Il conflitto di interessi in sede di valutazione delle offerte
La sentenza della Corte di Giustizia del 12.3.2015, causa C538/13, stabilisce che l’amministrazione aggiudicatrice è responsabile della procedura di gara per l’affidamento di un appalto anche nel caso in cui nomini una commissione di esperti: a lei compete, dunque, la verifica dell’esistenza di eventuali conflitti di interesse tra questi ultimi e le imprese concorrenti. Per la Corte, non si può chiedere al ricorrente in giudizio «di provare concretamente la parzialità del comportamento degli esperti»: di conseguenza, se sussistono elementi oggettivi che mettono in dubbio l’imparzialità di un ausiliario dell’amministrazione aggiudicatrice, spetta poi a quest’ultima ogni ulteriore verifica sul punto, anche in funzione dell’eventuale prova contraria da fornire in sede processuale.
La vicenda sulla quale si innesta l’intervento della Corte di Giustizia1 ha ad oggetto una gara di appalto per la fornitura di sistemi di allarme, bandita dal Dipartimento antincendio e di soccorso del Ministero degli Interni lituano. A seguito dell’impugnativa dell’atto di aggiudicazione da parte di un’impresa concorrente risultata non aggiudicataria, la Corte di Cassazione lituana, intervenuta in terza e ultima istanza, procede ad interpellare la Corte di Giustizia su alcune questioni d’interpretazione della direttiva 89/665 (modificata della 2007/66 e dalla 2004/18) recante disposizioni di coordinamento delle norme legislative, regolamentari e amministrative, relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori.
Lo specifico tema sottoposto all’attenzione del giudice europeo concerne, in particolare, il problema della parzialità degli esperti incaricati dall’amministrazione di redigere il capitolato d’oneri e di valutare le offerte in ausilio alla commissione di gara: tre di questi esperti, infatti, erano risultati colleghi, presso l’Università tecnologica di Kaunas, dei professionisti indicati nell’offerta dell’aggiudicataria dell’appalto.
L’ausilio di consulenti specialisti si era reso necessario nel caso di specie in ragione del particolare oggetto dell’appalto e dei criteri di valutazione previsti nel bando, incentrati sulla qualità delle soluzioni tecniche e architetturali apprestate dai diversi concorrenti e sulla loro conformità alle specifiche tecniche e alle necessità dell’amministrazione aggiudicatrice.
I quesiti sottoposti all’attenzione della Corte puntano a chiarire: a) se la sussistenza di relazioni denotanti comunanza di interesse tra i suddetti professionisti, in assenza di iniziative di contrasto intraprese dall’amministrazione aggiudicatrice, sia di per sé sufficiente per ottenere il riconoscimento dell’illegittimità delle azioni poste in essere dall’amministrazione stessa «senza che sia richiesto al ricorrente di dimostrare concretamente la parzialità del comportamento degli esperti»; b) se, a tal fine, debba essere tenuta in considerazione la circostanza «che i risultati della valutazione delle offerte degli offerenti sarebbero sostanzialmente rimasti uguali in assenza di valutatori parziali fra gli esperti che hanno valutato le offerte».
Le tesi perorate dalla parte ricorrente e dall’amministrazione resistente si divaricano su entrambi i profili di indagine: per la ricorrente è il dato “oggettivo” della sussistenza dei legami di vicinanza professionale tra gli esperti della stazione appaltante e gli specialisti indicati dalla parte aggiudicataria a determinare, in via autonoma e autosufficiente, la carenza della necessaria imparzialità dei primi; viceversa, secondo la stazione appaltante, chi ricorre in giudizio è chiamato a dimostrare non soltanto la sussistenza di legami oggettivi fra i professionisti di parte e gli ausiliari della pubblica amministrazione, ma anche l’impatto di tali legami sulla decisione di aggiudicazione dell’appalto e, quindi, la dimostrazione della concreta parzialità che avrebbe alterato la valutazione delle offerte.
La soluzione proposta dalla Corte di Giustizia prende le mosse dal riconoscimento che la non imparzialità di un esperto nominato dalla stazione appaltante per valutare le offerte presentate dai concorrenti, può in astratto comportare un vizio dell’aggiudicazione per violazione dei principi di parità di trattamento e di trasparenza. Tuttavia, in mancanza di specifiche norme rinvenibili nella direttiva appalti e nella direttiva ricorsi, la Corte rimette alla legislazione nazionale la definizione dei criteri alla cui stregua può assumere rilevanza la posizione di parzialità dei commissari, avendo cura di precisare che nulla osta a che detta condizione possa essere integrata anche solamente sulla base di una situazione di cointeressenza “oggettiva”, senza necessità della dimostrazione del pregiudizio concreto ed effettuale che ne è conseguito, sub specie di un uso distorto e illegittimo del potere di valutazione delle offerte. Seguendo tale ultima soluzione, dunque, non rileverebbe l’impatto che l’interferenza di interessi ha avuto sulla decisione di aggiudicazione dell’appalto, né, quindi, la concreta parzialità del comportamento degli ausiliari della pubblica amministrazione.
