capitale proprio del comune», cioè con l’ennesima vendita di titoli(72). Un’istanza presentata dalla congregazione municipale nel 1834 per ottenere un secondo sussidio vagò per un decennio sulle scrivanie di ogni ufficio, sino a che il Municipio non si decise nel 1843 a revocarla, atteso anche il netto miglioramento delle proprie condizioni finanziarie, dovuto alla congiuntura economica, unita a una «ben regolata amministrazione», rivendicata, con pieno diritto, dal podestà Correr(73).
Nelle fasi iniziali dei moti quarantotteschi la congregazione municipale veneziana sembrava destinata a un coinvolgimento diretto e a un ruolo di primo piano nella rivoluzione. Il forte spirito municipale della città, l’autorità indiscussa del conte Correr, la sua popolarità e il prestigio di cui godeva ne facevano un punto di riferimento per tutti. A Daniele Manin stesso, che intendeva muoversi nell’ambito della legalità, il Comune appariva «l’organo più adatto a funzione mediatrice ed equilibratrice fra le forze insurrezionali […] e le autorità austriache»(74). Evidente, poi, che il governatore avrebbe ceduto con molta maggior facilità i poteri alla congregazione municipale, che non ai rivoltosi. In questa cornice s’inseriscono la concessione della guardia civica, che all’ombra del Comune mosse i primi passi, e il compito affidato al podestà Correr di annunciare solennemente la patente sovrana sulla costituzione il 18 di marzo. Ma l’azione insurrezionale del ’22, con la rivolta degli arsenalotti capeggiati da Manin, estrometteva subito il Municipio dalla rivoluzione. Mentre la città si sollevava, Correr stava insediando una consulta municipale straordinaria, senza poteri attivi, che nasceva inefficace, travolta dagli eventi. La guardia civica non dipendeva più da Ca’ Farsetti: in pochi giorni «ubbidisce ad altri ordini e segue altri impulsi»(75).
A differenza, quindi, di quasi tutte le altre città venete, in cui allo scoppio della rivoluzione podestà e assessori in carica avevano assunto la presidenza e la guida dei rispettivi governi provvisori o comitati dipartimentali, a Venezia la congregazione municipale si mantenne solidale con il governo democratico di Daniele Manin, rimanendo però del tutto indipendente da esso. Comunque il Municipio giocò, «tra quotidianità ed emergenza»(76), un ruolo fondamentale. Correr e gli assessori, rimasti al proprio posto, con l’appoggio del consiglio comunale, continuarono a condurre la complessa macchina comunale, a garantire il funzionamento delle infrastrutture cittadine e l’erogazione dei servizi pubblici secondo leggi e regolamenti austriaci. Unici mutamenti esteriori, il nome dell’istituzione, che da congregazione municipale divenne semplicemente municipalità, e il suo stemma, dal quale l’aquila bicipite fu immediatamente allontanata. Espletando dunque «umili e spesso oscure mansioni», il Comune diede il primo, fondamentale contributo a sostegno del governo provvisorio, assicurando un ambiente «di serenità e di calma» per il normale svolgersi della vita cittadina(77). Ruolo provvidenziale quando la situazione peggiorò, in seguito al blocco terrestre e al bombardamento austriaco della città: il Comune garantì allora, attraverso le commissioni annonarie, il rifornimento dei generi di sussistenza; contribuì a organizzare la macina dei grani con mulini a mano; provvide a trasferire attività essenziali in luoghi fuori dalla portata delle artiglierie; mobilitò, dopo lo scoppio del colera, tutta la propria struttura sanitaria e continuò sempre l’attività assistenziale(78).
Ma un secondo, altrettanto fondamentale sostegno diede il Comune alla rivoluzione: quello finanziario. Per difendere e mantenere la città, ch’era rimasta isolata dalla terraferma, occorrevano mensilmente al governo provvisorio 3 milioni di lire, a fronte dei quali l’erario riusciva a mettere insieme la cifra irrisoria di 200.000 lire. Le principali uscite erano destinate alle truppe di terra e agli armamenti, alle paghe di un «grandissimo numero» d’operai dell’Arsenale che, qualora licenziati, difficilmente avrebbero trovato di che mantenere le famiglie, per la manutenzione e il miglioramento dei forti lagunari, per l’amministrazione civile, per gli stipendi degli impiegati, in gran parte occupati in nuove funzioni e comunque non licenziabili. Le entrate, per lo più dazi e imposte su sale, tabacco e carta bollata, andavano inaridendosi giorno dopo giorno per la stagnazione economica seguita alla rivoluzione. Altre fonti di finanziamento ipotizzabili erano di natura fiscale, ma avrebbero richiesto «tempo e spazio», e il governo non aveva «né l’uno, né l’altro». L’esito del prestito nazionale italiano lasciava poche speranze. Perciò il governo fu costretto a far massiccio ricorso al debito pubblico e trovò nel Comune l’indispensabile alleato e sostenitore(79).
In un primo momento il Comune si era fatto semplice garante della solvibilità del Monte di pietà cittadino, nonché della Cassa di risparmio, che avevano ottenuto un’anticipazione di 630.000 lire per fronteggiare la corsa ai ritiri dei depositi. A questa garanzia, approvata dal consiglio comunale il 1° aprile 1848, ne seguiva una seconda il 24 luglio, per un altro milione e mezzo di lire sui buoni che la Banca di Venezia, di nuova istituzione, si accingeva a emettere per sovvenzionare il governo provvisorio. Nei mesi successivi il Comune da semplice garante diveniva sostenitore attivo della politica finanziaria del governo: nella seduta consiliare del 6 novembre, dopo aver approvato un’ulteriore garanzia su un prestito forzoso di 5 milioni di lire, si votava un’emissione di carta moneta (moneta del Comune di Venezia) per 12 milioni, che il Comune anticipava sul gettito di una sovrimposta prediale straordinaria ventennale, gettata dallo stesso governo e ceduta al Comune. E in seguito le emissioni continuarono, per importi altrettanto impegnativi (altri 6 milioni per una seconda, analoga prediale e oltre 3 milioni contro cessione di partite di sali e tabacco esistenti nei magazzini), fin quasi al momento della resa.
