Il consumo e i regimi alimentari
di Renata Grifoni Cremonesi
Le conoscenze sui tipi di alimentazione durante la preistoria sono in massima parte basate sui resti ossei degli animali rinvenuti negli scavi e, in minore proporzione, sui resti vegetali. Le principali distinzioni rispetto ai modi di acquisizione del cibo sono quelle relative ai diversi tipi di economia (caccia e raccolta o economia produttiva con agricoltura e allevamento), che hanno determinato variabilità nei modelli di sopravvivenza nei differenti periodi e quindi diversi modelli di dieta. Le informazioni relative all'alimentazione si possono ricavare dal rinvenimento di resti di piante e di animali in strutture di abitato (suoli, focolari, pozzetti, silos, forni, vasi per derrate) o in tombe e dalla presenza di particolari oggetti legati al procacciamento o alla manipolazione dei cibi; dal Paleolitico superiore in poi, informazioni sull'argomento vengono fornite anche da rappresentazioni di animali e di piante nell'arte rupestre e mobiliare. Dati interessanti sono venuti inoltre dall'analisi di coproliti umani o da stomaci di mummie, ma in gran parte è sempre necessario, soprattutto per quanto concerne la raccolta e la manipolazione degli alimenti, ricorrere a supposizioni che si basano anche sulle abitudini alimentari di popolazioni attuali. Di un certo aiuto può essere anche l'analisi delle dentature: applicata a resti dei più antichi Ominidi e all'Homo habilis ha messo in evidenza come questi si cibassero di resti sia vegetali che animali ed è stata avanzata l'ipotesi che l'ambiente di savana, privo di gran parte delle proteine vegetali disponibili nella foresta, abbia favorito una specializzazione nel consumo di proteine animali, facilmente reperibili con la pratica dello sciacallaggio sui resti delle carcasse di animali uccisi dai grandi felini. Questa pratica offriva il duplice vantaggio di poter disporre di cibo a massimo valore energetico con minore dispendio di energie nella ricerca. Analisi compiute sui resti ossei animali rinvenuti in siti dell'Olduvaiano hanno evidenziato come almeno il 10% rechi segni di denti e di utensili: le carcasse erano dunque sfruttate sia dall'uomo che dagli animali. Con la progressiva evoluzione dell'Olduvaiano, nei siti appaiono sempre più ossa lunghe con tagli alle articolazioni, che denotano scelte precise nell'impiego delle carcasse, e sono frequenti le tracce di macellazione in determinati luoghi (butchering places); è attestato anche l'uso di estrarre il midollo. Con la comparsa dell'Homo erectus e con la maggiore specializzazione nella produzione di utensili si sviluppò anche la capacità di cacciare animali ad alto contenuto energetico, potendo scegliere sia poche prede grandi che molte piccole. Nel Paleolitico inferiore europeo vi sono testimonianze relative all'utilizzo di carcasse nei periodi più antichi, ma è testimoniata soprattutto la caccia ai grandi mammiferi e ai pachidermi con varie tecniche e sono frequenti i campi di macellazione. La raccolta era senz'altro praticata, ma i dati al riguardo sono estremamente scarsi (Vitis e Celtis, alghe e molluschi marini), come quelli sulla pesca (resti di barbi e di trote) dai siti francesi di Lunel-Viel, di Terra Amata e di Ougnac, mentre nei coproliti umani della Grotta del Lazaret sono presenti frammenti di osso, capelli, gusci di molluschi e carbone di legna. In seguito, in tutto l'arco del Paleolitico medio e superiore, si assiste a vere e proprie specializzazioni alimentari, con caccia a determinati animali in zone geografiche o in condizioni ambientali caratterizzate, come ad esempio la caccia al mammut in Europa orientale e quella alla renna in Europa occidentale, mentre nell'ambiente mediterraneo, per le particolari situazioni climatico-ambientali, vi è maggiore varietà; dovunque è inoltre documentata la caccia agli uccelli. Importante è l'uso di nuove armi, quali arponi, propulsori e archi. Nelle zone costiere e in prossimità dei corsi d'acqua e dei laghi dovette avere una certa importanza anche la pesca: è però difficile stabilire quale fosse la sua reale incidenza rispetto alla caccia, anche perché i resti di pesci sono in realtà poco frequenti. Reperti provenienti da vari giacimenti indicano che venivano pescati pesci sia di mare che d'acqua dolce, soprattutto salmoni, raffigurati nell'arte del Paleolitico superiore, e trote. Resti di cetacei in siti costieri erano sicuramente dovuti ad animali spiaggiati. Sempre nel campo degli alimenti di origine animale, è verosimile che, oltre alla carne, venissero utilizzati i visceri, il sangue e i grassi degli animali cacciati; per quanto concerne rettili, batraci, insetti, vermi e larve, il loro impiego a scopi alimentari è attestato in tutte le società di cacciatori attuali ed è probabile che anche quelli del Paleolitico se ne cibassero. Le specie consumate, al di là delle usanze e dei tabu alimentari, variano per aree e per livelli culturali e in base all'abbondanza o alla scarsezza di scelta, ma in genere viene usato tutto quanto è commestibile. Per quanto concerne poi l'utilizzo di carne umana, esso è attestato in alcuni casi, ma non è facile stabilire quando si tratti di resti trattati alla stregua di quelli di altri animali, oppure di tracce di pratiche cultuali. Anche la raccolta deve avere avuto una grande importanza durante il Paleolitico: con essa si intende lo sfruttamento di un ampio spettro di alimenti, soprattutto vegetali, ma vi si comprendono anche molluschi, crostacei e uova di uccelli. Nonostante le tecniche di scavo più avanzate e il metodo della flottazione, i resti vegetali nei siti paleolitici sono ancora molto scarsi: si può supporre che venissero raccolti frutti selvatici, probabilmente con ritmi stagionali. È comunque difficile valutare quali fossero le risorse dei singoli ambienti del passato e quali fossero le modalità di sfruttamento dei medesimi. Nelle società primitive attuali, come si è detto, tutto viene utilizzato: si hanno, ad esempio, testimonianze sulle pratiche di essiccazione di bacche e sull'uso di foglie e frutti per ottenere infusi. Nell'arte paleolitica vi sono raffigurazioni di piante e la presenza di macine, macinelli e falcetti in vari siti dell'Europa ha fatto supporre che esistesse anche una raccolta di Graminacee per confezionare puree o focacce. Mancano però quasi del tutto i dati sulle pratiche culinarie: l'uso del fuoco compare nel corso del Paleolitico inferiore, ma non è possibile stabilire se e in quale modo l'assimilazione di cibi cotti possa aver esercitato un qualsiasi influsso sullo sviluppo fisico e biologico dell'uomo. Si può tuttavia affermare che la pratica della cottura può avere influenzato la sfera del pensiero, almeno per quanto concerne l'organizzazione delle attività quotidiane: ricerca del combustibile, preparazione del focolare, pasto in comune, tecniche di cottura. Riguardo a queste ultime, sappiamo che veniva sicuramente praticata quella più semplice, cioè l'arrostimento diretto sulla fiamma o su una graticola di pietre; esistevano però anche strutture più complesse, come i forni di terra e i probabili alari ricavati da ossa di mammut, rinvenuti negli insediamenti dell'Europa nord-orientale. Un problema di difficile soluzione è quello della bollitura dei cibi prima dell'invenzione della ceramica: confronti con popolazioni attuali hanno dimostrato che è possibile, se non proprio bollire, almeno cuocere in acqua calda usando recipienti fatti di scorza o ricavati da stomaci di animali, tenendoli non troppo vicini alla fiamma. Un altro sistema documentato è quello di gettare in questi recipienti pietre arroventate per scaldare l'acqua. Chiaramente i procedimenti culinari comportano una serie di attrezzature specifiche, adatte a manipolare i cibi: per il Paleolitico non abbiamo testimonianze in merito, anche se è probabile che venissero usati contenitori e altri oggetti (come cucchiai o mestoli) in legno, in scorza o in vimini di cui non è rimasta traccia. Quasi nulla si può dire su eventuali tecniche di conservazione degli alimenti nel Paleolitico: sempre in base a osservazioni su popolazioni attuali, si può ipotizzare che fossero conosciuti almeno i procedimenti di essiccazione all'aria e al sole, ma si tratta di mere ipotesi; tra l'altro, non tutti i gruppi di cacciatori-raccoglitori hanno il concetto di immagazzinamento e spesso quanto procurato in una giornata viene consumato immediatamente, senza preoccuparsi del futuro. Questo concetto cominciò ad avere importanza nel Mesolitico, quando l'economia si indirizzò verso una maggiore incidenza della raccolta a largo spettro, anche per la scomparsa, in alcune zone, di gran parte della fauna alla fine del Tardiglaciale. In questo periodo assunse grande rilievo la raccolta dei molluschi: quelli marini nelle zone costiere e quelli terrestri (Helix ligata) in quelle interne, come testimoniato dai chiocciolai nei depositi in grotta. La pratica della pesca sembra farsi più intensiva e giocare un ruolo importante nell'economia: le trote sono più documentate, ma vi sono anche anguille e salmoni, storioni e numerosi pesci di mare, oltre a tracce di pesca effettuata con reti o con nasse, soprattutto in Europa settentrionale. A Baume de Montclus vi era una struttura di pietre per l'essiccamento del pesce e in vari siti costieri sono stati trovati resti di pesci piuttosto grandi, per catturare i quali erano forse necessarie imbarcazioni; a Levanzo sono stati rinvenuti resti di foche e di tartarughe marine. La caccia si specializzò nella cattura di cervi, caprioli, stambecchi e cinghiali, ma anche di piccoli animali, e si intensificò quella agli uccelli stanziali e di passo. L'ambiente venne quindi sfruttato al massimo e la raccolta di vegetali divenne più significativa: è molto ben documentata quella delle nocciole, dei mirtilli, delle ghiande, dei corbezzoli, dei legumi e dell'uva. Questo sfruttamento intensivo delle risorse portò da un lato all'instaurarsi di percorsi e di accampamenti legati alle raccolte e alle cacce stagionali, dall'altro a una maggiore sedentarietà, che può aver favorito il nuovo modello economico del Neolitico, con sedi stabili ed economia produttiva. Con l'avvento dell'agricoltura, la gamma di varietà di cibi si arricchì con la presenza dei cereali e dei legumi. In Italia, sin dal Neolitico più antico, si trovano grano (Triticum monococcum e dicoccum), orzo e lenticchie; nelle fasi successive prevalgono il grano tenero e l'orzo nudo, specie a maggiore produttività delle precedenti, e aumentano i legumi (lenticchie, piselli, fave). Continua peraltro la raccolta (nocciole, uva, ghiande, alchechengi, more, fragole, lamponi, castagne d'acqua, prugne, olive, mele e pere; queste ultime venivano spesso tagliate a metà e arrostite). Nelle palafitte svizzere sono documentate almeno 150 specie vegetali, coltivate o selvatiche (tra cui carota, pastinaca, cavolo, senape, valeriana, lattuga, tiglio, biancospino, rosa canina, sambuco); i loro resti sono stati trovati spesso in veri e propri depositi (silos, focolari, forni, vasi per derrate), oppure in contesti funerari e rituali, dal Neolitico sino all'età del Bronzo. L'immagazzinamento dal Neolitico divenne prassi consolidata e si accompagnò alle pratiche di torrefazione: queste potevano essere eseguite in vasi posti sul fuoco e coperti da pietre, tra due fuochi, in forno, su suoli. Dati particolari si hanno dagli ambienti di palafitta e di torbiera, dove i resti vegetali si sono conservati in modo ottimale: non solo si conoscono le singole specie, ma si sono rinvenute anche pagnotte e misture di cereali, nonché abbondanza di attrezzi legati alla preparazione dei cibi. Sono attestati inoltre vari tipi di gallette non lievitate, confezionate con grano e miglio o con grano e orzo, oppure solo con miglio ricoperto di semi di papavero; potevano essere cotte al forno, su pietre o semplicemente arrostite. Gli ammassi di bacche e di frutta rinvenuti in questi siti sono stati anche interpretati come riserve per la confezione di bevande fermentate: al riguardo, si può ricordare il vino di mirtillo rinvenuto in un recipiente di scorza di betulla in una sepoltura dell'età del Bronzo in Danimarca. Dal III millennio a.C., con l'età del Rame, comparvero uva, ciliegie, prugnole, susine e castagne; con l'età del Bronzo e del Ferro si aggiunsero alla lista degli alimenti spelta, avena, segale, miglio, panico, favino, veccia e cece. Una mistura assai complessa di cereali e di erbe (orzo, avena, miglio, acetosa, chenopodio, persicaria, erba leprina, centocchio, spagulo, camelina, iberide, borsa del pastore, senape, colza, lino, viola, ortica, piantaggine, sfagno) usata per una specie di polenta è stata rinvenuta nello stomaco della mummia dell'età del Ferro di Tollund in Danimarca. L'alimentazione carnea era ovviamente basata sugli animali domestici (pecora, capra, bue, maiale), mentre si registra una graduale diminuzione dell'incidenza della caccia (soprattutto quella al cervo, al cinghiale e al capriolo); come cibo era usato anche il cane, di cui si hanno esemplari macellati. La pesca, sia quella in mare che quella nelle acque dolci, continuò a essere praticata. Con l'allevamento si aggiunse all'alimentazione delle genti neolitiche e dell'età dei metalli anche il latte con i suoi derivati. Per il Neolitico non abbiamo in effetti dati precisi, ma vengono collegati alla lavorazione del latte i colatoi; si è anche supposto che i cosiddetti "vasetti a pipa" fossero in effetti biberon per bambini. Nell'età del Bronzo della penisola italiana sono frequenti i vasi con listello interno o con diaframma e vari tipi di coperchi forati, interpretati come bollitori per la produzione di formaggi o di ricotte. Alcuni frullini in legno sono forse collegabili alla lavorazione del burro. Poco si può dire sull'uso di dolcificanti e condimenti: va ricordata la celebre scena di arte parietale da Alpera, nel Levante spagnolo, con la raccolta del miele selvatico; è inoltre molto interessante l'uso del propoli, rinvenuto nelle sepolture mesolitiche delle Dolomiti. Sempre dai confronti con popolazioni attuali, si ipotizza che spesso al posto del sale venisse usata cenere vegetale, mentre poco o nulla si conosce circa la fabbricazione delle bevande. Ulteriori informazioni possono venire infine dallo studio della paleonutrizione, per individuare soprattutto eventuali carenze nell'alimentazione.
A. Leroi-Gourhan, Milieu et techniques, Paris 1945; K.W. Butzer, Environment and Archaeology, Chicago 1964; D. Brothwell - P. Brothwell, Food in Antiquity, London 1969; J.D.G. Clark, Europa preistorica, Torino 1969; J.M. Renfrew, Palaeoethnobotany, New York 1973; Le mode de vie, in La préhistoire française, I, 1, Paris 1976, pp. 679-709; C. Perlès, Préhistoire du feu, Paris 1976; M. Sahlins, L'economia dell'età della Pietra, Milano 1980; Ph. Marinval, L'alimentation végétale en France du Mésolithique jusqu'à l'âge du fer, Paris 1988; J.-J. Cleyet-Merle, La préhistoire de la pêche, Paris 1990; L. Cattani, Considerazioni floristiche sull'evoluzione degli ambienti, in A. Guidi - M. Piperno (edd.), Italia preistorica, Bari 1992, pp. 47-67; A. Tagliacozzo, I mammiferi dei giacimenti Pre- e Protostorici italiani. Un inquadramento paleontologico e archeozoologico, ibid., pp. 68-102; G. Delluc, La nutrition préhistorique, Périgueux 1995.