Più articolato è il discorso sui risvolti processuali dell’attività di accertamento del vizio della procedura.
Il ragionamento condotto dalla Corte è connotato, infatti, da un’interferenza tra gli aspetti relativi al procedimento e quelli inerenti al processo. A latere del ruolo primario anche qui riconosciuto alle scelte del legislatore nazionale, si staglia l’affermazione, centrale e vincolante nella soluzione del caso, secondo cui compete all’amministrazione aggiudicatrice il compito di verificare la sussistenza di eventuali conflitti di interesse, di prevenirli e di porvi rimedio. Dunque, una volta assolto da parte del ricorrente il compito di segnalare gli elementi oggettivi che possano far dubitare dell’imparzialità del commissario, ogni ulteriore verifica sul punto spetta all’amministrazione procedente. Da tali premesse, riferibili alla conduzione del “procedimento” di gara, la Corte ricava il principio “processuale” secondo cui è contraria al diritto europeo qualunque norma o ricostruzione giuridica che possa far gravare sul ricorrente «l’onere di provare, nell’ambito del procedimento di ricorso, la parzialità concreta degli esperti nominati dall’amministrazione aggiudicatrice»; e ciò in quanto un offerente, «di norma, non è in grado di avere accesso a informazioni e a elementi di prova tali da consentirgli di dimostrare una siffatta parzialità».
Con la pur necessaria cautela dettata dall’ampia latitudine propria dei pronunciamenti del giudice comunitario, la decisione in commento sembra fornire apporti innovativi oltre che sul tema del riparto degli oneri probatori in sede processuale, indirettamente anche su quello della natura giuridica e della rilevanza del conflitto di interessi in materia di valutazione delle offerte.
Su entrambi i profili occorre quindi svolgere alcune essenziali considerazioni di approfondimento.
La definizione della fattispecie del “conflitto di interessi” sulla base della quale è possibile argomentare la posizione di parzialità del commissario di gara, non è questione diffusamente affrontata nella pronuncia di cui trattasi. La Corte di Giustizia si limita a lambire il tema, precisando che la direttiva 89/665 consente che l’illegittimità della valutazione delle offerte sia constatata per il solo fatto che gli esperti indicati nell’offerta della parte aggiudicataria siano colleghi degli esperti dell’amministrazione aggiudicatrice che hanno redatto il capitolato d’affari e concorso a valutare le offerte2.
Si tratta di affermazione da correlare all’art. 2 della direttiva 2004/18 (intitolato «Principi di aggiudicazione degli appalti») nella parte in cui vi si trovano enunciati i principi di orientamento generale in materia di procedure di gara, quali quello della parità di trattamento tra gli offerenti e della massima trasparenza dell’azione amministrativa: alla luce degli stessi, una situazione di conflitto d’interessi è in grado di costituire un vulnus ai canoni della corretta azione amministrativa, in quanto foriera del rischio che la stazione aggiudicatrice si lasci guidare da considerazioni avulse dai predefiniti criteri selettivi e dai contenuti dell’appalto, accordando preferenze arbitrarie a taluno dei concorrenti e alterando, in tal modo, l’esito di un sano ed efficace confronto competitivo.
Ciò posto, la Corte, non potendo attingere ad una specifica disciplina comunitaria in materia, non chiarisce meglio quali siano gli elementi costitutivi della fattispecie del “conflitto di interessi” e se questa debba configurarsi come fattispecie di “pericolo” o di “danno”, fronteggiabile, alternativamente, nel primo caso con una disciplina di carattere “preventivo” (intesa cioè ad eliminare ex ante il rischio che un interesse confliggente possa condizionare l’attività del titolare del potere) e, nel secondo caso, con tecniche di tipo “rimediale” (volte a reprimere ex post comportamenti del titolare del potere risultati condizionati da interessi alieni).
Se la possibilità, riconosciuta dal giudice comunitario, di dimostrare la parzialità del commissario di gara sulla base della sola sussistenza (statica) di legami professionali con l’impresa partecipante sembra orientata nel primo senso, viceversa i successivi passaggi argomentativi della pronuncia in esame paiono agganciarsi logicamente alla seconda ipotesi, sia nella parte in cui descrivono le conseguenze del conflitto d’interessi, rinvenibili nella possibilità che «l’amministrazione aggiudicatrice pubblica si lasci guidare da considerazioni estranee all’appalto in oggetto e che sia accordata una preferenza a un offerente unicamente per tale motivo»; sia laddove precisano che «la constatazione della parzialità di un esperto richiede segnatamente la valutazione dei fatti e delle prove, che appartiene alla competenza delle amministrazioni aggiudicatrici e delle autorità di vigilanza amministrative o giurisdizionali»; e che «spetta a detta amministrazione aggiudicatrice esaminare tutte le circostanze rilevanti che hanno condotto all’adozione della decisione relativa all’aggiudicazione dell’appalto».
