Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La filosofia seicentesca rielabora in differenti modi la concezione della sostanza che da Aristotele le giunge attraverso la scolastica medievale e moderna. Descartes propone una distinzione reale tra la sostanza pensante e quella estesa; Spinoza un’unica sostanza infinita di cui le cose finite non sono che modificazioni; Leibniz una sostanza individuale la cui essenza è l’attività; Locke infine fa della sostanza un’idea complessa che consiste in una collezione di qualità.
Aristotele: forma e sostrato
La filosofia seicentesca presa nel suo insieme non può essere compresa se non in relazione alla rottura con la problematica aristotelica che la nascita di alcune scienze, l’astronomia e la fisica in particolare, ha provocato. Tuttavia, l’accentuazione del tema della rottura con la tradizione aristotelico-scolastica non deve far dimenticare che almeno per quanto riguarda la “filosofia prima” può essere esibita una genealogia del campo di opposizioni costituito dalle grandi filosofie seicentesche, la cui posta in gioco è proprio l’utilizzo (all’interno, certo, di un quadro teorico ogni volta differente) dell’eredità dello Stagirita. Ciò è vero in particolare per il concetto di sostanza.
Il termine latino substantia come del resto il termine subjectum è un calco del termine greco hypokeimenon, “ciò che sta sotto”. Tuttavia nella tradizione filosofica il latino substantia è stato usato piuttosto come traduzione del termine greco ousia, con il quale non intrattiene legami glottologici. Il termine ousia deriva infatti da ousa, participio presente femminile del verbo essere. L’uso filosofico del termine ha inizio con Platone per designare l’essere delle Idee, tuttavia solo in Aristotele troviamo una vera e propria teoria della sostanza. Nel libro Z della Metafisica egli definisce la sostanza secondo due sensi fondamentali: come sostrato (hypokeimenon) e come essenza (to ti en einai; letteralmente: “ciò che l’essere era”), prendendo al contempo le distanze dai pitagorici e da Platone che consideravano sostanza l’universale (i numeri e le idee). Per quanto riguarda il primo senso, quello di sostrato è definito come “ciò di cui sono predicati le altre cose, mentre esso non è mai predicato di altro”. In questo senso il sostrato può essere identificato con la materia, la forma e il sinolo; essendo però caratteristiche fondamentali della sostanza anche la separabilità e l’individualità, Aristotele ritiene che “la forma e il sinolo [siano] sostanza più autenticamente della materia”. Per quanto riguarda il secondo senso, quello di essenza, Aristotele identifica la sostanza con ciò che è enunciato dalla definizione per genere prossimo e differenza specifica: in questo senso essa non è altro che la forma.
Appare chiaro dunque come la concezione aristotelica della sostanza risulti fondata sul concetto di forma intesa come struttura organizzatrice e individualizzatrice della materia, che la definizione coglie nella sua essenza sostanziale (per esempio, l’essenza sostanziale dell’uomo è di essere ragionevole e non di essere musico). I generi e le specie, che Platone aveva considerato le sole vere sostanze, non sono che sostanze seconde, coordinate ontologiche attraverso cui disporre l’ordine gerarchico delle forme.
La sostanza nel pensiero di Tommaso
Nel Medioevo, in specie nella filosofia di Tommaso d’Aquino, la traduzione letterale del termine greco ousia, cioè essentia, verrà utilizzato nel senso della “quiddità” o natura che è colta dalla definizione della cosa, da cui però è distinta l’esistenza della cosa definita. Proprio la distinzione di essenza ed esistenza, sconosciuta ai Greci, è lo specifico contraccolpo teorico della creazione ex nihilo. L’introduzione della distinzione reale tra essentia e existentia permette per esempio a Tommaso di evidenziare la differenza di Dio rispetto alle creature: solo in Dio infatti l’essenza è la stessa esistenza, mentre l’esistenza delle creature dipende dalla creazione divina. Il concetto aristotelico sarà invece indicato dal termine substantia, non senza che questa traduzione porti con sé un’importante conseguenza: l’aspetto logico di sostrato ultimo (hypokeimenon) di predicazione riceve una accentuazione ontologica come “ente che sussiste per sé”, e in questo senso fu utilizzato fino alla scolastica cinquecentesca e oltre.