Fu un sostegno fondamentale che, in un momento di scossoni politici e di naturale incertezza sul futuro istituzionale, solo il Comune poteva offrire, in quanto, come autonoma persona giuridica, sarebbe sopravvissuto ad ogni rivolgimento. Perciò, osservava il governo provvisorio, la carta moneta «non viene emessa dal Governo, sulla cui stabilità agli speculatori sarebbe lecito mettere dubbio, bensì dal Comune, che non può perire. Il Governo ha indubbiamente il diritto di gettare un’imposta e di venderne il prodotto, il Comune, anticipandola, l’ha legittimamente acquistata ed è responsabile verso i terzi possessori della carta pel suo integrale valore»(80). A quarant’anni dalla nascita il Comune era diventato, insomma, nel diritto positivo, ma anche nelle convinzioni individuali, un ente necessario.
Le garanzie e l’emissione di carta moneta per cifre rilevanti (complessivamente circa 30 milioni di lire, dieci volte il bilancio annuale, comprensivo delle partite di giro, del Municipio) non erano destinate, naturalmente, a gravare sul solo Comune. Era «fuor di dubbio», infatti, come affermò anche il delegato Avesani nella tornata del 6 novembre, che, qualunque fosse stato l’esito della rivoluzione, il debito pubblico sarebbe stato portato in buona parte a carico dello Stato, rendendone indenne il Comune(81). Tuttavia il declinante entusiasmo con cui il consiglio comunale assumeva questi ripetuti impegni rivela non solo la diffusa percezione della vicina sconfitta politica, ma anche la generale apprensione per le inevitabili ripercussioni patrimoniali che ne sarebbero conseguite. Al rientro degli austriaci, il 27 agosto 1849, il Comune venne a trovarsi infatti in una condizione finanziaria tragica, ereditando, oltre agli oneri delle garanzie e delle emissioni monetarie, i pagamenti lasciati in sospeso del governo provvisorio, nonché gli oneri delle requisizioni, degli indennizzi e dei danneggiamenti(82).
È stata giustamente fatta rilevare un’evidente disparità dell’atteggiamento mantenuto dall’Austria, al rientro in città, nei confronti della congregazione municipale — verso la quale non venne emessa alcuna sanzione e che fu anzi reintegrata nei suoi poteri con la tacita approvazione del rinnovo degli assessori scaduti nel 1848 — rispetto al trattamento riservato al consiglio comunale, il cui periodico rinnovo per un terzo dei seggi venne dapprima invalidato e poi ammesso solo parzialmente, escludendo cinque nuovi consiglieri ritenuti troppo coinvolti nell’avventura rivoluzionaria. La ragione di tali comportamenti sarebbe da individuare nella considerazione in cui venne tenuta la «saggia moderazione» del podestà e degli assessori, che avevano garantito «la continuità della vita cittadina» e gestito la difficile transizione, rispetto alla sollecitudine con la quale il consiglio comunale aveva offerto il proprio sostegno alle richieste di Manin, pur nel formale, rigoroso rispetto dei regolamenti austriaci(83). Una valutazione condivisibile, anche se andrebbe, forse, maggiormente valutato il ruolo della congregazione municipale, che aveva sottoposto al consiglio comunale e caldeggiato tutte le iniziative in favore della rivoluzione democratica.
Il ritorno dell’Austria nelle terre sollevate aprì un lungo periodo di repressione e di conflitti, segnato dall’occupazione militare, dall’instaurazione di uno Stato di polizia, dall’incremento straordinario della pressione fiscale. Anche il rapporto tra governo e possidenti mutò radicalmente, così come l’atteggiamento di quest’ultimi nei confronti delle cariche locali. Se ne accennava in apertura: prima della rivoluzione accettare un posto nei Municipi o nelle congregazioni e partecipare all’amministrazione della cosa pubblica in sede locale non aveva significato necessariamente coinvolgimento e adesione alla politica governativa, infatti sostenitori e oppositori dell’Austria sedettero in egual misura su quegli scranni. Dopo il ’48 quelle stesse cariche divennero per lo più appannaggio di austriacanti convinti, oppure di quanti intendevano farne strumento di lotta politica contro il regime straniero. Le vicende del Comune di Venezia non fanno eccezione rispetto a questo quadro generale.
Chi sfogli le carte d’archivio dei primi anni della nuova dominazione austriaca trae netta la sensazione che l’esame cui venivano sottoposti quanti erano chiamati alle cariche municipali si facesse quasi esclusivamente guardando al comportamento mantenuto di fronte alla rivoluzione. Così furono giudicati positivamente Pierluigi Bembo, che in quei mesi aveva «osservato un contegno politico all’intutto scevro da censura»; Domenico Giustinian Recanati e Pier Girolamo Venier, che avevano visto «con dispiacere le vicende cui soggiacque questa città»(84); e anche a Pietro Sailer venne un merito dal non aver accettato «incarichi dal Governo intruso»(85). Si respirava, insomma, un’aria diversa. Le opinioni politiche dei candidati che la luogotenenza andava a controllare non si misuravano più su un generico attaccamento all’Austria, come negli anni della Restaurazione, ma avevano ora un riferimento ben preciso. Ancora nel 1857 Alessandro Marcello poté divenire podestà, essendo giudicato uomo moderato e scevro da «esorbitanze» politiche, ma nel relativo fascicolo, fra gli atti preparatori del provvedimento di nomina, è posta in grande evidenza una vecchia nota informativa del 1851 che lo definiva «pericoloso individuo scioccamente ambizioso» e «uno dei primi attori nel teatro della veneta rivoluzione»(86).