di Lucio Milano
Con l'affermarsi, durante il Neolitico, di forme di agricoltura stabile e con la conseguente accelerazione del processo di domesticazione di alcune specie vegetali, si determinò nel Vicino Oriente una vera e propria rivoluzione alimentare, che comportò l'assoluta preminenza dei prodotti della cerealicoltura nella dieta delle popolazioni sedentarie. Il processo di domesticazione interessò essenzialmente due tipi di cereali, cioè il frumento e l'orzo, diffusi allo stato selvatico lungo tutto l'arco della Mezzaluna Fertile, dalla Siria-Palestina alla Turchia sudorientale e dall'Alta Mesopotamia alla fascia pedemontana dei monti Zagros. Accanto ai cereali, un ruolo considerevole dal punto di vista alimentare spetta alle Leguminose: tra le più utilizzate troviamo fave, piselli, ceci e lenticchie, diffuse soprattutto in presenza di una piccola proprietà contadina, a cui l'orticoltura consentiva un certo margine di differenziazione della produzione agricola in funzione delle esigenze familiari. Sia in Siria e in Alta Mesopotamia, dove il regime delle piogge era favorevole allo sviluppo delle colture orticole, sia in Egitto e in Mesopotamia, nelle zone più accessibili all'irrigazione, la coltivazione dei legumi costituiva un'indispensabile integrazione ad un'alimentazione altrimenti povera di proteine. Sappiamo peraltro che in nessuna di queste aree, per tutta l'età preclassica, i legumi vennero utilizzati con l'intento specifico di rigenerare le proprietà organiche del suolo, come avvenne molti secoli più tardi con l'introduzione della rotazione triennale. La documentazione epigrafica e quella iconografica, particolarmente ricche per l'Egitto faraonico, hanno lasciato tracce consistenti sull'utilizzazione dei frutti, che avevano largo impiego nelle offerte alle divinità e nei riti funerari e che altrettanto dovevano averne nei consumi, ma l'assenza di specifica contabilità per questo tipo di prodotti rende molto difficile l'apprezzamento del loro apporto nella dieta. Il repertorio dei termini che designano i frutti nei testi lessicali mesopotamici (mele, pere, fichi, melograni o anche noci e pistacchi) dà la nozione di una varietà che è difficile tradurre in termini quantitativi o di localizzazione geografica. Poiché l'impianto di un frutteto richiedeva un investimento economico consistente e un periodo relativamente lungo di attesa perché gli alberi giungessero al massimo della produzione, questa attività era tutelata da precise norme giuridiche, che prevedevano multe e punizioni per chi danneggiava le piante (il Codice di Leggi hittita dedicava, ad es., ampio spazio a questo genere di crimini). Un discorso a parte meritano ovviamente le colture arboree specializzate, come quelle dell'ulivo e della vite, diffuse in tutto l'Oriente mediterraneo, e la palma da datteri, coltura tipica del Centro e del Sud mesopotamico per la sua adattabilità a terreni relativamente salini. Il passaggio dalle forme selvatiche a quelle coltivate della vite sembra possa essere datato alla metà del IV millennio a.C., come dimostrano inequivocabilmente i reperti paleobotanici provenienti dall'Anatolia sud-orientale, dall'altopiano iranico e dalla Siria settentrionale. A differenza del vino, che in quanto bevanda inebriante conobbe una larga circolazione in tutto il Vicino Oriente, l'uso dell'olio di oliva come grasso alimentare fu limitato sostanzialmente alle zone di produzione. In Egitto l'ulivo fu importato solo verso la metà del II millennio a.C., mentre tradizionale era l'impiego di sostanze oleose ricavate dalla noce della moringa, oppure dal lino e dal sesamo; l'olio di sesamo, appunto, era il grasso vegetale più utilizzato in Mesopotamia, occasionalmente sostituito da grassi animali, sia in cucina sia per uso igienico. Come prodotto dolcificante un posto rilevante ebbe in Oriente il miele, largamente usato anche nella farmacopea e nella confezione di profumi. L'apicoltura fu praticata con grande successo in Siria e in Palestina e assunse in Egitto complesse valenze simboliche, connesse con il culto di particolari divinità e con rituali funerari nell'ambito dei quali il miele poteva costituire un'offerta indispensabile. Quanto alla carne, l'utilizzazione a fini alimentari degli ovini e dei bovini fu condizionata dalle vicende della domesticazione e dal ruolo dell'allevamento nei diversi tipi di società che si svilupparono nel Vicino Oriente. Mentre nelle società pastorali il consumo di carne restò sempre limitato per la necessità di mantenere il più possibile integro il valore patrimoniale delle greggi, nelle società urbane si verificò, almeno dalla fine del IV millennio a.C., una buona integrazione tra allevamento e agricoltura, con possibilità di sfruttare ampiamente il bestiame (specialmente quello bovino) per scopi alimentari, destinandone il consumo a occasioni cerimoniali o festive. Di più largo impiego, in ambienti fluviali e lacustri, fu invece il pesce, abbondantissimo in Egitto e nella Mesopotamia meridionale, dove era distribuito anche a titolo di razione alimentare alle masse di lavoratori dipendenti.
I prodotti degli orti dovevano avere largo impiego nella dieta vicino-orientale, specie tra coloro che avevano proprietà o disponibilità di appezzamenti agricoli coltivati in proprio, dai quali poter ricavare ortaggi, legumi e frutta di stagione per il consumo familiare. Aglio e cipolla, che potevano essere conservati da una stagione all'altra, erano largamente utilizzati anche per aromatizzare altri cibi e sono gli unici prodotti orticoli a cui la contabilità amministrativa dei templi e dei palazzi riservava una certa attenzione, calcolandone la produzione e l'immagazzinamento. I prodotti che formavano tuttavia la base dell'alimentazione quotidiana per la maggior parte della popolazione erano altri, cioè essenzialmente il pane di orzo e di frumento, le semole e la birra. Per la preparazione del pane ci si serviva di farine più o meno fini, ricavate dalla macinatura dei chicchi, che venivano talvolta tostati preventivamente per facilitare l'eliminazione della buccia tegumentosa. Esiste in sumerico un'amplissima terminologia relativa ai diversi prodotti della macinatura, che differenziava tra semole utilizzate per la panificazione e semole (soprattutto di orzo e farro) utilizzate per la preparazione di pappe fluide. Il lavoro di macinatura, che era quasi sempre affidato alle donne, si svolgeva per lo più in ambiente domestico, ma nel caso di strutture centralizzate, come erano templi, palazzi o importanti residenze amministrative, si svolgeva in laboratori di grandi dimensioni, dove gli addetti lavoravano uno accanto all'altro. In Mesopotamia la farina veniva prodotta anche in speciali installazioni prossime ai luoghi di coltivazione, che venivano chiamate "mulini", nei quali si svolgevano molte altre attività manifatturiere, soprattutto la tessitura e la colorazione delle stoffe. Da una serie di testi economici che risalgono alla III dinastia di Ur, in Mesopotamia, si può dedurre che in una giornata lavorativa ciascun addetto arrivava a macinare 10 l circa di farina fine e 20 l di farina più grossolana. Il tipo di macine impiegate nel Vicino Oriente (due pietre, generalmente di basalto, di cui una inferiore concava a forma di sella e una superiore dotata di base piatta) era tale che la farina veniva spesso mal depurata e poteva contenere un'eccessiva percentuale di crusca e, talvolta, perfino frammenti di pietra prodotti dallo sfregamento della macina. Il pane, inoltre, non era di norma lievitato, perché l'uso del lievito non si confaceva al tipo di cereale generalmente usato (farro), particolarmente povero di glutine. È probabile, d'altra parte, che tanto in Egitto quanto in Mesopotamia alcuni tipi di pagnotte fossero in effetti lievitati mediante l'utilizzazione di frammenti di pasta inacidita, oppure del lievito di birra, che è stato riscontrato nell'analisi chimica di campioni ritrovati in tombe egiziane. L'impasto di farina, acqua e sale veniva sagomato a mano o posto in stampi dalle forme più varie, che vediamo talvolta riprodotte in pitture egiziane o comunque documentate dai testi. Si passava poi alla cottura, su una pietra posta direttamente a contatto del fuoco, oppure in forni di terracotta. Per tipi di pani più elaborati ‒ ma qui siamo già lontani dall'alimentazione quotidiana ‒ si aggiungevano all'impasto dolcificanti (miele e fichi) e sostanze aromatiche, come il sesamo e il cumino. Assieme al pane e alle zuppe di cereali, la birra costituiva l'altra componente abituale della dieta dei lavoratori. La birra univa infatti le proprietà di una bevanda lievemente inebriante a quelle di un alimento energetico, ottenibile a basso costo. Le fasi di preparazione della birra ci sono note attraverso un'abbondante documentazione sia iconografica (Egitto) sia testuale (Egitto e Mesopotamia): queste prevedevano la preparazione di "pani di birra", a base di orzo o di farro, realizzati a partire da un impasto di cereali germinati artificialmente in una sostanza acquosa e, dopo una parziale cottura, la manipolazione del prodotto in acqua fino a piena fermentazione, con l'aggiunta di ingredienti aromatizzanti. Il preparato era poi filtrato in grandi vasi e sigillato nelle giare. Un certo numero di impronte di sigillo mesopotamiche mostra che la bevanda era consumata con l'ausilio di lunghe cannucce, per evitare l'assunzione dei residui solidi. Autentica bevanda del lavoro, la birra conobbe enorme fortuna in tutti i periodi della storia del Vicino Oriente antico, al punto che in Mesopotamia ne erano note, già alla metà del III millennio a.C., numerose ricette diverse, ampiamente documentate dai testi della città di Lagash. La birra era del pari bevanda privilegiata delle occasioni festive e compariva nei banchetti degli uomini e degli dei, connotata in questo caso più dai suoi effetti inebrianti che da quelli puramente alimentari. Non va dimenticato, infine, che fra gli alimenti più diffusi tra le popolazioni vicino-orientali vi erano il latte e i suoi derivati: il latte cagliato, il burro e i formaggi. Si trattava però, in tutti i casi, di prodotti facilmente deperibili e non immagazzinabili. Questo spiega il perché dell'assenza quasi completa di una loro contabilità amministrativa.
I criteri di distribuzione del cibo assumono nel Vicino Oriente enorme rilevanza in termini economici e organizzativi, poiché gran parte della popolazione lavoratrice era dipendente da organismi centralizzati che provvedevano direttamente al suo mantenimento in cambio delle prestazioni svolte. Il meccanismo principale di distribuzione alimentare era costituito dal sistema delle razioni, cioè consegne periodiche di derrate su base generalmente mensile, salvo il caso di lavori occasionali per i quali erano previste razioni giornaliere, già confezionate sotto forma di pasti. Tale sistema si trova diffuso in tutto il Vicino Oriente antico, con varietà regionali che non mettono tuttavia in discussione i principi di fondo su cui si basava. La diffusione, inoltre, andava ben al di là dell'ambito dei palazzi e dei templi, perché riguardava tutte le aziende nelle quali era occupata manodopera servile. Il presupposto originario del sistema era quello di assicurare il sostentamento dei lavoratori a livelli di sussistenza: per questo le razioni non comprendevano solo generi alimentari, ma anche l'olio e la lana (distribuiti, rispettivamente, su base mensile e annua), che dovevano servire per lavarsi e per vestirsi. In Mesopotamia il sistema delle razioni assunse la sua fisionomia definitiva nella seconda metà del III millennio a.C., ma la sua origine risale al periodo formativo della società urbana, con un percorso segnato da diverse fasi di elaborazione e di aggiustamento. In una prima fase la differenziazione delle razioni avveniva sulla base di raggruppamenti censuari dei lavoratori dipendenti, che venivano probabilmente suddivisi per tipo di funzione e per rango sociale. Ben presto tuttavia il sistema si modificò assumendo come parametri essenziali il sesso e l'età dei destinatari: si delineò così uno schema più complesso, per categorie, secondo il quale le razioni risultavano differenziate tra maschi e femmine e, al loro interno, tra adulti, vecchi e bambini. I prodotti fondamentali distribuiti a titolo di razione alimentare erano l'orzo sotto forma di granaglie (che poteva essere sostituito da altri cereali) e la birra; ma in determinate situazioni si poteva ricorrere anche ad altri prodotti, come il pesce, la farina e i legumi. La contabilità di queste uscite era tenuta con grande precisione dagli scribi, che redigevano lunghe e accuratissime liste del personale lavorativo a cui erano destinate le razioni, con la quota di cibo spettante a ciascun individuo. Possiamo dedurre da questi documenti che i valori delle razioni erano standardizzati, ma allo stesso tempo articolati in una scala, che rispecchiava il rango e la specializzazione dei lavoratori. Per i maschi adulti, ad esempio, era prevista una razione base di 60 l d'orzo al mese, che potevano scendere a 40 per il personale di rango inferiore, oppure salire fino a 120 l nel caso di uno scriba o di un funzionario con responsabilità di controllo. Le razioni delle donne erano generalmente la metà di quelle dei maschi, con lo stesso tipo di oscillazioni già viste per gli uomini. Vecchi e bambini avevano invece razioni minime, di 10 o 15 l al mese, cioè al di sotto dei limiti di sopravvivenza, il che significava che la razione era commisurata alle reali capacità di lavoro e doveva essere necessariamente integrata con il resto del bilancio familiare. È difficile stabilire l'apporto calorico della dieta sulla sola base delle razioni di cereali, poiché di norma queste consistevano, come si è detto, in granaglie, che dovevano essere a loro volta trasformate in preparati alimentari e certamente integrate da alimenti non contabilizzati dalle amministrazioni (verdura, legumi, frutta, ecc.). Si può solo valutare, in termini molto approssimativi, che il corrispondente calorico della razione di 60 l di cereali mensili dovesse equivalere a circa 3000 calorie al giorno, sufficienti a sostenere lavori pesanti, ma nettamente sbilanciate dal punto di vista dei principi nutritivi se fornite quasi esclusivamente da cereali. Qualcosa di più possiamo invece dire a proposito della dieta dei dignitari di palazzo: in particolare gli archivi della città di Mari (XVIII sec. a.C.), sul medio corso dell'Eufrate, hanno restituito una massa di documenti che si riferiscono alla contabilità giornaliera delle cucine del palazzo, dove si preparavano pasti per più di 1000 funzionari che pranzavano alla mensa del re. In questo caso l'alimentazione era assai variata e consisteva in pappe e zuppe a base di semole, grassi, dolcificanti e pani di pasticceria, integrati da porzioni di carne (non sappiamo se con periodicità giornaliera) e da un tipo speciale di birra. Questo genere di pasti, ricchi ed elaborati, fa da sfondo all'esistenza di una tradizione gastronomica che venne codificata in apposite ricette, di cui un bell'esempio è costituito da due lunghe raccolte provenienti da un centro della Mesopotamia meridionale, redatte in età paleobabilonese. Si tratta di ricette di "alta cucina", per la preparazione di pietanze a base vegetale (zuppe di legumi) e, soprattutto, per la preparazione di carni bollite. Tra le carni un ruolo dominante lo aveva la cacciagione, che doveva costituire evidentemente il cibo privilegiato delle occasioni festive, quello che offriva più possibilità ai cuochi di sbizzarrirsi nell'apprestamento delle farciture e delle salse, con largo impiego di spezie e di aromi. Anche in Egitto l'attività venatoria a fini alimentari era tenuta in grande considerazione, come è documentato dalle numerose raffigurazioni tombali che mostrano non solo le varie fasi della caccia, ma anche le procedure di cottura delle carni, specie quelle di uccello (piccioni, gru, anatre, ecc.), che potevano essere arrostite, semplicemente essiccate o cotte allo spiedo. Nelle ricette mesopotamiche non si fa riferimento all'uso di bevande, ma è il caso di ricordare che proprio in occasione di quei banchetti ai quali erano destinate fa la sua comparsa il vino, bevanda assente dai pasti comuni, ma ampiamente utilizzata, per le sue qualità inebrianti, sulle mense dei giorni di festa. Sia in ambiente siriano che in ambiente egiziano, il vino, accomunato al consumo di carne, è parte integrante del banchetto cerimoniale, spesso riflesso nella letteratura a proposito dei pasti consumati dagli dei. Va inoltre ricordato che in Siria e in Palestina, dove la viticoltura era un'attività agricola tradizionale, il vino assunse pregnanti valenze simboliche, che sopravviveranno anche dopo la fine del mondo antico nel rituale cristiano dell'eucaristia. L'uso del vino come bevanda di pregio, usata per scambi cerimoniali e per banchetti ospitali, come quelli offerti a messaggeri di rango, o anche per atti di culto, è d'altra parte attestato anche nella Mesopotamia meridionale, dove lo si importava. In questa regione il vino non rappresentò mai un concorrente della birra, ma si ricavò un proprio spazio, ogniqualvolta fosse utile sottolineare l'eccezionalità del consumo di un prodotto esotico. La circolazione del vino si diffuse invece con grande celerità nell'Assiria del I millennio a.C., anche in rapporto ai contatti con l'occidente siriano e alle favorevoli condizioni climatiche per lo sviluppo della viticoltura che caratterizzavano il Nord della Mesopotamia.
