Il concilio
Col nome di concilio, o sinodo, s’intende, nella Chiesa antica, un’assemblea di vescovi riuniti per discutere di questioni importanti che trascendevano l’autorità dei singoli vescovi e perciò esigevano di essere trattate da un organismo più comprensivo e di maggiore autorità. Inizialmente sono locali (o regionali), in quanto ristretti ai vescovi di una determinata regione. Solo con Costantino s’inaugura l’istituto del concilio ecumenico, cioè aperto alla partecipazione di vescovi di tutta la Chiesa cattolica1.
Dagli Atti degli apostoli e dalle lettere di Paolo e attribuite a Giovanni si ricavano alcuni dati sulla primitiva organizzazione della comunità dei seguaci di Cristo, ancora inseriti nella più vasta struttura della religione giudaica: da una parte l’autorità, a Gerusalemme, dei discepoli più immediati di Cristo, in particolare Pietro, Giovanni e Giacomo, il fratello di Gesù; dall’altra quella dei missionari, i quali per tempo diffondono il messaggio evangelico anche al di là dei ristretti limiti della Palestina. Il missionario, dopo essersi soffermato alquanto tempo là dove era riuscito a formare una piccola comunità che, per comodità, anacronisticamente definiamo già cristiana, l’abbandona per continuare altrove la sua missione, ma resta collegato con essa soprattutto per via epistolare, in quanto ritiene di poter esercitare la sua autorità su tutte le comunità da lui fondate. Questa embrionale organizzazione dipende dalla capacità del missionario assente di mantenere i contatti con le comunità da lui istituite, e di fatto viene meno quando questi contatti s’interrompono. L’interruzione è inevitabile quando il missionario viene a mancare, ma a volte si verifica anche prima che ciò avvenga, quando una comunità ritiene di essere in condizione di governarsi da sé, e qualcuno dei neoconvertiti si considera idoneo a potersi sostituire al missionario. L’Anziano della terza lettera giovannea lamenta che in una comunità, non identificabile, da lui istituita un tal Diotrephes ha di fatto scalzato la sua autorità; il Veggente, autore dell’Apocalisse, scrive le sette lettere con cui dà inizio allo scritto per rinsaldare la sua autorità sulle chiese che egli ritiene dipendere da lui, proprio perché da ciò che scrive si capisce che qua e là cominciavano le contestazioni; nella parte finale della Didaché appare evidente il contrasto tra la gerarchia itinerante (apostoli profeti dottori) e quella stanziale (vescovi diaconi).
Dalla pur scarsa documentazione di cui si dispone risulta evidente che, dopo i primi anni del II secolo, si perde ogni traccia della gerarchia itinerante, ormai sostituita ovunque da quella locale; ma si può dare per certo che in chissà quante comunità questa sostituzione si fosse già verificata da tempo. Ogni comunità è autonoma, presieduta prima dal collegio dei presbiteri e successivamente dal vescovo coadiuvato da presbiteri e diaconi, e i collegamenti tra una comunità e l’altra sono del tutto informali e occasionali: verso la fine del I secolo la Chiesa locale di Corinto è in difficoltà e chiede l’intervento della Chiesa di Roma, che il prestigio di Pietro e Paolo aureolava di particolare dignità; alcuni decenni dopo, Dionigi, vescovo di Corinto, viene interpellato da vescovi di altre comunità su problemi disciplinari. Ma si è al di fuori di ogni struttura organizzativa: ci si rivolge a Dionigi perché godeva di buona fama; si interpella la Chiesa di Roma perché considerata di particolare dignità, non perché fosse autorizzata a interferire nelle questioni concernenti altre comunità. La Chiesa universale è di fatto una federazione di Chiese locali, indipendenti l’una dall’altra e gelose della loro indipendenza, e l’unico legame che le unisce è la fede in Cristo: una sola fede, un solo Cristo, un solo battesimo.
A mano a mano che il messaggio cristiano si diffonde nell’ambito dell’Impero, e in Oriente anche un po’ al di là, e cresce il numero dei fedeli e delle comunità, aumentano e si fanno più pressanti anche i problemi da affrontare, e alcuni sono, o comunque sono considerati, tali da mettere a rischio una struttura organizzativa tanto debole, sì che comincia ad avvertirsi l’opportunità di dar vita a un organismo operante in ambito non localmente ristretto, in modo da affrontare problemi che coinvolgono le comunità cristiane di intere regioni, senza per altro mettere a rischio la loro autonomia: questo organismo è il concilio o la sinodo (synodos in greco, di genere femminile, concilium in latino). La più antica testimonianza sull’attività conciliare viene comunemente considerata la notizia di Eusebio (h.e. V 16,10) secondo cui, in occasione della crisi montanista, nella seconda metà del II secolo, i fedeli d’Asia si riunirono più volte per condannare gli eretici e scacciarli dalle chiese. La notazione generica «fedeli d’Asia» fa pensare a riunioni composte non soltanto da vescovi e clero. Comunque, poco oltre (h.e. V 23,2) ancora Eusebio dà notizia di concili di vescovi in Asia e in Palestina, riuniti al fine di dirimere i contrasti circa la datazione della Pasqua. Dato che nel II secolo la Chiesa dovette affrontare le crisi gnostica e marcionita, anteriori a quella montanista e ben più gravi, ci si chiede perché soltanto in questa occasione si sia pensato a riunioni conciliari. La possibile risposta è che le dottrine gnostica e marcionita furono subito avvertite come incompatibili con la retta fede e perciò respinte con i mezzi ordinari a disposizione di ogni singola comunità. Di contro, il montanismo era un movimento di natura carismatica e rigorista, il cui unico punto di attrito con la gerarchia cattolica era la rivendicazione, da parte degli adepti, della dignità del loro messaggio in nome dell’ispirazione diretta dello Spirito Santo (Paracleto): un contrasto, cioè, di natura soltanto disciplinare e non dottrinale, non tale da coinvolgere l’intera comunità, una parte della quale certamente avrà simpatizzato con i contestatori. Neanche la controversia pasquale era di natura dottrinale e anch’essa si situava all’interno della comunità. Di qui scaturiva un pericolo che s’indirizzava specificamente a danno della gerarchia e perciò più sottile e difficile da contrastare, donde l’opportunità di un collegamento tra le gerarchie di varie comunità, per cercare una comune linea d’azione contro un avversario in definitiva sfuggente e di non agevole confutazione. Nel corso del III secolo le riunioni conciliari si diffondono e tendono a istituzionalizzarsi, ma per iniziative locali, senza alcun tentativo di cercare una normativa unitaria, al di là di quella regionale. Il progressivo accrescimento di potere dei vescovi delle città più importanti delle varie regioni (Roma in Italia, Cartagine in Africa, Alessandria in Egitto, Antiochia in Siria, e così via) favorisce la regionalizzazione del concilio, sì che essi nel modo più naturale si configurano come l’autorità che convoca e presiede il concilio. Data per altro la carenza di un potere centrale riconosciuto, non si può parlare di omologazione delle procedure. In Africa gradualmente si arriva a concili convocati annualmente con una certa regolarità per risolvere contrasti insorti soprattutto all’interno della gerarchia, che i vescovi delle singole chiese non erano in grado di dirimere. Ma altrove, in base alle notizie di cui si dispone, la convocazione dei concili non era affatto regolare. La documentazione su questi concili è molto scarsa. Si sa di un concilio riunito a Cartagine intorno al 220 dal locale vescovo Agrippino per decidere intorno al difficile contenzioso penitenziale; alcuni anni più tardi ad Alessandria il vescovo Demetrio fa ratificare da un concilio di vescovi egiziani la condanna da lui inflitta a Origene per essere stato consacrato presbitero in Palestina, fuori della sua giurisdizione. Nel 250 il vescovo di Roma Cornelio riunisce in concilio nella sua sede sessanta vescovi italiani che ratifichino la condanna inflitta a Novaziano, fattosi consacrare irregolarmente anche lui vescovo di Roma.