Il primo scontro tra amministrazione comunale e luogotenenza, come in parte abbiamo anticipato, riguardò il rinnovo di un terzo dei consiglieri comunali che avevano compiuto il triennio 1846-1848 e che, nella seduta consiliare del 21 dicembre 1848, erano stati, come da regolamento, sostituiti da altri venti individui per il triennio successivo, con regolare approvazione della regia delegazione. Al ritorno dell’Austria tali nomine vennero immediatamente invalidate e fu fatto riconvocare il consiglio, nella composizione che presentava il 22 marzo 1848, per il giorno 26 novembre 1849, affinché procedesse a una nuova nomina. Ma la seduta andò deserta per mancanza di numero legale — si presentarono, e non fu certo un caso, quindici consiglieri, cinque per ciascuna serie annuale — e iniziò un braccio di ferro di alcuni mesi, finché nel febbraio 1850 venne sanata la nomina di quindici consiglieri, escludendo i cinque «ch’erano ritenuti direttamente coinvolti nella politica rivoluzionaria e per i quali venne confermato il veto»(87).
Ancora pochi mesi e s’affacciava il problema della sostituzione del podestà Correr, il cui mandato triennale sarebbe scaduto nel settembre 1850. La terna, votata nel consiglio comunale del 6 maggio, comprendeva ancora Correr, assieme ad Andrea Giovanelli e Nicolò Priuli, ma tutti manifestavano un risoluto diniego ad accettare la carica. Priuli, un ex patrizio ch’era stato assessore nel 1828 e aveva in seguito ricoperto cariche minori, e che abbiamo incontrato già nel 1838 ternato per podestà, rinunciava con una lettera al delegato, tanto accorata sulle sorti della città, quanto radicale nel dissenso politico ch’esprimeva. Scriveva Priuli d’essersi determinato, dopo la rivoluzione, a «condurre vita privata», ma che comunque provava «l’ingrato convincimento» di non essere in grado di reggere «una città desolatamente sfasciata nella sua comunale amministrazione, depauperata dei principali suoi redditi ed esausta di ogni fonte di attività» e avvertiva, altresì, il «fatale presentimento» che tutto ciò sarebbe durato ancora per anni, «non potendo ravvisare raggio di speranza» in una città «spogliata» nei suoi commerci, «affievolita» nei lavori dell’Arsenale, «danneggiata e avvilita» dalla riorganizzazione degli uffici governativi. Opinioni certo diffuse in città, e che un’accorta circolazione della lettera, che la polizia tentò invano di contrastare, contribuì a far ancora di più conoscere(88). Correr subì forti pressioni affinché continuasse a reggere il Comune e resistette nel suo diniego quanto poté, ma alla fine, sia pur a malincuore, non volle abbandonare il Municipio «sino a che provveduto non fosse convenientemente» con la sua sostituzione(89). Di lì a pochi giorni una disposizione generale bloccava il rinnovo di tutte le cariche municipali e si sarebbe rientrati nella normalità solo nel 1857(90). Ignorando quest’ordine, nel 1852 la congregazione municipale di Venezia avrebbe tentato, forse su sollecitazione di Correr, che malvolentieri continuava il proprio ufficio, di inserire all’ordine del giorno del consiglio comunale la discussione della terna per il nuovo podestà, ma ciò le venne impedito(91). Nel 1857 venne infine ripristinato il regolare andamento dei Municipi e Correr poté essere sollevato e sostituito da Alessandro Marcello. Assessore dal 1836 al 1844, Marcello aveva partecipato alla rivoluzione come intendente all’armata del governo provvisorio, anche se ora veniva ritenuto un moderato e gli austriaci accettarono di nominarlo vincendo, come s’è visto, qualche riserva(92).
Non diversamente da quanto accadeva nelle altre città venete, anche nel Municipio veneziano i momenti di maggiore tensione si ebbero nel 1859 e nel 1866, quando campagne militari e trattative diplomatiche alimentavano le speranze di veder cadere la dominazione straniera. All’aprirsi delle ostilità per la seconda guerra d’indipendenza, mentre in città «venivano concentrandosi ingenti forze militari» e si cominciò quasi «a vivere in stato d’assedio»(93), iniziò un progressivo allontanamento dalle cariche, che continuò nei mesi seguenti, dopo la delusione di Villafranca e la pace di Zurigo. Marcello rassegnò le dimissioni il 28 maggio: invitato in un primo momento a rimanere al suo posto fino alla nomina del sostituto, gli fu ben presto ingiunto, il 20 giugno, di consegnare il Municipio all’assessore anziano, Marc’Antonio Gaspari, di cui era nota la fedeltà all’Austria(94). Durante l’estate il consiglio comunale si riunì tre volte, senza riuscire a votare una terna, sicché il delegato rinviò le riunioni a fine novembre. In dicembre finalmente venne una proposta, ma i tre candidati negarono la disponibilità e occorsero ancora parecchie sedute per giungere alla proposta definitiva, il 12 aprile 1860. Frattanto, nel dicembre 1859 si erano dimessi, assieme a sette consiglieri comunali, gli assessori Daulo Foscolo e Francesco Morosini. Il primo era notoriamente un oppositore politico: già magistrato d’appello, non era stato richiamato in servizio dopo la risistemazione degli uffici seguita al 1848, proprio a causa del comportamento tenuto durante la rivoluzione. Luigi Visinoni e Antonio Fornoni, assessori eletti in quel torno di tempo per coprire altri due posti vacanti, non accettavano. Un altro assessore, Giovanni Conti, nominato in ottobre deputato provinciale, reclamava il diritto a insediarsi sul nuovo seggio, ma gli veniva negato, perché servivano almeno due componenti della congregazione municipale per firmare mandati e contratti e con l’allontanamento di Conti non sarebbe rimasto a Ca’ Farsetti che il solo Gaspari. L’imbarazzo della luogotenenza cresceva di giorno in giorno, mentre nelle stanze del Municipio e nell’aula del consiglio comunale l’inquietudine lievitava, assieme a uno spirito d’opposizione che cercava sempre nuovi spazi e nuove occasioni per manifestarsi.