A. Maurizio, Histoire de l'alimentation végétale, Paris 1932; I.J. Gelb, The Ancient Mesopotamian Ration System, in JNES, 24 (1965), pp. 230-43; J.M. Renfrew, Palaeoethnobotany. The Prehistoric Food Plants of the Near East and Europe, London 1973; F.M. Fales, La produzione primaria, in S. Moscati (ed.), L'alba della civiltà, Torino 1976, pp. 129-290; W.Y. Darby - P. Ghaliongui - L. Grivetti, Food. The Gift of Osiris, London 1977; R.C. Hunt, The Role of Bureaucracy in the Provisioning of Cities. A Framework for Analysis of the Ancient Near East, in McG. Gibson - R.D. Biggs, The Organization of Power. Aspects of Bureaucracy in the Ancient Near East, Chicago 1991², pp. 141-68; L. Milano (ed.), Drinking in Ancient Societies. History and Culture of Drinks in the Ancient Near East, Padua 1994; J. Bottéro, Mesopotamian Culinary Texts, Winona Lake 1995.
di Massimiliano Marazzi - Carla Pepe
Ai fini di una ricostruzione delle abitudini alimentari delle comunità egee dell'età del Bronzo, i ritrovamenti archeobotanici e i resti ossei animali provenienti dagli strati archeologici ci documentano su una larga scala di attività rivolte al rifornimento alimentare attraverso le pratiche agricole, l'allevamento del bestiame e le attività di caccia, pesca e raccolta. I resti archeobotanici e archeozoologici provenienti dai siti egei rivelano alcune sostanziali novità nell'economia di sussistenza della prima metà dell'età del Bronzo. Infatti, se da una parte, con le nuove strategie adottate nelle tecniche di coltivazione, si assiste a un incremento della produzione agricola, dall'altra si rileva l'introduzione di nuove colture e un'intensificazione delle pratiche di allevamento del bestiame, in particolare quello dei caprovini. Seppure con i dovuti distinguo, che tengano conto di quei fenomeni di stratificazione sociale che si innescarono in tutta l'area egea a cominciare dal Bronzo Medio, quando sorsero le prime formazioni palaziali, si può tracciare a grandi linee una dieta alimentare di base, valida per l'intero periodo, le cui eventuali variazioni siano da riferire più che altro a fattori geografici. Nella Grecia del Bronzo Tardo sono ormai presenti tutti gli alimenti caratteristici della cosiddetta "dieta mediterranea". Erano coltivati molti tipi di cereali e di legumi, mentre l'ulivo, la vite e il fico, assieme ad alcuni alberi da frutta, erano oggetto di coltivazione o di sfruttamento diffuso. Questa dieta di base, essenzialmente vegetale, era integrata dal latte e dai suoi derivati, insieme con i prodotti della pesca e a un limitato consumo della carne. Dal repertorio dei dati archeobotanici si può ben comprendere come anche il farro e l'orzo, elementi base della produzione cerealicola, dovessero indubbiamente costituire una parte essenziale della dieta alimentare. La presenza, in forme meno appariscenti, di semi riferibili ad altri tipi di cereali, quali l'avena e il miglio, può invece essere intesa come il segno della pratica di colture cerealicole secondarie o complementari, utili sostitutivi in situazioni di emergenza (annate di raccolti insufficienti, carestie, ecc.). Il frumento e l'orzo, sgusciati e arrostiti, potevano essere consumati in forma di zuppa o di pane. Il tipo di pane più comune non lievitato era a base di farro, come attestato dal ritrovamento di un pane carbonizzato proveniente da Tirinto. L'incremento di semi di grano tenero da farina in alcuni siti del Bronzo Tardo può far pensare ad una produzione limitata di pane più raffinato. L'alimento più comune doveva essere in ogni caso la zuppa di orzo, o un porridge fatto con il farro o con la farina d'orzo. Se l'assunzione dei carboidrati era dunque assicurata dal diffuso consumo dei cereali, l'apporto proteico necessario alla dieta alimentare era dato dalle Leguminose. Gli scavi archeologici hanno restituito la traccia di una vasta gamma di legumi i quali, oltre a poter essere mangiati freschi, venivano certamente, nella maggior parte dei casi, disseccati prima della loro conservazione. Sempre legata al ciclo invernale è la coltivazione della lenticchia, che con i piselli, le fave, i ceci e le cicerchie è presente in quasi tutti gli insediamenti egei di quest'epoca. Una leguminosa legata al ciclo estivo è invece il vecciolo, ben attestato durante tutta l'età del Bronzo. Tutti i legumi erano utilizzati per le minestre: il contenuto proteico della cicerchia appare tuttavia superiore a quello delle altre Leguminose. Tra le innovazioni alimentari che, come inizialmente detto, caratterizzano questo periodo, troviamo le olive e i fichi. Le prime, assieme all'olio che da esse si produceva, contribuivano a fornire i lipidi. A Kato Zakro, all'interno di un pozzo, si è rinvenuta una coppa conica contenente ancora le olive ivi depositate per essere mantenute nell'acqua. I fichi, al pari dei legumi, venivano per lo più conservati e consumati secchi: nella forma secca mantengono infatti un alto potere nutritivo. Un esempio in proposito è costituito dal ritrovamento, in una casa rurale tardominoica nell'area della Canea, di sette fichi carbonizzati, collocati ancora in quello che, secondo gli scavatori, doveva essere un forno usato per il loro trattamento prima della conservazione. Gli zuccheri erano assimilati anche attraverso altre specie fruttifere, come l'uva, le pere, le prugne, il melone e il melograno, che potevano dare un limitato apporto anche per quanto concerne le vitamine. Se per pere e prugne si deve pensare ancora a un'attività di raccolta, il melone e il melograno sembrerebbero, almeno verso la fine dell'età del Bronzo, essere entrati a far parte dell'alimentazione di base fornita dai prodotti coltivati negli orti. La dieta alimentare era integrata anche dalla frutta secca, come pistacchi e mandorle, che faceva parte delle coltivazioni arboree tipiche dei "giardini" del Bronzo Tardo. La vite veniva prevalentemente sfruttata per la produzione del vino, che doveva però rappresentare una bevanda di carattere elitario. Negli orti venivano coltivate anche molte erbe aromatiche e spezie, come il sedano, il finocchio, la menta, la salvia, lo zafferano e il cumino, utilizzate per insaporire i cibi. Nel panorama delle fonti alimentari delle popolazioni egee non possono non essere ricordati altri possibili alimenti di origine vegetale, non soggetti a coltivazione, come le ghiande, le bacche e vari tipi di erbe selvatiche, quali la malva e la medicago, quest'ultima utilizzata forse anche come foraggio. Per quanto riguarda la dieta basata sulla carne e sul latte, con i suoi derivati, i materiali osteologici recuperati negli scavi dei siti dell'età del Bronzo chiariscono un altro importante aspetto delle fonti alimentari delle popolazioni egee. Il consumo di carne doveva essere diffuso ma certamente non intenso, tenuto conto anche dell'importanza dei caprovini per la produzione della lana e dell'utilizzazione dei bovini sia per il trasporto che per il lavoro nei campi. Non numerosi sono, d'altra parte, i reperti ossei sui quali appaiono chiare le tracce della macellazione. Le carni oggetto di dieta alimentare erano dunque prevalentemente quelle di montone, agnello, capra, maiale e bue. In particolare i maiali, sulla base di quanto si può desumere dai resti ossei, venivano macellati intorno ai due anni e si può ipotizzare un uso della loro carne in ambito familiare, come avviene ancora oggi nelle comunità rurali. Se, come abbiamo visto, le fonti principali del fabbisogno proteico provenivano dagli animali allevati, come caprovini, bovini e suini, tuttavia una certa importanza ai fini integrativi deve aver avuto la selvaggina, che con i pesci e i molluschi completava la dieta alimentare. Erano oggetto di caccia la lepre, il daino, il cervo, il capriolo e alcuni volatili commestibili, come la pernice, di cui sono stati riconosciuti i resti ossei. Per le zone insulari e costiere possiamo immaginare che l'alimentazione si basasse molto sui prodotti della pesca.
La documentazione archeologica conferma, attraverso una serie di elementi spesso indiretti, il regime alimentare reso esplicito nelle sue componenti base dai dati archeobiologici. Le tipologie dei contenitori, ad esempio, sono indicative delle modalità di conservazione e consumo di molti beni alimentari. Tanto per la caccia quanto per la pesca, un'estrema ricchezza di dati offrono i repertori iconografici presenti su oggetti (sigilli, vasi, ecc.), ma soprattutto sulle decorazioni parietali dei palazzi cretesi, delle case cicladiche e delle residenze micenee. Per quanto riguarda le scene di caccia, escluse quelle di valenza celebrativo-propagandistica, esse ci informano che nella dieta alimentare a base di selvaggina dovevano rientrare il cinghiale, il cervo (o i Cervidi), la capra selvatica, il toro e la lepre, venendo in tal modo a coincidere, almeno nelle linee essenziali, con il repertorio fornito dai dati archeozoologici. Per la pesca, a parte le numerose specie di pesci e di altri animali marini che compaiono sulle superfici ceramiche quali elementi decorativi, sono significative, anche se in apparente contrasto tanto con i dati archeofaunistici quanto con quelli epigrafici, le rappresentazioni di pescatori che portano il frutto della propria attività, come quelle del cosiddetto "vaso dei pescatori" di Phylakopi (Medio Cicladico), del giovane pescatore raffigurato sul famoso affresco di Thera (inizi del Tardo Cicladico), o del pescatore che regge con una mano un grosso pesce (verosimilmente un tonno) e con l'altra un polpo appena pescato su un sigillo da Cnosso (Medio Minoico). Tutte queste scene di "pescatori al ritorno dalla pesca", provenienti essenzialmente da ambiente cretese e cicladico e diffuse per tutta l'età del Bronzo, anche se nella maggioranza dei casi non permettono un'affidabile interpretazione delle specie ittiche, testimoniano che, al di là degli stereotipi di maniera, la pesca, quindi la dieta a base di prodotti marini, doveva giocare un ruolo fondamentale nell'alimentazione egea dell'epoca, quanto meno nelle aree insulari e costiere, ciò in apparente contrasto tanto con i dati archeofaunistici quanto con quelli epigrafici. Da ricordare, infine, le diverse rappresentazioni di api (su sigillo o in forma di piccoli oggetti) presenti nel mondo egeo già dalla fine del Bronzo Antico. Tuttavia, senza il supporto offerto dalle testimonianze epigrafiche, tali rappresentazioni da sole non basterebbero a testimoniare l'uso del miele nella dieta delle popolazioni egee dell'epoca.
Dalle tavolette in geroglifico minoico, in lineare A e in lineare B non abbiamo, tranne rare eccezioni, dirette testimonianze sull'alimentazione. Tenuto conto delle incertezze che ancora caratterizzano le letture dei primi due sistemi scrittori, si farà qui riferimento alle sole testimonianze in lineare B del Tardo Bronzo. Dalle serie di documenti in lineare B relativi a rimesse o redistribuzioni che coinvolgono generi alimentari, da quelle delle offerte a vari centri e istituzioni di carattere religioso e dai documenti connessi con le allocazioni di terre a diverse categorie sociali, si può desumere che i cereali (essenzialmente grano e orzo), insieme, ma in misura minore, ai fichi e alle olive, dovevano rappresentare gli elementi di base della dieta alimentare, fatti oggetto di immagazzinamento e quindi di registrazione da parte delle amministrazioni centrali. Poco informative per la qualità della dieta alimentare, ma preziose per un calcolo dei livelli di nutrizione degli strati sociali meno abbienti, sono invece le cosiddette "tavolette delle razioni alimentari" che l'amministrazione centrale distribuiva al personale lavoratore alle sue dirette dipendenze. I dati provenienti da Cnosso, da Pilo e da Micene, elaborati sulla base dei parametri di tempo e di conversione delle misure di capacità proposti da J. Chadwick e ripresi da R. Palmer, indicherebbero un livello di nutrizione minimo sufficiente, basato su cereali (orzo e grano) e integrato, a seconda dei casi, dai fichi, certamente già disseccati. Né i legumi e neppure alcun genere di prodotto agricolo "fresco" compaiono nei documenti scritti, in apparente contrasto con gli elementi forniti dai dati archeobotanici. Tutto ciò è spiegabile soltanto se si tiene in conto il fatto fondamentale che la documentazione epigrafica considera verosimilmente soltanto quegli alimenti le cui procedure di accumulo e di redistribuzione rientravano in qualche modo nella sfera di controllo e di interesse degli uffici di palazzo. Totalmente assente è anche qualsiasi traccia relativa alla dieta basata sui prodotti del mare. Per quanto concerne le carni, abbiamo testimonianze di un fiorente allevamento di diverse specie animali adeguatamente controllato dalle amministrazioni palaziali. Tuttavia il fine delle registrazioni sembra essere, nella maggioranza dei casi, non rivolto alla pratica dell'allevamento per la macellazione, bensì a un utilizzo dell'animale da vivo (latte, lana, lavoro agricolo, ecc.); per la menzione del maiale vanno certamente tenuti in conto il suo uso esclusivo per la macellazione e la sua rilevanza in buona parte alimentare (carni, grassi, ecc.). Lo stesso discorso vale anche per i prodotti alimentari ottenuti dagli animali, essenzialmente il latte e i suoi derivati. Vero è che il formaggio compare sporadicamente in alcune liste di rimessa/offerta; esso, tuttavia, non è mai menzionato in connessione con la produzione casearia. Un'eccezione è rappresentata da alcune tavolette pilie e da un lotto di cretule rinvenute a Tebe da riconnettersi probabilmente con la raccolta di diversi prodotti agricoli e con la macellazione di animali da consumare in occasione di particolari festività: accanto ai cereali, al vino e alle olive compaiono pecore, capre, maiali, vacche e buoi. Le modalità in base alle quali le carni venivano preparate e, probabilmente, distribuite ci rimangono sconosciute. Possiamo tuttavia immaginare, anche sulla base dei confronti con i coevi documenti cuneiformi provenienti dall'Anatolia hittita, che la celebrazione di feste connesse con il calendario cultuale fosse, anche nel mondo egeo del Tardo Bronzo, occasione di distribuzione di alimenti e quindi di integrazione della dieta alimentare a diversi livelli sociali. Una simile occasione può, con tutta probabilità, aver ispirato la complessa scena rituale dipinta sui lati del famoso sarcofago di Haghia Triada. L'olio d'oliva è chiaramente attestato nelle tavolette micenee: si deve pertanto ritenere, in accordo anche con i dati archeobotanici, che l'olio rappresentasse nella maggior parte del comprensorio egeo uno dei grassi vegetali di base della dieta. Tuttavia, a parte pochi casi, le registrazioni relative a distribuzioni o assegnazioni d'olio sembrano ricollegarsi, oltre che a possibili offerte cultuali, ai processi di trasformazione per la produzione di unguenti profumati. D'altro lato, tanto il vino quanto il miele, pur presenti nella documentazione epigrafica, appaiono essere prodotti alimentari di circolazione circoscritta. Una nota a parte meritano, infine, le spezie e gli aromi attestati, con finalità alimentari, essenzialmente in un gruppo di tavolette di Micene.
In generale:
K.F. Vickery, Food in Early Greece, Urbana 1936; G. Bruns, Küchenwesen und Mahlzeiten, Göttingen 1970; H.G. Buchholz - G. Jöhrens - I. Maull, Jagd und Fischfang, Göttingen 1973; C.S. Gamble, Surplus and Self-Sufficiency in the Cycladic Subsistence Economy, in J.L. Davis - J.F. Cherry (edd.), Papers in Cycladic Prehistory, Los Angeles 1979, pp. 122-33; S. Bisel - L. Angel, Health and Nutrition in Mycenaean Greece. A Study in Human Skeletal Remains, in N.C. Wilkie - W.D.E. Coulson (edd.), Contributions to Aegean Archaeology, Minneapolis 1985, pp. 197- 209; P. De Fidio, Dieta e gestione alimentare in età micenea, in O. Longo - P. Scarpi (edd.), Homo Edens, Verona 1989, pp. 193-203. Pesca e prodotti del mare: A. Guest-Papamanoli, Pêche et pêcheurs minoens: proposition pour une recherche, in O. Krzyskowska - L. Nixon (edd.), Minoan Society, Bristol 1983, pp. 101-10. Allevamento, caccia, dieta a base di carni: V. Aravantinos, L'apicoltura nel mondo minoico-miceneo, in Minos, 19 (1985), pp. 11-27; P. Halstead, Lost Sheep? On the Linear B Evidence for Breeding Flocks at Mycenaean Knossos and Pylos, ibid., 25-26 (1990-91), pp. 343- 63.
Razioni alimentari, distribuzioni e dieta nella documentazione archeologica ed epigrafica:
M. Follieri, Provviste alimentari vegetali in una casa minoica ad Haghia Triada (Creta), in ASAtene, 41-42 (1979-80), pp. 165-72; Ead., Cibi carbonizzati in livelli Tardo Minoici a Canea (Creta Occidentale), in SMEA, 23 (1982), pp. 135-40; P. De Fidio, Razioni alimentari e tenori di vita nel mondo miceneo, in T.G. Palaima - C.W. Shelmerdine - P.H. Ilievski (edd.), Studia Mycenaea (1988), Skopje 1989, pp. 9-38; R. Palmer, Subsistence Rations at Pylos and Knossos, in Minos, 24 (1989), pp. 89-124; Id., Bread in Mycenaen Greece, in AJA, 96 (1992), p. 363.
Bevande, oli, erbe, aromi e spezie:
M. Wylock, Les aromates dans les tablettes Ge de Mycènes, in SMEA, 15 (1972), pp. 105-46; J.L. Melena, Olive Oil and Other Sorts of Oil in the Mycenaean Tablets, in Minos, 18 (1983), pp. 89-123; M. Marazzi, Appunti per un dossier sulla circolazione del vino attraverso le testimonianze in Lineare B, in L. Milano (ed.), Drinking in Ancient Societies. History and Culture of Drinks in the Ancient Near East, Padua 1994, pp. 139-50.