Le affermazioni da ultimo richiamate suggeriscono l’idea di un accertamento “in concreto” della parzialità dei commissari di gara in asserita posizione di conflitto di interessi, in quanto muovono dall’implicito presupposto secondo cui è solo da tale verifica puntuale che può desumersi il rischio effettivo di un disallineamento delle valutazioni dell’amministrazione aggiudicatrice dalle regole della procedura. D’altra parte, è solo nella logica di un accertamento “in concreto” che può concepirsi la prescritta «valutazione dei fatti e delle prove» in funzione della quale viene elaborata la regola di riparto degli oneri probatori tra parte ricorrente e parte pubblica resistente.
2.1 I modelli di riferimento
Nella sentenza della Corte europea emergono, sia pure per linee implicite, i distinti modi astrattamente ipotizzabili di intendere il conflitto di interessi, tendenzialmente schematizzabili in una partizione dicotomica, nota peraltro ai diversi ambiti giuridici nei quali è d’uso la nozione3, della quale è qui utile dare conto per maggiore chiarezza esplicativa.
In una prima accezione, il conflitto di interessi è inteso come una situazione di divergenza tra interessi che osta, potenzialmente, alla loro contestuale soddisfazione e ingenera il pericolo che uno di essi pregiudichi illegalmente l’altro: perché la fattispecie si integri è dunque sufficiente il semplice fattore di rischio, e non già l’effettiva distorsione che può in concreto prodursi nell’esercizio del potere giuridico.
In una seconda accezione, agire in conflitto di interessi non significa semplicemente operare nonostante il contrasto tra gli interessi, ma vuol dire agire in modo non corretto, facendo prevalere l’interesse proprio su quello, altrui o collettivo, che si sarebbe dovuto soddisfare secondo il mandato normativo: in questa prospettiva assumono rilievo, pertanto, le effettive conseguenze pregiudizievoli derivanti dalla posizione di parzialità che ha concretamente inquinato l’azione del soggetto giuridico4.
La prima impostazione, a sua volta, conosce al suo interno un’ulteriore sottodistinzione, a seconda della consistenza “concreta” o “astratta” della situazione di pericolo che si ritenga necessaria per configurare la fattispecie giuridica. Le due soluzioni si differenziano in ragione del diverso (e più o meno intenso) grado di accertamento degli indici dai quali desumere il rischio di una possibile distorsione del potere esercitato (tra questi indici: la natura degli interessi in attrito, gli intenti perseguiti dal soggetto agente, i contenuti e gli effetti delle determinazioni da questi assunte, etc.).
Nel primo caso, la valutazione del conflitto implica un’analisi “statica” dei requisiti di antagonismo nel quale si pongono gli interessi in conflitto: l’indagine si sofferma, quindi, sulle posizioni di interesse veicolate dall’operatore giuridico e sui rapporti da questi intrattenuti con i terzi, ma non prende in esame elementi della condotta che possano meglio disvelare l’asserita condizione di parzialità o l’esercizio abusivo del potere. Nel secondo caso, invece, si fa luogo ad una verifica sulle modalità “dinamiche” con cui tali distinti interessi sono venuti in attrito e hanno tra di loro interagito: per accertare la concreta interferenza di interessi si richiede, quindi, un’analisi dell’attività del soggetto agente e del concreto atteggiarsi dei suoi rapporti con le parti titolari delle posizioni in conflitto, indagine che, tuttavia, non può arrivare a toccare il contenuto e gli effetti della determinazione valutativa conclusiva (come invece accadrebbe ove si intendesse dare rilievo agli effetti pregiudizievoli del conflitto di interessi inteso quindi come “fattispecie di danno”).
Come già esposto, la scelta tra le diverse possibili configurazioni del conflitto di interessi, in quanto fattispecie produttiva di effetti giuridici, è rimessa dalla Corte di Giustizia al legislatore nazionale, al quale compete stabilire «se ed in quale misura le autorità amministrative e giurisdizionali competenti debbano tenere conto della circostanza che un’eventuale parzialità degli esperti abbia avuto o meno un impatto su una decisione di aggiudicazione dell’appalto» (cfr. punto 46 della sentenza).
