Il concorso esterno nei reati associativi
Alcune vicende processuali, recenti ed eclatanti, hanno dimostrato come, nonostante l’attuale unanimismo della giurisprudenza circa l’ammissibilità della configurazione di un “concorso esterno” nel reato associativo, molti siano ancora i problemi da risolvere al fine di consolidare un modello accettabilmente preciso e stabile. Nel presente contributo una breve ricostruzione storica dell’istituto ed un’analisi dei profili per i quali sembra più urgente una ulteriore riflessione degli studiosi e degli operatori della giurisdizione. In particolare, è auspicata la depurazione della nozione di “intraneo” dal residuo influsso di logiche causali, così da favorire una corretta discriminazione dei casi di concorso esterno da quelli che ben potrebbero ricondursi al piano della partecipazione. Per altro verso, è posta in luce la condizione ancora approssimativa della riflessione sulla natura dell’evento rispetto al quale, nella logica del concorso eventuale, dovrebbe essere apprezzata l’efficienza causale della condotta atipica.
Non sono mancati elementi di novità, lungo il corso del 2012, riguardo alla complessa tematica del “concorso esterno” nei reati associativi. Ma occorre subito intendersi. La sentenza pronunciata dalla Corte di cassazione nei confronti di un noto imprenditore ed uomo politico, accusato appunto del delitto di associazione di tipo mafioso a titolo di concorso esterno, sulla base dell’asserito ruolo di mediazione assunto nel rapporto estorsivo instauratosi tra l’organizzazione criminale ed un imprenditore ancor più noto1, non ha espresso posizioni di rilevante novità rispetto alla precedente elaborazione, pur avendo suscitato enorme clamore. Sempre nuovo e sempre maggiore, semmai, è lo sconcerto per la protratta inerzia del legislatore, cui da molti anni viene chiesto un intervento, simile a quello attuato in altri Paesi (come ad esempio la Spagna), utile a fissare con chiarezza la fisionomia di alcune condotte tipiche di “collaborazione dall’esterno” con un’organizzazione delinquenziale, e dunque a superare le incertezze e le polemiche generate da ogni nuova vertenza giudiziaria nella materia. Perché le vertenze del genere – si sa – riguardano spesso soggetti investiti di cariche istituzionali, o di rilevanti funzioni nel mondo dell’economia e delle professioni: ed una tecnica di verifica a posteriori della rilevanza penale di una determinata condotta – qual è tipicamente quella fondata non sulla relativa descrizione ma sulla sua efficienza causale rispetto ad un evento dato – non è esattamente la più funzionale a “proteggere” il lavoro giudiziario da sospetti ed accuse di parzialità e di gestione strumentale.
Da molti decenni, con argomenti più o meno convincenti, una parte assai rilevante della dottrina penalistica imputa alla teorica del concorso esterno una intollerabile elusione dei principi di legalità e di tassatività, che nasce dal connubio tra l’insufficiente capacità descrittiva delle singole fattispecie di associazione e la tecnica prescelta dal legislatore, con l’art. 110 c.p., per l’identificazione delle forme di responsabilità concorsuale nel fatto tipico commesso (in tutto o in parte) da altre persone. Non si può certo escludere che determinate prese di posizione, specie quelle meno consistenti dal punto di vista scientifico, siano occasionate da tensioni connesse a specifici interventi giudiziari. Ma la serietà del problema è indiscutibile, e le incertezze che da quasi cent’anni si manifestano sul terreno del concorso eventuale risultano obbiettivamente aggravate quando si tratta di responsabilità per fatti associativi. In questi casi, occorre giustificare l’assunto per il quale un soggetto deve rispondere del reato, la cui essenza consiste nella instaurazione di un consapevole rapporto associativo con altre persone e con la struttura scaturita dal patto sociale, sul presupposto – in certo senso contrario e però logicamente imprescindibile – che non abbia instaurato quel rapporto associativo, né sul piano obiettivo né riguardo all’atteggiamento della sua volontà.
Si deve riconoscere, per quanto impellente sia l’esigenza di contrastare fenomeni criminali che condizionano profondamente la vita sociale ed economica del Paese, che riserva di legge e tassatività in materia penale sono connotati pertinenti alla stessa forma democratica dello Stato. Una disciplina elaborata dopo il fatto – qual è tipicamente quella definita dal giudice nei casi di insufficiente precisione del tipo legale – è una “legge” non stabilita dalle istanze rappresentative del popolo, è una “legge” che apre alla discriminazione tra casi analoghi, ed è appunto una “legge” posteriore alla condotta, contro il presidio di libertà rappresentato dalla preliminare cognizione che spetta, ad ogni cittadino, circa le conseguenze del proprio agire. Il recentissimo e già citato caso giudiziario, poi, mette in luce (almeno per effetto delle prospettazioni di parte) come la struttura del fatto tipico possa favorire l’indeterminatezza dell’imputazione, o la sua mutevolezza alla luce delle progressive acquisizioni istruttorie, fenomeni che ovviamente collidono, quando riscontrati, con i principi più essenziali del giusto processo.