Con la primavera del 1860 e la nomina del nuovo podestà la situazione fu gradualmente normalizzata. La terna, che finalmente il consiglio aveva votato, comprendeva tre personaggi non sgraditi agli austriaci, Pierluigi Bembo, Marc’Antonio Gaspari e Giovanni Conti. Il sovrano nominò il primo, ex patrizio, assessore dal 1850 al 1857, uomo giunto da poco ai vertici della burocrazia asburgica, avendo ricevuto l’importante incarico di consigliere di luogotenenza. Bembo seppe agire con fermezza ed equilibrio negli ultimi anni della dominazione e nel preparare l’annessione della città al Regno d’Italia. Va ascritto a suo massimo merito l’aver compreso il ruolo fondamentale che ormai stavano per assumere l’opinione pubblica e i mezzi d’informazione. È sua, infatti, la decisione di far stampare nella «Gazzetta Uffiziale di Venezia» una sintesi dei verbali delle sedute del consiglio comunale, nell’intento di diradare «il mistero in che si avvilupparono in addietro le civiche amministrazioni»(95), cui s’aggiunsero, al termine di ciascuno dei due trienni in cui fu podestà, anche due ponderose relazioni sull’andamento del Municipio, pubblicazioni pionieristiche e autentici capostipiti nel loro genere(96). Che il suo propugnatore ne fosse o meno consapevole, l’iniziativa di Bembo convogliava verso il consiglio comunale l’attenzione della città e la sala consiliare sarebbe ben presto diventata l’agone di forti passioni politiche.
Nel 1866, con l’avvicinarsi della guerra e la quasi certezza che le speranze degli italiani non sarebbero andate deluse come a Villafranca, si riproposero a Venezia, e altrove, i conflitti di sette anni prima. In febbraio, dopo un alterco con il luogotenente Toggenburg per alcune divergenze sui finanziamenti comunali agli spettacoli(97), Bembo rassegnò le dimissioni da podestà e tutti gli assessori lo imitarono. Il Municipio venne ancora affidato al fedele Marc’Antonio Gaspari. Il consiglio comunale avrebbe dovuto provvedere subito alla sostituzione dei dimissionari, ma temendo evidentemente le reazioni che ne sarebbero potute scaturire, il delegato suggerì di ritardarne il più possibile la convocazione(98). L’11 aprile il consiglio venne finalmente riunito, e fu una seduta tesissima. Le bozze di stampa del resoconto, di cui la luogotenenza impedì la pubblicazione, testimoniano la ferma determinazione dei consiglieri nel presentare alle autorità governative un crescendo di rivendicazioni. Venne dapprima letta la lettera di dimissioni di Bembo e il consigliere Marco Bisacco presentò una mozione per approvare «pienamente la condotta» di podestà e assessori. Il delegato tentava, debolmente, di opporsi: l’argomento non figurava all’ordine del giorno, né era quella la sede per «esaminare quello che fu fatto». Ma Bisacco insorgeva, rivendicando «il diritto del consiglio d’approvare o disapprovare l’operato dei proprii amministratori», e la mozione, sostenuta anche da altri, fu messa ai voti e accolta. Un affronto aperto a Toggenburg.
Si passò poi alla proposta per il nuovo podestà. Uscirono molte schede per Bembo. Conoscendo la sua irremovibile decisione a rinunciare, e le circostanze in cui era maturata, Venceslao Martinengo propose di non votarlo «per non esporlo a nuovi attriti». La ballottazione ebbe invece luogo e Bembo, in pieno spregio alle autorità austriache, riuscì primo nella terna.
Di seguito si discusse sugli assessori. Parlò uno di loro, Giacomo Rizzo, in veste di portavoce. Dichiarò che in un primo tempo egli e i suoi colleghi s’erano accordati per presentare al consiglio comunale le proprie dimissioni, ch’erano state cagionate dalle «differenze sorte fra l’autorità governativa ed il Municipio circa l’impiego d’una parte della tassa […] sulla legna e sul carbone». Ma che «un grave, deplorabile incidente» — certo lo scontro fra Bembo e Toggenburg — li aveva indotti a precipitare la decisione, anticipando le rinunce alla luogotenenza, che le aveva accolte. Sulla competenza ad accettare tali dimissioni, che molti consiglieri rivendicavano al consiglio comunale stesso, mentre il delegato riteneva appartenesse alla luogotenenza, sorse allora un dibattito estenuante e virulento. Le norme in materia lasciavano facilmente spazio alle opposte interpretazioni. Secondo i regolamenti del 1816, infatti, gli assessori erano «nominati dal consiglio, salva l’approvazione del Governo»(99), mentre per il caso di rinuncia preventiva o di dimissioni non era prevista alcuna procedura particolare. Nei decenni precedenti s’era seguita una prassi oscillante. La discussione che s’era scatenata sembra dunque abbastanza pretestuosa e rivelatrice di uno stato di tensione aperta ed estrema. Si giunse ad una mozione, contro la quale il delegato insorse, dichiarandone l’inammissibilità, che accettava la rinuncia degli assessori e contestualmente ribadiva la nullità del provvedimento del luogotenente. Situazione confusa e di stallo, alla quale si pose fine con un documento interlocutorio: trattandosi di un conflitto di competenza, il consiglio comunale sospendeva ogni decisione, ma rivendicava con forza le proprie prerogative e invocava una pronuncia del Ministero di Stato(100).