A fini esplicativi, la sentenza in commento prende in esame anche le possibili conseguenze pregiudizievoli del conflitto di interessi, ma al solo scopo di meglio chiarire la ripartizione, nonché l’esatta estensione e articolazione, degli oneri probatori ricadenti sulle parti contendenti in giudizio: seguendo tale impostazione, la Corte di Giustizia ha modo di precisare che l’elemento presuntivo riferito alla relazione di cointeressenza tra commissario di gara e impresa aggiudicataria, dedotto dal ricorrente, è idoneo a dare avvio a un’indagine di più ampia portata, rimessa all’iniziativa (anche processuale) della stazione appaltante e destinata ad appurare la conseguente interferenza che il condizionamento esterno ha prodotto nella fase di valutazione delle offerte5. Dunque, attraverso la chiara distinzione tra la scaturigine e le conseguenze del conflitto di interessi, la pronuncia definisce i ruoli processuali della parte ricorrente e della parte pubblica resistente.
Nondimeno, se questo è lo schema assunto a fini illustrativi, la reale estensione del conflitto di interessi, come fattispecie invalidante gli atti della procedura di gara, è piuttosto rinvenibile nelle successive considerazioni dedicate al regime probatorio: il punto, dunque, merita ulteriori considerazioni di approfondimento.
2.2 Conflitto di interessi e regime probatorio
Quanto alle modalità di accertamento del conflitto di interessi, l’impostazione seguita dal giudice comunitario parte da premesse del tutto coerenti con i principi generali di carattere processuale consolidatasi nella materia degli appalti pubblici.
Dopo aver chiarito che la constatazione della parzialità di un esperto implica una valutazione di fatti e di prove rimessa alla competenza delle amministrazioni aggiudicatrici e delle autorità di vigilanza amministrative o giurisdizionali (i), la Corte ha cura di precisare che, conformemente a una costante giurisprudenza, in assenza di una disciplina dell’Unione in materia, spetta a ciascuno Stato membro stabilire le modalità delle procedure amministrativa e giurisdizionale intese a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell’Unione (ii); e che tali modalità procedurali non devono essere meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi previsti per la tutela dei diritti derivanti dall’ordinamento interno (cd. principio di equivalenza), né devono rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione, mettendo in pericolo l’effetto utile della direttiva 89/665 (cd. principio di effettività) (iii). Nel dettare i criteri di valutazione della situazioni di parzialità degli ausiliari della commissione di gara, dunque, la Corte lascia ampio spazio alle discipline nazionali, avendo cura di fissare i soli limiti entro i quali tale discrezionalità può essere esercitata.
Maggiormente incisiva è l’argomentazione dedicata in modo specifico al regime probatorio. Qui la Corte si fa carico di chiarire che non si può chiedere «all’offerente escluso di provare concretamente la parzialità del comportamento degli esperti»: non solo, infatti, un tale esito regolatorio sarebbe incompatibile con il ruolo attivo affidato dalle direttive Ue alle amministrazioni aggiudicatrici al fine di garantire un trattamento paritario e trasparente degli operatori economici; ma simili modalità procedurali renderebbero di fatto praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione, così pregiudicando la salvaguardia del principio di effettività. In tal senso la Corte osserva che «un offerente, di norma, non è in grado di avere accesso a informazioni e a elementi di prova tali da consentirgli di dimostrare una siffatta parzialità»; e che la parzialità di un esperto «richiede segnatamente la valutazione dei fatti e delle prove», estesa in ipotesi anche ai contenuti della «decisione» assunta sull’aggiudicazione dell’appalto.
Da qui l’elaborata regola di riparto degli oneri della prova, stando alla quale l’offerente escluso deve allegare un principio di prova, ovvero elementi oggettivi «che mettono in dubbio l’imparzialità di un esperto dell’amministrazione aggiudicatrice»; mentre spetta a quest’ultima esaminare ogni ulteriore circostanza rilevante e completare l’approfondimento istruttorio del caso, «anche, eventualmente, chiedendo alle parti di fornire talune informazioni ed elementi probatori».
Due, quindi, sono gli argomenti sui quali fa perno la decisione. Da un lato viene evocato il principio di riferibilità o di vicinanza della prova – in virtù del quale l’onere della prova deve essere ripartito tenuto conto, in concreto, della possibilità per l’uno o per l’altro contendente di provare fatti e circostanze che ricadono nelle propria sfera di azione6. Dall’altro lato, con statuizione di indubbia originalità, la Corte di Giustizia afferma che alle amministrazioni aggiudicatrici è attribuito un ruolo “attivo” nelle procedure di aggiudicazione degli appalti che trascende la fase della gara, estendendosi anche al momento processuale: sicché «sarebbe incompatibile con siffatto ruolo attivo far gravare sulla ricorrente l’onere di provare, nell’ambito del procedimento di ricorso, la parzialità concreta degli esperti nominati dall’amministrazione aggiudicatrice». Dunque, il piano degli interessi sostanziali sottesi alla procedura di gara tende a riflettersi su quello dei ruoli processuali, nel senso che l’interesse pubblico che muove l’iniziativa procedimentale – orientato alla realizzazione di una competizione trasparente, non discriminatoria e realmente selettiva – è alla base di un simmetrico onere processuale gravante sull’amministrazione aggiudicatrice; e le norme che rendono quest’ultima responsabile del procedimento le impongono (così sembra di capire, almeno) un ulteriore obbligo collaborativo anche in sede giudiziale, non consentendole di rimanere in posizione passiva, speculando sull’eventualità che la parte avversaria non riesca a dare prova delle proprie allegazioni.