1.1 La progressiva elaborazione del concetto di “concorso esterno”
È nota la genesi del problema. Nella tradizione penalistica italiana abbondano le fattispecie associative, che tuttavia, a partire dal “modello” ripreso per le numerose figure specializzate (art. 416 c.p.), sono singolarmente avare di elementi descrittivi («tre o più persone si associano» per un determinato fine criminoso). I segnali legislativi utili alla precisazione del tipo (che deve tendere, per orientamento costituzionale, ad assicurare l’offensività riguardo al bene protetto) sono stati reperiti in genere al di fuori delle norme incriminatrici. Si nota come il legislatore ammetta che la comune programmazione di più delitti non basti ad integrare il reato associativo, visto che l’«accordo» per commettere un reato, anche continuato, non determina punibilità degli agenti (art. 115, co. 1, c.p.). Per altro verso, la legge evidenzia che non ogni relazione illecita con una organizzazione criminale comporta una responsabilità a titolo di partecipazione nel reato associativo. Le varie figure di assistenza agli associati, che operano «fuori dai casi di concorso nel reato», ricorrono quand’anche l’assistenza sia «prestata continuatamente» (artt. 418, co. 2, 270 ter, co. 2, 307, co. 2, c.p.). È possibile commettere favoreggiamento anche riguardo all’associazione di tipo mafioso quale reato presupposto (art. 378, co. 2, c.p.), ed è possibile, con qualsiasi reato, agevolare l’attività della stessa associazione senza per questo rispondere del fatto associativo (art. 7, d.l. 13.5.1991, n. 152).
Gli archetipi della “collaborazione” dall’esterno sono stati per altro costruiti, nella gran parte, avuto riguardo al modulo arcaico del banditismo rurale, e “bisogni di tutela” ulteriori sono emersi non appena i fenomeni di devianza associata se ne sono distaccati per sperimentare nuove soluzioni organizzative, nuove finalità dell’azione comune, nuove relazioni col tessuto sociale ed istituzionale di riferimento. Sul piano sociologico, contributi recati da persone in rapporti non strutturati col gruppo, e non riconducibili ai modelli parziali disegnati dalle figure che contornano le fattispecie associative, potevano e possono esprimere un disvalore ed un danno criminale ben più intensi di quelli che segnano condotte associative tipiche, e però riferibili a soggetti ed a ruoli marginali. Lo sbocco naturale, per quanto ancor oggi problematico, è stato allora costituito dalla figura del concorso eventuale, ex art. 110 c.p.: in fondo, la norma ha la precisa funzione di “estendere” la rilevanza penale, in ragione del loro orientamento causale, a condotte che non realizzano per intero un fatto tipico, o almeno non necessariamente (di qui, per inciso, una delle derive applicative di questi anni, cioè la concezione del concorso “esterno” come forma “nana” di partecipazione al fatto associativo).
Contrariamente a quanto talvolta si crede (e si scrive), la soluzione non è maturata in contesti processuali riguardanti fenomeni mafiosi, ma è molto più risalente, ed è stata sperimentata anzitutto in rapporto ad organizzazioni criminali con programmi separatisti, e, successivamente, riguardo a gruppi armati mossi da finalità di terrorismo politico. Per circa vent’anni, in realtà, la teorica giurisprudenziale del concorso esterno aveva potuto svilupparsi, anche con sbandamenti notevolissimi, senza destare particolari discussioni2. E del resto la dottrina tradizionale, pur con qualche eccezione, aveva sempre ritenuto l’ammissibilità del concorso eventuale nei reati strutturalmente plurisoggettivi.
Il trasferimento dello schema sul terreno dei processi di mafia era intervenuto con un certo ritardo, verso la fine degli anni ’80, ed era parso, almeno nel caso delle prime applicazioni, del tutto naturale3. La stagione dell’unanimismo giurisprudenziale era però destinata ad un rapido esaurimento, e sul piano dottrinale aveva preso consistenza un dibattito che ha prodotto, da quell’epoca, innumerevoli contributi, palesando un orientamento complessivamente assai critico verso le soluzioni adottate dalla giurisprudenza4.
La prima sezione penale della Corte di cassazione, per la prima volta nel 19895, aveva ripreso la tesi – di matrice dottrinale, appunto6 – secondo la quale, poiché la condotta associativa consisterebbe nel contributo prestato all’attività di una organizzazione criminale, e poiché la condotta concorsuale è tipizzata, a sua volta, mediante un criterio di orientamento causale, il fenomeno del concorso esterno non sarebbe distinguibile dal fatto dell’intraneo: in presenza del contributo, vi sarebbe partecipazione, ed in sua assenza farebbe difetto il presupposto di fatto per l’applicazione dell’art. 110 c.p. Parte della giurisprudenza, però, era rimasta schierata sull’opposta posizione, riaffermando la configurabilità del concorso esterno, pur nell’ambito di una perdurante variabilità dei parametri applicativi7. Erano dunque mature le condizioni per un primo intervento delle Sezioni Unite della Corte Suprema, concretato nell’ambito della fase cautelare di un giudizio concernente un esponente politico il quale, secondo l’accusa, si era attivato per condizionare, in senso favorevole ai dirigenti di una associazione mafiosa, l’esito di un procedimento giudiziario8.