Particolarmente importanti al fine di regolare il rapporto tra il concilio e il vescovo di Roma sono due concili di vescovi africani presieduti a Cartagine dal locale vescovo Cipriano nel 254 circa e nel 257. Il vescovo di Roma Stefano, nel contesto di una politica mirata a dare valenza giurisdizionale al primato d’onore, attribuito tradizionalmente alla Chiesa di Roma da tutta la cristianità, accoglie le richieste di riabilitazione di due vescovi spagnoli che erano stati condannati e deposti dalle loro comunità perché avevano apostatato nella persecuzione di Decio (250). Le due comunità reagiscono appellandosi a Cipriano, in quanto vescovo di una chiesa importante, il quale convoca a Cartagine un concilio di vescovi africani che conferma la condanna inflitta ai due vescovi lapsi2. Successivamente Stefano cerca di imporre anche in Africa l’usanza, tradizionale a Roma, di considerare valido il battesimo impartito dagli eretici e perciò di non ribattezzare l’eretico che intendesse passare alla Chiesa cattolica. In Africa, invece, si usava imporgli un nuovo battesimo: perciò Cipriano reagisce all’imposizione romana riunendo in concilio a Cartagine ben settantuno vescovi africani che confermano, contro Stefano, l’usanza del secondo battesimo3. Questi contrasti evidenziano lo stato di disagio provocato, nella federazione di Chiese locali che costituivano la Chiesa universale, dalla carenza sia di una norma precisa al fine di regolare i rapporti tra le varie Chiese, sia di un’autorità in grado di rendere tale norma effettivamente operante. Da una parte il vescovo di Roma, già preminente in Italia, cerca di acquisire maggior potere nei confronti delle Chiese locali di altre regioni, dall’altra queste Chiese, nella fattispecie le due spagnole, per opporsi all’invadenza di Roma, si appellano a un vescovo che non era neppure spagnolo, ma derivava soltanto dal suo personale prestigio autorità tale da prendere decisioni concernenti Chiese di altra regione.
Alcuni anni dopo, nel 268, un altro importante avvenimento contribuisce ad accrescere lo stato di disagio provocato dalle carenze che si sono segnalate. Paolo, oriundo di Samosata e vescovo dell’importante Chiesa di Antiochia, suscita opposizione sia nella sua sede sia in altre Chiese della regione per motivi di carattere sia morale sia soprattutto dottrinale. Per reazione, un cospicuo numero di vescovi siropalestinesi si reca ad Antiochia e mette sotto accusa Paolo proprio nella sua sede. La principale accusa, quella di argomento dottrinale, è sostenuta contro di lui da Malchione, presbitero ad Antiochia e pertanto gerarchicamente dipendente da Paolo. Questi viene condannato e dichiarato deposto, ma rifiuta di abbandonare la sede episcopale. I padri conciliari non sono in grado di rendere esecutiva la condanna inflitta a Paolo, finché, sollecitato, interviene l’imperatore Aureliano, che fa allontanare Paolo così da permettere al successore di prendere possesso della cattedra contesa4. La Chiesa cattolica è ormai diventata un organismo importante per dimensioni, risorse e prestigio nell’ambito dell’Impero, ma la persistente debolezza della struttura federativa evidenzia ogni giorno di più la sua insufficienza di fronte a questioni che travalicano interessi soltanto locali.
Alla fine del III secolo, nell’ambito della federazione di Chiese locali che costituiscono la Chiesa universale, operano due centri di potere che sono o comunque ritengono di essere in grado di far valere la loro autorità al di sopra e nei confronti delle Chiese locali. Da una parte si ha, appunto, il concilio, strumento di dimensioni per ora soltanto regionali o poco più, privo di una qualsiasi regolamentazione al di là dell’iniziativa personale di questo o quel vescovo di sede importante, e privo della forza sufficiente per rendere effettivamente operativi i suoi deliberati, allorché essi ledano importanti interessi locali. Dall’altra parte si ha il vescovo di Roma, che comincia ad attribuirsi un potere tale da autorizzarlo a ingerirsi in questioni pertinenti ad altre sedi locali anche importanti, situate fuori d’Italia. Ovviamente tali sedi rifiutano questa ingerenza, ma soprattutto in Oriente la rivalità tra le sedi maggiori, quali Alessandria e Antiochia, e uno stato di endemico disordine nei rapporti tra una sede e l’altra favoriscono l’ingerenza della sede romana. Stando così le cose, si prospetta una situazione potenzialmente conflittuale tra l’autorità del concilio e quella del vescovo di Roma, oltre che tra questa e quella dei vescovi di sedi importanti d’Oriente. Ma il nuovo corso nel rapporto tra Impero e Chiesa, inaugurato dalla politica di Costantino, determina anche in questo contenzioso uno stato di cose che colloca in una prospettiva completamente nuova il rapporto tra il vescovo di Roma e il concilio, tra il vescovo di Roma e i più autorevoli vescovi d’Oriente, e i rapporti reciproci tra questi vescovi. Dovunque, nel mondo antico, la religione è componente essenziale dell’apparato statale e abitualmente chi detiene il potere politico controlla anche quello religioso. Per venire all’Impero romano, il princeps, in quanto capo dello Stato, lo è anche di tutta la struttura religiosa in veste di pontifex maximus. Perciò, una volta che Costantino nel 313, al di là del riconoscimento della liceità della religione cristiana, inaugura un rapporto di amicizia e di stretta collaborazione con essa, automaticamente egli si considera suprema autorità, come della religione pagana, così di quella cristiana, e come tale viene subito riconosciuto, senza che sia avvertita l’esigenza, o almeno l’opportunità, di un qualche atto formale. Solo da pochi giorni è stato pubblicato l’editto di Milano, e già da parte cristiana ci si appella a lui come a quella suprema autorità che fino ad allora aveva fatto difetto nella Chiesa universale. In Africa i donatisti, scismatici in conseguenza degli strascichi dell’ultima grande persecuzione, non accettando l’elezione di Ceciliano a vescovo di Cartagine si appellano a Costantino. Questi, tenendo conto dell’autorità super partes che cominciava a essere riconosciuta in Occidente al vescovo di Roma, incarica papa Milziade di risolvere il contenzioso con la collaborazione di tre vescovi della Gallia. Milziade, interpretando in modo quanto mai libero l’invito di Costantino, convoca a Roma in concilio una ventina di vescovi quasi tutti italiani, e il concilio approva l’elezione di Ceciliano. I donatisti si appellano di nuovo a Costantino e questi demanda la soluzione del caso a un concilio convocato ad Arles al quale partecipano molti vescovi della Gallia. Ancora una volta viene approvata l’elezione di Ceciliano5. Al di là di questo risultato, è chiaro il significato politico della vicenda. Milziade cerca di affermare, nei confronti dell’imperatore, una sua qualche autonomia trasformando una piccola riunione in un vero e proprio concilio che conforti la sua autorità. Costantino capisce perfettamente l’intenzione di Milziade e la vanifica convocando lui un secondo concilio e con ciò riaffermando la sua piena autorità sulla Chiesa: la decisione del concilio di Arles a beneficio di Ceciliano diventa operativa soltanto in quanto approvata dall’imperatore. Passa solo qualche anno e la convocazione e lo svolgimento del concilio ecumenico di Nicea evidenziano con chiarezza il rapporto di sudditanza della Chiesa universale nei confronti dell’imperatore. Ma prima di trattare questo argomento, è opportuno un chiarimento circa il significato dell’espressione ‘concilio ecumenico’.