Le tre sostanze cartesiane: Dio, anima, mondo
Nella filosofia seicentesca fu Descartes a produrre una brusca rottura rispetto alla tradizione aristotelico-scolastica. Il percorso scettico che condusse Descartes alla fondazione di un nuovo sapere, ebbe delle ripercussioni decisive sul concetto di sostanza: la sostanza pensante, libero spazio di interiorità, viene distinta realmente dalla sostanza estesa, pura esteriorità geometrica, e questa distinzione apre alla questione della comunicazione delle due sostanze, risolta da Descartes attraverso il concetto aporetico di ghiandola pineale. Egli pone fine alla concezione aristotelico-tomista dell’ordinata gerarchia delle forme (dalle sensibili alle soprasensibili), per aprire quella che con Heidegger possiamo chiamare “l’epoca dell’immagine del mondo”, in cui la sostanza si pone come ego, come soggetto rappresentativo di una spazialità geometrica a sua disposizione, come “signore e padrone della natura”(Descartes, Discorso sul metodo, 1637).
Nei paragrafi conclusivi dei Principi di filosofia troviamo una esposizione sistematica della teoria cartesiana della sostanza. In primo luogo Descartes analizza in che modo si possa attribuire sostanzialità a Dio, al pensiero e all’estensione. Il pensatore francese definisce la sostanza come “una cosa che esiste in tal modo da non aver bisogno che di se medesima per esistere”. Secondo un tale senso solo Dio può essere detto sostanza in senso proprio, mentre le cose finite esistono solo in quanto sono create a ogni istante dalla potenza di Dio. Descartes riconosce però alla res cogitans e alla res extensa una forma differente di sostanzialità che non ha i caratteri dell’autosussistenza, ma piuttosto è pensata come fondamento delle qualità dei corpi e delle menti. Le cose create sono dunque sostanze nel senso aristotelico di sostrato: ciò che non si predica di altro e di cui altro è predicato. La metafisica cartesiana disegna dunque una gerarchia dell’essere che va dalla sostanza infinita, Dio, alle sostanze create, la res cogitans e la res extensa, alle qualità di queste sostanze, che egli chiama “modi”. Ogni sostanza possiede un attributo principale che coincide con la sua essenza: “benché ogni attributo – scrive – sia sufficiente per fare conoscere la sostanza, ve n’ha tuttavia uno in ognuna, che costituisce la sua natura e la sua essenza, e dal quale tutti gli altri dipendono. Cioè l’estensione in lunghezza, larghezza e profondità costituisce la natura della sostanza corporea; ed il pensiero costituisce la natura della sostanza pensante. Poiché tutto ciò che del resto si può attribuire al corpo presuppone estensione, e non è che un modo di quello che è esteso; egualmente, tutte le proprietà che troviamo nella cosa che pensa, non sono che modi differenti di pensare. Così non sapremmo concepire, per esempio, nessuna figura se non in una cosa estesa, né movimento che in uno spazio che sia esteso; così l’immaginazione, il sentimento e la volontà dipendono in tal modo da una cosa che pensa, che non possiamo concepirli senza di essa” (Descartes, Principi di filosofia, 1644).
Questa definizione del rapporto tra la sostanza e l’attributo principale sembra presupporre una totale simmetria tra le due sostanze che invece a uno sguardo più attento svanisce. Se infatti la res cogitans, come si è detto, deve essere declinata al plurale, la sostanza estesa sembra essere identificata da Descartes con l’indefinita estensione dello spazio, di cui i singoli corpi non sono che parti, configurazioni accidentali. Abbiamo dunque da un lato una pluralità di sostanze che pensano, finite, indivisibili, libere, e dall’altro una sola sostanza estesa, indefinita, divisibile all’infinito e governata dalle leggi della meccanica.
Spinoza o del Dio-sostanza
Il pensiero di Spinoza è stato spesso considerato come un tentativo di eliminare le inconseguenze e le dissimmetrie della metafisica cartesiana della sostanza o meglio di mostrare le implicazioni teoriche profonde della definizione della sostanza divina in termini di autosussistenza. Se Descartes sostiene che non è possibile attribuire la sostanzialità nello stesso senso (cioè in senso univoco) a Dio e alle creature, Spinoza risolve il problema alla radice, attribuendo la sostanzialità solo all’essere divino e facendo dei corpi e delle menti finiti dei modi dell’unica sostanza divina.