In quella prima occasione, il massimo Collegio di legittimità, pur giungendo a ribadire la distinzione tra condotta partecipativa e concorso eventuale, era rimasto fortemente condizionato dalla concezione della prima, allora corrente, quale apporto causale alla realizzazione dei fini associativi. La ricerca del criterio distintivo si era dunque orientata verso una possibile differenza di qualità tra i contributi recati dall’intraneo e dall’estraneo: il primo, essendo pertinente alla normalità della vita associativa, proprio in quanto strutturale, era riconoscibile per il suo carattere “fisiologico”; per contrasto, il contributo non strutturale veniva riferito alla “patologia” della vita associativa, cioè ad un momento di difficoltà (“fibrillazione”); e poiché andava ricercato un criterio dimensionale dell’apporto, non essendo immaginabile che ogni relazione col gruppo implicasse responsabilità a titolo di concorso esterno, la “patologia” fronteggiata e superata, grazie al contributo dell’estraneo, doveva essere grave, potenzialmente “mortale”. Ecco, in sintesi estrema, le origini di quella concezione “salvifica” del concorso esterno della quale amplissime tracce si trovano nella giurisprudenza e nella dottrina degli ultimi vent’anni.
Una ricostruzione palesemente faticosa, assai lontana da parametri ancorabili al diritto positivo, inidonea a produrre significativi avanzamenti sul piano della tassatività (restando da stabilire, se non altro, il concetto di situazione “patologica”). Non stupisce che, nonostante un intervento confermativo delle stesse Sezioni Unite9, il contrasto di giurisprudenza si fosse alla fine riproposto10, in parallelo all’infuriare della disputa dottrinale. Anche per questa ragione, oltre che per evidenti esigenze di opportunità, la decisione di legittimità nel procedimento a carico di un magistrato della stessa Cassazione, accusato a sua volta d’aver condizionato l’esito di procedimenti penali riguardanti capi mafiosi, era stata nuovamente affidata alle Sezioni Unite.
Nella relativa decisione11 risiedono le fondamenta dell’attuale configurazione dell’istituto. La sua delimitazione era stata operata per un verso in negativo, cioè escludendo i contribuiti provenienti da intranei. Si coglieva dunque l’importanza d’una precisazione del concetto di partecipe in senso non esclusivamente causale, ma guardando al rapporto “strutturale” tra singolo ed organizzazione, anche sul piano soggettivo. In positivo, la Corte aveva riproposto la “speciale” rilevanza quale segno caratterizzante del contributo recato dall’estraneo, sganciandolo però dall’arbitrario parametro della “conservazione” dell’ente, ed ancorandolo anche ad un suo possibile “rafforzamento”.
Il solco era stato seguito, e meglio tracciato, con la più recente decisione sul tema delle Sezioni Unite12, specificamente impegnate per un verso nella ulteriore definizione della condotta associativa, e per l’altro nella più analitica descrizione del contributo suscettibile di assumere rilevanza a fini di contestazione del concorso esterno. Dopo tale decisione, non risulta siano più state assunte, in giurisprudenza, prese di posizione contrarie all’astratta configurabilità del concorso eventuale nel reato associativo, sebbene siano intervenute, sull’argomento, quasi una trentina di sentenze di legittimità. Anzi, al fianco di provvedimenti concernenti la fattispecie di elezione per l’innesco della contestazione ex art. 110 c.p. (cioè l’art. 416 bis c.p.)13, sono intervenute decisioni che affermano o confermano l’ammissibilità dello schema per ogni tipo di figura associativa14.
Nondimeno, difficoltà continuano a manifestarsi, come dimostrano le polemiche seguite alla già citata sentenza n. 15727/2012, e prima ancora alla requisitoria d’udienza che l’aveva preceduta15.
Si è già accennato che, sul piano del diritto penale sostanziale, la decisione non esprime rilevanti soluzioni di continuità. Gli scarti riguardo al profilo obiettivo del concorso esterno (definito reato «normalmente permanente») sono ormai usuali, e costituiscono la ragione per la quale, ad onta della sconfitta delle tesi negazioniste presso la giurisprudenza, ogni processo per fatti associativi addebitati ad “esterni” diviene terreno per una battaglia definitoria. Quanto all’elemento soggettivo, si è registrata una puntualizzazione sul dolo, della quale si dirà tra breve: anche qui a dimostrazione che, se la questione dell’an può dirsi ormai superata16, il problema del quomodo è ancor oggi di stringente attualità.
Naturalmente, all’esito di un’elaborazione durata ormai molti decenni, non mancano punti fermi, da enucleare soprattutto grazie ai più recenti interventi delle Sezioni Unite.
La decisa virata verso una concezione negoziale/strutturale della condotta di partecipazione ha giovato a rendere più chiara la condizione negativa utile ad identificare, tra coloro che contribuiscono all’attività di un gruppo criminale, il concorrente esterno. L’intraneo è persona che «rimane a disposizione dell’ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi». Non acquista uno status, ma instaura una relazione stabile e dinamica con il gruppo, che implica un’assunzione di ruolo tale da trasformare lui stesso in una risorsa umana dell’organizzazione, ed i beni da lui posti a disposizione alla stregua di risorse materiali. Da qui discende l’offensività della condotta partecipativa, prima ed a prescindere dalla prestazione dei contributi promessi (e dalla natura intrinsecamente illegale dei medesimi): l’associazione acquista efficienza e potenzialità di offesa per l’ordine pubblico. Il partecipe “appartiene” al gruppo (nel senso che non dovrà negoziarsi ogni suo contributo), ed è “voluto” dal gruppo quale propria risorsa. Dunque, il concorrente esterno è anzitutto persona la quale, pur entrando in relazione con l’ente criminale, “non appartiene” ad esso, perché non instaura con esso un rapporto strutturale, non vuole farne parte e neppure è voluto quale parte dell’organizzazione. Egli fornisce un contributo non già per effetto del patto associativo, ma dell’accordo in proposito intervenuto con il ceto dirigente del gruppo criminale. I contributi potranno anche (ma non necessariamente) essere reiterati, e però resteranno comunque distinguibili da quelli del partecipe (sempre che la reiterazione non debba considerarsi prova indiretta dell’intervenuta conclusione di un patto associativo).