di Eugenia Salza Prina Ricotti
Tra le storie dell'alimentazione antica che ci sono pervenute, quella della civiltà greca è certamente la più ricca. Platone, Senofonte, Plutarco, Luciano hanno dedicato a tale argomento specifici trattati e dal V sec. a.C. al II sec. d.C. molti altri hanno scritto opere interamente dedicate alle diete e alla tavola. Famosi medici si sono occupati di diete speciali e un poetagastronomo, Archestrato di Gela (IV sec. a.C.), ha scritto in esametri eroici le sue ricette (Ath., IV, 162 b). In tutto abbiamo notizia di una quindicina di trattati e di libri di cucina di cui ci sono pervenuti soltanto pochissimi brani. Oltre a queste opere specializzate molte altre notizie si incontrano in quasi tutti gli altri autori greci: tutto venne raccolto nell'opera di Ateneo Deipnosophistai. Da tale opera si ricava un quadro preciso e completo di almeno dieci secoli di storia del banchetto e dell'alimentazione ellenica a cominciare dall'età omerica. Dalle notizie che ci dà Omero, infatti, abbiamo un esempio di come e quando si mangiasse all'epoca: nel campo di Agamennone si cominciava con il pasto della mattina (Il., XXIV, 124), una rapida colazione prima del combattimento; si continuava poi durante il giorno consumando pasti veloci e infine si concludeva alla sera con la cena, pasto principale della giornata. Il lusso, i servi e il complesso cerimoniale dei banchetti, che leggeremo negli autori dei secoli d'oro e che vedremo poi ritratti sulla ceramica e nell'arte figurata dal V sec. a.C. in poi, erano ancora di là da venire. Sotto le mura di Troia non ci si sdraiava sui letti tricliniari, che in Grecia sono comparsi soltanto verso la fine del VI sec. a.C., ma ci si sedeva semplicemente in cerchio attorno al fuoco, come confermato dai ritrovamenti archeologici nella reggia di Nestore a Pilo o in quella di M icene, dove i grandi focolari bassi e tondi posti al centro di un cortile davanti al seggio del re ricordano le scene descritte dai poemi omerici. Nel ciclo omerico pane, vino rosso e carne bovina arrostita alla brace sono le sole cose che vengono servite agli eroi. Eppure le coste su cui si erano accampate le truppe di Agamennone e di Menelao e i mari solcati da Ulisse nella sua lunga navigazione erano ricchi di pesci, come prova l'affresco del giovane pescatore di Thera; negli antichi boschi della Grecia e dell'Asia Minore abbondava inoltre la selvaggina e nei prati pascolavano greggi di ovini, senza contare che sicuramente c'era chi coltivava verdura e frutta. Nell'Iliade tutto questo viene ignorato e, anche se nella più tarda Odissea i compagni di Ulisse usano ami ricurvi per catturare i pesci che probabilmente cucineranno ( XII, 331), e anche se nel ben irrigato frutteto dell'orto di Alcinoo (VII, 120) i rami si incurvano sotto il peso della frutta e pomi nuovi crescono sopra a quelli già maturi, nessuno dei personaggi dei due poemi sembra interessato a questi cibi. Col passare dei secoli, il panorama conviviale greco si diversifica: si andava dall'austera cena comune spartana, a cui tutti gli uomini erano obbligati a contribuire e a partecipare, a quella ateniese, più allegra e libera; si passava dalle cene tradizionali in occasioni di solennità religiose ai tabu dei Pitagorici, i quali, astemi e strettamente vegetariani, si astenevano anche dal mangiare le fave (Ath., IV, 161 b); ci si trasferiva dalle cene raffinate alle semplici ma ipercaloriche diete delle Olimpiadi (Ath., IX, 402 c). L'alimentazione del mondo greco era ormai estremamente varia e trionfava nel banchetto, in cui i convitati erano distesi sui letti tricliniari originari dell'Asia Minore. Rappresentazioni di queste riunioni conviviali compaiono nella ceramica greca a partire dalla fine del VI sec. a.C. In uno dei primi vasi decorati con questo soggetto davanti al letto tricliniare è raffigurato un basso tavolino rettangolare lungo e stretto che, in epoche più tarde (dal IV sec. a.C.), venne sostituito da tondi vassoi posti su treppiedi. Su di esso troviamo i cibi descritti da Omero: carne, pane e una grande kylix per bere. I letti tricliniari erano però mobili riservati agli uomini, su cui le donne per bene non si sdraiavano mai; nelle stele ellenistiche dell'Asia Minore, in cui la vita dell'aldilà viene rappresentata come un eterno banchetto, le vediamo accomodate su alti seggioloni o sedute compostamente sull'orlo del letto tricliniare del consorte. Col passare del tempo, i banchetti e le cornici in cui essi si svolgevano si arricchirono sempre più e nel III sec. a.C. persino la famosa e obbligatoria mensa comune di Sparta, che a lungo era vissuta sotto la morsa delle leggi di Licurgo (VIII sec. a.C.) e dove per secoli tutti avevano mangiato male e scomodamente, si trasformò in un locale di lusso e le panche di legno vennero sostituite da letti tricliniari carichi di cuscini talmente ricamati che gli stranieri ivi invitati esitavano ad appoggiarvi i gomiti (FHG, I, 346; Ath., IV, 141 f - 142 b). Un circolo, insomma, ricco di recipienti preziosi, dotato di un servizio raffinato, rallegrato da distribuzione di profumi e da cibi eccezionali per varietà e presentazione. È evidente che da quel momento in poi qui non si servì più il malfamato "brodo nero", specialità di Sparta dal gusto estremamente sgradevole (Plut., Lyc., XII). Nel resto della Grecia, che non aveva conosciuto la severità di Licurgo, si era sempre mangiato meglio e la lista dei cibi era più variata. L'individualità gelosa delle numerose città-stato greche aumentava le specialità regionali e creava una vastissima scelta di piatti, iniziando dal pane di cui esistevano ben 65 varietà. In Grecia se ne trovava di tutti i tipi, da quelli di farina integrale a quelli di fior di farina, da quelli di farina d'orzo a quelli di altri cereali; c'erano pani al latte, streptikios (Ath., III, 113 d), pani da inzuppare nel vino, pani cotti al forno, pani cotti sotto la brace, pani tipici di tutte le città e regioni greche e vi erano anche pani destinati a speciali cerimonie religiose, come le Achene, grandissime pagnotte che si offrivano a Demetra durante la festa dei "grandi pani". C'era l'anastatos che, durante le Arrhephoria, veniva portato dalle fanciulle al tempio di Atena Poliàs (Ath., III, 114 a-b) e vi erano ancora altri pani di ogni tipo, tutti elencati e descritti da Ateneo (III, 108 b - 116 a). Ovviamente il grande numero dei pani che troviamo citati nei Deipnosophistai dipendeva anche dal fatto che ogni città greca aveva le sue proprie specialità; ognuna, poi, teneva ben distinta la sua personalità anche nel menù. Così ad Atene si servivano numerosi antipasti, ma in piccolissime quantità, e tra questi alcuni molto insoliti, come quelli che ricorda con nostalgia un personaggio di Aristofane quando nel suo Anagyros esclama "O cielo, quanta voglia avrei di mangiare una cavalletta o una cicala infilata su una sottile canna" (CAF, I, 488; Ath., IV, 133 b). Così a Tebe, i cui cittadini erano noti sia per la loro fame (Ath., X, 417 c-b) che per la loro indigenza, trionfavano gli involtini di foglie ripiene (detti oggi dolmates), le verdure lesse, i pesciolini e le farinate (Ath., IV, 148 e). Dappertutto però, col tempo, i menù si arricchirono sempre di più arrivando a banchetti tali da far impallidire anche gli interminabili menù delle corti rinascimentali. Prendiamo ad esempio quello descrittoci da Filosseno di Leuca (PLG, III, 601), un parodista del V sec. a.C., e riportato da Ateneo (IV, 147 a-e). Dopo la distribuzione del pane, sia di orzo che di grano, arrivava il pesce: anguilla, razza, seppie e calamari, pesce smeriglio, cefalo, fritto di calamari e gamberi e, dopo un intervallo per riprendere fiato durante il quale si spilluzzicavano focacce imbevute in salse piccanti, una fetta di ventresca di tonno arrostita sulla brace. Seguivano piatti con interiora, piedini, testina, costiglie, spuntature bollite, tutto di maiale. Subito dopo venivano servite portate di carni miste: filetto al silfio, capretto alla diavola, agnello, pollame e poi, senza interruzione, i piatti di cacciagione con lepre, colombacci e pernici. Infine si consumavano pane, miele, cagliata e formaggio fresco, un dessert molto semplice e campagnolo, nonostante nella cucina greca i dolci, a cominciare dalle placente stillanti di miele (Ath., I, 5 e), abbondassero; ne conosciamo infatti una cinquantina di tipi. Un banchetto, come si vede, di una ventina di pietanze diverse, oltre ovviamente al pane e al vino. Il pesce imperava su tutte le mense: nelle descrizioni di cene ne troviamo di tutti i tipi ed è al pesce che sono dedicate tutte le ricette di Archestrato di Gela. Alcuni buongustai passarono addirittura alla storia a causa della loro smodata passione: tra questi, il retore Callimedonte (IV sec. a.C.), soprannominato "Granseola", al quale, come racconta il poeta Alessi nella sua commedia Dorkis, i pescivendoli da lui arricchiti e riconoscenti avevano deciso di innalzare una statua di bronzo che lo rappresentasse con una granseola brandita fieramente con la destra (CAF, II, 316; Ath., III, 104 d). Non tutti i giorni però si mangiava a quel modo e soprattutto non tutti potevano permetterselo. L'alimentazione delle classi inferiori era ben diversa; così più o meno la cena descritta da Ferecrate nei Disertori (CAF, I, 151): "Nel frattempo, attendendoci, le nostre mogli ci preparano la cena facendo cuocere farinata o lenticchie e rosolando un piccolo pezzo di pesce salato" (Ath., III, 119 d). La lenticchia svolgeva infatti nell'antica Grecia un ruolo importante nell'alimentazione della classe meno abbiente ed era abbondantemente consumata in Egitto e in Vicino Oriente: Ateneo ci tramanda persino la ricetta della zuppa di lenticchie di Zenone (Ath., IV, 158 b) e di quella con cipolle di Crisippo. Anche altri legumi comparivano sulla mensa povera: ad esempio il cece, che, una volta seccato, veniva cucinato, mentre fresco accompagnava il vino; secondo Fenia era piacevole masticarlo tra un bicchiere e l'altro (FHG, II, 300). Oltre al cece, nelle case dei proletari era sempre presente anche quel lupino che secondo Difilo di Sifno i venditori ambulanti offrivano per strada ai passanti assieme ad altre merci di poco prezzo come rose, radici, olive schiacciate (CAF, II, 570). Un cibo povero insomma e lo conferma anche Menedemo, il quale, parlando di lupini offerti ad una cena di filosofi, scrive "e qui, in grande quantità, danzava il plebeo lupino, convitato ai simposi dei triclini poveri". Parte importante nel banchetto greco aveva poi il vino che, famoso in tutto il Mediterraneo, veniva ricercato e pagato a prezzi altissimi. A Roma si cercava di imitarlo, ma se Catone il Censore dava già consigli su come fare vino greco nel Lazio (Agr., XXIV) e se ve ne doveva essere molto adulterato, soltanto quello che aveva attraversato il mare era realmente apprezzato ed era cantato ed esaltato dai poeti. Assieme al miele attico famoso ed esportato in tutto il Mediterraneo, il vino era una delle specialità greche più quotate ed era oggetto di un fiorente commercio. Stupisce oggi scoprire che nella vinificazione di questi vini considerati i migliori dell'antichità si immetteva sempre una certa quantità di acqua di mare: si pensava che questo li rendesse più dolci ed evitasse il mal di testa del giorno dopo. A volte però l'aggiunta era tale da permettere a Menippo di definire "bevitori di acqua di mare" gli abitanti di Mindio, i quali in questo esageravano (Ath., I, 32 e). Nei simposi si bevevano vini di ogni tipo (bianchi, ambrati, rossi, dolci e secchi): in Grecia lo si faceva sin dai tempi più antichi, ma mentre inizialmente il vino si beveva puro, poi ci si persuase che ciò poteva portare alla pazzia e si citava l'esempio di Cleomene I, lo Spartano, il quale, avendo vissuto a lungo con gli Sciti e avendo preso da essi una tale abitudine, aveva finito con l'impazzire (Ath., X, 427 b). Decideva le proporzioni uno degli ospiti che gli altri eleggevano simposiarca. Questi, dopo aver scartato la diluizione metà acqua e metà vino, giudicata ancora pericolosa (Ath., II, 36 a), decideva se farla a cinque (tre parti d'acqua e due di vino) o a tre (due parti di acqua per una di vino) (Ath., X, 426 c-d). D'inverno si diluiva il vino con acqua calda; d'estate con quella fredda o, ancor meglio, con la neve che si comprava al mercato e che Simonide diceva raccolta sulle pendici dell'Olimpo (Ath., III, 124 b - 125 d).
B.A. Sparkes, The Greek Kitchen, in JHS, 82 (1962), pp. 121-37; R. Argenio, Parassiti e cuochi nelle commedie di Alessi, in RStCl, 13 (1965), pp. 5-22; B.A. Sparkes, The Greek Kitchen, Addenda, in JHS, 85 (1965), pp. 162- 63; M. Detienne, L'olivier, un mythe politico-religieux, in RHistRel, 178 (1970), pp. 5-23; M. Währen, Brot und Gebäck in alten Griechenland, Detmold 1974, pp. 29-30; D.J. Georgacas, Ichtyological Terms for the Sturgeon and Etymology of the International Terms Botarg, Caviars and Congeners, Athens 1975; P. Mingazzini, Su un particolare della cucina omerica, in RendLinc, 31 (1976), pp. 3-7; M. Vickers, Greek Symposia, London 1978; H. Blanck, Essen und Trinken bei Griechen und Römern, in AW, 11 (1980), pp. 17-34; T.J. Figueira, Mass Contribution and Subsistence at Sparta, in TransactAmPhilAss, 114 (1984), pp. 87-109; R. Vattuone, Aspetti dell'alimentazione nel mondo greco, in L'alimentazione nell'antichità. Convegno (Parma, 2-3 maggio 1985), Parma 1985, pp. 185-207; M.C. Amouretti, Le pain et l'huile dans la Grèce antique, de l'araire au moulin, Paris 1986; F. Lissarangue, Un flot d'images. Une esthétique du banquet grec, Paris 1987; J. Dumont, Les critères culturels du choix des poissons dans l'alimentation grecque antique. Le cas de Athenée de Naucratis, in L. Bodson (ed.), L'animal dans l'alimentation humaine. Les critères de choix. Actes du Colloque International de Liège (26-29 novembre 1986), Liège 1988, pp. 99-113; F. Lissarangue - P. Schmitt-Pantel, Spartizione e comunità nei banchetti greci, in C. Grottanelli (ed.), Sacrificio e società nel mondo antico, Roma 1988, pp. 211-29; M. Lombardo, Pratiche di commensalità e forme di organizzazione sociale nel mondo greco. Symposia e syssitia, in AnnPisa, 18 (1988), pp. 261-86; J.M. Renfrew, Food for Athletes and Gods. A Classical Diet, in The Archaeology of the Olympics. The Olympics and Other Festivals in Antiquity. Papers of an International Symposium (Los Angeles, April 5 and 6 1984), Madison 1988, pp. 174-81.
di Roberta Belli Pasqua
Manca una documentazione fornita da fonti etrusche sulle abitudini alimentari di questo popolo: le notizie che possediamo derivano in gran parte da scrittori greci e latini di età romana, i quali forniscono tuttavia utili testimonianze, sia sulle risorse economiche del territorio sia su alcune qualità di cibi e di bevande propri della tradizione alimentare etrusca. A tali testimonianze si aggiunge la documentazione archeologica, che proviene però essenzialmente da studi recenti e riguarda soprattutto l'Etruria di età protostorica. L'alimentazione degli Etruschi non doveva essere molto diversa da quella delle popolazioni che abitavano il Lazio arcaico, vicino geograficamente e culturalmente: la dieta si basava principalmente, soprattutto nell'età più antica, sul consumo di carboidrati (cereali di varie specie) e proteine vegetali (legumi). La tradizione letteraria fa riferimento in più occasioni alla notevole fertilità del terreno di alcune zone dell'Etruria, testimoniando un'abbondante produzione di grano anche attraverso il ricordo di rifornimenti di questo cereale a Roma da parte di alcune città etrusche nel V e nel III sec. a.C. La specie di grano più diffusa era il farro (Triticum dicoccum), facilmente coltivabile anche in terreni poco dissodati, ma è probabile che, almeno in alcune aree, fossero coltivate già all'epoca qualità più nobili di frumento, che fornivano farine più raffinate e adatte alla panificazione, come la siligo, che in età romana era prodotta a Chiusi, Arezzo e Pisa. Almeno inizialmente, il farro veniva consumato sotto forma di pappa bollita con l'aggiunta di acqua o latte, come avveniva anche presso le popolazioni italiche; ancora in età imperiale Marziale (XIII, 8) citava le clusinae pultes, una sorta di polenta a base di farro tipica di Chiusi e la farinata (farrata) era considerata da Giovenale (XI, 109) tipica della cucina etrusca. I rinvenimenti archeologici, nell'età del Ferro, confermano le notizie riportate dalle fonti: nell'abitato di Luni sul Mignone, di epoca protovillanoviana (X sec. a.C.), i rinvenimenti paleobotanici hanno attestato il consumo di cereali (Triticum dicoccum e/o Triticum spelta, orzo) e legumi (fave, lenticchie e ceci). Al consumo dei cereali si aggiunse quello dei prodotti derivati dalla coltivazione della vite e dell'ulivo. La Vitis silvestris dovette essere sostituita dalla Vitis vinifera durante il VII sec. a.C.; l'equivalenza della parola etrusca per designare il vino con quella latina e falisca sembrerebbe far risalire l'introduzione della coltura della vite in ambito etrusco, così come in quello latino e falisco, all'età precedente il contatto con i Greci. La produzione di vino etrusco, destinato al mercato interno e all'esportazione, è attestata dalle anfore per il trasporto di questa bevanda prodotte in Etruria a partire dal 630 a.C. Vini di produzione locale venivano ricordati in età imperiale da Plinio il Vecchio, il quale citava le qualità prodotte a Gravisca, Statonia, Luni, Arezzo, Chiusi, Pisa (Plin., Nat. hist., XIV, 36- 39, 68). L'ulivo invece dovette essere coltivato a partire dalla fine del VII sec. a.C., a seguito di contatti con i coloni greci, come dimostra la parola etrusca che designa questa pianta, derivata dal corrispettivo termine greco. I rinvenimenti archeologici sembrano attestare una preferenza per il consumo del frutto allo stato di natura, piuttosto che sotto forma di olio; quest'ultimo era utilizzato principalmente per l'illuminazione e per la cosmesi, poiché come condimento erano preferiti i grassi animali. Contenitori bronzei pieni di noccioli di olive sono stati rinvenuti nel relitto di nave dall'Isola del Giglio (600 a.C. ca.), nella tomba "delle olive" (VI sec. a.C.) a Cerveteri e nell'abitato etrusco- celtico (IV-II sec. a.C.) di Monte Bibele (Monterenzio, Bologna). Sono scarse invece le testimonianze relative al consumo della frutta, che comunque doveva far parte della dieta. Sebbene non fosse compresa tra gli alimenti di base e fosse riservata solo ai ceti più abbienti, anche la carne ebbe un ruolo importante nell'alimentazione etrusca. Circa l'allevamento degli animali da macello la situazione in Etruria non doveva essere dissimile da quella del Lazio arcaico e del resto dell'Italia centrale. L'animale principalmente destinato all'alimentazione carnea era il maiale, che poteva essere allevato con facilità in ambito familiare e grazie al favorevole ambiente naturale dell'Italia centrale, ricco di boschi e querceti. Meno comune era il consumo dei bovini, necessari al lavoro nei campi; più diffuso doveva essere invece quello dei caprovini, allevati però anche per i prodotti che potevano fornire, quali latte e formaggi: tra questi ultimi era famoso ancora in età romana il formaggio prodotto a Luni. La carne di animali da allevamento era integrata anche da quella fornita dalla selvaggina. I reperti osteologici dagli abitati di San Giovenale, Acquarossa, Massarosa e Populonia hanno testimoniato la presenza di suini, bovini e caprovini e, sebbene in misura minore, anche di animali da cortile e animali selvatici. Le pitture della Tomba Golini I di Orvieto (350 a.C.), che rappresentano scene relative alla preparazione di un banchetto, raffigurano accanto a un bue due coppie di volatili, una lepre e un capriolo. Infine, nonostante la scarsità delle testimonianze, è probabile che anche la pesca abbia costituito una fonte di approvvigionamento alimentare: si possono ricordare a tale proposito i residui di pesci e i gusci di molluschi rinvenuti nel santuario di Pyrgi, nei corredi funerari di Tarquinia e a Populonia.