Improntato al massimo pragmatismo, il parere viennese si guardò bene dall’entrare nel merito di una questione che giudicava irrilevante. Ordinò che il consiglio votasse sulle dimissioni degli assessori; nel caso le avesse respinte e gli interessati avessero ritenuto di continuare nel loro mandato, avrebbero potuto farlo, dovendo solo «annunciarsi al luogotenente»(101). Naturalmente le dimissioni furono accolte e nella seduta del 29 maggio il consiglio comunale «quasi con un senso di pubblica sfida» nominò assessori «alcuni testimoni del ’48 unitamente ad alcuni esponenti di quella borghesia che scalpitava da tempo ormai, per poter rilanciare l’economia cittadina»(102). Il luogotenente Toggenburg accettò la sfida e il 17 giugno bocciò le nomine di quegli «individui» che il delegato gli aveva dipinto quali «più o meno avversi al governo imperiale»(103).
Ma da aprile, epoca di quella contrastata seduta, quanto accadeva a Venezia rifletteva la situazione diplomatica e militare europea. Perciò alla fine di agosto i sei nuovi assessori s’insediarono comunque a Ca’ Farsetti, rivendicando con un gesto clamoroso la legittimità della loro nomina e «il diritto di rappresentare la città nella nuova fase politica che stava per aprirsi»(104). Per circa due mesi la città visse in una condizione amministrativa assai singolare, con due Municipi, che convivevano nello stesso ufficio e si servivano delle medesime strutture burocratiche, ma l’uno, filoaustriaco, si limitava ormai a curare l’ordinario andamento degli affari e rimaneva rivolto irreversibilmente al passato, mentre l’altro, filoitaliano, consapevole che la propria autorità sorgeva «allo sparire del Governo che ha impedito l’esecuzione della volontà del comunale consiglio»(105), s’occupava dei nuovi problemi d’ordine pubblico e delle più urgenti questioni sociali, apprestandosi a condurre la città verso l’unificazione nazionale.
1. Sulla struttura del Municipio e sulle competenze del Comune, e più in generale su tutti i temi affrontati in questo contributo, rinvio al mio Governo austriaco e notabili sudditi. Congregazioni e municipi nel Veneto della Restaurazione (1816-1848), Venezia 1997. Una tavola diacronica sugli assetti dell’amministrazione comunale veneziana si trova in Sergio Barizza, Il Comune di Venezia 1806-1946. L’istituzione, il territorio, guida-inventario dell’Archivio Municipale, Venezia 19872, pp. 30-33.
2. Decreto del commissario militare Oliviero Wallis, in Nuova raccolta di tutte le carte pubbliche, leggi, e proclami stampate, ed esposte ne’ luoghi più frequentati di Venezia e suoi dipartimenti dopo il felice ingresso dell’armi austriache di s.m. imperatore, e re nel veneto Stato, I-XIII, Venezia 1798-1799: III, pp. 3-35.
3. V. ad esempio il decreto 18 ottobre 1798 sulla separazione degli «oggetti governativi» da quelli «economici», in A.S.V., Congregazione nobile delegata, b. 1.
4. Nuova raccolta di tutte le carte pubbliche, III, pp. 265-270.
5. Giandomenico Romanelli, Venezia Ottocento. L’architettura, l’urbanistica, Venezia 19882, p. 29.
6. V. ad esempio Nuova raccolta di tutte le carte pubbliche, VI, pp. 111-112, 9 giugno 1798 (escavo rio degli Assassini); VIII, pp. 60-61, 4 agosto 1798 («riattamento» della fondamenta di Castello); IX, pp. 67-68, 10 settembre 1798 (escavo dei rii del Piombo, dei Saoneri e di Ca’ Pesaro).
7. Copia del decreto in Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1806, Podestà Diverse, 1.
8. «Bollettino delle leggi del Regno d’Italia», 1807, pt. III, pp. 1204-1206.
9. Ibid., 1806, pt. II, pp. 564-566.
10. Ettore Rotelli, Gli ordinamenti locali della Lombardia preunitaria (1755-1859), «Archivio Storico Lombardo», 100, 1974, pp. 196-199 (pp. 171-234).
11. Carlo Zaghi, L’Italia di Napoleone dalla Cisalpina al Regno, Torino 1986 (Storia d’Italia, diretta da Giuseppe Galasso, XVIII/1), pp. 370-374. Contro la legge comunale napoleonica del 1805 eserciterà un’aspra critica anche Carlo Cattaneo nella nota polemica del 1864 sulla rivista «Il Diritto».
12. «Bollettino delle leggi del Regno d’Italia», 1807, pt. I, pp. 9-12.
13. G. Romanelli, Venezia Ottocento, pp. 46-47. Sui lavori della commissione all’ornato v. anche Giorgio Bellavitis-Giandomenico Romanelli, Venezia, Roma-Bari 1985, pp. 165-167.
14. G. Bellavitis-G. Romanelli, Venezia, p. 159.
15. Ibid., p. 168.
16. «Bollettino delle leggi del Regno d’Italia», 1807, pt. III, pp. 1188-1203. Per un esame di questo provvedimento e in generale per tutte le questioni che si stanno affrontando, si rinvia ancora a G. Romanelli, Venezia Ottocento.
17. Il decreto creava anche il Dipartimento dell’Adriatico, ossia la Provincia di Venezia; riorganizzava le parrocchie cittadine; istituiva il portofranco nell’isola di S. Giorgio; prendeva, infine, altri provvedimenti per il Banco giro e la Zecca, per i dazi su vetri, zucchero e sapone, per la regolazione del Brenta.