Ricostruiamo brevemente i passaggi attraverso cui Spinoza propone un inaudito concetto di sostanza per la tradizione filosofica occidentale. Nella terza definizione della prima parte dell’Etica (1677) scrive: “Per sostanza intendo ciò che è in sé ed è concepito per sé: ovvero ciò, il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa, dal quale debba essere formato”. La sostanza è definita nei termini di indipendenza ontologica e di autosufficienza epistemologica: da ciò Spinoza trarrà le più radicali conseguenze teoriche. Nella proposizione 7 dimostra che la sostanza esiste necessariamente; nella proposizione 8 ne dimostra l’infinità e nella proposizione 11 giunge a identificare la sostanza infinita con il Dio della definizione 6, ossia “la sostanza che consta di infiniti attributi”. Dimostrata l’esistenza necessaria del Dio-sostanza, Spinoza passa a dedurre le altre sue proprietà: per la proposizione 13 è indivisibile, il che implica che nessun suo attributo possa essere concepito adeguatamente da cui deriva la divisibilità della sostanza, contro la teoria cartesiana della divisibilità all’infinito dell’estensione; per la proposizione 14 è unico (contro la teoria cartesiana delle tre sostanze), e dunque la res extensa e la res cogitans devono essere pensate come attributi di Dio; infine, per la proposizione 15 egli include in sé l’essere di tutte le cose.
Spinoza propone dunque un concetto di sostanza cui è propria l’esistenza necessaria (è cioè causa sui), l’unicità, l’infinità, l’indivisibilità e l’omnicomprensività. Nelle proposizioni 16-36 mostra come l’essenza di questa sostanza consista nella produttività immanente dei modi (per cui la sostanza è causa sui nello stesso senso, eo sensu, in cui è causa dei modi), di cui, per effetto di questo legame necessario con la sostanza, nega la contingenza e dunque ogni forma di libertà intesa come libero arbitrio. Rispetto alla metafisica cartesiana dunque Spinoza nega la trascendenza della sostanza divina rispetto alla pluralità delle sostanze pensanti e alla sostanza estesa, ridefinendo queste come attributi dell’unica sostanza, di cui i corpi e le menti singolari non sono che modificazioni: ciò lo conduce da una parte a pensare la stessa mente umana nella dimensione della necessità e dall’altra a pensare l’estensione come infinita e indivisibile, cioè a elevare l’estensione ai caratteri della divinità.
Leibniz e la sostanza come individuo
Contrapponendosi tanto a Descartes quanto a Spinoza, i cui esiti filosofici considerava implicati nelle premesse cartesiane, Leibniz ha elaborato una teoria della sostanza come tentativo di coniugare il meccanicismo dei moderni e la tradizione aristotelico-scolastica delle forme sostanziali e delle cause finali. Leibniz ritiene che le sostanze siano create, individuali, infinite per numero e per gradi di perfezione, attive, spirituali. A partire dalla maturità chiamerà queste sostanze spirituali con il termine “monade”, allo scopo di caratterizzarne l’unità e la semplicità, la pura interiorità, dotata di una capacità rappresentativa che sta a fondamento della pluralità esterna. Proprio quanto alla concezione dell’esterno, del mondo rappresentato, Leibniz oscillerà tutta la vita: da una parte sembra non riconoscere alcuna sostanzialità ai corpi, considerandoli dei meri “fenomeni ben fondati” nelle sostanze spirituali, nelle percezioni delle monadi, dall’altra, proprio per fondare la loro unità, propone il concetto di vinculum substantiale come superadditum aggiunto da Dio dall’esterno all’aggregato corporeo.