Sul versante opposto, il concorso esterno è definito da una condizione positiva, cioè appunto la prestazione di un contributo. Dottrina e giurisprudenza, a partire dal primo intervento delle Sezioni Unite, hanno molto lavorato sui profili “dimensionali” dell’apporto, sul presupposto che contributi di scarso spessore “devono” restare irrilevanti, e sono semmai sanzionati dalle varie fattispecie di “assistenza”. Soccorre la logica dell’art. 110 c.p., che regola il concorso “nel reato” del singolo agente. La condotta causalmente orientata va misurata nel suo influsso sul fatto illecito complessivamente considerato, e, quando il reato consiste nel delitto associativo, il concorrente eventuale dovrà incidere sulla fisionomia complessiva del fenomeno criminale. Di qui – dopo l’infelice esordio segnato dalla metafora clinica e dalla concezione “salvifica” del contributo – l’assestamento segnato dal rinvio all’effetto di “conservazione” o di “rafforzamento” dell’associazione. Un effetto, e dunque un risultato “specifico e concreto”, non una mera potenzialità.
Proprio tale ultimo aspetto ha costituito, tra gli altri, l’oggetto dell’approfondimento condotto dalle Sezioni Unite nel loro più recente intervento sul tema, e segna buona parte della giurisprudenza successiva. Il ricorso alla tecnica di identificazione fondata sull’efficienza causale della condotta, tipica dell’art. 110 c.p., impone che la rilevanza del contributo sia valutata ex post, in termini materiali e secondo il metodo dominante della verifica controfattuale, così da escludere, in linea di principio, la rilevanza delle mere promesse di prestazione, pur quando relative a profili di grande rilievo della vicenda associativa. Va ricordato anche – e qui le preoccupazioni di “compatibilità” si fanno palesi, al pari delle perduranti note di “discrezionalità” nell’opera di definizione – come le stesse Sezioni Unite abbiano stabilito che l’incidenza del contributo, nel caso di organizzazioni molto ramificate o complesse, può essere misurata anche riguardo ad un singolo “ramo” o ad una specifica “articolazione territoriale” del fenomeno associativo.
Meno stabile, ed anche assai meno nitida, la ricostruzione del dolo punibile, la quale del resto risente delle incertezze che ancora segnano la qualificazione dell’elemento soggettivo nel reato di partecipazione (dolo specifico, secondo molti, ma più plausibilmente generico, come altri sostengono).
È ovvio che la condotta del concorrente eventuale debba essere consapevole e volontaria. Per qualche tempo era parso ad alcuni che la carenza di affectio societatis potesse trovare una qualche compensazione nel ricorso al concetto di dolo eventuale (avente ad oggetto l’effetto utile della condotta per la realizzazione dei fini sociali, semplicemente “accettato” invece che direttamente o specificamente perseguito, come nel caso dell’intraneo). Nel 2003 le Sezioni Unite avevano per altro escluso con chiarezza la sufficienza della forma meno intensa di dolo. Anzi, nel 2005, le stesse Sezioni Unite erano giunte a descrivere l’atteggiamento soggettivo del concorrente eventuale in guisa tale che, secondo alcuni commentatori, se ne dovrebbe ricavare la pretesa di un dolo “intenzionale” da parte dell’agente. Probabilmente l’assunto non è esatto, perché nel passaggio pertinente della sentenza – di certo non il più felice – si voleva probabilmente porre in luce la necessaria rappresentazione, ad opera dell’agente, del nesso tra rafforzamento dell’organizzazione criminale ed incremento della sua capacità di commettere i delitti fine. Ad ogni modo, tornando sul tema, la già citata decisione del 2012 sembra aver trovato un equilibrio accettabile, a parte ogni rilievo sulla effettiva congruenza tra principio e enunciato e sua concreta applicazione17. Il rafforzamento del gruppo criminale costituisce l’evento del reato commesso dal concorrente eventuale, il quale deve rappresentarselo quale risultato certo o altamente probabile del proprio agire, ma non deve necessariamente concepirlo quale «obiettivo unico o primario della condotta». In altre parole, la realizzazione dei fini sociali resta confinata sul piano dei motivi, possibile ma non necessaria. E del resto, nel testo della sentenza, la struttura dell’elemento soggettivo viene esplicitamente definita con esclusione delle categorie del dolo “intenzionale” ed “eventuale”.
In effetti, l’evento che misura e tipizza il contributo causale è il rafforzamento dell’organizzazione, rispetto al quale il dolo deve certamente essere diretto. Riguardo però alla realizzazione dei delitti fine – che certo è facilitata dal rafforzamento dell’organizzazione, ma rappresenta una (distinta) implicazione di tale effetto – la volontà del concorrente esterno può restare del tutto indifferente.