18. Marco Meriggi, Amministrazione e classi sociali nel Lombardo-Veneto (1814-1848), Bologna 1983, pp. 115 e 218-219. Sulla carriera di Renier, v. anche S. Barizza, Il Comune di Venezia 1806-1946, p. 69.
19. Gradenigo era nato nel 1754, Renier nel 1768.
20. S. Barizza, Il Comune di Venezia 1806-1946, p. 11. Per le raffigurazioni dei due stemmi v. Giorgio Aldrighetti-Mario De Biasi, Il gonfalone di San Marco. Analisi storico-araldica dello stemma, gonfalone, sigillo e bandiera della Città di Venezia, Venezia 1998, rispettivamente pp. 291 e 285.
21. S. Barizza, Il Comune di Venezia 1806-1946, p. 17 n. 6.
22. Protocollo governativo 28 agosto 1816, in A.S.V., Governo, b. 744, 1816 XXXVII/138. V. anche la documentazione contenuta ivi, Presidio di Governo, b. 150, 1815-19 XIV 4/20, e in Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1816, Amministrazione I.
23. Sul rifiuto delle cariche cf. E. Tonetti, Governo austriaco, pp. 43-60.
24. Inzaghi a Saurau, 14 gennaio 1825, in A.S.V., Presidio di Governo, Geheim, b. 36, 1831-35 M 1/1.
25. E. Tonetti, Governo austriaco, pp. 187-199 e 204-214.
26. Nel 1808 sembrerebbe essere stato indicato per un posto di savio, ma non risulta da altre fonti che la nomina sia effettivamente avvenuta. S. Barizza, Il Comune di Venezia 1806-1946, p. 43.
27. «Caratteristica» degli individui proposti alle congregazioni provinciali venete (1815), in Wien, Haus-, Hof- und Staatsarchiv, Vertrauliche Akten, b. 51; A.S.V., Governo, b. 1511, 1819 XXXVIII/2; S. Barizza, Il Comune di Venezia 1806-1946, p. 70.
28. S. Barizza, Il Comune di Venezia 1806-1946, p. 70; tabella della congregazione municipale senza data (ma del marzo 1821), in A.S.V., Governo, b. 1753, 1821 X 2/20.
29. Il governo alla cancelleria aulica riunita, 15 giugno 1821; Saurau al governo, 16 agosto 1821, in A.S.V., Governo, b. 1753, 1821 X 2/20. Nella terna proposta dal consiglio comunale figuravano, oltre a Calbo Crotta, Antonio Giovanelli e Nicolò Vendramin-Calergi.
30. Kübeck al governatore, 14 maggio 1821, traduzione d’ufficio dal tedesco, ivi, Presidio di Governo, Geheim, b. 36, 1831-35 M 1/1.
31. Kübeck al governatore, 28 aprile 1824, traduzione d’ufficio dal tedesco, ibid.
32. Il governo alla cancelleria aulica riunita, 14 maggio 1824, ivi, Governo, b. 2403, 1824 IX 4/12.
33. Inzaghi a Saurau, 26 maggio 1824 (orig. lingua tedesca), ivi, Presidio di Governo, Geheim, b. 36, 1831-35 M 1/1.
34. Saurau a Inzaghi, 9 ottobre 1824, ibid.
35. Inzaghi a Saurau, 14 gennaio 1825, ibid. Inzaghi addossava inoltre ogni responsabilità per le inefficienze burocratiche rimproverategli alla polizia che, «non sempre ben servita dai suoi confidenti», continuava ad inviargli informazioni «troppo spinte ed in parte meno vere».
36. «Voto» Renier per la seduta dell’11 febbraio 1825 e altri documenti sulla vicenda, ivi, Governo, b. 2885, 1825-29 X 3/2.
37. Tabella della congregazione municipale, senza data (ma dell’aprile 1827), ibid.
38. L’interpretazione è stata avanzata in una corrispondenza privata da Lodovico Carcano Volpe, cognato di Barbaro, cf. E. Tonetti, Governo austriaco, p. 142.
39. Michele Gottardi, L’Austria a Venezia. Società e istituzioni nella prima dominazione austriaca (1798-1806), Milano 1993, p. 192.
40. Aggiunte marginali di Thurn alla tabella citata; la direzione generale di polizia al presidio, 29 aprile 1827, in A.S.V., Presidio di Governo, b. 494, 1825-29 X 2/7.
41. «Voto» Renier per la seduta dell’11 maggio 1827; il governo alla cancelleria aulica riunita, 12 maggio 1827, ivi, Governo, b. 2885, 1825-29 X 3/2; Francesco I a Spaur, 30 ottobre 1827 (orig. lingua tedesca), ivi, Presidio di Governo, Geheim, b. 36, 1831-35 M 1/1. Secondo una prassi spesso, anche se non sempre, applicata, venivano esclusi dalle cariche coloro che erano appartenuti alla massoneria, personaggi che l’imperatore riteneva per ciò stesso nemici dell’ordine costituito e verso i quali nutriva una forte avversione. E. Tonetti, Governo austriaco, pp. 200-204.
42. «Voto» Renier per la seduta del 30 luglio 1830, in A.S.V., Governo, b. 3731, 1830-34 V 3/1.
43. Tabella della congregazione municipale, senza data (ma dell’agosto-settembre 1830), ibid. Su Dubois v. anche alcuni cenni in Adolfo Bernardello, Burocrazia, borghesia e contadini nel Veneto austriaco, «Studi Storici», 16, 1976, nr. 4, p. 130 (pp. 127-152).
44. Marzani a Spaur, 27 settembre 1830; Amberg, direttore generale di polizia, a Spaur, 15 settembre 1830 (orig. lingua tedesca), in A.S.V., Presidio di Governo, Geheim, b. 36, 1831-35 M 1/1.