In effetti questa espressione, in riferimento a fatti della Chiesa antica, viene addotta con due diversi significati. Il primo indica un concilio di tutta la Chiesa indetto dall’imperatore, che ne controlla lo svolgimento e ne approva le decisioni, che diventano, in questo modo, leggi dello Stato. La Chiesa è diventata un organismo statale, e il concilio, che ne costituisce l’istituzione operativa più importante, è ipso facto uno strumento di cui si serve l’imperatore, in quanto capo della Chiesa. L’autorizzazione per cui i vescovi convocati possono raggiungere la sede del concilio usando del cursus publicus non è concessione particolare, ma prerogativa di cui godeva ogni funzionario statale di grado elevato in missione. Va notato che sia nel Codice Teodosiano sia in quello di Giustiniano non c’è alcuna norma che abbia come oggetto il concilio ecumenico. Conosciamo comunque la lettera ufficiale con cui l’imperatore Costanzo II convoca nel 359 i concili ecumenici di Rimini e di Seleucia di Caria, e qui è detto esplicitamente che le decisioni dei due concili sarebbero diventate operative soltanto se approvate da lui6. Secondo questa definizione e relativa prassi, nel IV secolo e nella prima metà del V furono convocati e si svolsero i concili di Nicea (325), Serdica (343), Rimini e Seleucia (359), Costantinopoli (381), Efeso (431), Efeso (449), Calcedonia (451). Le vicende delle crisi ariana, nestoriana e monofisita indussero gradualmente a modificare il significato dell’espressione ‘concilio ecumenico’, facendole assumere quello, che tuttora conserva, di concilio le cui deliberazioni sono state accettate dalla Chiesa cattolica. Sulla base di questo significato, dei concili qui sopra indicati sono stati considerati ecumenici, e lo sono tuttora, soltanto quelli di Nicea, Costantinopoli, Efeso (431) e Calcedonia.
Intorno al 320 il presbitero Ario cominciò a diffondere, ad Alessandria e ben presto in Egitto e altrove, una dottrina che deprimeva la dignità divina di Cristo, rispetto a quella somma di Dio Padre, in modo tale da provocare reazioni nell’ambiente alessandrino. Era una questione di lunga data: qui ci si limita a precisare che, considerato per tempo Cristo come entità divina, la difficoltà di conciliare questa dignità con la dominante concezione dell’unicità di Dio aveva suscitato difficoltà e polemiche che, nel II e III secolo, si erano puntualizzate in dottrine diverse7. Ad Alessandria era ormai tradizionale, all’inizio del IV secolo, la concezione che considerava Cristo come Logos, cioè come parola divina, personalizzata in una entità sussistente, il Figlio di Dio, subordinata a Dio Padre, ma non in maniera così radicale come predicava Ario. Pertanto la sua dottrina viene condannata da Alessandro, vescovo di Alessandria, e dal clero alessandrino, e poi dai vescovi di tutto l’Egitto, sì che Ario è costretto a esulare in Palestina. Trova per altro validi alleati, soprattutto, ma non solo, in alcuni vescovi che con lui erano stati alla scuola di Luciano d’Antiochia, un dotto presbitero, studioso della Scrittura, che aveva confessato la fede col sangue negli ultimi tempi della Grande Persecuzione (311), per cui la sua santità era oggetto di un culto molto diffuso in area siropalestinese e oltre. Tra i sostenitori di Ario spiccano per importanza Eusebio, vescovo di Cesarea di Palestina, di acclarato prestigio letterario, ed Eusebio, vescovo di Nicomedia, autorevole e politicamente accorto. La posizione dottrinale di Ario si rivela più forte di quanto prima non si fosse ritenuto, anche perché l’aspirazione del potente vescovo di Alessandria a primeggiare in Oriente come quello di Roma in Occidente non riusciva gradita ai vicini vescovi di area siropalestinese e li rendeva inclini ad appoggiare in qualche modo l’esule. La polemica divampa per tutto l’Oriente, e ferve più che mai quando Costantino, vinto Licinio, prende possesso di tutta la pars Orientis dell’Impero. La sua prima reazione, esplicitata in una lettera indirizzata ad Ario e Alessandro, è di sconcertata indignazione. Del tutto estraneo all’annoso contenzioso dottrinale che la polemica comportava, Costantino rimprovera i due contendenti per aver diviso il popolo a causa di un’inutile questione, provocata solo per amore di contesa. Egli sa che nelle scuole dei filosofi si discute di tanti argomenti, con varietà di soluzioni, che convivono senza provocare rotture tanto gravi. Egli si augura qualcosa del genere anche per questo litigio: è sufficiente essere d’accordo sul tema fondamentale della provvidenza divina; contrasti su argomenti minori non dovrebbero incrinare l’unità della fede8. L’atteggiamento di Costantino è quello di chi, familiarizzato con i culti pagani tradizionali, che mai avevano alimentato contrasti dottrinali, e con il modo di discutere nelle scuole di filosofia, non si capacita che si possa litigare con tanta passionalità intorno a questioni che a lui apparivano di secondaria importanza. L’intolleranza in ambito religioso era allora una novità, già amara e destinata a diventarlo sempre di più. Una tale lettera non era in grado di risolvere alcunché, sì che Ossio, vescovo di Cordova e uomo di fiducia di Costantino, incaricato di recapitare la missiva dell’imperatore ad Ario e Alessandro, cerca di metter pace in una questione che sembrava allargarsi a macchia d’olio. Ossio, per altro, non era la persona adatta, ammesso che allora ce ne potesse essere una: infatti, in quanto occidentale, e di un’area che in ambito cristiano poteva considerarsi ancora marginale, non era in grado di padroneggiare i termini di una questione dottrinale di forte spessore. Perciò Ossio si limita ad appoggiare Alessandro contro Ario e i suoi sostenitori. Intanto Costantino prende coscienza del fatto che la questione era ben più grave di quanto egli avesse creduto in precedenza, e si decide per la convocazione di un grande concilio, il primo i cui inviti siano estesi a vescovi di tutta la cristianità9. Si può ragionevolmente supporre che Costantino volle un concilio tanto imponente per affermare pubblicamente e nel modo più solenne il suo ruolo egemone nell’ambito della Chiesa, e soprattutto l’importanza che egli a tale ruolo assegnava. Accettando questa supposizione, diventa forse secondario l’interrogativo, al quale non si può dare risposta, circa gli eventuali ispiratori ecclesiastici di questa iniziativa conciliare. Dato per altro che difficilmente l’imperatore avrà deciso la convocazione del concilio senza interpellare qualche vescovo di primo piano, sarebbe stato comunque non inutile esserne ragguagliati, stante la scarsezza dell’informazione complessiva riguardo allo svolgimento del concilio.