Per quanto la fisionomia del concorso esterno sia ormai relativamente “stabilizzata”, non è affatto prevedibile che, in assenza dell’intervento legislativo invocato da più parti, le difficoltà vengano a cessare. Per un istituto storicamente deputato (anche) al trattamento delle interferenze tra criminalità organizzata ed istituzioni pubbliche, le polemiche saranno sempre e comunque inevitabili. Tuttavia occorre accettare che la porta aperta al fine di sanzionare per un delitto associativo persone non associate sia molto stretta, e che le resistenze non dipendono (solo) dalla posizione sociale di determinati imputati, quanto piuttosto dall’incidenza esorbitante dell’ermeneutica giudiziale nella ricostruzione del tipo.
Vi sono almeno due fronti, a tale ultimo proposito, ove l’analisi sembra suscettibile di ulteriori affinamenti, così come confermano anche gli ultimi e recentissimi casi giudiziari.
3.1 La condotta dell’intraneo
In primo luogo, è frequente la sensazione che le contestazioni di concorso esterno intervengano in situazioni ove sarebbe configurabile, perfino in base alla prospettazione del fatto operata nel capo d’accusa («si metteva a disposizione»), una responsabilità a titolo di partecipazione, e che le scelte accusatorie siano condizionate dallo scostamento tra stereotipo socio-criminologico dell’intraneo e caratteristiche personali del reo18, oppure dalla suggestione morfologica connessa ai modelli societari della comunità civile.
L’associazione criminale consiste in una struttura finalizzata alla commissione di un numero indeterminato di delitti, e dotata delle risorse umane e materiali necessarie per il perseguimento del suo scopo. L’appartenenza, nel senso strutturale già sopra richiamato, non è data, ovviamente, da un criterio formale, e in particolare va negata rilevanza decisiva alle regole di reclutamento interne al gruppo criminale, che potrebbero fondarsi su rituali o su espliciti provvedimenti di ammissione del ceto dirigente. È la legge penale, e non l’ordinamento interno di una determinata associazione, a delineare i confini della condotta penalmente rilevante19. Del resto, la giurisprudenza ha sempre ammesso che il patto sociale può concludersi per facta concludentia, in modo informale ed anche progressivo, ferma restando la necessità che maturi, sul versante collettivo e su quello individuale, la cognizione e la convinzione dell’appartenenza.
Per altro verso una società criminale, pur fondata normalmente su uno scopo di lucro, non ripete necessariamente alcuna delle modalità organizzative tipiche delle società commerciali. La divisione formale di compiti, la gerarchia, la ripartizione degli utili ricavati dal complesso dell’attività sociale, non sono elementi costitutivi di fattispecie, ma segni (fungibili) della sussistenza del fatto, che consta della conclusione di un contratto di stabile collaborazione per la realizzazione di imprese criminose20.
Il programma sociale non è, tecnicamente, un motivo comune agli associati, ma l’oggetto, attuale e perfetto, del loro accordo (di qui, per inciso, i dubbi sulla ricorrenza del dolo specifico): è necessario, ma anche sufficiente, che gli interessati progettino di compiere una serie di reati mettendo in comune i mezzi umani e materiali necessari allo scopo. I riflessi di tale concezione sull’oggetto del dolo sono evidenti. Non è affatto richiesto, in particolare, che il partecipe condivida la subcultura dell’ambiente criminale di riferimento, anche a proposito dei criteri formali di appartenenza. E del pari possono risultare ininfluenti le peculiarità di volta in volta riscontrate circa le finalità individuali ed i criteri di conferimento dei contributi programmati e dei compensi attesi21.
Si tratta di estendere alle organizzazioni molto strutturate, e fortemente segnate da risalenti sottoculture di vita criminale o da finalità di carattere politico o terroristico, concetti che sono comunemente accettati, quando non si discute di concorso esterno. Non mancano segni di graduale affermazione dell’ordine di idee descritto, a cominciare dalla recentissima giurisprudenza circa la responsabilità a titolo di piena partecipazione degli esponenti della cd. “borghesia mafiosa”22.
3.2 L’evento cui riferire l’orientamento della condotta concorsuale
Il terreno sul quale la riflessione sembra più immatura, dunque, attiene all’evento del reato associativo: a quel risultato antigiuridico per la cui produzione è utile il contributo del concorrente esterno. L’opinione tradizionale esclude che la consumazione del delitto richieda la commissione dei delitti fine, e dunque la realizzazione, anche solo parziale, del programma delittuoso degli associati. Il disvalore aggiuntivo del reato di associazione consiste nell’incremento del rischio che la collettività sia turbata da comportamenti antigiuridici gravi, e dunque nell’offesa all’ordine pubblico23.
Può dirsi insomma, con sintesi eccessiva, che si pensa ad un evento in senso giuridico, o, al più, ad un fatto di allarme sociale. Sembra però che, talvolta, il ricorso necessitato al modello causale e controfattuale di identificazione del contributo dell’estraneo favorisca una tendenziale sovrapposizione, non esplicita né meditata, tra evento giuridico (o di accresciuto allarme sociale) e fatti attuativi del programma sociale. Nel contempo, la condivisibile avversione nei confronti di modelli elusivi dei livelli minimi di offensività e tipicità conduce a stabilire l’irrilevanza di fenomeni privi di concretezza (tipica, la censura delle Sezioni Unite contro le imputazioni costruite sul “rafforzamento psichico” derivante, agli associati, dalla consapevolezza di poter contare su determinate coperture istituzionali).