C. Ampolo, Le condizioni materiali della produzione. Agricoltura e paesaggio agrario, in DialA, 2 (1980), pp. 15-46; G. Colonna, Società e cultura a Volsinii, in AnnFaina, 2 (1985), pp. 105-10; G. Sassatelli, Cibo, alimentazione e banchetto presso gli Etruschi, in L'alimentazione nell'antichità. Convegno (Parma, 2-3 maggio 1985), Parma 1985, pp. 211-36; M. Cristofani, Economia e società, in Rasenna, Milano 1986, pp. 115-19; L'alimentazione nel mondo antico. Gli Etruschi (Catalogo della mostra), Roma 1987; M. Cristofani (ed.), Gli Etruschi. Una nuova immagine, Firenze 19932, pp. 74-75, 81-82.
di Anthony C. King
L'alimentazione intesa sia nel senso del semplice consumo degli alimenti sia, con accezione più estesa del termine, nel senso dell'intero sistema legato all'approvvigionamento del cibo, costituì un elemento di vitale importanza nell'antichità, come lo è ai giorni nostri. In particolare, l'alimentazione rappresentava un'esigenza di primaria importanza per il benessere degli antichi Stati; la tenuta stessa del potere politico su intere regioni poteva essere influenzata dalla maggiore o minore accortezza posta nel controllo della fornitura, della distribuzione e del consumo del cibo. L'approvvigionamento alimentare nell'antica Roma rappresenta un esempio in cui tale controllo raggiunse la massima espressione. A partire dalla Repubblica, il sistema dell'annona provvedeva a fornire ai cittadini un sussidio in grano e, più tardi, in olio e in carne di maiale. Tale sistema si fondava su una motivazione politica, in quanto la distribuzione di cibo alla cittadinanza era anche avvertita come necessaria al mantenimento dell'ordine pubblico. La rete d'importazione era estremamente ramificata e confluiva nel porto di Ostia; in particolare, il grano veniva trasportato dall'Egitto con navi da carico che attraversavano il Mediterraneo. Le testimonianze archeologiche, quali ad esempio i cumuli di anfore accatastate a Monte Testaccio a Roma, attestano anche la ragguardevole quantità di olio d'oliva importato dalla Spagna e dall'Africa. Oltre a Roma, poche altre città erano in grado di mantenere un tasso di elargizione gratuita di cibo nelle quantità sostenute dal modello romano. Nelle aree rurali il sistema più diffuso era quello delle comunità autosufficienti, a meno che non si trattasse di grandi fattorie inserite in un circuito evoluto di vendita dei raccolti. Queste ultime erano di norma fondate su forza lavoro fornita da schiavi; la produzione consisteva in vino o in olio ottenuti da coltivazioni intensive e tendenti spesso alla monocoltura, come nel caso della produzione olearia della valle del Guadalquivir; in tal caso, i ricavi consentivano l'importazione del cibo necessario al sostentamento quotidiano. La produzione di questi centri rurali era inevitabilmente legata alla distribuzione alimentare urbana più di quanto non accadesse invece con gli insediamenti agricoli minori e più remoti, i quali potevano sopravvivere indipendentemente da qualunque forma di economia esterna. Facevano eccezione a questa regola le piccole fattorie limitrofe alle città, le quali potevano sfruttare tale favorevole posizione fornendo ai mercati urbani prodotti freschi, quali ortaggi, carne e talvolta latte. È questo il caso di alcuni centri dell'Attica, della campagna romana e delle aree di centuriazione delle colonie romane. L'analisi, condotta sotto il profilo geografico, della relazione tra le ville e le città nella Gallia romana e in Britannia ha posto in evidenza come le ville fossero in molti casi raggruppate attorno alle città allo scopo di sfruttare i vantaggi offerti dalla richiesta di cibo da parte di queste ultime. Un'importante variabile rispetto a questa situazione è rappresentata da alcune colonie di veterani, nelle quali sembra che la popolazione della città si dedicasse alla coltivazione di campi situati nelle vicinanze, ma sempre entro i confini urbani. Tale prassi può essere stata frequente in quelle parti del Mediterraneo dove le ville non erano abbondanti e la popolazione viveva in concentrazioni urbane. Benché sia innegabile che la maggior parte di quanto destinato all'alimentazione fosse prodotta localmente e che la fornitura su lunghe distanze di derrate fondamentali, quale il grano a Roma, fosse l'eccezione piuttosto che la norma, è altresì chiaro come alcune di tali derrate alimentari venissero trasportate a molte centinaia di chilometri dal luogo di produzione. I trasporti avvenivano di solito via mare, particolarmente nell'area mediterranea, e le merci erano prodotti di qualità pregiata come vino, olio d'oliva, frutta e derivati ittici, come i frutti di mare e il garum (salsa a base di pesce). Tale sistema commerciale è attestato dai contenitori da trasporto, come le anfore, e dai relitti. Questi ultimi rappresentano la migliore testimonianza dei trasporti di generi alimentari: attraverso il loro esame si può comprendere come le navi intraprendessero soprattutto viaggi lungo la costa, caricando e consegnando anfore o altre merci (come la carne di maiale) in vari scali portuali. In tal modo l'ampliamento delle rotte commerciali favorì il consumo di prodotti non locali. Nell'età imperiale romana uno dei cambiamenti sociali più notevoli riguardò la sempre maggiore dipendenza di Roma e dell'Italia centrale dal cibo importato dall'estero: si trattava, in particolare, non solo di grano proveniente dall'Egitto attraverso l'annona, ma anche di olio spagnolo e africano e di vino importato dalle Gallie. Questo processo coincise con un'evidente diminuzione della produzione alimentare locale e regionale a partire dal II sec. d.C., come testimonia tra gli altri il caso della villa di Settefinestre in Toscana. È possibile ipotizzare che il cibo importato dalle province riuscisse a spuntare un prezzo d'acquisto inferiore a quello del prodotto locale, minando in ultima analisi la forza dell'agricoltura, fondamento dell'economia dell'Italia centrale. È comunque certo che il consolidamento di una sviluppata rete di trasporti e di commerci incoraggiò l'importazione di merci di prima necessità che altrimenti avrebbero continuato ad essere prodotte localmente. Nonostante l'espansione dell'economia di mercato nell'età classica e lo sviluppo, particolarmente nell'Impero romano, di vie commerciali acquatiche e terrestri, la mappa relativa al consumo e all'acquisizione dei beni alimentari sembra mantenere forti caratteristiche di distribuzione regionale. I dati, sia archeologici che storici, attestano come la fornitura del cibo fosse estremamente irregolare e, vista la mancanza di conservanti, legata alla reperibilità stagionale dei prodotti. Le diverse forme di alimentazione sembra seguissero abitudini ben radicate, piuttosto impermeabili alle novità; una classe di materiali che ben si presta a comprovare quest'ultima tesi è quella rappresentata dalle ossa animali. Indagini condotte su depositi di ossa in diverse province dell'Impero romano indicano come la Britannia, la Gallia e l'Italia meridionale avessero, ad esempio, ognuna modelli peculiari di alimentazione. Nel caso dell'Italia, in particolare a Roma e nella baia di Napoli, si r egistra un elevato tasso di consumo di carne di maiale rispetto a quanto osservabile per quella di montone e di manzo. In Gallia meridionale, specialmente nella provincia di Marsiglia, è attestato invece un notevole consumo di carne di capra e di pecora, dovuto al sopravvivere di abitudini dietetiche ereditate dalla Grecia e dall'Egeo. La Britannia, analogamente, mostra alti tassi di consumo di carne di montone rispetto ad altre forme di alimentazione; questa diversità è dovuta a tradizioni alimentari consolidatesi nell'età del Ferro (particolarmente nell'Inghilterra meridionale), le quali influenzarono i gusti alimentari anche durante la dominazione romana. Nei siti della Britannia maggiormente sottoposti all'influenza romana, come colonie, forti e ville, è riscontrabile una concentrazione di resti ossei che testimoniano un consumo percentuale di carne di maiale e di manzo non rilevabile per altri siti non romanizzati. Questo sembra riflettere l'influsso di determinati modelli alimentari derivati da altre province, quali la Gallia e la Germania. Con il diffondersi della romanizzazione, la Britannia adottò infatti un modello alimentare simile a quello delle province più vicine. Un aspetto rilevante del cambiamento dietetico in Britannia è rappresentato da una non completa aderenza alla dieta basata prevalentemente sul consumo di maiale, proprio dell'Italia centrale, ad indicare probabilmente la scarsa influenza esercitata dalla madrepatria su questa distante provincia. L'alto consumo di carne di maiale in Italia è probabilmente legato sia alla qualità relativamente alta di tale prodotto, come si deduce dalle ricette di Apicio, sia al suo costo moderato, stabilito dall'Editto dei Prezzi di Diocleziano. Inoltre, l'allevamento del maiale su larga scala ben si accorda con la coltivazione intensiva della vite e dell'ulivo, come dimostrano gli abbondanti esempi forniti dalle ville dell'area in questione. L'allevamento della pecora si integra più facilmente con la coltivazione dei cereali; è notevole il fatto che in Italia centrale il declino della coltivazione dei vegetali di maggior pregio, osservabile nel II sec. d.C., coincise con un evidente cambiamento nelle abitudini alimentari, nel senso di un aumento del consumo di carne di montone. Tale manifestazione ben si accorderebbe con un incremento della coltivazione dei cereali, oppure con l'abbandono della terra a destinazione più strettamente agricola; questo sembra essere stato il destino di molte zone, a giudicare dai numerosi riferimenti ad aree desertiche presenti nella documentazione tardoromana. L'esame dei resti ossei, come già osservato, puntualizza efficacemente la relazione tra dieta e cultura e consente di identificare la diffusione di precise tendenze e modelli alimentari. Resti ossei animali sono frequenti nei siti archeologici e la loro quantificazione fornisce dati utili allo studio; il problema principale, tuttavia, è che tale classe di materiali non indica la quantità di carne consumata, ma solo la proporzione tra le varie qualità. I dati riguardanti il consumo di alimenti non di origine animale possono poi essere desunti dall'analisi dei resti botanici e delle fonti letterarie. I resti fecali provenienti dal forte romano di Bearsden, in Scozia, mostrano un elevato contenuto di fibre vegetali, a testimonianza di una dieta fondamentalmente vegetariana. Ciò non sorprende, poiché coincide con quanto affermato dalle fonti sull'alimentazione dell'esercito romano. Anche altri settori della società che occupavano posizioni di minor privilegio dovevano essenzialmente basare la loro alimentazione su prodotti vegetali; probabilmente questo avveniva più per necessità che per scelta, dato che la dieta vegetariana, intesa come disciplina etica, era praticata solo da una minoranza di seguaci del pitagorismo o di altre filosofie simili. È anche vero che la mancanza di efficaci mezzi di conservazione per gli alimenti, fatta eccezione per la salatura e per l'affumicatura, probabilmente ridusse la diffusione del consumo di carne nelle regioni più calde del mondo antico. Peraltro, i sacrifici animali praticati presso i templi nel mondo greco e romano dovevano rappresentare una fonte abbondante di carne fresca per il popolo. Si può supporre che i poveri si basassero interamente su tali forme di elargizione di carni per integrare un'alimentazione per il resto interamente vegetariana. I resti botanici e i cumuli di ossa costituiscono classi di materiali la cui analisi è prassi comune negli scavi archeologici moderni. Contrariamente alle ossa animali, tuttavia, i semi, i pollini e altri indicatori botanici sono poco frequenti, non si mantengono facilmente e spesso la loro estrazione dai depositi archeologici è difficoltosa. Talvolta è possibile rinvenire estesi depositi di resti carbonizzati di grano, ma più spesso i ritrovamenti riguardano semplici concentrazioni di semi; si tratta a volte di depositi accumulati in edifici identificabili come granai, ma non di rado sono i resti dei procedimenti di raccolta e di mietitura del grano. I prodotti finiti derivati dal grano (farina, pane, ecc.) sopravvivono solo in circostanze eccezionali, come nel caso delle forme di pane di Pompei e di Ercolano. Uno dei risultati più rilevanti delle indagini archeobotaniche è quello di identificare quali nuove qualità di cereali fossero state introdotte in determinate regioni del mondo antico. Si è appurato così che il grano tenero fu introdotto in Britannia tra la tarda età del Ferro e la prima età romana; è stato inoltre possibile analizzare la diffusione nell'età del Ferro di altre colture tipicamente mediterranee, come l'ulivo e la vite, nel Sud della Gallia. Alcuni tipi di frutta, come la ciliegia, la pesca e l'albicocca, giunsero a Roma dall'Oriente tra la tarda età repubblicana e la prima età imperiale, come attestato dalle fonti e dagli scavi archeologici. Un elemento importante nel quadro dell'alimentazione è la preparazione del cibo per il consumo. Questo aspetto è rappresentato con efficacia dalle note statuette greche in terracotta che illustrano le attività di cucina, come la preparazione del pane, l'accensione del forno e così via. Le pitture pompeiane mostrano il cibo in forma di vere e proprie nature morte, in composizioni più o meno elaborate. Altrettanto importanti sono i resti pervenutici delle cucine o dei forni, come quelli, di grandi proporzioni, di Pompei, che attestano come nel contesto urbano romano la fornitura del pane fosse parzialmente centralizzata e intrapresa su basi commerciali. Le case più importanti, in Grecia e a Roma, avevano cucine dotate di forni, fornelli, dispense e zone per la preparazione del cibo. In alcuni casi sono stati rinvenuti in esse rifiuti alimentari, i quali hanno consentito di approfondire la nostra conoscenza sulle pratiche culinarie. Ad Augst, in Svizzera, una cucina ha restituito una notevole quantità di ossa di maiale pertinenti a vari tagli di carne, a testimonianza della dieta osservata da persone appartenenti ad una classe sociale elevata. Case di minori dimensioni, come gli appartamenti nelle città romane, sembra non possedessero aree espressamente dedicate alla cucina. È ipotizzabile l'uso di bracieri portatili, come quelli di Pompei e di Ercolano, mentre è probabile che si facesse ricorso a luoghi di ristoro pubblici (thermopolia) per la gran parte delle pietanze calde. È comunque difficile stabilire fino a che punto gli abitanti meno abbienti delle città potessero provvedere direttamente alla propria alimentazione, data la mancanza di strutture adeguate a questa esigenza. La dieta dei poveri è comunque argomento sul quale la documentazione è scarsissima: si è già accennato al fatto che l'alimentazione dei ceti meno abbienti era sostanzialmente e forzatamente vegetariana, se si escludono le offerte di carne in occasione di sacrifici e di elargizioni pubbliche. La letteratura, sia greca che romana, celebrava come virtù la magra mensa del contadino, spesso per contrasto e monito verso l'opulenza dei banchetti dei ricchi. In effetti, i banchetti abbondanti furono considerati politicamente inopportuni in alcuni momenti storici, come nella tarda Repubblica e nei primi anni dell'Impero, tant'è vero che vennero anche promulgate leggi, tanto restrittive quanto inutili, nel tentativo di limitare tali ostentazioni di opulenza. È comunque della tavola dei più abbienti che si possiedono le maggiori informazioni. Le fonti, oltre alle descrizioni letterarie, sono le più varie: le scene dipinte sui vasi greci, le pitture delle tombe etrusche, i sarcofagi, le sale da pranzo delle abitazioni, i mosaici e gli affreschi, il vasellame e le posate, i servizi e i completi da tavola. Una delle caratteristiche dei banchetti antichi era l'uso di letti tricliniari su cui sdraiarsi durante il pasto. L'origine di tale costume è evidentemente orientale; si affermò poi in Grecia e successivamente trovò ampio consenso in Etruria e a Roma. Qui il triclinium divenne uno spazio espressamente dedicato al pranzo, connotato da precise caratteristiche formali e architettoniche riscontrabili con facilità dal punto di vista archeologico nel tipico andamento ad U di alcune panche o nello spazio che per esse veniva ricavato intorno ad un mosaico. I dati archeologici sul cibo consumato nei banchetti sono, comprensibilmente, minimi. La grande varietà di recipienti, di piatti e di accessori utilizzati mostra il grado di elaborazione delle portate, ma per conoscere il cibo realmente consumato bisogna rivolgersi alle fonti letterarie, come il Satyricon di Petronio e il De re coquinaria di Apicio. Attraverso questi testi appare chiara la natura esotica dei piatti, specialmente in confronto con le nozioni della gastronomia moderna. Spesso gli ingredienti delle portate venivano elaborati al punto da assumere aspetto e forma sorprendenti: ad esempio, Petronio descrive un'oca grassa, circondata da pesci e da volatili, ma fatta in realtà di carne di maiale, secondo un costume di origine orientale che rimase strettamente legato agli usi della tavola antica. Un elemento del tutto particolare del ricettario romano antico è, inoltre, l'impiego diffusissimo che veniva fatto del garum e di altri condimenti dal gusto altrettanto sapido, con i quali si accompagnava persino la frutta, in occasioni in cui la cucina moderna farebbe invece uso di ingredienti dolci. Questo sembra indicare non soltanto le diversità col presente in termini di preferenze alimentari, ma anche la relativa scarsezza di dolcificanti nel mondo antico.