Sul punto è opportuno sottolineare che mentre la materia inerente la «nozione di parzialità.. i criteri della medesima e le regole relative» ai conseguenti «effetti giuridici», viene rimessa, come già evidenziato, alle determinazioni del legislatore nazionale sia per ciò che concerne l’esatta configurazione del conflitto di interessi, sia con riguardo alla scelta di annettere rilevanza o meno all’impatto concreto che un’eventuale parzialità degli esperti abbia avuto sulla decisione di aggiudicazione dell’appalto (cfr. punto 46) viceversa alle proprie enunciazioni di carattere processuale, in specie riferite al regime probatorio, menzionate al punto 43 della sentenza, il giudice comunitario ascrive carattere vincolante, in quanto discendenti dal diritto dell’Unione.
Nonostante il passaggio logico rimanga inespresso nella pronuncia della Corte, è di tutta evidenza che lo svolgimento degli oneri di allegazione e di prova a carico dell’uno o dell’altro contendente in giudizio risente del modello di inquadramento “sostanziale” nel quale si ritiene di iscrivere il fenomeno del “conflitto di interessi”: schematizzando, se quest’ultimo è inteso come fattispecie di “pericolo astratto”, l’onere probatorio gravante sul ricorrente potrà ritenersi soddisfatto dalla mera allegazione di circostanze “oggettive” che inducano il dubbio sulla posizione di parzialità del commissario di gara e non risultino contraddette da evidenze di segno contrario; se, viceversa, si accede ad una concezione del conflitto di interessi come fattispecie di “danno” (o di “pericolo concreto”), si imporranno necessari approfondimenti sull’esercizio abusivo del potere e questi non potranno che derivare da una più articolata attività di dimostrazione dei concreti profili di inquinamento del processo volitivo dei commissari chiamati alla valutazione delle offerte.
Alla prima delle due concezioni menzionate si addicono discipline di contrasto di tipo “preventivo”, strutturate attraverso “divieti di agire” intesi ad impedire ex ante l’esercizio del potere da parte del suo titolare, onde scongiurare in radice il rischio di un suo improprio condizionamento.
Alla seconda concezione del conflitto di interessi si associano tecniche rimediali di carattere “repressivo”, finalizzate cioè non già ad impedire in ogni caso il verificarsi della condizione di parzialità, ma a reprimere (o invalidare) ex post comportamenti del titolare del potere risultati effettivamente condizionati da un interesse configgente.
La Corte di Giustizia, pur non chiarendo la premessa “sostanziale” del ragionamento, prende posizione sul tema “processuale” vagliando un’ipotesi paradigmatica ricalcata sulla seconda delle alternative sopra delineate e collocando nell’orbita dei compiti dell’amministrazione aggiudicatrice ogni approfondimento sul contrasto di interessi che può avere condizionato l’operato dei propri ausiliari.
Per cogliere la portata degli enunciati in esame si rendono necessarie due precisazioni preliminari.
La prima: nell’ampio riconoscimento del ruolo attivo dell’amministrazione finalizzato alla prevenzione, all’individuazione e alla soluzione dei conflitti di interesse il piano procedimentale è sovrapposto a quello della contesa processuale. Da qui un eccesso di sintesi che crea confusione: va da sé, tuttavia, in quanto regola scontata non bisognevole di puntualizzazioni, che una volta conclusosi il procedimento, il ruolo di vigilanza “attiva” sul corretto svolgimento della procedura e sull’operato degli ausiliari della parte pubblica, si estende anche ai privati concorrenti in gara risultati non vincitori, in quanto portatori di un interesse contrario all’assetto regolatorio definito con l’atto di aggiudicazione dell’appalto.
Seconda precisazione: la regola di riparto dell’onere della prova enunciata dalla Corte di Giustizia va intesa cum grano salis, non trovando assoluto e generalizzato riscontro l’assunto di partenza secondo il quale il privato ricorrente muove comunque da una posizione di svantaggio e di difficile accessibilità alla prova, tale da limitare necessariamente gli elementi di conoscenza a sua disposizione: ove questa condizione non dovesse realizzarsi, l’onere probatorio del privato ricorrente tornerebbe a esplicarsi in tutta la sua pienezza.