La prima esposizione sistematica della teoria leibniziana della sostanza si trova nel Discorso di metafisica (1686). Al centro di quest’opera vi è la ripresa del concetto aristotelico di sostanza come individualità contro l’occasionalismo e lo spinozismo, i quali, negando l’azione delle creature a vantaggio dell’intervento divino, finivano, secondo Leibniz, per negare la sussistenza stessa dell’individuo. Per Leibniz ogni individuo è una sostanza attiva (alla luce della sua dinamica, dirà che la sostanza è forza, attività) che contiene in sé la legge dei suoi cambiamenti: la forma sostanziale leibniziana ha in comune con la forma aristotelica il fatto di organizzare le attività e le funzioni di un corpo, ma, a differenza di Aristotele, è il fondamento logico-metafisico di tutti gli eventi (su un piano logico, predicati) che accadranno a un individuo durante la propria esistenza. Ma non solo. Per effetto della connessione universale di tutte le cose, ogni sostanza contiene in sé la totalità degli accadimenti: “quando si considera bene la connessione delle cose – scrive –, si può dire che, in ogni momento, si trovano nell’anima di Alessandro Magno le tracce di tutto ciò che gli è accaduto ed i segni di tutto ciò che gli accadrà, nonché le tracce di tutto ciò che accade nell’universo, sebbene appartenga solo a Dio il riconoscerle tutte” (G.W. Leibniz, Discorso di metafisica, 1686). In altre parole, ogni sostanza individuale “è come un mondo intero e come uno specchio di Dio o di tutto l’universo che essa esprime a suo modo, press’a poco come una medesima città è rappresentata diversamente a seconda delle differenti posizioni in cui si trova colui che la guarda” (Ibidem). Proprio questa teoria della sostanza come specchio individuale della sostanza farà dire al vecchio Leibniz che le monadi sono la via di salvezza rispetto alla abissale teoria spinoziana dell’unica sostanza.
Locke e la critica del concetto di sostanza
La critica del concetto di sostanza è senza alcun dubbio uno dei passaggi chiave del Saggio sull’intelletto umano. Essa ha come fondamento teorico il rifiuto di ogni forma di innatismo e la riduzione di tutta la conoscenza alle idee che derivano dalla sensibilità, idee che possono essere semplici o complesse, ossia un aggregato di idee semplici. Locke afferma che l’idea di sostanza non è un’idea innata, come riteneva Descartes, ma è un’idea complessa costituita dal presentarsi costante nell’esperienza di un certo numero di idee semplici. Nel capitolo 23 della II parte dei Saggi Locke critica l’idea di sostanza intendendo con questo termine il sostrato di inerenza delle qualità sensibili di una data realtà individuale. La critica lockiana riguarda esclusivamente la possibilità di conoscere un tale sostrato, mentre egli non mette in alcun modo in dubbio la sua esistenza, non dubita cioè dell’esistenza di una costituzione interna dell’oggetto per noi inconoscibile e di cui non percepiamo che le qualità esteriori.
Locke suppone che l’idea tradizionale di sostanza abbia origine dalla supposizione che le qualità che noi percepiamo degli oggetti debbano necessariamente esistere in un fondamento che le sostiene: “Poiché – scrive Locke – la mente è provvista di un gran numero di idee semplici, che le vengono recate dai sensi così come si trovano nelle cose esterne, o dalla riflessione sulle sue proprie operazioni, essa osserva altresì che un certo numero di queste idee semplici vanno costantemente assieme; e poiché si presume che esse appartengano ad una medesima cosa, e le parole sono adattate alla comune comprensione, e di esse si fa uso per un rapido scambio, queste idee, così riunite in un solo soggetto, vengono chiamate con un nome solo. Ma poi, per disattenzione, siamo portati a parlarne considerandola come una sola idea semplice, mentre invece si tratta di una complicazione di molte idee messe insieme. E questo, come ho già detto, perché non sappiamo immaginare in qual modo queste idee semplici possano sussistere da sole, e pertanto ci abituiamo a supporre un qualche substratum nel quale esse effettivamente sussistano e di cui siano il risultato: e quello chiamiamo, perciò, sostanza” (Saggio sull’intelletto umano, 1690). Il fulcro della critica lockiana risiede nel concepire la sostanza come la semplice somma delle idee semplici delle qualità che si suppone ineriscano a un sostrato. Ciò significa, come si è detto, non tanto supporre l’inesistenza del sostrato, ma asserirne l’inconoscibilità: “quale che sia – scrive Locke – la natura astratta, e segreta, della sostanza in generale, tutte le idee che noi abbiamo di specie distinte e particolari di sostanze altro non sono che varie combinazioni di idee semplici, coesistenti in una certa sebbene sconosciuta causa della loro unione, che fa sì che il tutto sussista per conto suo” (Ibidem).