Risulterà produttiva, forse, una riflessione che restituisca ai delitti fine il loro ruolo di misuratori (non infungibili) delle potenzialità di lesione dell’ordine pubblico, incentrando sul significativo incremento o sulla conservazione delle citate potenzialità il fatto, specifico e concreto, che fonda la responsabilità per concorso esterno. Effettivo ed attuale, cioè, deve essere il rafforzamento, mentre non dovrebbe considerarsi necessaria la concreta manifestazione delle conseguenze operative di un tale rafforzamento.
Comunque sia, si connettono alla confusione che regna sul tema le perduranti incertezze giurisprudenziali su aspetti essenziali della materia in esame, primo fra tutti il carattere, permanente o non, del “reato di concorso esterno”. Esigenze di simmetria e di contrasto alle obiezioni di fondo contro la configurabilità dell’istituto hanno indotto, anche di recente, a definire permanente l’illecito in questione, in coincidenza con la fisionomia del fatto tipico24. Sembra però insufficiente lo sforzo di giustificare l’assunto di fronte al carattere specifico e concreto dell’evento addebitabile all’estraneo, verificatosi il quale l’interessato, proprio ed anche per la sua qualità di estraneo, perde ogni possibilità di controllo sulla permanenza della situazione antigiuridica determinata. Certamente non giova, su questo piano, quella stabile rescissione del vincolo associativo in forza della quale si stabilisce, comunemente, la cessazione della permanenza riguardo alla condotta individuale di partecipazione.
Com’è ovvio, la corretta misurazione della permanenza dell’illecito condiziona la decorrenza del termine prescrizionale, e per altro verso il tema, altrettanto decisivo, dell’unità o pluralità di reati. Si è visto come la giurisprudenza ammetta che il reato possa integrarsi per effetto di più contributi dell’estraneo, e l’assunto rientra facilmente nello schema, specie colorando l’evento in senso naturalistico, perché ogni conseguenza data può essere il frutto di una pluralità di azioni causative.
Meno scontato è il rilievo da attribuire a contributi recati dopo l’evento di rafforzamento dell’organizzazione criminale. La loro irrilevanza, che sembra inevitabile affermare, potrebbe connettersi alla permanenza del reato già consumato. E tuttavia, a parte ogni rilievo sulla credibilità progressivamente decrescente di una imputazione di concorso esterno in casi come quello indicato, la permanenza finirebbe con l’essere ancorata alla continuità dei contributi, negando parte almeno della premessa del ragionamento.
Lo spessore del problema risulta chiaro anche nella pronuncia del 2012 che, richiamata in apertura, è stata poi più volte citata. La permanenza del reato risulta di fatto collegata, in quel contesto, alla continuità del «contributo al rafforzamento» attribuito all’imputato, tanto da prospettarsene l’interruzione, con eventuale «ripresa» in epoca successiva, non appena cessata la condotta di mediazione costitutiva del fatto. Come si vede, il rischio di sovrapposizione tra condotta ed evento non sembra scongiurato. A meno di non configurare una sorta di implausibile «rafforzamento costante e progressivo» dell’organizzazione criminale, dilapidato immediatamente dopo la cessazione del contributo, quand’anche produttivo di effetti futuri, stabili e preveduti, sulle potenzialità effettive dell’ente.
Insomma, la qualificazione del concorso esterno quale reato permanente andrebbe forse rimeditata. Né potrebbe stupire troppo – fermo l’usuale allarme per la rinuncia alla contestazione del fatto tipico di partecipazione – l’eventuale proliferazione degli illeciti a fronte di più eventi di rafforzamento, quando risultino sgranati nel tempo e certamente suscettibili di distinzione. Sarebbe la stessa pluralità che si determina nel caso dell’interruzione temporanea di una condotta associativa tipica e che viene emulata, com’è noto, quando la permanenza deve considerarsi interrotta per ragioni processuali.
Resta comunque confermata l’estrema articolazione del percorso interpretativo che la giurisprudenza deve condurre per fissare, nella materia del concorso esterno, i principi generali e la “legge” del caso concreto. L’intervento legislativo, già stimolato attraverso molteplici proposte concrete di stesura delle norme pertinenti25, sta davvero tardando oltre ogni limite di ragionevolezza.
1 Cass. pen., 9.3.2012, n. 15727. La sentenza è già stata già oggetto di numerosi commenti tecnici. Tra gli altri: Bell, A., La sentenza della Cassazione sul caso Dell’Utri, una prima guida alla lettura, in www.penalecontemporaneo.it; Bell, A., Qualche breve nota critica sulla sentenza Dell’Utri, in www.penalecontemporaneo.it; Beltrani, S., Dalla configurabilità o meno del reato continuato dipendono anche le valutazioni sulla prescrizione, in Guida dir., 2012, 24, 17 ss.; De Francesco, G., Il concorso esterno nell’associazione mafiosa torna alla ribalta del sindacato di legittimità, in Cass. pen., 2012, 2552 ss.; Fiandaca, G.-Visconti, C., Il concorso esterno come persistente istituto “polemogeno”, in Arch. pen., 2012, 487 ss.; Manna, A., Concorso esterno (e partecipazione) in associazione mafiosa: cronaca di una “nemesi” annunciata, in Arch. pen., 2012, 467 ss.; Padovani, T., Note sul c.d. concorso esterno, in Arch. pen., 2012, 2, 1 ss.; Silvestri, G., Punti fermi in tema di concorso esterno in associazione di stampo mafioso, in Foro it., 2012, II, 360 ss.; Verrina, G.L., Approccio riduttivo e carattere aporètico delle Sez. un. della Corte di cassazione sul concorso esterno nel reato associativo. Caso Dell’Utri docet, in Arch. pen., 2012, 501 ss.