Ha meravigliato gli studiosi tale carenza di informazioni, considerata l’importanza e la notorietà del concilio, e qualcuno ha addirittura supposto che di esso non fossero stati redatti atti ufficiali, il che, data l’importanza e l’ufficialità dell’evento, non può essere possibile. Va però considerato che sul momento, come si vedrà tra breve, le decisioni conciliari furono tali da scontentare gran parte dei partecipanti al concilio e, più in generale, dell’episcopato orientale, sì che su di esso per circa un trentennio calò un silenzio pressoché totale. Quando Atanasio, intorno al 355, riesumò e valorizzò le deliberazioni del concilio, ebbe occasione di parlare variamente anche del suo svolgimento, ma con intendimento polemico e quindi con insufficiente corredo di dati narrativi. Quando intorno al 375 Sabino, vescovo di Eraclea, pubblicò una raccolta di atti conciliari, in quanto di sentimenti antiniceni probabilmente trascurò gli atti del concilio del 325. Come che sia, nessuna delle fonti antiche che ragguaglia sul concilio dà a vedere di avere utilizzato gli atti relativi.
Si conoscono pochi documenti ufficiali inerenti al concilio: la professione di fede, corredata da venti canoni; varie liste, in varie lingue e non coincidenti completamente tra loro, dei vescovi partecipanti al concilio; la lettera sinodale; due lettere di Costantino, una relativa al problema della datazione della Pasqua, l’altra dedicata alle deliberazioni conciliari su Ario; due altre lettere di Costantino hanno per oggetto fatti avvenuti poco dopo la chiusura del concilio. Quanto a testi non ufficiali, il più importante è una lunga lettera redatta subito dopo la chiusura del concilio da Eusebio di Cesarea e da lui inviata ai fedeli della sua Chiesa, riguardante l’andamento e le decisioni conciliari. Ancora Eusebio si occupa lungamente del concilio in Vita Constantini III 7-21, ma il suo interesse è concentrato più sull’operato dell’imperatore che non sullo svolgimento dell’assemblea. Del concilio trattano gli storici continuatori di Eusebio: Rufino Socrate Sozomeno Teodoreto e Filostorgio, ma sono tutti lontani cronologicamente dall’evento, e la loro informazione, quando prescinde dai documenti presentati, è generica e insufficiente. Sulla scorta di questa documentazione10 si esporranno i dati fondamentali circa lo svolgimento del concilio e le sue deliberazioni.
Come sede inizialmente viene designata Ancira, nel centro dell’Asia Minore, ma è subito spostata a Nicea, meglio accessibile in quanto più vicina al mare e a Nicomedia, sede dell’imperatore quando risiedeva in quella regione. Rispondendo alla lettera d’invito, nel maggio del 325, affluiscono a Nicea vescovi da tutte le parti della cristianità, in numero di circa 270, con maggioranza schiacciante di vescovi orientali, provenienti dalle regioni più coinvolte nei contrasti – soprattutto Egitto Palestina Siria e Asia Minore – mentre soltanto sei vescovi sono occidentali – il vescovo di Roma, Silvestro, si fa rappresentare dai presbiteri Vito e Vincenzo. Tali vescovi sono in massima parte illustri ignoti, a eccezione di pochi: Alessandro, i due Eusebi, Eustazio di Antiochia, Marcello di Ancira e qualche altro. Ario, in quanto presbitero, non poteva partecipare ufficialmente ai lavori del concilio, ma è presente a Nicea e sembra sia stato più volte direttamente consultato. Tra gli occidentali il più influente è Ossio di Cordova, il quale solo poco tempo prima, già convocato il concilio, ne aveva presieduto un’altro svoltosi ad Antiochia in occasione dell’elezione del nuovo vescovo, Eustazio. Il concilio aveva trattato della questione ariana e aveva pubblicato una professione di fede di tono antiariano. Avevano rifiutato di sottoscriverla tre membri del concilio, tra cui Eusebio di Cesarea, i quali, per questo motivo, erano stati esclusi dalla comunione ecclesiastica, ma con condanna provvisoria, in quanto un provvedimento definitivo era demandato al prossimo grande concilio. Come racconta Eusebio, Costantino in persona, tutto porpora e oro, ne presiede l’apertura (20 maggio 325), che si svolge in forma quanto mai solenne. Rispondendo al saluto rivoltogli da un vescovo di cui non si conosce il nome, l’imperatore, esprimendosi in latino, ma con immediata traduzione in greco, augura che il concilio possa ristabilire la pace religiosa dell’Impero e dà inizio ai lavori. Non si sa se il concilio abbia nominato un presidente: una parte importante è svolta da Ossio e da Eustazio. Emergono subito i contrasti, derivanti da impostazioni dottrinali anche lontane una dall’altra. La documentazione in possesso permette di puntualizzarne alcune, di cui si dà conto brevemente.
Ario, in senso rigidamente monoteista, subordina nettamente Cristo, il Logos Figlio di Dio, a Dio Padre, da lui personalmente creato per presiedere alla creazione di tutti gli altri esseri, creatura di singolare dignità ma pur sempre creatura, perciò estraneo al Padre per sostanza e dignità. Alessandro di Alessandria professa il subordinazionismo ormai tradizionale ad Alessandria dal tempo di Origene: il Figlio di Dio è a lui inferiore ma, generato da lui e da lui personalmente (in greco, ipostaticamente) distinto, ne partecipa la sostanza e la dignità, in quanto immagine perfetta di lui. In posizione intermedia tra i due si colloca Eusebio di Cesarea: egli accentua la subordinazione di Cristo a Dio Padre, ma senza negarne la dignità divina, e, rifiutandone la condizione creaturale affermata da Ario, lo considera generato realmente da quello, a lui simile in tutto. Nonostante differenze e distinzioni tra loro, Ario, Eusebio e Alessandro partecipano di una base comune. Essa si definisce dottrina del Logos, in quanto valorizza la condizione di Cristo come Logos, cioè Parola divina, personalizzata come sua immagine, entità divina, distinta da Dio Padre, da lui esteriorizzata come Figlio per presiedere alla creazione e al governo del mondo, che aveva raggiunto il culmine della sua missione nell’incarnazione in Maria. La differenza fra i tre pertiene al livello di subordinazione del Figlio Logos a Dio Padre: modesta in Alessandro, più accentuata in Eusebio, che tuttavia non infirma il concetto di generazione e figliolanza reale, e dunque di entità autenticamente divina; invece Ario accentua la subordinazione fino a negare la figliolanza reale di Cristo Logos da Dio Padre e perciò gli attribuisce condizione creaturale e, per conseguenza, divinità di secondo ordine, estranea alla divinità del Padre. A questa base comune di tradizione alessandrina sono estranei Eustazio di Antiochia e Marcello di Ancira, che sono definiti monarchiani in quanto sostenitori della monarchia divina, cioè di un rigoroso monotesimo che, a differenza di quello di Ario, tende ad assorbire la divinità del Logos Figlio in quella di Dio Padre, negandone la distinzione personale da lui, in quanto lesiva dell’unicità di Dio. In questo ordine di idee Marcello considera il Logos divino una potenza, cioè una facoltà operativa dell’unico Dio, da lui esteriorizzata, ma non distinta personalmente, per presiedere alla creazione e al governo del mondo. Questa facoltà divina impersonale prende dimora nell’uomo Gesù, personalizzandosi nella qualità di Figlio di Dio, ma è destinata a rifluire impersonalmente nella monade paterna, quando il mondo creato avrebbe avuto fine e perciò il Logos divino avrebbe portato a termine la sua missione. Eustazio non arriva a negare radicalmente la sussistenza individuale del Logos divino prima dell’incarnazione, ma ne considera eccessiva la distinzione personale da Dio Padre, affermata da tutti gli alessandrini. Il suo contrasto con costoro eccede lo specifico ambito dottrinale, estendendosi a tutta l’impostazione culturale tradizionale ad Alessandria, soprattutto quanto all’esegesi scritturistica di stampo allegorizzante.