R.W. Davies, The Roman Military Diet, in Britannia, 2 (1971), pp. 122-42; J. André, L'alimentation et la cuisine à Rome, Paris 1981; L. Foxhall - H. Forbes, Sitometreia: the Role of Grain as a Staple Food in Classical Antiquity, in Chiron, 12 (1982), pp. 41-90; A.C. King, Animal Bones and the Dietary Identity of Military and Civilian Groups in Roman Britain, Gaul and Germany, in T.F.C. Blagg - A.C. King (edd.), Military and Civilian in Roman Britain, Oxford 1984, pp. 187-207; E. Prina Ricotti, L'arte del convito nella Roma antica, Roma 1984; L'alimentazione nel mondo antico. I Romani. Età imperiale (Catalogo della mostra), Roma 1987; O. Longo - P. Scarpi (edd.), Homo edens: regimi, miti e pratiche dell'alimentazione nelle città del Mediterraneo, Verona 1989; J. Schibler - E. Schmid, Tierknochenfunde als Schlüssel zur Geschichte der Wirtschaft, der Ernährung, des Handwerks und des Sozialen Lebens in Augusta Raurica, Augst 1989.
di Sauro Gelichi
Come per l'età antica, anche per il Medioevo i risultati degli scavi, con alcuni correttivi che sono propri di una diversificata tipologia e conservazione delle fonti, rappresentano un campo di ricerca di notevole interesse, in quanto consentono sia di tarare meglio la domanda storiografica e i risultati acquisiti, sia di intervenire, con originalità e autonomia, nell'ambito del dibattito in corso. Come è stato anche di recente sottolineato, la ricerca si muove, non sempre indipendentemente, su due principali fronti che ovviamente possono essere messi in relazione tra loro: quello della ricostruzione dei regimi alimentari e quello che, dai regimi alimentari, porta ad una conoscenza complessiva degli ecosistemi antichi. Poiché, come ogni tipo di fonte, anche quella archeologica ha proprie specificità e caratteristiche, è chiaro che l'ambito nel quale si muove, prima di essere trasformata in racconto storico, è circoscritto a campi piuttosto ristretti. In questo senso, i principali documenti archeologici utili a tal fine sono costituiti dalle componenti archeozoologiche e paleobotaniche conservate nei depositi di scavo. Tuttavia non vanno dimenticati gli apporti provenienti da fonti archeologiche, per così dire, indirette, come l'analisi paleopatologica delle ossa umane e lo studio dei manufatti d'uso domestico. Poiché all'interno di ogni sistema alimentare giocano anche fattori di carattere culturale, l'adozione di specifici manufatti d'uso domestico è in grado di ricondurci ai modelli della mensa, secondo una stratificazione di carattere sociale, oppure indicarci l'abbandono nel corso del tempo di determinati cibi o, infine, il diffondersi di particolari diete. La scomparsa, nel primo Alto Medioevo, dei mortaria, spesso di ceramica invetriata, è stata ad esempio collegata con un cambiamento nel regime alimentare. La distribuzione geografica dei cosiddetti "testelli", cioè recipienti di ceramica refrattaria usati per la cottura di farinate divenuti frequentissimi durante i secoli di mezzo, sembra direttamente correlata con lo sfruttamento intensivo del castagno e indica l'affermarsi di una cultura alimentare che, da tipicamente appenninica e marginale, passò ad interessare anche altri ambiti diversamente connotati sul piano sociale ed economico, come quelli urbani. Ma non sempre esiste un rapporto diretto di causa- effetto tra documento archeologico e mutamento alimentare. La scomparsa o la forte riduzione dei grandi contenitori da trasporto in ceramica (anfore, dolii, ecc.) nei depositi archeologici, a partire dal tardo VII sec. d.C., se da un lato rappresenta chiaramente una flessione, o un collasso, di quel sistema di interscambi mediterranei che aveva costituito l'asse portante del modello economico antico e quindi anche dell'apporto di materie prime, dall'altro non documenta automaticamente la perdita di specifici costumi alimentari. Tenendo presente che comunque un livello di interscambi, anche su base minimale, sopravvisse, risulta emblematico l'esempio del garum, una sorta di salsa a base di pesce fatto macerare nel sale con aggiunta di spezie ed erbe, che veniva usato nella preparazione dei cibi ed era particolarmente diffuso nell'antichità. Poiché si tratta di un prodotto alimentare elaborato nei Paesi del Mediterraneo e da qui esportato anche nella nostra penisola, dovremmo aspettarci che la chiusura dei mercati internazionali e la forte radicalizzazione, in senso autarchico, dei sistemi economici ne provocasse la quasi immediata scomparsa, con la conseguente perdita di conoscenza alimentare anche presso le società medievali continentali. Ma se ciò accadde, non avvenne secondo quella scansione cronologica che anche la documentazione archeologica sembra suggerire. Pagamenti in garum sono ad esempio ancora previsti nel capitolare che il re Liutprando, nel primo venticinquennio dell'VIII secolo, stipulò con i milites comaclenses che commerciavano sale lungo il Po e i suoi affluenti; nel capitolare de villis di Carlo Magno viene ricordato tra i prodotti che devono essere preparati cum summo nitore; gli inventari bobbiesi del IX secolo registrano ancora l'acquisto di congi di garum a Genova per il bisogno alimentare dei monaci. Solo nel X secolo il vescovo di Cremona, ambasciatore di Ottone I a Bisanzio, manifesterà, con la sua totale repulsione verso le vivande condite con liquore piscium, quel distacco culturale fra il mondo mediterraneo e quello continentale che andava facendosi sempre più netto, ma che forse era impensabile solo qualche secolo prima. Poiché, come abbiamo visto, il documento archeologico è sotto questo versante estremamente selettivo, l'integrazione con quanto riportato dalle fonti scritte, specie per il tardo Medioevo, risulta estremamente utile per arricchire le nostre conoscenze sull'alimentazione, sia in termini quantitativi che qualitativi. Inoltre, anche sul versante dell'interpretazione dei dati archeozoologici il nostro atteggiamento deve essere estremamente cauto, non solo per le interferenze tipiche della stratificazione archeologica (che talora inficiano o condizionano fortemente il documento), quanto per la difficoltà di arrivare tout court dal documento stesso al regime alimentare e da questo agli ecosistemi antichi: nella sua ricomposizione, infatti, interagiscono fattori, come il rapporto produzione-consumo, che costituisce un'equazione diversificata a seconda che ci si muova in un sistema di autoconsumo, oppure in un ambito più sfaccettato e complesso, come quello urbano, dove intervengono fattori di mercato, di redistribuzione e di commercio. Lo studio dei reperti archeozoologici è quello che, anche in Italia, ha registrato il maggiore interesse da parte dei ricercatori e quello su cui, data la messe di informazioni, si è reso possibile formulare alcuni bilanci di sintesi. Poiché i primi studi in questo campo, che non si limitassero ad un esame puramente tassonomico dei contesti faunistici, sono stati sviluppati dagli archeozoologi britannici, ha forse pesato sulle loro interpretazioni quel cosiddetto "modello inglese", che vede un rapporto di stretta interdipendenza tra consumi carnei, rilievo demografico e modelli produttivi delle campagne. Basato su convincimenti storiografici forse plausibili per l'area anglosassone, ma non automaticamente trasferibili presso altri ambiti socioeconomici, e sull'interpretazione archeozoologica di alcuni contesti di scavo, come quello di Exeter, il modello inglese stabilisce che l'aumento del consumo di carne in ambito urbano è strettamente connesso con la crescita demografica, con forti ripercussioni nello stesso sistema produttivo delle campagne. Il modello è affascinante, ma non così automatico. Già nella stessa analisi del contesto di Exeter viene ribadita l'assenza di nesso tra incremento demografico urbano e ristrutturazione dei sistemi produttivi delle campagne; l'andamento del consumo di carne nella Sicilia tardomedievale non sembra affatto seguire, almeno stando alle indicazioni delle fonti scritte, le curve del popolamento. Il dato archeozoologico, dunque, deve essere sempre tarato e verificato: la communis opinio, ad esempio, che il consumo carneo di bovini sia sempre da riferire a capi in età avanzata (bestiae inutiles), contrariamente a quanto talora ci dicono i registri di macellazione, deve essere spesso rigettata, poiché non sono affatto infrequenti i resti di vitelli nei depositi archeologici, specie di epoca tardomedievale. Gli studi più recenti sull'alimentazione, o più in generale sulle condizioni dell'economia medievale, hanno ridimensionato quelli che un tempo si ritenevano gli aspetti alimentari caratterizzanti di una società a forte componente agricola e quindi a prevalente base economica cerealicola, rivalutando altre forme di sostentamento, come quelle basate sull'allevamento, sulla raccolta dei frutti spontanei, sulla caccia e sulla pesca. Specie durante l'Alto Medioevo, il convivere tra colto e incolto portò senza alcun dubbio a forme di sfruttamento delle risorse e conseguentemente al radicarsi di modelli alimentari spesso del tutto nuovi, o comunque poco frequentati durante l'età antica. Tuttavia, l'enfatizzazione di certe tendenze alimentari, come ad esempio quelle derivanti dall'attività venatoria, che solo in epoca tardomedievale tornarono appannaggio esclusivo di specifici nuclei sociali, non sembra ancora trovare conferme nei dati di scavo. La ricomposizione, dunque, dei sistemi alimentari d'epoca medievale è ancora lontana dall'essere compiutamente definita e compresa: un approccio unilaterale (in senso cronologico, geografico e sociale) è forse insufficiente, come insufficiente è l'unilateralità nell'uso delle fonti, ma una generalizzazione dei dati, poiché in essa interagiscono aspetti ambientali, tecnico- produttivi, sociali, economico-commerciali e mentali, può risultare, allo stato dei fatti, anche fuorviante.
J.M. Maltby, Faunal Studies on Urban Sites: the Animal Bones from Exeter, 1971-1975, Sheffield 1979; M. Montanari, L'alimentazione contadina nell'alto Medioevo, Napoli 1979; Problemi di storia dell'alimentazione nell'Italia medievale, in AMediev, 8 (1981), pp. 9-450; H. Blake, Ceramica paleoitaliana, in Faenza, 67 (1981), pp. 20-52; G. Piccinni, Note sull'alimentazione medievale, in StStor, 3 (1982), pp. 603-15; M. Ginatempo, Per la storia degli ecosistemi e dell'alimentazione medievale. Recenti studi di archeozoologia, in AMediev, 11 (1984), pp. 35-61; M. Montanari, Il capitolare di Liutprando: note di storia dell'economia e dell'alimentazione, in La civiltà comacchiese e pomposiana dalle origini preistoriche al tardo medioevo. Atti del Convegno Nazionale di Studi Storici (Comacchio, 17-19 maggio 1984), Bologna 1986, pp. 461-75; S. Bököny, Lo sviluppo degli animali domestici come si riscontra nei resti di fauna del Castelàr di Rovèr (Possagno-Treviso), in La ricostruzione dell'ambiente antico attraverso lo studio e l'analisi del terreno e dei manufatti (strumenti e metodi di ricerca), Padova 1987, pp. 93-105; G. Clark, Stock Economies in Medieval Italy: a Critical Review of the Archaeological Evidence, in AMediev, 14 (1987), pp. 7-26; P. Farello, Reperti faunistici e alimentazione urbana in Emilia Romagna (XIV secolo e inizio XV secolo), ibid., 21 (1994), pp. 487-98.
di Andrea Paribeni
Agli inizi del VII secolo la travolgente ascesa della potenza islamica in tutto il bacino del Mediterraneo significò per l'impero bizantino non solo la perdita del controllo politico di vasti territori fino ad allora assoggettati, ma anche un grave danno economico che non mancò di ripercuotersi sui delicati equilibri della produzione alimentare: con la perdita dell'Egitto, dell'Africa settentrionale e, in seguito, della Sicilia vennero meno infatti i granai dell'impero che per secoli avevano consentito, grazie al sistema dell'annona, il sostentamento delle plebi di Roma e di Costantinopoli, così come il sostegno logistico agli eserciti impegnati nelle campagne di conquista. Nei limiti territoriali definitisi dopo la crisi del VII secolo (sostanzialmente Asia Minore e Balcani), l'impero bizantino si mantenne a lungo conservando all'incirca inalterato il proprio regime dietetico, caratterizzato da una significativa variabilità e flessibilità delle componenti vegetali e animali. Ovviamente era assai netta la differenza tra i cibi riservati alla corte e alle classi più elevate e quelli di cui poteva disporre il resto della popolazione. Dell'abbondanza e sontuosità dei primi si può ricavare un'idea da varie fonti (Costantino Porfirogenito e Liutprando da Cremona, X sec.; Symeon Seth e Ptochoprodromos, XI sec.; epistolografi del X-XII sec.) che, con intenti satirici, moralistici o puramente descrittivi, esaltano la varietà di vini pregiati e la quantità di carni e pesci di ogni genere (spesso preparati con spezie esotiche) presenti sulla tavola dei più ricchi. Per quanto riguarda l'alimentazione degli strati più modesti della popolazione, i regolamenti contenuti nei typika dei monasteri bizantini possono essere presi a riferimento, anche se il particolare regime dietetico al quale si sottoponevano i monaci, con frequenti periodi di digiuno e la preclusione assoluta verso determinati cibi, non può essere applicato ad ogni contesto. Elemento primario dell'alimentazione era naturalmente il pane, quasi sempre di frumento, al quale si accompagnava una consistente assunzione di legumi e Leguminose, che, assieme ai derivati del latte, assicuravano un notevole apporto di proteine non animali, sopperendo alla carenza di carne nella dieta comune. Le proteine animali però non mancavano del tutto, poiché pesce e carne conservati sotto sale, animali da cortile, suini, prodotti della caccia e della pesca contribuivano in modo significativo al completamento della dieta dei Bizantini, che per varietà e bilanciamento dei cibi risulta globalmente migliore di quella che, nello stesso periodo, veniva seguita in Occidente. Questo quadro sostanzialmente positivo dell'alimentazione bizantina è però solo in parte confermato dall'indagine archeologica, i cui dati, peraltro solo di rado frutto di ricognizioni mirate e sistematiche, se da un lato attestano il consumo diffuso di ovini e suini (ad es., a Cartagine), dall'altro denunciano all'esame osteologico dei resti umani tracce di patologie legate alla malnutrizione e, in generale, percentuali di vita media assai modeste (scavi di Sarashane e Kalenderhane a Istanbul).
E. Jeanselme - L. Oeconomos, Aliments et recettes culinaires des Byzantins, in Proceedings of the 3rd International Congress of the History of Medicine, Antwerp 1923, pp. 155-68; Ph. Koukoules, Βυζαντινων βιοϚ ϰαι πολιτισμοϚ, 5, Athinai 1952, pp. 9-135; E. Patlagean, Pauvreté économique et pauvreté sociale à Byzance 4e-7e siècles, Paris - La Haye 1977, pp. 36-53; T. Weber, Essen und Trinken im Konstantinopel des 10. Jahrhunderts, nach den Berichten Liutprands von Cremona, in J. Koder - T. Weber, Liutprand von Cremona. Untersuchungen zum griechischen Sprachschatz und zu Realienkundlichen-Aussagen in seinen Werk, Wien 1980, pp. 71-98; A. Karpozelos, Realia in Byzantine Epistolography, X-XII c., in ByzZ, 77 (1984), pp. 20-37; A.M.M. Talbot, Old Age in Byzantium, ibid., pp. 267-78; M. Dembińska, Diet: a Comparison of Food Consumption between Some Eastern and Western Monasteries in the 4th-12th Centuries, in Byzantion, 55 (1985), pp. 431-62; Ch. Bakirtzis, Βυζαντινα τσουϰαλολαγενα, Athinai 1989, pp. 31-69; J. Durliat, De la ville antique à la ville byzantine. Le problème des subsistances, Rome 1990, pp. 185-278; E. Kisslinger, L'alimentazione a Bisanzio, in REByz, 49 (1991), pp. 63-72; M. Kaplan, Les hommes et la terre à Byzance du VIe au XIe siècle, propriété et exploitation du sol, Paris 1992, pp. 25-46; J. Koder, Gemüse in Byzanz. Die Versorgung Konstantinopels mit Frischgemüse im Lichte der Geoponika, Wien 1993.