2 Gli studiosi hanno posto in luce, per la verità, decisioni giudiziarie risalenti addirittura ad epoca preunitaria, chiaramente pertinenti al fenomeno qui in esame. Sull’argomento, soprattutto, Visconti, C., Contiguità alla mafia e responsabilità penale, Torino, 2004, 43 ss. La prima applicazione “moderna” dell’art. 110 c.p. quale titolo per la responsabilità concorsuale risale ad un giudizio contro separatisti altoatesini (Cass. pen., 27.11.1968, n. 1569). Il “viaggio” del concorso esterno era continuato, sostanzialmente indisturbato, attraverso la stagione dei grandi processi per fatti di terrorismo (Cass. pen., 7.6.1977, n. 1475; Cass. pen., 10.3.1978, n. 588; Cass. pen., 5.3.1980, n. 768; Cass. pen., 31.3.1980, n. 1081; Cass. pen., 14.11.1980, n. 2840; Cass. pen., 25.10.1983, n. 617/84).
3 Cass. pen., 13.6.1987, n. 3492/88; Cass. pen., 4.2.1988, n. 9242.
4 La letteratura è sterminata. Tra i critici delle costruzioni giurisprudenziali De Francesco, G., Dogmatica e politica criminale nei rapporti tra concorso di persone ed interventi normativi contro il crimine organizzato, in Riv. it. dir. proc. pen., 1994, 1266 ss.; Manna, A., L’ammissibilità di un concorso “esterno” nei reati associativi, tra esigenze di politica criminale e principio di legalità, ivi, 1994, 1189 ss.; Muscatiello, V.B., Il concorso esterno nelle fattispecie associative, Padova, 1995; sul fronte “opposto” (comunque segnato da impostazioni eterogenee), oltreché i numerosi lavori di Visconti, C., si veda ad esempio Iacoviello, F.M., Il concorso eventuale nel delitto di partecipazione ad associazione per delinquere, in Cass. pen., 1995, 842. Tra i lavori più recenti sull’argomento, in generale, Argirò, F., Le fattispecie tipiche di partecipazione. Fondamento e limite della responsabilità concorsuale, Napoli, 2012, 303 ss.; Cerami, R., a cura di, Concorso esterno in associazione di tipo mafioso, Milano, 2011; D’Alessio, A., Concorso esterno nel reato associativo, in Dig. pen., agg. Torino, 2008, 155; Fiandaca, G., Il concorso «esterno» tra sociologia e diritto penale, in Foro it., 2010, V, 176; Fiandaca, G., Il concorso esterno tra guerre di religione e laicità giuridica, in Dir. pen. contemp., n. 1, 2012, 251 ss.; Insolera, G., Ancora sul problema del concorso esterno nei delitti associativi, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, 632; Maiello, V., Luci ed ombre nella cultura giudiziaria del concorso esterno, in Dir. pen. contemp., 2012, n. 1, 265 ss.; Pulitanò, D., La requisitoria di Iacoviello: problemi da prendere sul serio, in Dir. pen. contemp., 2012, n. 1, 257 ss.
5 Cass. pen., 21.3.1989, n. 8864; in seguito, nello stesso senso, tre note sentenze del 18.5.1994, nn. 2342, 2343 e 2348; ancora, Cass. pen., 30.6.1994, n. 2669.
6 In particolare si veda Insolera, G., Problemi di struttura del concorso di persone nel reato, Milano, 1986, 136 ss., che ha ripreso poi il concetto in lavori successivi.
7 Cass. pen., 13.2.1990, n. 12358; Cass. pen., 23.11.1992, n. 4805/93; Cass. pen., 18.6.1993, n. 2902; Cass. pen., 31.8.1993, n. 873; Cass. pen., 6.6.1994, n. 2718; Cass. pen., 25.8.1994, n. 3635; Cass. pen., 1.9.1994, n. 3663; Cass. pen., 10.10.1994, n. 4379.
8 Cass. pen., S.U., 28.12.1994, generalmente indicata nel dibattito sul tema come sentenza Demitry.
9 Cass. pen., S.U., 27.9.1995, n. 30, generalmente indicata come Mannino 1, meno conosciuta di altre decisioni delle Sezioni Unite sullo stesso tema, ed in effetti pertinente, secondo criteri oltretutto superati, ai soli profili soggettivi del concorso esterno.
10 Nel senso della configurabilità del concorso esterno, pur con estrema varietà di toni, Cass. pen., 27.3.1995, n. 7940; Cass. pen., 10.11.1995, n. 12591; Cass. pen., 3.9.1996, n. 2080; Cass. pen., 17.3.1997, n. 1120; Cass. pen., 26.3.1997, n. 1442; Cass. pen., 23.4.1997, n. 4003; Cass. pen., 7.1.1999, n. 12; Cass. pen., 18.2.1999, n. 84; Cass. pen., 25.6.1999, n. 2418; Cass. pen., 16.3.2000, n. 4893; Cass. pen., 15.5.2000, n. 2285; Cass. pen., 10.11.2000, n. 2027/01; Cass. pen., 22.12.2000, n. 6929/01; Cass. pen., 17.4.2002, n. 21356. In senso sostanzialmente contrario Cass. pen., 21.9.2000, n. 3299/01; Cass. pen., 14.2.2001, n. 15158.
