Il concetto di soft power si è ormai affermato tanto nella teoria delle relazioni internazionali quanto nella pratica del linguaggio politico quotidiano: fu coniato nel 1990 da Joseph Nye, professore statunitense d’ispirazione liberale, per indicare che la potenza di un attore internazionale non si compone solo dei più tradizionali aspetti materiali, come quelli rappresentati dalle risorse economiche e militari a sua disposizione, ma anche di quelli immateriali, legati per esempio alla cultura e agli ideali che questa incarna.
Letteralmente ‘potere morbido’, il soft power diventa capacità di saper spingere gli altri attori a tenere condotte conformi ai desideri di chi lo possiede, in virtù della forza attrattiva dei suoi valori, dei suoi modelli culturali e delle sue pratiche politiche, e senza il bisogno di impiegare né la forza né puntuali incentivi economici. In altre parole seduzione al posto di coercizione e ricompensa, o ancora influenza contro ‘bastoni e carote’. In questo senso il concetto fu riutilizzato da Nye, all’indomani del lancio della guerra al terrorismo globale nel 2001, come un esplicito monito rivolto ai suoi connazionali e all’allora amministrazione Bush. Il soft power di un soggetto, infatti, trae linfa vitale dalla legittimità delle sue azioni e per questo motivo il professore di Harvard poteva denunciare come la scelta di un corso di politica estera unilaterale da parte degli Stati Uniti – spesso in deroga al diritto internazionale e all’avallo delle organizzazioni multilaterali – avrebbe potuto dilapidare la credibilità, il favore e l’ammirazione accumulati dagli Stati Uniti, nel primo decennio post Guerra fredda, presso buona parte dell’opinione pubblica mondiale.