45. Il governo alla cancelleria aulica riunita, 12 ottobre 1830, ivi, Governo, b. 3731, 1830-34 V 3/1.
46. Spaur al supremo cancelliere Mittrowsky, 14 ottobre 1830 (orig. lingua tedesca), ivi, Presidio di Governo, Geheim, b. 36, 1831-35 M 1/1.
47. Mittrowsky a Spaur, 26 marzo 1831 (orig. lingua tedesca), ibid.
48. Sedlnitzky, presidente del dicastero aulico supremo di polizia e censura, a Spaur, 30 agosto 1831 (orig. lingua tedesca); Spaur a Sedlnitzky, 6 marzo 1833 (orig. lingua tedesca), ibid., M 1/3.
49. Thurn al presidio, 3 agosto 1833, ivi, Governo, b. 3731, 1830-34 V 3/1; Cattanei a Spaur, 26 agosto 1833 (orig. lingua tedesca), ivi, Presidio di Governo, Geheim, b. 36, 1831-35 M 1/1.
50. L’osservazione era stata espressa da Renier durante la discussione in governo per il rinnovo di un seggio alla congregazione centrale, per cui era stato ternato Manin; v. E. Tonetti, Governo austriaco, pp. 181-182. Accenna alle difficoltà economiche dei Manin in quegli anni anche Martina Frank, Virtù e fortuna. Il mecenatismo e le committenze artistiche della famiglia Manin tra Friuli e Venezia nel XVII e XVIII secolo, Venezia 1996, p. 182.
51. Il governo alla cancelleria aulica riunita, 22 agosto 1833, in A.S.V., Governo, b. 3731, 1830-34 V 3/1; Spaur a Mittrowsky, 27 agosto 1833 (orig. lingua tedesca), ivi, Presidio di Governo, Geheim, b. 36, 1831-35 M 1/1.
52. S. Barizza, Il Comune di Venezia 1806-1946, p. 72.
53. Pascotini, vicedelegato di Venezia, al governo, 6 maggio 1837, in A.S.V., Governo, b. 5327, 1835-39 XLVII 2/1; la direzione generale di polizia al presidio, 3 giugno 1837; Spaur alla cancelleria aulica riunita, 5 giugno 1837 (orig. lingua tedesca), ivi, Presidio di Governo, b. 922, 1835-39 XI 5/2.
54. S. Barizza, Il Comune di Venezia 1806-1946, p. 72.
55. Inzaghi a Spaur, 23 giugno 1838 (orig. lingua tedesca), in A.S.V., Presidio di Governo, b. 922, 1835-39 XI 5/2. V. anche ivi, Governo, b. 5327, 1835-39 XLVII 2/1.
56. Ivi, Governo, b. 6266, 1840-44 XXX 2/1.
57. S. Barizza, Il Comune di Venezia 1806-1946, p. 72.
58. Il governo alla cancelleria aulica riunita, 20 maggio 1844, in A.S.V., Governo, b. 6266, 1840-44 XXX 2/1.
59. Alcuni interessanti aspetti del rapporto di Correr con la città e le reazioni che se ne ebbero alla morte, nel 1871, sono descritti da Sergio Barizza, Tra quotidianità ed emergenza, introduzione a Il comune di Venezia e la rivoluzione del 1848-49. I verbali delle sedute del consiglio comunale, a cura di Id., Venezia 1991, pp. 10-12 (pp. 9-19).
60. Sui criteri d’utilizzo della fonte e per tutti i riferimenti generali e i confronti che si faranno con le altre città, cf. E. Tonetti, Governo austriaco, pp. 251-299. I consuntivi, redatti secondo uno schema uniforme a partire dal 1822, sono espressi in lire italiane fino al 1823 e in lire austriache dal 1824. Tutti i dati sono stati ricondotti alla lira austriaca e in tale unità di misura qui espressi (salvo il caso precisato alla nota seguente). I prospetti utilizzati stanno in Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Verbali del Consiglio Comunale, b. 1823-28 (anni 1822-1827); b. 1829-34 (anni 1828-1833); b. 1835-43 (anni 1834-1842); b. 1844-47 (anni 1844-1846).
61. Comune di Venezia, Rendiconto del quadriennio 1883-1886, a cura di Gustavo Boldrin, Venezia 1889, allegato 11, pp. XVIII-XXV. La fonte, controllata a campione, è risultata attendibile, tenendo presente che gli importi vi sono espressi in lire italiane.
62. Secondo la normativa austriaca in materia di bilancio la voce «illuminazione pubblica» era riferita alle sole spese di esercizio, mentre gli oneri d’impianto, manutenzione straordinaria, ampliamento e miglioramento della rete confluivano in un altro capitolo, «spese diverse straordinarie» (Carlo Stefani, Manuale per l’amministrazione dei comuni del Regno Lombardo-Veneto [...], II, Padova 1847, p. 70). Non è possibile stabilire se l’elaborazione del tardo Ottocento cui qui ci si riferisce abbia sempre seguito questo criterio. Tuttavia il riscontro con i bilanci originali autorizza a ritenere che l’uscita complessivamente indicata per l’illuminazione si riferisca nella quasi totalità alla spesa d’esercizio.
63. G. Romanelli, Venezia Ottocento, pp. 150-151.
64. Il governo al viceré Ranieri, 25 giugno 1836, in A.S.V., Governo, b. 5338, 1835-39 XLVII 8/19.
65. A rigore nel 13% delle entrate ordinarie è compreso anche un 2% circa rappresentato dalla quota spettante al Comune della tassa arti e commercio, sicché le entrate tributarie costituivano l’82% del bilancio attivo.
66. E. Tonetti, Governo austriaco, pp. 288-289.
67. Relazione della congregazione centrale sul bilancio preventivo 1834, 18 marzo 1834, in A.S.V., Governo, b. 3642, 1830-34 I 2/5.