di Maria Domenica Ferrari
L'alimentazione degli abitanti della penisola araba era costituita dalla dieta tipica delle popolazioni pastorali in una regione desertica con oasi coltivate. Uno degli alimenti principali era il latte (oltre a quello di cammella erano consumati anche quello di capra e quello di pecora), che poteva essere bevuto con l'aggiunta di acqua, mentre quello acido non era apprezzato. Dal latte venivano ricavati burro raffinato, usato per la cottura degli alimenti, e formaggio. I cammelli erano macellati solo in caso di grave necessità e la loro carne era particolarmente apprezzata. Le oasi fornivano l'altro alimento base: i datteri; questi erano spesso il solo cibo disponibile e potevano essere utilizzati essiccati, freschi o quando ne iniziava la maturazione. Il pane di orzo non era eccezionale tra la popolazione sedentaria, mentre tra i nomadi era molto raro ed era accompagnato da un condimento. Le popolazioni sedentarie arricchivano la loro dieta anche con verdure, come cicoria, bietole, alcune Cucurbitacee, olive e midollo della palma da dattero. I nomadi, oltre alla carne e al latte delle loro greggi, raccoglievano vegetali spontanei e davano la caccia alla selvaggina e ai piccoli animali del deserto; mentre gli abitanti delle regioni costiere integravano la loro dieta con il pesce. Esistevano varie bevande fermentate, ottenute con datteri, miele, grano, orzo, uva passa; il vino era generalmente importato. Il cibo era preparato in modo assai semplice, arrostito o cotto nel forno, anche se il forno vero e proprio non era molto diffuso; altrettanto semplici erano le poche combinazioni dei piatti. Erano ricercati i cibi grassi, mentre le spezie non erano utilizzate in grande misura: è menzionato l'uso di pepe, chiodi di garofano, zenzero, canfora e aloe. Gli abitanti dell'Arabia del Sud, molto più agricola, coltivavano una grande varietà di vegetali: la farina era ricavata dal grano, dall'orzo e dai datteri. Gli orti, i frutteti e i vigneti erano numerosi e la bevanda principale era il vino di palma. Le riforme di Maometto maturarono sotto l'influenza di un ambiente in cui ogni comunità religiosa (ebrei e cristiani di varie confessioni religiose) era caratterizzata da regole alimentari. Il Corano insiste sulla natura benefica del cibo, una delle maggiori benedizioni divine (LXXX, 24; XVII, 70- 72; XVI, 32-37), che deve essere usato con moderazione. Fu stabilito un limitato numero di proibizioni: era vietato il consumo di sangue (e quindi delle carni di animali strangolati), della carne di animali morti o uccisi a scopo diverso da quello alimentare, del maiale, degli animali consacrati a divinità pagane. Il divieto del vino fu graduale: prima apparve come semplice riserva e in un secondo momento come proibizione. Inoltre l'Islam decretò una generale astensione temporanea dal cibo ad intervalli periodici (il digiuno del ramadàn). I Paesi conquistati dagli Arabi non cambiarono le proprie abitudini alimentari, comunque si creò un'area culturale relativamente coerente, in cui vennero diffusi largamente prodotti conosciuti prima solo in regioni limitate, come il riso e la canna da zucchero. Il riso divenne il cibo dei poveri, sotto forma di pane ricavato dalla farina, nei territori in cui era coltivato intensivamente, mentre altrove rimase un cibo di lusso usato per la preparazione di piatti elaborati. Lo zucchero rimase un prodotto ricercato consumato dai principi e dalle classi elevate, mentre i poveri lo consideravano soprattutto una medicina e usavano come dolcificante il miele, meno costoso, e la melassa. L'alimentazione dei poveri era molto semplice: il cibo principale era il pane di frumento o d'orzo, a cui si aggiungevano legumi, come fagioli e ceci. La carne era troppo costosa e restava un privilegio delle classi superiori, che apprezzavano soprattutto il montone e il capretto, mentre poco costoso era il pesce. In Iraq e in Siria vi era una grande produzione di frutta, mentre gli agrumi erano riservati alle classi superiori. Naturalmente il cibo dei ricchi era composto da numerose varietà di piatti, complessi e costosi; nel mondo arabo erano particolarmente apprezzati i piatti di origine persiana, soprattutto durante il periodo abbaside, in seguito lo furono quelli turchi. La conservazione del cibo era un problema molto sentito: i cereali erano conservati nei silos e nei granai e gli agronomi raccomandavano vari processi per preservarli dal deperimento. L'essiccamento era un metodo diffuso e poco costoso, mentre l'affumicatura era scarsamente impiegata. Il sistema principale di conservazione utilizzava sostanze antisettiche, in particolare sale e aceto, a cui venivano spesso aggiunti vari condimenti; erano impiegati anche il miele e la melassa.
M. Rodinson, Recherches sur les documents arabes relatifs à la cuisine, in REtIslamiques, 17 (1949), pp. 95-158; M. Canard, Le riz dans le Proche-Orient aux premiers siècles de l'Islam, in Arabica, 6 (1959), pp. 113-31; M. Rodinson, s.v. Ghidhâ, in EIslam2, II, 1965, pp. 1057-1074; E. Ashtor, Essai sur l'alimentation des diverses classes sociales dans l'Orient médiéval, in AnnEconSocCiv, 23 (1968), pp. 1017-1053; M.M. Ahsan, Social Life under the Abbasids, London 1979.
di Massimo Vidale
L'agricoltura basata sui raccolti invernali, incentrata su diverse varietà di orzo e di grano, è attestata a Mehrgarh nel VII millennio a.C., nelle fasi conclusive della grande transizione socioeconomica che portò alla sedentarizzazione dei gruppi locali di raccoglitori e cacciatori. Il passaggio dalla raccolta e dalla caccia all'agricoltura e alla dipendenza dai bovini e dai caprovini domestici comportò certamente una relativa diminuzione della variabilità della dieta. Tra il VII e il III millennio a.C. le antiche varietà di orzo, domesticate localmente, vennero sostituite dal grano. Dai depositi neolitici di Mehrgarh provengono anche semi di palma da dattero (Phoenix dactylifera), probabilmente originaria della regione di Kachi, dove sorge il sito; la specie, in seguito, non è attestata prima dell'"età dell'integrazione" o fase harappana della tradizione culturale dell'Indo (2600-1900 a.C. ca.) e diviene comune solamente nel II millennio a.C., ma è possibile che i suoi frutti venissero consumati già in epoca neolitica. Altra pianta che faceva parte della dieta, a partire dal VII millennio a.C., era il giuggiolo (Zizyphus jujuba). Nello stesso periodo, mentre continuavano ad essere consumate le carni di numerose specie selvatiche (emione, maiale, Cervidi, antilopi, gazzella, grandi bovini selvatici, capre e pecore selvatiche, forse elefante e rinoceronte), si estese lo sfruttamento dello zebù, ovvero il bue gibbuto indiano (Bos indicus), che, per il suo ruolo tuttora fondamentale nell'ambito dell'agricoltura e dell'alimentazione, divenne la specie domestica più importante, seguita dai caprovini domestici. Intorno al 5000 a.C., verso la fine del Neolitico, le specie domestiche avevano quasi totalmente rimpiazzato quelle selvatiche. Nel III millennio a.C. la dieta vegetale, pur basandosi sui cereali, si arricchì significativamente, integrandosi con i legumi (lenticchie, piselli, ceci), il sesamo, la senape e, in maniera crescente, con la palma da dattero. Nello stesso periodo venne probabilmente domesticata la canna da zucchero (Saccharum sp.), che da allora, nella storia dell'alimentazione del Subcontinente indiano, ha promosso lo sviluppo di una ricca produzione dolciaria. La produzione agricola e, di conseguenza, la dieta sembrano variare da regione a regione: se ad Harappa, Mohenjo Daro e Chanhu Daro (odierno Pakistan) il cereale più importante era il grano, seguito dall'orzo, a Kalibangan (India) si produceva solo orzo, mentre a Surkotada (India) predominavano le varietà di miglio. Continuarono ad essere consumate le carni dello zebù, delle pecore e delle capre domestiche, del maiale e della gallina, cui si aggiungevano quelle di diverse specie cacciate. Nella seconda metà del III millennio a.C. comparvero vasi globulari da cucina, sia di terracotta sia di bronzo, con una caratteristica carenatura alla spalla, simili a quelli che, nei due millenni successivi e fino ai giorni nostri, furono usati per la bollitura del latte e la manifattura dello yogurt. È stato ipotizzato che il latte venisse anche trasformato in formaggio conservabile, ma va rilevato che la tecnologia e il consumo di questo tipo di latticini nella cultura tradizionale indiana appaiono marginali. A queste risorse alimentari vanno aggiunte quelle garantite dalla pesca fluviale (Siluridi e carpe) e dalle specie marine, consumate nei siti costieri ma anche, salate ed essiccate, distribuite ai centri dell'entroterra. Complessivamente, la dieta degli abitanti dei siti urbani, nel III millennio a.C., sembra garantire un equilibrato apporto di carboidrati, proteine, zuccheri e grassi vegetali e animali. È facile pensare che nella protostoria del Subcontinente indiano, dove le diete sono collegate agli ordini di casta e alle consuetudini sociali che tali gerarchie comportano, la dieta fosse differenziata anche a seconda del rango, oltre che del sesso. Verso la soglia del II millennio a.C., l'introduzione su larga scala di nuove specie vegetali, come la vite (Vitis vinifera), diverse varietà di miglio (introdotto probabilmente nel Gujarat e nel Maharashtra dalla Penisola Arabica) e il riso, e l'estensione della coltivazione della palma da dattero rivoluzionarono completamente la base agricola del Subcontinente, affiancando ai raccolti invernali quelli estivi. Il sistema dei due raccolti annuali caratterizza ancora oggi l'economia agricola di India e Pakistan. La coltura delle forme di miglio venne forse estesa in Gujarat e nel Kutch allo scopo di poter disporre di foraggi per i bovini, nel quadro (si è ipotizzato) di una generale conversione di parte della locale economia harappana a forme di pastorizia seminomadica, anche se, va rilevato, il miglio fornisce anche farine ampiamente consumate ancora oggi. A questa grande trasformazione si collega l'estensione dell'allevamento del cavallo e del cammello. La vita negli insediamenti del II e I millennio a.C. sembra sfruttare per ciascuna zona ecologica la grande potenzialità adattativa di una base agricola e zootecnica così ricca e variata: ad esempio, nello Swat i vegetali più consumati erano i legumi, seguiti da orzo, grano e riso, mentre gli animali domestici in ordine di importanza erano lo zebù, i caprovini, il maiale e gli Equidi e la dieta veniva significativamente integrata dalla caccia. Ad Atranjikhera, nella valle del Gange, si coltivava il riso, seguito da orzo e miglio, e si consumavano le carni dello zebù e dei caprovini. A Inamgaon, nel Maharashtra, le comunità calcolitiche del II millennio a.C. vivevano di un'accorta combinazione di agricoltura, allevamento, caccia e pesca; la risorsa vegetale più importante era l'orzo, seguito dal grano, dal riso, dai legumi e dal miglio. Lo studio dei resti ossei animali rivela inoltre la presenza dello zebù, del bufalo domestico, dei caprovini, del cane, del cavallo, dell'asino e del maiale domestico, mentre gli animali cacciati o pescati includevano Cervidi, antilopi, lepri, gallinacei, oche, pesci di acqua dolce e marina (ben il 75% dei resti ossei ha tracce di macellazione e/o combustione). Nello stesso sito, lo studio degli elementi in traccia nelle ossa umane della necropoli ha indicato l'esistenza di diversi regimi nutrizionali, che si evince dal confronto tra le sepolture povere e quelle più vistose. Va rilevato che nulla, nella protostoria indiana, indica l'esistenza di antichi tabu alimentari nei confronti dello zebù, come invece accadrà in seguito, con l'ideologia della "vacca sacra" e la propaganda del vegetarianesimo nella valle del Gange e in altre regioni dell'India induista. Al VI sec. a.C. la tradizione storica attribuisce gli insegnamenti del Buddha e del Jina, che prevedono regimi dietetici moderati e il rispetto della vita animale. Nel V sec. a.C. Erodoto menziona la presenza in India di comunità ascetiche che si astengono dall'uccidere esseri viventi e vivono di erbe selvatiche. Risalgono inoltre a questo periodo le notizie riportate dagli scrittori greci, che descrivono le colture del riso e della canna da zucchero e la produzione del vino e del formaggio e che risentono del luogo comune che attribuiva a popolazioni esotiche e non civilizzate il consumo di alimenti di provenienza selvatica o addirittura il cannibalismo; dal canto loro le contemporanee fonti indiane indicano il ricorso a carni di creature impure come prerogativa di genti e caste disprezzabili. L'astensione dalla violenza contro gli animali è parte del Dharma o legge universale della quale l'imperatore Ashoka della dinastia Maurya si fa propugnatore terreno nel III sec. a.C. Secondo alcune correnti di pensiero, confluite più tardi nell'Induismo, il vegetarianesimo, rispettando gli animali, costituisce uno dei meriti che condizionano positivamente il continuo processo delle rinascite. L'ideologia dell'intoccabilità della vacca si sviluppò probabilmente nel corso del I millennio d.C., cristallizzandosi poi a seguito dello scontro con l'Islam. L'antropologia moderna ha messo in rilievo come la protezione nei confronti dei bovini, elemento cardine dell'economia rurale indiana, continui a rappresentare in India un importante, articolato fattore di conservazione economica e sociale.
K. Karttunen, India in Early Greek Literature, Helsinki 1989; M. Harris, The Cultural Ecology of India's Sacred Cattle, in CurrAnthr, 33 (1992), suppl. 2, pp. 261-75; Vishnu-Mittre - R. Savitri, Food Economy of the Harappans, in G. Possehl (ed.), Harappan Civilization, New Delhi 1993², pp. 205-221; G. Burgéois - P. Gouin, Résultats d'une analyse de traces organiques fossiles dans une "faisselle" harappéenne, in Paléorient, 21, 1 (1995), pp. 125-28; B.B. Lal, The Earliest Civilization of South Asia, New Delhi 1997.
di Roberto Ciarla
In Asia orientale i rinvenimenti di resti di fauna riferibili al Paleolitico inferiore (da 1 milione ca. a 200.000 anni fa) testimoniano forme di sussistenza basate sulla caccia; a parte la specificità locale di alcune delle specie cacciate, non sembra siano rilevabili sostanziali differenze dai modelli alimentari prevalenti tra i gruppi di Homo erectus nel resto del continente eurasiatico. Nella caverna di Longgushan (locus 1) a Zhoukoudian, ad esempio, il 70% dei resti faunistici appartiene al Sinomegaceros pachyosteus, un tipo di cervo dalle ampie e pesanti corna; tali resti, insieme a quelli di altri mammiferi, recano tracce di macellazione e di combustione che ne testimoniano un probabile uso alimentare. Il rinvenimento di resti di Celtis nello stesso locus 1 indicherebbe che un importante apporto alimentare proveniva dalla raccolta di bacche e di frutti selvatici. L'interpretazione dei dati archeologici in relazione alle strategie di sussistenza (sistemi di caccia e di raccolta e sistemi di preparazione dei cibi), adottate da Homo sapiens nel corso del Paleolitico medio (200.000-50.000 anni fa ca.) e superiore (50.000-12.000 anni fa ca.), è in Asia orientale ancora ad uno stadio iniziale. Per il momento è possibile asserire soltanto che alla fine del Pleistocene l'alimentazione di Homo sapiens sapiens, densamente distribuito nelle regioni dell'Asia orientale, era basata su sofisticati sistemi di caccia, pesca e raccolta, testimoniati da rinvenimenti bioarcheologici e da utensilerie specializzate e tipologicamente diversificate. Con l'inizio dell'Olocene, e più ancora nel corso dell'optimum climatico medio-olocenico (8000-5000 anni fa ca.), in Asia orientale distinte tradizioni alimentari vennero ad affermarsi nelle diverse macroregioni climatiche dell'area, in concomitanza con processi originali di domesticazione di locali specie vegetali e animali o a seguito della loro diffusione. Nelle pianure fluviali della Cina settentrionale, a clima continentale temperato, l'alimentazione delle comunità neolitiche ad economia agricola (culture di Cishan, Peiligang, Yangshao e Dawenkou) si delinea tra il VI e la fine del IV millennio a.C.: essa era principalmente basata sul consumo di cereali, in particolare del miglio (Panicum miliaceum, Setaria italica), integrati da altre specie domestiche, ad esempio il cavolo (Brassica chinensis, Brassica pekinensis), e da un amplissimo spettro di piante selvatiche. Tale dieta era completata dalla carne, fornita sia da specie domestiche, quali maiali, cani, gallinacei e caprovini, sia da specie selvatiche in cattività, come il cervo giapponese (Cervus nippon) allevato in ambito Yangshao, o cacciate (Cervidi, Bovidi, Ursidi, felini, Uccelli) o pescate (soprattutto della famiglia dei Ciprinidi). Alcuni tipi di vasellame ceramico, la forma e la disposizione del focolare all'interno delle abitazioni e l'uso di macine in pietra negli insediamenti evidenziano che il consumo dei cereali avveniva in forma di farina e di grani resi commestibili per arrostimento o per bollitura. Del sistema alimentare estremo-orientale si ha soltanto un pallido riflesso nei dati archeologici preistorici, mentre si manifesta pienamente nei testi e nei dati archeologici relativi alla prima civiltà storica dell'Estremo Oriente, quella degli Shang. Sebbene tali informazioni, fin quasi alla fine del I millennio a.C., si riferiscano ad un settore affatto particolare del tessuto sociale della Cina arcaica, quello delle aristocrazie, non è errato ritenere che la struttura base del sistema alimentare, dalla composizione più elementare della dieta ad alcuni dei suoi innumerevoli elementi culturali e ideologici, fosse condivisa dagli strati più bassi della società. Nelle epoche S hang (XVIXI sec. a.C.) e Zhou Occidentali (XI sec. - 770 a.C.), gli innumerevoli rinvenimenti di vasellame rituale di bronzo deposto nei corredi funerari delle aristocrazie permettono di delineare un quadro relativamente chiaro degli utensili necessari alla preparazione dei cibi, mentre gli scarni dati testuali forniscono preziose informazioni sulla preparazione degli alimenti.