Al netto delle precisazioni di cui sopra – e assumendo il caso di una situazione di fisiologica (e ordinaria) asimmetria conoscitiva tra privato e pubblica amministrazione, quale quella sottesa alla fattispecie esaminata in sentenza – la regola di riparto degli oneri probatori tratteggiata dalla Corte di Giustizia fa sì che, una volta allegati da parte del controinteressato sufficienti elementi indiziari attestanti la condizione di parzialità del commissario di gara, compete all’amministrazione procedente fornire sul punto una puntuale prova contraria, in grado di fugare il sospetto di potenziale condizionamento esterno dell’attività di valutazione delle offerte: la conseguenza logica che se ne trae è che, in difetto di tale prova contraria, la parte pubblica è destinata a soccombere (“actore non probante reus absolvitur”).
Si riproduce, dunque, il sistema di distribuzione dell’onere della prova disciplinato dall’art. 2697 c.c., che imponendo all’attore in giudizio la dimostrazione degli elementi costitutivi della fattispecie giuridica, latu sensu oggetto della lite, e al resistente la prova degli eventuali elementi impeditivi o estintivi, fonda la regola di giudizio che fa gravare il rischio della prova mancata, o il dubbio indotto dalla prova insufficiente, sulla parte “onerata”, consentendo al giudice di evitare il non liquet, attraverso una presunzione di accertamento del fatto controverso.
La conseguenza ultima che si ricava dall’impostazione sin qui descritta è che, nella prefigurata ipotesi del mancato assolvimento da parte dell’amministrazione dell’onere probatorio sulla stessa gravante, il conflitto di interessi viene ad assumere la consistenza di fattispecie “di mero pericolo astratto”, in quanto l’effetto invalidante che ne deriva è diretta conseguenza di spunti indiziari inconfutati e purtuttavia ritenuti idonei ad integrare gli elementi costitutivi della fattispecie giuridica.
Per sintetizzarne gli aspetti innovativi, può quindi concludersi che, secondo la decisione della Corte comunitaria, la procedura di gara d’appalto è pregiudicabile da qualunque forma di conflitto di interessi, sia questo inteso come fattispecie di pericolo (astratto o concreto) o come fattispecie di danno (i). Un ulteriore portato di originalità della pronuncia è dato dal fatto che il tema processuale (e, in particolare, il descritto sistema di riparto dell’onere della prova) assume indirette implicazioni su quello sostanziale, in quanto determina la massima estensione delle ipotesi applicative nelle quali l’esercizio di potere in posizione conflittuale è destinato a cagionare l’invalidazione della procedura di gara (ii). Non meno interessante, e meritevole di una specifica considerazione, risulta infine il passaggio della sentenza in commento in cui la Corte pone in relazione il ruolo “attivo” dell’amministrazione aggiudicatrice nella conduzione del procedimento di gara ad un analogo ruolo “attivo” destinato a gravare sulla stessa in sede processuale (iii). Si tratta di affermazione dotata di un rilevante potenziale innovativo, in quanto – nel collegare il ruolo processuale della parte pubblica all’interesse sostanziale (di cui questa è portatrice) alla corretta ed efficace gestione del procedimento amministrativo – appare in grado di rivoluzionare l’assetto di regole consolidatesi nel giudizio amministrativo7: da qui l’esigenza di verificare, attraverso il riscontro di successivi pronunciamenti, se la statuizione in esame vada intesa come munita di valenza generale, ovvero se la stessa è stata formulata con esclusivo riferimento al caso di specie e in chiave puramente rafforzativa dello specifico ragionamento ivi condotto.
3.1 Correlazioni con il diritto interno
Le ripercussioni della pronuncia in commento all’interno del nostro ordinamento riguardano i possibili esiti applicativi dell’art. 84, d.lgs. n. 163/2006. La norma da ultimo citata, al co. 4, vieta la nomina come componenti (non come presidenti) della commissione di gara di coloro che abbiano già svolto o possano ancora svolgere altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta; al co. 7 del medesimo articolo, inoltre, vengono estese ai commissari le cause di astensione previste dall’art. 51 c.p.c.
Sottesa al co. 4 vi è l’idea di separare rigidamente la fase di preparazione della documentazione di gara con quella di valutazione delle offerte, a garanzia della neutralità del giudizio e del suo carattere «oggettivo», non dovendo lo stesso essere «influenzato» dalle scelte che l’hanno preceduto, se non per ciò che è stato dedotto formalmente negli atti di gara8.
In senso più ampio, il dettato dell’art. 84 esprime una regula iuris di portata generale volta a dare concreta attuazione ai principi di imparzialità e di buona amministrazione contenuti dall’art. 97 della Costituzione, prevenendo possibili conflitti di interesse e favoritismi nell’operato delle commissioni di gara: da qui una regola preclusiva di carattere assoluto, la cui violazione comporta, quali conseguenze, l’annullamento della scelta di aggiudicazione e la sua necessaria rinnovazione ad opera di una commissione diversamente composta.