68. Su tutte queste questioni rinvio ancora a E. Tonetti, Governo austriaco, pp. 294-295.
69. La congregazione provinciale al governo, 26 novembre 1816, in A.S.V., Governo, b. 740, 1816 XXXVII/4, prot. 41894.
70. Relazione della congregazione centrale sul bilancio preventivo 1829, 7 gennaio 1829, ibid., b. 2830, 1825-29 V 18/27.
71. Relazione della congregazione centrale sul bilancio preventivo 1831, 2 marzo 1831; Ranieri al governo, 12 aprile 1831, ibid., b. 3642, 1830-34 I 2/5.
72. La congregazione centrale al governo, 14 gennaio 1835; il governo a Ranieri, 12 febbraio 1835, ibid., b. 5200, 1835-39 XLIV 2/1.
73. Correr alla delegazione, 2 novembre 1843, in Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1840-1844, IX-4-6. La supplica del 28 luglio 1834 si conserva ibid., 1835-1839, IX-2-25. Merita un cenno anche l’opinione del delegato Thurn, il quale segnalò il 21 novembre 1843 al governo l’alto numero di «opere urgentissime» messe in cantiere dal Comune ed eseguite negli ultimi anni «con solidità ed eleganza e senza incontrar debiti». Gli replicava, però, la congregazione centrale nella seduta del 17 gennaio 1844, che avrebbe dipinto un quadro assai meno roseo, se invece di limitarsi a scorrere l’ultimo bilancio avesse guardato ai bisogni della città. A.S.V., Governo, b. 6260, 1840-44 XXVII 72/4.
74. Mario Brunetti, L’opera del Comune di Venezia nel 1848-’49, «Archivio Veneto», ser. V, 78, 1948, p. 21 (pp. 20-126).
75. Ibid., p. 29.
76. L’espressione è il titolo dell’introduzione di S. Barizza, nel citato Il comune di Venezia e la rivoluzione del 1848-49.
77. M. Brunetti, L’opera del Comune di Venezia, pp. 30-31.
78. Ibid., pp. 83-101.
79. La situazione finanziaria è dettagliatamente descritta nel rapporto del comitato di finanza del governo provvisorio al consiglio comunale del 3 novembre 1848, discusso nella seduta del successivo giorno 6, edito in Il comune di Venezia e la rivoluzione del 1848-49. I verbali delle sedute del consiglio comunale, a cura di Sergio Barizza, Venezia 1991, pp. 47-54; le espressioni citate sono a p. 48.
80. Ibid., p. 52.
81. Ibid., p. 41. Lo stesso concetto era ribadito nel rapporto citato, p. 52.
82. M. Brunetti, L’opera del Comune di Venezia, p. 67.
83. S. Barizza, Il Comune di Venezia 1806-1946, p. 18 n. 12.
84. La direzione centrale d’ordine pubblico alla luogotenenza, rispettivamente 31 marzo e 6 aprile 1850, in A.S.V., Presidenza di Luogotenenza, b. 81, 1849-51 XIII 4/1.
85. La direzione centrale d’ordine pubblico alla presidenza di luogotenenza, 11 luglio 1852, ibid., b. 227, 1852-56 IV 7/1.
86. La direzione centrale d’ordine pubblico al generale Gorzowsky, 10 agosto 1851, ibid., b. 407, 1857-61 VII 7/3.
87. S. Barizza, Tra quotidianità ed emergenza, p. 19; Id., Il Comune di Venezia 1806-1946, p. 20 n. 15.
88. Priuli al delegato, 21 maggio 1850, in A.S.V., Presidenza di Luogotenenza, b. 81, 1849-51 XIII 4/1.
89. Il delegato Fini alla presidenza di luogotenenza, 19 giugno 1850, ibid.
90. S. Barizza, Il Comune di Venezia 1806-1946, p. 20 n. 16.
91. La presidenza di luogotenenza alla delegazione, 3 dicembre 1852, in A.S.V., Presidenza di Luogotenenza, b. 227, 1852-56 IV 7/1.
92. Ibid., b. 407, 1857-61 VII 7/3.
93. S. Barizza, Il Comune di Venezia 1806-1946, p. 20 n. 17.
94. Ibid., e anche p. 36.
95. Pierluigi Bembo, Il Comune di Venezia nel triennio 1863, 1864, 1865. Relazione del conte P.B. podestà nel detto triennio, Venezia 1866, p. 10.
96. Si tratta del volume appena citato, che era stato preceduto da Id., Il comune di Venezia nel triennio 1860, 1861, 1862. Relazione del podestà, conte P.B., Venezia 1863.
97. Alvise Zorzi, Venezia austriaca 1798-1866, Roma-Bari 1985, pp. 138-139.
98. A.S.V., Presidenza di Luogotenenza, b. 586, 1862-66 IX 4/1.
99. Notificazione governativa 4 aprile 1816, sulla «attivazione di un nuovo sistema di amministrazione comunale», Collezione di leggi e regolamenti pubblicati dall’Imperial Regio Governo delle Provincie venete, Venezia [1815], pp. 179-240, art. 128.
100. Verbale della seduta del consiglio comunale, 11 aprile 1866, bozze di stampa, in A.S.V., Presidenza di Luogotenenza, b. 586, 1862-66 IX 4/1.
101. Toggenburg al delegato Piombazzi, 14 maggio 1866, ibid.
102. S. Barizza, Il Comune di Venezia 1806-1946, p. 12.
103. Piombazzi a Toggenburg, 15 giugno 1866, in A.S.V., Presidenza di Luogotenenza, b. 586, 1862-66 IX 4/1.
104. S. Barizza, Il Comune di Venezia 1806-1946, p. 12.
105. Ibid., p. 20 n. 24.