11 Cass. pen., S.U., 30.10.2002, n. 22327/03, generalmente nota come sentenza Carnevale.
12 Cass. pen., S.U., 12.7.2005, n. 33748, generalmente richiamata con l’espressione Mannino 2.
13 Cass. pen., 16.12.2005, n. 1023/06; Cass. pen., 16.2.2006, n. 7616; Cass. pen., 20.4.2006, n. 16493; Cass. pen., 22.11.2006, n. 1073/07; Cass. pen., 12.4. 2007, n. 37528; Cass. pen., 10.5.2007, n. 542/08; Cass. pen., 10.4.2008, n. 35357; Cass. pen., 29.4.2008, n. 36769; Cass. pen., 6.5.2008, n. 34597; Cass. pen., 11.6.2008, n. 35051; Cass. pen., 11.12.2008, n. 54/2009; Cass. pen., 26.6.2009, n. 29458; Cass. pen., 15.10.2009, n. 42385; Cass. pen., 7.4.2010, n. 16783; Cass. pen., 21.10.2010, n. 42922; Cass. pen., 22.1.2011, n. 15583; Cass. pen., 20.3.2011, n. 16606; Cass. pen., 8.7.2011, n. 27685; Cass. pen., 9.11.2011, n. 43107.
14 Si vedano, relativamente alla figura “base” del reato associativo (art. 416 c.p.), Cass. pen., 9.7.2008, n. 38430; Cass. pen., 22.4.2009, n. 19335; per l’associazione con finalità di terrorismo (art. 270 bis c.p.), Cass. pen., 11.10.2006, n. 1072/2007; Cass. pen., 14.3.2010, n. 16549; quanto all’associazione per il narcotraffico (art. 74 d.P.R. 9.10.1990, n. 309), Cass. pen., 15.1.2007, n. 10103. In dottrina, sull’argomento, Valsecchi, A., Partecipazione e concorso eventuale nelle associazioni per delinquere diverse dall’associazione mafiosa, in AA.VV., I reati associativi: paradigmi concettuali e materiale probatorio, Padova, 2005, 103 ss.
15 Il testo della requisitoria è pubblicato in www. penalecontemporaneo.it. Specifiche note di commento – a firma di G. Fiandaca, V. Maiello, P. Morosini, D. Pulitanò e C. Visconti, – sono edite, come già in parte si è segnalato (supra nt. 4), in Dir. pen. contemp., 2012, n. 1, 247 ss. Per i commenti alla sentenza, cfr. supra nt. 1.
16 Pur non essendo certo esaurite le resistenze dottrinali: da ultimo, Verrina, G.L., op. cit.
17 Congruenza negata ad esempio da Bell, A., La sentenza della Cassazione, cit.
18 In tal senso, ad esempio, già Fiandaca, G., La contiguità mafiosa degli imprenditori tra rilevanza penale e stereotipo criminale, in Foro it., 1991, II, 472 ss.
19 Il rilievo è presente anche nell’ambito di trattazioni dottrinali. Ad esempio: Visconti, C., Il tormentato cammino del concorso “esterno” nel reato associativo, in Foro it., 1994, II, 561 ss.
20 Non a caso la giurisprudenza ammette costantemente la configurabilità di rapporti associativi tra soggetti in posizione di “antagonismo” contrattuale, come i ladri e i ricettatori di automobili destinate ai mercati esteri, od i fornitori di sostanze stupefacenti in rapporto ai venditori al dettaglio (da ultimo, con riferimento all’associazione per il narcotraffico, Cass. pen., 10.1.2012, n. 3509).
21 Di recente, ad esempio, è stata confermata l’integrazione del reato nel caso di persona consapevolmente dedita alla custodia dell’arsenale di una cosca, per quanto indifferente ai fini dell’organizzazione criminale, non interessata all’affiliazione, e motivata solo da rapporti familiari con una parte degli associati: Cass. pen., 4.3.2010, n. 17206.
22 Cass. pen., 20.4.2012, n. 18797. Il provvedimento, concernente l’imputazione cautelare di concorso esterno elevata contro un medico che avrebbe garantito i collegamenti fra una cosca mafiosa ed ambienti istituzionali, è particolarmente significativo, in quanto la Corte, pur confermando il provvedimento restrittivo, ha chiaramente illustrato come le risultanze avrebbero legittimato la configurazione di una piena appartenenza associativa dell’interessato.
23 Il che comporta, sul piano delle responsabilità individuali, che la partecipazione si perfeziona con la mera inclusione dell’interessato, per effetto dell’accordo di stabile collaborazione, indipendentemente dalla prestazione effettiva dei contributi attesi: da ultimo, Cass. pen., 12.11.2010, n. 4105/11.
24 Da ultimo, la citata sentenza n. 15727/2012 della Cassazione; nello stesso senso, in precedenza, la sentenza n. 542/2008, pure citata.
25 Una ricognizione relativamente recente in De Francesco, G., L’estensione delle forme di partecipazione al reato: uno sguardo sistematico su alcune recenti proposte in tema di criminalità organizzata, in Indice pen., 2009, 393 ss.