La carenza di documentazione specifica non permette di ricostruire in dettaglio e con ordine lo svolgimento delle discussioni che avrebbero portato alla condanna di Ario e della sua dottrina: ci si limita perciò a presentare i principali fatti senza poterli inquadrare in un’adeguata sequenza cronologica. Un episodio a sé sembrerebbe essere stata la vicenda di Eusebio di Cesarea. Se ne è rilevato l’appoggio politico ad Ario nonostante importanti divergenze dottrinali, e la condanna, ancorché provvisoria, a suo danno nel concilio antiocheno del 325, di poco precedente quello di Nicea. Ne consegue che Eusebio si presenta a Nicea in posizione molto debole, soprattutto impegnato a risolvere per il meglio il suo caso personale. Dalla reticente presentazione dei fatti che espone nella lettera alla sua comunità11 sembra ricavarsi che egli abbia proposto come espressione della sua fede il simbolo battesimale in uso nella Chiesa di Cesarea, e su questo fondamento sarebbe stato assolto dalla precedente condanna. Questa possibile ricostruzione dei fatti non convince più di uno studioso: il fatto certo è che Eusebio in conclusione esce indenne dalle polemiche conciliari. Di qui si può agevolmente ipotizzare che egli, nel corso di quelle polemiche, stante la sua precaria condizione, non abbia potuto adoperarsi attivamente a favore di Ario e, dato il prestigio di cui godeva, questa assenza potrebbe aver pesato non poco a danno di quello.
In effetti la lettura pubblica di un testo di Eusebio di Nicomedia, nel quale si ribadiva la condizione creaturale del Figlio di Dio12, mette subito in difficoltà i sostenitori di Ario, che alla prova dei fatti risultano in numero molto inferiore di quanto in un primo tempo non fosse sembrato. Non è arbitrario ipotizzare che a questo vanificarsi della parte filoariana abbia contribuito non poco l’atteggiamento di Costantino, che seguiva passo passo lo svolgimento del concilio e per certo era a sua volta influenzato dall’atteggiamento antiariano di Ossio. Ma una volta messa in difficoltà la parte ariana, si rivela molto difficile proporre un documento dottrinale concepito in modo tale da escludere i punti principali della dottrina di Ario. Era infatti costume, in situazioni di questo genere, comporre il documento soltanto per mezzo di espressioni dedotte ad verbum dalla Scrittura o di là direttamente ispirate; ma la complessità e la sottigliezza della polemica in corso era tale che il ricorso alla sola Scrittura si rivela inadeguato, perché i sostenitori di Ario sono in grado di rendere compatibile la loro dottrina con ogni testo ricavato da quella sola fonte. A stare alla testimonianza di Eusebio, piuttosto bistrattata dagli studiosi di oggi, il simbolo battesimale di Cesarea, da lui presentato al concilio per il motivo che s’è detto, viene scelto per servire di base alla professione antiariana, ma non meglio qualificati partecipanti al concilio lo modificano, inserendovi espressioni decisamente antiariane. Attendibile o no questo racconto, il fatto certo è che, per mettere in difficoltà i sostenitori di Ario, viene proposta l’affermazione, priva di ogni supporto scritturistico, che il Figlio è della stessa sostanza (ὁμοούσιος) del Padre. Ignoto in Occidente, homoousios aveva alle spalle una non lunga storia in Oriente: nel concilio antiocheno del 268, che aveva condannato Paolo di Samosata, questo termine era stato respinto in quanto identificante il Logos divino con Dio Padre; pochi anni prima di questa data, ad Alessandria, alcuni fedeli di tendenza monarchiana, e perciò ostili al vescovo Dionigi, avevano cercato di imporlo a quest’ultimo, che pro bono pacis lo aveva accettato piegandolo a un significato compatibile con la sua dottrina. In effetti il termine ousia (essenza, sostanza) poteva indicare sia aristotelicamente una sostanza individuale sia anche una sostanza generica: nel primo caso definire il Figlio homoousios con il Padre significava assorbirne l’individualità in quella paterna, mentre nell’altro caso tale individualità veniva preservata. Ario in una sua lettera aveva negato che il Figlio potesse essere considerato homoousios con il Padre, in quanto, affermando che il Figlio era diverso dal Padre per sostanza, ne escludeva ambedue i possibili significati. Secondo il racconto di Eusebio, proprio Costantino avrebbe imposto al concilio riluttante l’adozione di questo ambiguo termine; ma dato che l’imperatore capiva ben poco della questione, è evidente che altri lo avevano consigliato. Chi siano stati questi altri non si sa: considerando le diverse posizioni dottrinali qui sopra sintetizzate, si può ipotizzare che il suggerimento sia venuto da parte monarchiana, cioè, anche solo indirettamente, da Marcello e/o da Eustazio. Dato che né Ario né i suoi più vicini sostenitori possono accettare l’affermazione che il Figlio sia homoousios con il Padre, su questa base si arriva finalmente alla conclusione della controversia, puntualizzata nella redazione, di cui non si conosce l’autore, della formula di fede, conosciuta come Credo o Simbolo niceno13. Come si vedrà, questo testo, al di là dell’ostilità di Ario e dei suoi sostenitori, risulta sgradito a buona parte dei vescovi partecipanti al concilio; ma Costantino ne impone a tutti la sottoscrizione, a cominciare da Ario, mentre un funzionario imperiale sorveglia che nessuno cerchi di sottrarsi. Alla resa dei conti soltanto Ario e due vescovi libici, Secondino e Teona, rifiutano di sottoscrivere e vengono condannati, deposti ed esiliati, Ario in Illiria; tutti gli altri sottoscrivono.
Esaurita la questione principale all’ordine del giorno, il concilio si occupa anche di altre questioni, alcune delle quali molto importanti, quali la determinazione annuale della data della Pasqua e la composizione dello scisma meliziano. Quanto alla data della Pasqua, che cadeva il giorno 14 del mese lunare di Nisan, stante la non corrispondenza tra il calendario ebraico lunare e quello cristiano solare, essa variava ogni anno e da sempre c’era stata confusione e incertezza nelle comunità cristiane: il concilio decide che ogni anno in tempo utile il vescovo di Alessandria comunichi a tutti i colleghi la data stabilita. Quanto allo scisma meliziano, era cominciato in Egitto durante la Grande Persecuzione, quando Melizio, vescovo di Licopoli, aveva consacrato arbitrariamente alcuni vescovi, prevaricando sulla prerogativa del vescovo di Alessandria. Alimentato forse anche da sentimenti antiromani, lo scisma si era molto diffuso in Egitto. Il concilio prende provvedimenti molto miti a questo riguardo, auspicando una rinnovata concordia, destinata a restare lettera morta. Tra gli altri provvedimenti, si ricordano l’invalidità del trasferimento di un vescovo da una sede all’altra, norma destinata a essere trasgredita da tutti, sempre e dovunque, e la conferma delle tradizionali prerogative riconosciute ai vescovi di Alessandria, Roma e Antiochia e altre sedi metropolitane. Il concilio si scioglie, forse il 16 giugno, tra grandi feste, in quanto ricorreva in quell’anno il ventesimo anniversario dell’elezione imperiale di Costantino, il cui discorso di chiusura invita tutti alla pace e alla concordia.