La giurisprudenza amministrativa ha chiarito la portata della disposizione, precisando che9:
i) il pericolo di lesione dell’imparzialità e della trasparenza deve essere accertato “in concreto”, non essendo sufficiente l’astratta potenzialità lesiva dellacondotta sospetta. È quindi preclusa la presenza nelle commissioni di gara unicamente di coloro che abbiano svolto un’attività “idonea ad interferire con il giudizio di merito” sull’appalto, in grado cioè di incidere “in concreto” sul “processo formativo” della volontà che conduce alla valutazione delle offerte10;
ii) in particolare, il giudizio positivo di incompatibilità presuppone che l’attività svolta dal membro della commissione si rifletta “in via immediata e diretta” sulla procedura di gara, sicché esso non può riferirsi ai funzionari della stazione appaltante che abbiano svolto incarichi (amministrativi o tecnici) che non sono relativi allo specifico appalto, ovvero a quanti abbiano esercitato semplice attività di consulenza sulla documentazione di gara;
iii) di tale situazione di incompatibilità deve essere fornita “adeguata e ragionevole prova” da parte del soggetto ricorrente, non essendo sufficienti in tal senso elementi di mero sospetto11.
Sintetizzando, l’interpretazione giurisprudenziale sin qui consolidatasi tende ad applicare in senso “restrittivo” i presupposti normativi dell’art. 84, richiedendo un apprezzamento “in concreto” delle condizioni di possibile interferenza tra la posizione soggettiva del commissario di gara e l’esercizio del potere allo stesso assegnato. Uno schema, questo, che assegna alla condotta dell’ausiliario dell’amministrazione la consistenza di elemento interno e costitutivo della fattispecie normativa, in quanto, oltre all’analisi della situazione statica di antagonismo tra gli interessi in gioco, è richiesta anche una valutazione sulle concrete modalità dinamiche con cui tali distinti interessi hanno interagito tra di loro nella persona del titolare del potere.
Se questa pare essere la linea di tendenza della giurisprudenza nazionale, è plausibile prevederne un parziale arretramento, per effetto dell’accentuazione degli oneri processuali assegnati alla stazione aggiudicatrice dal giudice comunitario. Ciò in quanto, in una logica di sistema improntata ai canoni del processo di parti e del principio dispositivo, ad ogni ruolo attivo si associa uno speculare rischio in negativo, secondo la regola di giudizio che fa soccombere la parte gravata dall’onere processuale rimasto inevaso. Ed analoga regola di giudizio, fondata su un principio di dialettica collaborativa tra le parti del processo, si ricava dalla previsione contenuta all’art. 64, co. 2, c.p.a. secondo la quale il giudice pone a fondamento della propria decisione anche «i fatti non specificamente contestati dalle parti costituite».
Dunque, alla stregua delle premesse di sistema testé richiamate e della ripartizione dei ruoli processuali definita dal giudice comunitario, si profila la possibilità che il conflitto d’interessi rilevi anche se integrato da elementi di consistenza presuntiva, allegati dal ricorrente e non efficacemente confutati dalla parte pubblica. Verrebbe così a delinearsi un’accezione “statica” del conflitto, apprezzabile sulla base della sola situazione di interferenza di interessi presupposta alla condotta contestata, ovvero in termini di fattispecie di “pericolo astratto”. L’esito risulterebbe certamente innovativo nel quadro degli orientamenti invalsi nella giurisprudenza nazionale, ma compatibile con il carattere di disciplina essenzialmente preventiva ascrivibile all’art. 84, co. 4, in quanto disposizione destinata a prevenire in radice il rischio di un’attività impropriamente condizionata, prescindendo da un più puntuale riscontro degli sviluppi di tale distorsione.
1 C. giust., V, 12.3.2015, causa C538/13, Pres. von Danwitz Rel. Juhász eVigilo Ltd c. Priešgaisrines apsaugos irgelbejimo departamentas prie Vidaus reikalu ministerijos.
2 Si consideri, inoltre, che la Corte di Giustizia, pur senza diffondersi sul punto, sembra attribuire carattere di sufficiente “significatività” al rapporto di colleganza professionale tra gli esperti della parte concorrente e gli ausiliari della stazione appaltante, ricavandone un elemento “oggettivamente” idoneo a mettere in dubbio l’imparzialità dei secondi. La tendenza della giurisprudenza nostrana, invece, appare caratterizzata da maggiore cautela nel ritenere che i rapporti personali di mera colleganza o di collaborazione tra alcuni componenti della commissione esaminatrice e le parti concorrenti siano di per sé sufficienti a configurare un vizio della composizione della commissione stessa, in assenza di ulteriori e più specifici elementi tali da evidenziare il rischio di “nquinamento” del giudizio valutativo.
