Vedi Libano, il confessionalismo politico dell'anno: 2012 - 2013
Chiamato in causa ogni qual volta in Libano scoppia una crisi o si verificano violenze intestine, il confessionalismo politico appare ormai indissolubilmente legato alle travagliate vicende del ‘Paese dei cedri’, tanto da esser da alcuni descritto come un carattere da sempre proprio della società libanese. Si tratta invece di un fenomeno storico moderno, che ha origine nelle vicende che hanno segnato il Monte Libano dalla metà del 19° secolo, e che da allora si è presentato sotto diverse forme. Il principio che sta alla sua base è che le minoranze confessionali presenti in Libano devono avere la garanzia di essere rappresentate in maniera equa negli apparati istituzionali, amministrativi e militari dello stato. L’appartenenza confessionale ha così finito per assumere un ruolo sempre più preponderante sia nella gestione politica che nelle dinamiche sociali libanesi. Sin dalla propria nascita, ciascun individuo assume, di fatto, un’identità confessionale che sovrasta, e in certi casi annulla, il senso di cittadinanza. Pensato come principio di garanzia tra le comunità, il confessionalismo è emerso come una delle cause principali della mai risolta ‘questione libanese’.
Il Libano è un paese multiconfessionale ma non multietnico (a parte le esigue comunità armena e curda), e le 18 comunità ufficialmente riconosciute appartengono ai tre grandi monoteismi. Al loro interno si dividono in gruppi più o meno consistenti: tra i cristiani emergono i maroniti, i greco-ortodossi e i greco-cattolici; i musulmani si dividono in sunniti, sciiti e drusi; gli ebrei libanesi, che attorno agli anni Cinquanta del secolo scorso costituivano la più folta comunità giudaica del Levante arabo, oggi contano ormai poche centinaia di persone. Nessuno di questi gruppi può comunque rivendicare un esclusivo rapporto naturale col territorio che oggi è il Libano, e la loro presenza tra l’Antilibano e il Mediterraneo è frutto di una mediazione storica segnata da migrazioni, conversioni di massa e riscrittura a posteriori di una propria storia mitica.
L’inizio della polarizzazione comunitaria nel Monte Libano, allora abitato in prevalenza da drusi e cristiani, coincise con l’introduzione da parte delle autorità ottomane di una serie di riforme, a partire dal 1839. Anche per cedere alle richieste delle potenze europee di poter proteggere direttamente i cristiani dell’Impero, la Sublime Porta istituì il principio dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, indipendentemente dalla appartenenza religiosa, e conferì alle istituzioni comunitarie e alle loro gerarchie locali una delega di autorità sui loro correligionari. La forte rivalità anglo-francese esasperò gli attriti sociali ed economici, che si trasformarono in conflitti inter-comunitari tra i drusi, indirettamente appoggiati da Londra, e i maroniti, ‘protetti’ da Parigi. Seguì una demarcazione sempre più netta in termini confessionali del territorio della Montagna libanese e nel 1841 scoppiarono le prime violenze druso-cristiane, che vent’anni dopo si riproposero in maniera più sanguinosa.
All’indomani di questa ‘prima guerra civile’ e di concerto con le potenze europee, nel 1861 la Sublime Porta stabilì il ‘Regolamento organico’ della Montagna libanese, che ratificava de facto la divisione comunitaria della gestione politica: un governatore cristiano ‘straniero’ veniva affiancato da un consiglio di 12 rappresentanti dei principali gruppi del territorio. L’appartenenza comunitaria diventò così la base della legittimazione politica, screditando l’ordine sociale tradizionale. Basato per secoli su una gerarchia elitaria che trascendeva l’affiliazione confessionale, il vecchio regime dovette cedere il passo al confessionalismo politico sotto i colpi di una riforma modernista che privilegiava il discorso sull’‘eguaglianza religiosa’.
La prima Costituzione (1926) del Grande Libano sotto mandato francese riformulò questo principio a favore dei maroniti che, in forza dei risultati del primo (e ultimo) censimento ufficiale condotto nel paese (1932), si assicurarono i 6/5 delle quote di rappresentanza negli organi dello stato rispetto ai musulmani. Il delicato equilibrio si mantenne anche oltre la nascita del Libano indipendente (1943), ma fu messo sempre più in discussione dalla crescente mobilitazione dei musulmani. Il nuovo status si determinò alla fine della guerra civile (1975-90). Causato, tra l’altro, dalla volontà di sunniti e sciiti di riequilibrare a loro favore la bilancia del potere, il conflitto intestino si concluse formalmente con gli Accordi di Ta’if del 1989. L’attuale Costituzione libanese, figlia di questi accordi, prevede l’abolizione del confessionalismo politico, senza però indicare un termine temporale. Inoltre, pur introducendo il principio dell’alternanza e della rotazione degli incarichi dei rappresentanti dei diversi gruppi, riproduce di fatto il sistema confessionale, almeno ai vertici delle istituzioni statali, e apporta una sostanziale modifica dell’equilibrio di poteri: le quote sono ora divise a metà tra cristiani e musulmani, e i poteri del capo dello stato maronita sono ridotti a favore del primo ministro sunnita e del presidente del Parlamento sciita. Il sistema confessionale è ulteriormente protetto dalla legge elettorale, che prevede in ogni circoscrizione l’assegnazione di una quota di seggi parlamentari a ciascuna comunità, a seconda dei locali equilibri demo-confessionali.
Il dibattito sul tema in Libano continua a essere aperto tra chi difende il confessionalismo politico, ancorandosi strenuamente all’originario principio di garanzia, e chi invoca la sua cancellazione in nome di un laicismo di stampo occidentale, difficile da riprodurre all’ombra dei cedri. C’è anche chi propone di superare la logica della ripartizione istituzionale in quote confessionali (con un’assemblea legislativa aconfessionale), garantendo a ciascuna comunità una sua rappresentanza, ad esempio con la creazione di una seconda camera, con poteri consultivi ed eletta su base confessionale.