La pubblicazione del Simbolo niceno avrebbe condizionato tutto l’ulteriore svolgimento della controversia ariana, e questa formula di fede col passare del tempo avrebbe acquisito sempre maggior prestigio, fino a proporsi come professione di fede tale da contrastare ogni possibile eresia. È perciò opportuno riportarla per intero e analizzarla brevemente:
Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore di tutte le cose visibili e invisibili. E in un solo Signore Gesù Cristo, il Figlio di Dio generato dal Padre unigenito, cioè dalla sostanza del Padre, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato non fatto, della stessa sostanza (ὁμοούσιος) del Padre, per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose, quelle nel cielo e quelle nella terra. Egli per noi uomini e per la nostra salvezza è disceso e si è incarnato, si è fatto uomo, ha patito ed è risorto il terzo giorno, è salito nei cieli e verrà a giudicare i vivi e i morti. E nello Spirito santo. Quelli che affermano: c’è stato un tempo in cui non esisteva, e: prima di essere stato generato non esisteva, e quelli che affermano che il Figlio di Dio è stato fatto dal nulla, o deriva da altra ipostasi o sostanza, o che è mutabile o alterabile, costoro condanna la Chiesa cattolica e apostolica.
La formula si compone di una parte positiva, che espone ciò in cui si deve credere, e una parte negativa, che condanna le principali proposizioni di Ario o che comunque gli venivano attribuite. La parte positiva espone i punti principali della dottrina che considerava Cristo Figlio di Dio, da lui generato, per procedere, a sua volta, alla creazione e al governo del mondo. Rispetto ai contenuti della dottrina del Logos, cui sopra abbiamo accennato, manca, oltre al termine Logos, la specifica affermazione che il Figlio di Dio è personalmente (in greco, ipostaticamente) distinto da Dio Padre. La puntualizzazione specificamente antiariana è concentrata in alcune espressioni: la definizione del Figlio come Dio vero, l’affermazione che non era stato creato ma era stato generato dalla sostanza (οὐσία) del Padre ed era della sua stessa sostanza (ὁμοούσιος). Questo termine è il punto nevralgico della formula. Si è già chiarita l’ambiguità del termine derivante dalla duplicità di significato di ousia (= sostanza individuale e/o generica). Preso il termine nel primo significato, definire il Figlio homoousios con il Padre significa considerarli una sola entità e perciò assorbire il Figlio nella realtà del Padre; nel secondo significato si può ammettere, se pur con fatica, che il Figlio partecipi della medesima sostanza divina del Padre, ma conservando la sussistenza personale. Nella formula il significato del termine si ricava dalla sua connessione con l’espressione della seconda parte, che condanna chi affermi la derivazione del Figlio da altra ipostasi o ousia che non sia quella del Padre: la perfetta equiparazione di ousia a hypostasis, termine indicativo di una sostanza individuale, impone di interpretare homoousios nel medesimo significato, e quindi di affermare che il Padre e il Figlio costituiscono, come una sola ousia, così una sola ipostasi, cioè una sola realtà individuale, cioè una sola persona. Un’affermazione del genere era estranea, oltre che ad Ario e ai suoi sostenitori, non solo ad Alessandro e a Eusebio di Cesarea, ma a buona parte dei convenuti a Nicea, in quanto partecipi della dottrina affermante Cristo, in quanto Logos divino, sussistente e distinto personalmente da Dio Padre. In altri termini, il significato fondamentale del Simbolo niceno è monarchiano, cioè espressione di una minoranza, non si sa se più o meno rilevante, dei vescovi presenti al concilio. Anche accolta la notizia eusebiana della pressione di Costantino in favore del termine, è opportuno chiedersi come Eustazio e Marcello, rappresentanti della tendenza monarchiana, siano riusciti a trarre l’imperatore dalla loro parte. Si può ipotizzare un accordo con Alessandro il quale, nonostante fosse distante dottrinalmente da loro, avrebbe accettato di fare concessioni gravose che si rispecchiano nella professione di fede nicena, pur di prevalere su Ario.
La condanna inflitta ad Ario e ai suoi più fedeli sostenitori, che Costantino aveva approvato e reso esecutiva, sembrava aver risolto definitivamente i contrasti dottrinali che avevano sconvolto per più anni l’Oriente cristiano, tanto più che verso la fine del 325, per motivi non chiari ma per certo connessi con la controversia, Costantino fa deporre ed esiliare Eusebio di Nicomedia e Teognide di Nicea, importanti sostenitori di Ario, da cui avevano defezionato soltanto nelle ultime decisive battute del concilio. Ma già nell’anno successivo comincia a prendere corpo e a svilupparsi rapidamente una reazione avversa ai deliberati conciliari, che nel giro di pochi anni porta alla condanna e alla deposizione dei principali avversari di Ario e alla loro sostituzione con esponenti di tendenza dottrinale molto più moderata in senso antiariano, se non addirittura filoariana. Un capovolgimento tanto radicale non poteva aver successo se non con l’approvazione e l’appoggio dell’imperatore, sì che già gli storici antichi ne ricercarono la spiegazione. La trovarono nel filoarianesimo di alcune donne importanti della famiglia di Costantino – la madre Elena, la sorella Costanza, la cognata Basilina – motivato dalla devozione per il martire Luciano, maestro di Ario, dalla lontana parentela con Eusebio di Nicomedia, e da altro ancora14. Ma è difficile ammettere che un uomo politico accorto e autoritario come Costantino si possa essere fatto influenzare dai familiari fino a capovolgere le risultanze del concilio che proprio lui aveva voluto e approvato. Si è più nel concreto quando si puntualizzano i motivi del révirement negli esiti stessi del concilio niceno, in particolare nel suo Simbolo, e a causa della sua fondamentale impostazione monarchiana e per conseguenza del sospetto, per non dire l’ostilità, nei suoi confronti di larga parte dei vescovi che lo avevano sottoscritto, dopo aspre discussioni, soltanto perché costretti dal volere dell’imperatore. Il fine intuito politico convince Costantino che il personale impegno da lui profuso per arrivare a una formulazione dottrinale inaccettabile da parte di Ario e dei suoi sostenitori più radicali lo aveva indotto a favorire una soluzione eccessivamente spostata in senso opposto, e perciò sgradita a molti esponenti dell’episcopato orientale – l’Occidente è per il momento fuori dal gioco. Questi, pur non condividendo il radicalismo della dottrina di Ario, erano non meno avversi all’impostazione monarchiana di Eustazio e soprattutto di Marcello. Per pareggiare i conti, l’imperatore avverte l’opportunità di moderare la propria posizione, ma in modo da non rimettere in discussione le risultanze dottrinali del concilio da lui risolutamente volute. Ecco perché la reazione, sul momento e per tutta la residua durata del regno di Costantino, si sviluppa a livello personale, sfruttando la conflittualità, con l’inevitabile strascico di inimicizie personali, che la crisi ariana aveva provocato in tutte, o quasi, le comunità cristiane d’Oriente. La reazione è inizialmente capitanata da Eusebio di Cesarea. Si è evidenziato sopra il motivo per cui, durante i lavori del concilio, egli si era dovuto preoccupare soprattutto di risolvere il suo caso personale: in evidente condizione d’inferiorità, non aveva potuto non solo difendere Ario, ma neppure contrastare la pressione di Eustazio e Marcello, dalla cui posizione dottrinale egli era lontanissimo. Uscito dal concilio completamente riabilitato e recuperata piena libertà d’azione, egli non esita a contrastare i trionfatori di Nicea sia con l’azione sia soprattutto sul piano della dottrina, in aspra polemica prima con Eustazio e dopo con Marcello. In effetti la sua impostazione trinitaria, avvalorata dal prestigio che gli veniva dalla ben conosciuta attività letteraria, continuava in complesso quella che era stata prima di Origene e poi di Dionigi di Alessandria, e pertanto si presentava come tradizionale, in posizione mediana, in quanto estranea al subordinazionismo radicale di Ario, ma ancor più al monarchianismo di Marcello, e in quanto tale veniva incontro alle esigenze di larga parte dell’episcopato orientale. L’unico personaggio che avrebbe potuto contrastarlo autorevolmente sul piano sia dottrinale sia politico era Alessandro di Alessandria, ma questi viene a mancare nel 327, lasciando così mano libera a Eusebio, al quale si affianca, in posizione di leader della reazione antinicena, Eusebio di Nicomedia, richiamato dall’esilio nel 328 circa15 e restituito alla sua dignità episcopale. Si deve precisare ancora una volta che questa reazione non avrebbe potuto aver successo se non con l’appoggio dell’imperatore.