3 Il conflitto di interessi designa una figura disciplinata in numerosi settori giuridici, generalmente fondata sull’indebita interferenza che si realizza tra l’interesse posto a fondamento del potere e un interesse alieno, incompatibile con il primo e non perseguibile se non attraverso il suo sacrificio. Si vedano gli artt. 2373, 2475 ter e 2391 c.c. in materia societaria; gli artt. 1394 e 1395 c.c. in materia contrattuale; gli artt. 320, co. 6, 347, 360, 394, co. 4, 424 c.c., in tema di rappresentanza legale degli incapaci; l’art. 34 c.p.p. in tema di incompatibilità del giudice penale; l’art. 51 c.p.c. in materia di astensione del giudice civile; l’art. 78, co. 2, d.lgs. 18.8.2000, n. 267, in tema di delibere degli enti locali.
4 Per una recente ricognizione del problema cfr. Andreotti, G., Lo svantaggio del rappresentato nella disciplina del conflitto di interessi, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2014, 6, 20286 ss.. L’autore delinea tre nozioni dogmatiche del conflitto di interessi, alle quali è d’uopo qui fare riferimento per l’utilità esplicativa che se ne ricava: il conflitto come «situazione», identificato, secondo una prospettiva statica, nella circostanza che il titolare del potere decisionale è portatore di un interesse incompatibile con la soddisfazione dell’interesse altrui; il conflitto come «azione», inteso, mediante una concezione dinamica, nel senso che il titolare del potere ha compiuto un atto giuridico con lo scopo di perseguire un interesse contrastante con quello altrui, indipendentemente dal contenuto (pregiudizievole o meno) dei relativi effetti; il conflitto come «situazione di azione», dove, ancora in una visione dinamica, rilevano non solo lo scopo dell’azione ma anche i successivi effetti, ossia la contrarietà del loro contenuto all’interesse sotteso al potere.
5 Impostazione per certi versi analoga è rinvenibile nel caso del conflitto di interessi civilistico tra rappresentante negoziale e soggetto rappresentato. Questo è prevalentemente interpretato dalla giurisprudenza civilistica nel senso che il contratto è annullabile non sul mero presupposto del contrasto tra interessi, ma solo se il rappresentante abbia soddisfatto il proprio interesse a scapito di quello del rappresentato. Tale valutazione non deve essere compiuta in modo astratto od ipotetico, ma con riferimento al concreto atto o negozio che, per le sue intrinseche caratteristiche, consenta la creazione dell’utile di un soggetto mediante il sacrificio dell’altro, avendo riguardo alla situazione esistente al tempo della conclusione del contratto. Si vedano Cass., 13.3.2013, n. 6220; Cass., 30.5.2008, n. 14481; Cass., 8.11.2007, n. 23300; Cass., 26.9.2005, n. 18792. In altri termini, il contratto è annullabile ogni qualvolta la tutela di un interesse antitetico abbia indotto il rappresentante a violare l’obbligo di curare l’interesse altrui, conformando effetti negoziali economicamente sfavorevoli per il dominus. Detta lettura fa quindi perno sia sulla condotta del rappresentante, sia sui conseguenti effetti, sicché che il pregiudizio del rappresentato configura elemento necessario per determinare l’invalidità del negozio. In senso contrario cfr. Cass. n. 15891/2007, secondo cui non ha rilevanza, di per sé, che l’atto compiuto sia vantaggioso o svantaggioso per il rappresentato, né è necessario per il rappresentato provare di aver subito un concreto pregiudizio per poter domandare o eccepire l’annullabilità del negozio. Nello stesso senso si veda Cass., 15.3.2012, n. 4143, riferita all’ipotesi di cui all’art. 1395 c.c., secondo cui il contratto concluso dal rappresentante con se stesso è annullabile anche quando da esso non sia derivato danno al rappresentato.
6 Cfr. l’art. 64, co. 1, c.p.a., secondo il quale «spetta alle parti fornire gli elementi di prova che siano nella loro disponibilità».
7 Il processo amministrativo è improntato ad un regime di riparto degli oneri probatori sinteticamente definito come “modello dispositivo attenuato” o “modello dispositivo con metodo acquisitivo”.
8 Cfr. Cons. St., A.P., 7.5.2013, n. 13.
9 Cfr. Cons. St., 23.3.2015, n. 1565; Cons. St., 22.1.2015, n. 226; Cons. St., 3.5.2012, n. 2552; Cons. St., 15.7.2011, n. 4332; Cons. St., 12.7.2011, n. 4168; Cons. St., 24.3.2011, n. 24; Cons. St., 28.2.2011, n. 1255; Cons. St., 4.1.2011, n. 2; Cons. St., 22.6.2010, n. 3890.
10 Ex multis, Cons. St., 28.4.2014, n. 2191; Cons. St., 14.6.2013, n. 3316; Cons. St., 21.7.2011, n. 4438; Cons. St., 29.10.2010, n. 9577.
11 Cfr. Cons. St., 23.3.2015, n. 1565.