La reazione antinicena travolge non meno di una dozzina di vescovi orientali. Di alcuni si conoscono solo i nomi16, di altri qualche dettaglio, mentre più note sono le vicende dei tre più importanti esponenti del fronte antiariano, Eustazio e Marcello, ai quali si aggiunge nel 328 Atanasio, succeduto ad Alessandro sulla cattedra di Alessandria. Della deposizione di Eustazio di Antiochia le fonti antiche parlano abbastanza, ma fornendo dati non sempre concordanti e a volte inattendibili17. Si è già detto della sua polemica con Eusebio di Cesarea, e sono rimasti numerosi frammenti di suoi scritti antiariani composti dopo il 32518. I partigiani di Ario sono forti ad Antiochia, sì che Eustazio trova nemici proprio nella sua sede, dove egli viene messo sotto accusa da un concilio che risulta presieduto da Eusebio di Cesarea e che verosimilmente si tiene intorno al 327, prima del rientro di Eusebio di Nicomedia dall’esilio. Sulle accuse che sono avanzate contro di lui non c’è chiarezza: solo marginalmente sono di argomento dottrinale, come l’accusa di sabellianismo, che è dire monarchianismo radicale. Il colorito racconto, secondo cui una prostituta si sarebbe presentata al concilio e avrebbe accusato Eustazio di essere il padre di suo figlio, è di tono chiaramente favolistico; per altro da più parti si concorda circa un’accusa di non meglio chiarita immoralità, che provoca la condanna e la deposizione del vescovo, con conseguente esilio a Traianopoli, in Tracia. Oltre a ciò non si hanno più sue notizie. È noto invece che ad Antiochia un periodo di disordine fa seguito alla deposizione, dividendosi i fedeli pro e contro l’esule, e Costantino stesso scrive per ben due volte alla cittadinanza richiamandola alla pace19.
Meglio conosciuta è la complessa vicenda di Atanasio. Quando viene a mancare Alessandro, il locale scisma meliziano si era momentaneamente sopito, ma la nomina di Atanasio a suo successore ne provoca la ripresa. Sembra infatti che Atanasio, già diacono di Alessandro, non avesse ancora l’età minima di trent’anni quando fu eletto, violando – sembra – un certo accordo con i meliziani circa le modalità della successione e certamente forzando la situazione20. Ripresi i contrasti, Atanasio fa uso di mano molto pesante contro gli scismatici, che sono oggetto di ripetute violenze. Nel contempo avversa anche ariani e filoariani, rifiutandosi di riammettere Ario nella sua diocesi, nonostante le pressioni di Costantino stesso in questo senso21. Per ben due volte i meliziani si appellano all’imperatore accusando Atanasio di violenze, per altro senza successo. Ma l’interferenza della questione ariana con quella meliziana mette Atanasio in difficoltà: nel 334 egli viene convocato a partecipare a un concilio da tenere a Cesarea di Palestina, cioè nella sede di Eusebio, suo acerrimo nemico, sì che rifiuta di presentarsi; ma un nuovo concilio viene convocato a Tiro, in Fenicia, per l’estate del 335.
La preparazione e lo svolgimento del concilio sono condizionati a fondo dalla volontà di Costantino di risolvere definitivamente la questione ariana, da una parte confermando la condanna della dottrina, ma dall’altra riammettendo nella comunione ecclesiastica Ario, che almeno formalmente aveva ritrattato. L’unico ostacolo al progetto dell’imperatore è rappresentato dalla decisa opposizione di Atanasio ad accogliere di nuovo Ario nella comunità di Alessandria, di cui aveva fatto parte come presbitero. Va anche tenuto conto del grande potere del vescovo di Alessandria, che si estendeva su tutto l’Egitto e la Libia, sì che era politicamente auspicabile che quella cattedra fosse occupata da un vescovo di fiducia dell’imperatore. Dato questo stato di cose e in ossequio a una lettera di Costantino, che invita i vescovi convocati a riunirsi sollecitamente a Tiro per rimettere pace nella Chiesa turbata dall’insano spirito di discordia di alcuni, è naturale che lo svolgimento dei lavori si sia indirizzato fin dall’inizio alla condanna di Atanasio, nonostante l’appoggio che gli veniva dai circa cinquanta vescovi egiziani che egli aveva portato con sé a Tiro22. Ma per una corretta valutazione dei fatti, va tenuto conto che Atanasio fin dall’inizio del suo episcopato, viziato dall’irregolarità cui sopra si è accennato, aveva messo in atto una politica di violenza ai danni dei vescovi meliziani chiaramente documentabile e sulla quale si è concentrata l’accusa ai suoi danni. La commissione d’inchiesta che il concilio invia in Egitto è composta da membri programmaticamente ostili al presule alessandrino e opera sollecitata da evidente spirito di parte, ma del resto molti fatti parlavano chiaro. Sono tempi in cui la disciplina ecclesiastica è ancora largamente lacunosa, sì che la valutazione degli atti di violenza imputati ad Atanasio è a discrezione della commissione d’inchiesta e del concilio, e sia l’una sia l’altro gli sono in maggioranza ostili. Egli, constatato che il concilio gli è avverso, fugge di nascosto e si reca a Costantinopoli per incontrarsi personalmente con l’imperatore. Il concilio continua i lavori anche in sua assenza e ai primi di settembre lo condanna, aggiungendo ai capi d’accusa l’aggravante della fuga. Il 30 ottobre, a Costantinopoli, Atanasio riesce faticosamente a parlare con Costantino e gli chiede un confronto con i suoi nemici23. L’imperatore acconsente, e scrive ai vescovi interessati di venire a Costantinopoli. Si presenta Eusebio di Nicomedia accompagnato dai vescovi a lui più fedeli, conferma le accuse già presentate e discusse al concilio, e, in forma non si sa quanto esplicita, accusa Atanasio di aver affermato di essere in grado di impedire il rifornimento di grano da Alessandria a Costantinopoli. Nonostante l’ovvio diniego di Atanasio, il colloquio si conclude male per lui: l’imperatore decide a suo sfavore e, seduta stante, lo manda in esilio a Treviri, in Germania.
In data incerta, ma di sicuro poco dopo questi fatti, si riunisce a Costantinopoli un concilio di vescovi provenienti da varie regioni dell’Asia Minore e dalla Tracia, per giudicare Marcello di Ancira. Poco si sa su questo concilio, che comunque sembra avere avuto svolgimento molto meno complesso e drammatico del concilio di Tiro24. Marcello era un monarchiano di tendenza radicale, e aveva esposto la sua dottrina in uno scritto non pervenuto ma del quale sono noti molti, a volte ampi frammenti addotti testualmente nella confutazione che Eusebio di Cesarea scrisse dopo la condanna (contra Marcellum, de ecclesiastica theologia). In effetti Marcello viene invitato a ritrattare e condannare il suo scritto. Rifiuta, sì che viene condannato e deposto. L’imperatore ne dispone l’esilio in un luogo imprecisato.
Per concludere, è bene ripercorrere rapidamente l’evoluzione dell’istituto conciliare. Esso nasce nell’ambito della Chiesa come istituzione finalizzata a esaminare e risolvere questioni che travalichino la competenza di un singolo vescovo. In questo senso si hanno notizie di concili regionali a partire dagli ultimi anni del II secolo, e non consta che alcunché sia stato messo per iscritto per regolarizzarne convocazione e svolgimento. Quando con Costantino l’imperatore diventa capo della Chiesa, anche l’istituto del concilio ricade sotto il suo controllo, ed egli se ne vale per cercare di risolvere contrasti di natura disciplinare (donatismo) o dottrinale (arianesimo) che coinvolgono l’intera Chiesa (concilio ecumenico) o vaste parti di essa. In casi di questo genere egli convoca il concilio e, approvandone le decisioni, le rende legge dello Stato. Questo stato di cose si sarebbe protratto indefinitamente in Oriente, mentre in Occidente la caduta dell’Impero e il conseguente imporsi del vescovo di Roma avrebbero ricondotto il concilio nell’ambito della Chiesa. Non senza, per altro, reviviscenze d’ingerenza imperiale (Carlo Magno, gli Ottoni).
1 J. Gaudemet, L’Église dans l’Empire romain (IVe-Ve siècles), Paris 1958, pp. 451-466; Storia dei concili ecumenici, a cura di G. Alberigo, Brescia 1990; R. Aubert, G. Fedalto, D. Quaglioni, Storia dei concili, Cinisello Balsamo 1995; J.A. Fischer, A. Lumpe, Die Synoden von den Anfängen bis zum Vorabend des Nicaenums, Padeborn 1997; R. Teja, Los concilios en el cristianismo antiguo, Madrid 1999; E. Wipszycka, Storia della Chiesa nella Tarda Antichità, Milano 2000; I Concili della cristianità occidentale. Secoli III-V, XXX Incontro di studiosi dell’antichità cristiana (Roma 3-5 maggio 2001), Roma 2001; I Canoni dei Concili della Chiesa Antica, a cura di A. Di Berardino, 2 voll., Roma 2006; A. Weckwerth, Ablauf, Organisation und Selbstverständnis westlicher antiker Synoden im Spiegel ihrer Akten, Münster 2010.
2 Si conoscono questi fatti dall’epistola 67 dell’epistolario di Cipriano, con la quale egli ragguaglia le due chiese spagnole circa le decisioni del concilio cartaginese.
3 Su questo importante episodio informano dettagliatamente le epistole 68-74 dell’epistolario di Cipriano. L’epistola 70, che si conosce anche in traduzione greca, si presenta come lettera ufficiale del concilio cartaginese.
4 Questo primo intervento ufficiale dell’autorità imperiale in fatti interni alla Chiesa si spiega in quanto avvenuto nel periodo di tempo posteriore al provvedimento dell’imperatore Gallieno che rendeva lecito il culto della religione cristiana. Sulla vicenda di Paolo di Samosata si veda Eus., h.e. VII 27-30.
5 Fonte principale per questi fatti è l’opera antidonatista di Ottato di Milevi, di cui non si conosce il titolo preciso (quello di adversus Parmenianum Donatistam è di conio moderno), I 22-23; App. 3 e 4 e passim.
6 La lettera è stata tramandata da Ilario (op. hist. frg. 7,1-2).
7 Per qualche dettaglio in più su questo argomento, cfr. M. Simonetti, Eresia, arianesimo e dottrina trinitaria, in questa stessa opera.
8 La lettera è riportata da Eusebio (v.C. II 64).
9 Per più dettagliata informazione su tutta questa materia, si veda M. Simonetti, La crisi ariana nel IV secolo, Roma 1975, pp. 26 segg.
10 Tale documentazione è raccolta e pubblicata in H.-G. Opitz, Urkunden zur Geschichte des arianischen Streites: 318-329, Berlin 1934.
11 La lettera è stata tramandata da Socr., h.e. I 9; Thdt., I 12. Per il testo, cfr. H.-G. Opitz, Urkunden, cit., pp. 42 segg.
12 Questo testo è stato trasmesso da Ambr., fid. III 15,125.
13 Per il testo del Simbolo, criticamente edito, e l’elenco delle fonti che lo tramandano, cfr. G.L. Dossetti, Il Simbolo di Nicea e di Costantinopoli, Roma 1967, al quale si rinvia anche per le fonti che hanno tramandato i venti canoni niceni.
14 Cfr. Ath., h. Ar. 5,6; Rufin., hist. I 9,12; Philost., h.e. II 12; Socr., h.e. I 23.
15 Per dettagli e documentazione sulla vicenda di Eusebio di Nicomedia e Teognide di Nicea, si rinvia al lemma Eresia, arianesimo e dottrina trinitaria.
16 Asclepa di Gaza, Cimazio di Palto, Diodoro di Tenedo, Eutropio di Adrianopoli. Per questi e altri nomi, cfr. Ath., h. Ar. 5.
17 Cfr. Ath., h. Ar. 4; Socr., h.e. I 24; Soz., h.e. II 19; Thdt., I 21-22; Hier., vir. ill. 85.
18 Pubblicati da J.H. Declerck nel 2002 in CCG LI.
19 Cfr. Eus., v.C. III 59,62.
20 Per una dettagliata informazione su questi fatti non del tutto perspicui, e più in generale sui rapporti di Atanasio con Costantino, cfr. A. Martin, Athanase d’Alexandrie et l’Église d’Égypte au IVe siècle (328-373), Roma 1996, p. 321 segg.
21 Cfr. Ath., h. Ar. 59.
22 Sui prodromi e lo svolgimento del concilio, cfr. soprattutto Eus., v.C. IV 42; Ath., h. Ar. 73-81; Soz., h.e. II 25.
23 I principali documenti in proposito sono: Chronicon festale (PG 26, 1353); Ath., h. Ar. 86; Socr., h.e. I 34-35; Soz., h.e. II 28; Thdt., I 31.
24 In proposito cfr. Eus., Marcell. II 4; Soz., h.e. II 33.