Nella Cina a sud dello spartiacque formato dai Monti Qinling e dal corso del fiume Huai, il regime alimentare delle popolazioni neolitiche della bassa-media valle dello Yangtze (culture di Majiabang, Hemudu, Daxi, Qujialing) differisce da quello delle popolazioni settentrionali, nel periodo compreso tra il VI e la fine del IV millennio a.C., soltanto nella composizione della dieta, ma non nella sua struttura. La dieta era infatti basata principalmente su un cereale, il riso domestico (Oryza sativa japonica e Oryza sativa indica), e su diverse altre specie vegetali, sia coltivate, come la castagna d'acqua (Trapa natans) e la zucca (Lagenaria siceraria), sia selvatiche. A tali cibi solitamente si affiancavano la carne di maiale (Sus domestica), quella del cane (Canis familiaris), i pesci, gli uccelli, la carne degli erbivori di grossa e media taglia e quella delle tartarughe (Chinemys reveesi, Amyda sinensis). La principale caratteristica del modello di alimentazione meridionale risiede probabilmente nell'impiego più frequente della cottura a vapore e della bollitura, nella pressoché totale assenza di molitura del cereale e nell'uso di condimenti aromatici, come suggerirebbe la presenza di cinnamomo (Cinnamomum chingii) nel sito di Hemudu. Nelle regioni costiere monsoniche a clima tropicale della Cina sud-orientale piuttosto scarsi sono i dati archeologici utili per una ricostruzione dell'alimentazione in età neolitica: le evidenze a disposizione indicano modi di sussistenza basati sulla caccia, sulla pesca e sulla raccolta, ma è possibile ipotizzare un ruolo importante svolto dalle forme di orticoltura (o di acquacoltura) rivolte verso gli aroidi alimentari, quali il taro e l'igname. I modelli alimentari di una siffatta e così vasta area potrebbero essere inoltre non dissimili da quelli ben noti per l'arcipelago giapponese, dove per tutta l'epoca neolitica Jomon, fino alle soglie del I millennio a.C., sistemi di caccia-pesca-raccolta estremamente selettivi furono in grado di fornire una dieta basata sul consumo di pesce, molluschi di acqua dolce e salmastra, e di mammiferi (maiali selvatici e cervi), oltre che sul consumo di numerose specie vegetali selvatiche a riproduzione spontanea e controllata, con tecniche vicine ad una proto-orticoltura, come il grano saraceno (Fagopyrum sp.), l'igname e alcuni tipi di Liliacee.
Nella fascia delle culture microlitiche, che si estende dalla Cor ea alle soglie dell'Asia Centrale, l'adattamento umano olocenico ad ambienti regionali tra loro relativamente diversificati produsse sistemi di alimentazione altrettanto variegati, che, nelle valli fluviali in cui era possibile la conduzione di pratiche agricole (Mongolia orientale e Manciuria meridionale), furono principalmente basati su cereali introdotti dalla valle del Huanghe (Fiume Giallo) e probabilmente su legumi, affiancati dalla raccolta di piante alimentari selvatiche e dalla caccia- pesca. In Corea una dieta a base di cereali e Leguminose è ben attestata alla fine del periodo Chulmun (6000-2000 a.C. ca.) e ancor più nel periodo Mumun (2000-300 a.C. ca.), grazie ai rinvenimenti di riso (Oryza sativa japonica), orzo, sorgo, fagioli di soia, fagioli rossi e soprattutto di miglio. Anche il maiale ebbe un posto di rilievo nella composizione della dieta delle comunità coreane tra il Neolitico tardo e il Bronzo iniziale, forse affiancato dal cane e da specie selvatiche cacciate o pescate. L'assenza di vasi da cottura tripodati, sia nelle ceramiche Chulmun sia in quelle Mumun, indicherebbe una tradizione alimentare, quanto meno nella cottura, diversa da quella cinese; tuttavia, la presenza di contenitori a base piatta forata e di piccole pignatte con coperchio evidenzierebbe metodi di cottura per bollitura e a vapore simili a quelli della Cina.
L'enfasi data all'uno o all'altro dei componenti della dieta nel periodo Jomon variò notevolmente nel tempo, seguendo i cambiamenti climatici occorsi nell'Olocene: mentre nel Jomon iniziale e antico (ca. 10.000-4500 anni fa) prevalse una dieta basata sulla selvaggina e sui crostacei integrati da pesce e da nocciole, nel Jomon medio (ca. 4500-3500 anni fa), soprattutto nella regione montuosa del Giappone centrale, un ruolo di primo piano ebbero, accanto alla selvaggina, noci, castagne e ghiande, che venivano consumate dopo essere state addolcite per lisciviazione, arrostite e ridotte in farina per mezzo di macine di pietra. L'importanza della cacciagione subì un progressivo decremento nel corso del Jomon tardo e finale (ca. 3500-2500 anni fa) a favore del pescato e dei crostacei, ai quali si affiancò, particolarmente dopo l'inizio del I millennio a.C., il consumo di Leguminose, di cereali selvatici e, a partire dalla regione del Kyushu, del riso domestico introdotto dalle regioni costiere della Cina.
Nella Manciuria settentrionale, nella Provincia Marittima Siberiana e nelle aree costiere del Bohai, prevalse un'alimentazione a base di pesce, di molluschi e di selvaggina, affiancati da vegetali selvatici e da cereali, non dissimile da quella delle contemporanee popolazioni Jomon del Giappone. A partire dal I millennio a.C. nelle regioni mancese, subsiberiana e coreana vennero a convivere tre diversi tipi di economia di sussistenza: la caccia-pesca nelle regioni boscose e costiere subsiberiane, l'agricoltura nelle pianure costiere e nelle valli dei fiumi mancesi e coreani e l'allevamento nell'ampia fascia delle praterie e delle steppe che dalla Mongolia orientale giunge al fiume Ordos. È in questa fascia che si affermò un sistema alimentare tipicamente pastorale, basato sul consumo di latte e dei suoi derivati, di carne e in minima parte di granaglie, strutturalmente opposto a quello noto come fan-cai, basato sull'associazione tra cereali e pietanze, ovvero tra riso cotto (fan), ma più generalmente qualsiasi cereale cotto, vegetali e carni (cai); quest'ultimo sistema alimentare, diffuso almeno dall'inizio del I millennio d.C., caratterizza con differenze regionali la maggior parte delle culture sinizzate dell'Estremo Oriente. Nel corso del IV e soprattutto del III millennio a.C., le interazioni culturali sempre più intense stabilitesi tra le regioni dell'Estremo Oriente devono aver prodotto un'ampia diffusione e un adattamento di specie vegetali e animali in ambienti diversi da quelli in cui esse erano state originariamente domesticate, creando le premesse per la diffusione del sistema fancai. Questo semplice binomio sintetizza la struttura base di uno dei sistemi alimentari culturalmente più complessi della storia umana. Esso sembra essere maturato, come del resto l'intera civiltà cinese arcaica, attraverso molteplici catene d'interazione culturale, accogliendo elementi ad esso congeniali e rifiutandone invece altri (come l'uso del latte e dei suoi derivati e dei cibi crudi), sulla base di motivazioni culturali che ancora per larga parte ci sfuggono. L'amplissima estensione di tale sistema sembra derivata principalmente dalla forte e progressiva influenza esercitata dalla cultura cinese Han, a partire dalla fine del I millennio a.C. fino alle soglie dei nostri giorni.
Per quanto concerne l'alimentazione delle popolazioni preistoriche dell'Asia sud-orientale, fino all'inizio del I millennio a.C., gli ancora scarsi e dispersi dati a disposizione permettono di individuare alcuni elementi comuni a gran parte della regione, soprattutto per la porzione continentale. La diffusione della coltivazione del riso nel corso del II millennio a.C. è forse l'elemento che maggiormente influì sulla struttura del sistema alimentare del Sud-Est asiatico continentale. I rinvenimenti archeologici, infatti, evidenziano un'alimentazione basata sulla consumazione di riso accompagnato da carni di specie sia domestiche (soprattutto maiali e gallinacei), sia selvatiche. Un ruolo particolarmente complesso, a giudicare dai dati archeologici, iconografici ed etnografici, sembra abbiano svolto i bovini come animali da lavoro e da macello (ad es., il bufalo acquatico e lo zebù), nonché come simbolo di status (ad es., il mithan e altri, la cui macellazione potrebbe essere stata limitata ad occasioni di carattere rituale). È verosimile che a quest'elenco, relativamente scarno a giudicare dai dati storici ed etnografici, debbano essere aggiunti tutti quegli elementi che, soprattutto in ambiente monsonico-tropicale, non lasciano traccia nei depositi archeologici: si pensi, ad esempio, ai tuberi (taro e igname) e ad alcune Cucurbitacee, con ogni probabilità oggetto di coltivazione, alle molte erbe selvatiche, alle spezie, alla frutta, fino ad alcune specie di insetti ritenute ancora oggi una delicatezza culinaria. I rinvenimenti archeologici, dal canto loro, permettono di delineare anche alcuni elementi caratteristici della preparazione dei cibi: le carni non disossate venivano tagliate in piccoli pezzi e cotte prevalentemente per bollitura o a vapore, in pentole a fondo convesso poste su un solo fornello di ceramica a carbone di legna; l'uso del sale è attestato dal I millennio a.C. sull'altopiano del Khorat. Il quadro delineato riflette soprattutto la struttura dell'alimentazione delle comunità agricole preistoriche stanziate nelle valli fluviali del Sud-Est asiatico continentale, ovunque fosse stata possibile la coltivazione del riso in vasca. È giustificato pensare, per quanto scarsi siano i dati archeologici a disposizione, che tanto più ci si discosti dalle piane alluvionali, tanto più sensibili siano state (come lo sono tuttora) le differenze rispetto a tale modello, dall'economia basata sulla caccia, sulla raccolta e sull'agricoltura-orticoltura a debbio delle comunità montane seminomadi, fino ad arrivare alle diete relativamente povere di carboidrati dei cacciatori-raccoglitori delle giungle malesi. In ogni caso, alcuni elementi base del sistema alimentare anzidetto, quali lo sfruttamento degli ecosistemi locali per la caccia, la pesca e la raccolta di specie selvatiche commestibili, l'uso di un cereale come elemento principale della dieta, accompagnato da vegetali, pesce e carni, la consuetudine di preparare le carni in piccoli pezzi, la cottura per bollitura o a vapore e l'impiego di fornelli in ceramica a fuoco unico avvicinano il sistema alimentare preistorico del Sud-Est asiatico a quello più settentrionale.
K.C. Chang (ed.), Food in Chinese Culture. Anthropological and Historical Perspectives, New Haven - London 1977; C.M. Aikens - T. Higuchi, Prehistory of Japan, New York 1982; K.C. Chang, The Archaeology of Ancient China, N ew Haven - London 19864; C. Higham, The Archaeology of Mainland Southeast Asia, Otago 1989; S.M. Nelson, The Archaeology of Korea, Cambridge 1993.
di Egidio Cossa
Anche per i più antichi abitanti dell'Africa Nera il sostentamento ha rappresentato la prima e più importante delle attività economiche. Ben prima dell'avvento della "rivoluzione neolitica", che con l'inizio dell'agricoltura determinò l'affermarsi di un'economia produttiva, i primi Africani traevano i mezzi di sussistenza dallo sfruttamento diretto della natura, raccogliendo elementi spontanei, per lo più organismi biologici appartenenti sia al regno vegetale (bacche, frutti, ghiande, foglie, germogli, radici, bulbi, tuberi, funghi), sia al regno animale (uova, miele selvatico, vermi, chiocciole, locuste, termiti e altri insetti o loro larve, piccoli roditori, molluschi, ecc.). La carne, che pure doveva rappresentare una parte non secondaria della dieta, proveniva con tutta probabilità dalle carcasse degli animali uccisi dai carnivori o morti per cause naturali, piuttosto che da attività venatorie vere e proprie: i pesanti choppers rinvenuti a Hadar (Etiopia) e risalenti a 2,5 milioni di anni fa erano sicuramente adatti a staccare la carne dalle carcasse, ma non ad essere utilizzati come armi per la caccia. Solo con l'avvento dell'Homo habilis, che seguì 1,5 milioni di anni fa circa l'Homo erectus, e con il conseguente sviluppo dell'industria acheuleana si hanno prove archeologiche di un più diffuso consumo di animali anche di grandi dimensioni. Il ritrovamento di resti di numerosi animali della stessa specie in un medesimo sito (come nel caso di Olduvai) fa pensare a una sorta di mattanza; è dunque probabile che al recupero delle carcasse si cominciasse a sostituire una forma di caccia attiva, forse attuata spingendo branchi di selvaggina su terreni paludosi o facendoli precipitare da dirupi dove venivano successivamente e più facilmente macellati. L'apporto vegetale all'alimentazione resta in questo periodo per lo più indeterminato, anche se sembra del tutto probabile che i vegetali, più della carne, abbiano rappresentato da sempre la base della sussistenza: una delle pochissime prove dirette dell'utilizzo di piante commestibili proviene dal sito tardoacheuleano di Kalambo Falls, in cui sono stati rinvenuti semi e frammenti lignei di probabili bastoni da scavo. L'alimentazione preistorica africana è oggi più facilmente deducibile dai progressi della palinologia e della paleocarpologia che, unitamente all'analisi degli oligoelementi (stronzio, bario, zinco, ecc.) presenti in parti per milione nella matrice inorganica delle ossa, ci permettono di quantificare, al di là delle rare e sporadiche evidenze dirette, gli apporti nutrizionali della dieta. Queste nuove tecniche si affiancano oggi al tradizionale esame dei resti carbonizzati di piante e di semi provenienti dai depositi e dai focolari e all'osservazione delle impronte lasciate da singoli semi, chicchi o steli di Graminacee sulle superfici di argilla battuta delle antiche cucine. L'analisi della dentatura umana (logorio dei denti, eventuali fratture nello smalto) fornisce comunque ancora oggi preziose indicazioni sul tipo di alimentazione e perfino sul grado di molitura dei cereali abitualmente consumati. Dall'insieme delle prove dirette e indirette si può in ogni caso affermare che, almeno a partire dalla fine dell'Acheuleano, la dieta africana era basata sui prodotti delle attività di caccia-pesca- raccolta. Solo nella Middle Stone Age si produsse una differenziazione culturale, e quindi alimentare, fra le popolazioni delle regioni della savana erbosa e della foresta rada e quelle che invece penetrarono nella foresta pluviale. Presso le prime si sviluppò la tradizione della caccia alla selvaggina di grossa taglia con l'impiego di armi immanicate (senza che venisse abbandonata la raccolta dei prodotti selvatici), mentre le altre incentrarono la loro sussistenza proprio sulla raccolta di erbe e di frutti, sulla pesca e sulla caccia-pesca presso le rive di laghi e di fiumi con l'aiuto di lance e, senza dubbio, di trappole e di reti di diverso tipo. Questa situazione restò praticamente immutata fino alla rivoluzione agricola, anche se in Africa lo sfruttamento delle risorse naturali non venne mai del tutto abbandonato. Le condizioni che hanno permesso all'uomo africano di creare nuove specie coltivabili partendo dalle loro varietà selvatiche sono tuttora oggetto di vivaci dispute fra gli scienziati. È certo comunque che l'agricoltura, che costituisce ancora oggi la base alimentare per la maggior parte delle popolazioni africane, si sviluppò e si diffuse nel continente in modo lento e graduale, probabilmente preceduta da un lungo periodo di sfruttamento intensivo di Graminacee spontanee che venivano triturate per ottenere farina. Grano e orzo furono introdotti nell'Africa nord-orientale dall'Asia occidentale a partire dal 6000 a.C. e rapidamente si diffusero nel Sudan e in Etiopia, seguendo il corso del Nilo. Altri cereali come il fonio (Digitaria exilis), il miglio africano (Pennisetum spicatum e P. typhoideum) e il sorgo (Sorghum vulgare nelle varietà cernuum, caudatum e guineense) furono domesticati autonomamente nella zona dell'alto Niger, probabilmente ad opera degli antenati dei Mande, intorno al 6000-4000 a.C. Anche se le testimonianze archeologiche dirette restano limitate, si ha prova del consumo di miglio di Guinea (Pennisetum americanum e Brachiaria deflexa) a Karkarichinkat (Mali) dal II millennio a.C. e della coltivazione di un'altra varietà di miglio a Tichitt (Mauritania) agli inizi del I millennio a.C. Evidenze archeologiche di consumo di riso africano (Oryza glaberrima), di miglio e di sorgo sono state riscontrate negli scavi di Djenné e datate al III sec. a.C., mentre a Daima e a Niani è provato il consumo di sorgo (Sorghum bicolor) fin dagli inizi dell'era volgare. Questo complesso, detto "sudanese", si diffuse lentamente a sud a causa delle non ottimali condizioni ecologiche offerte dalla foresta pluviale, che offriva invece condizioni ideali per la domesticazione di tuberi, quali l'igname guineano (Dioscorea cayenensis e D. rotundata) e di piante d'alto fusto come la palma da olio (Elaeis guineensis). Tra il III e il II millennio a.C. un terzo centro di sperimentazione agricola si ebbe sull'Altopiano Etiopico, dove furono domesticati l'eleusine (Eleusine coracana), anche se alcuni studiosi propendono per una sua domesticazione in area sahariana intorno al 6000 a.C., il teff (Eragrostis abyssinica) e l'ensete (Ensete edulis). Ad introdurre il nuovo complesso furono quasi certamente i Cusciti centrali, antichi aborigeni dell'Etiopia, che tra l'altro arricchirono il complesso sudanese ricevuto dai loro vicini Preniloti selezionando una nuova varietà di sorgo, la durra. A sud dell'equatore le attività di caccia- pesca-raccolta rimasero comunque la principale fonte di sostentamento anche dopo l'espansione dei Bantu oltre il fiume Limpopo, avvenuta nei primi secoli dell'era volgare, e la conseguente introduzione dell'agricoltura e dell'allevamento. Gli scavi di Gwisho, in Zambia, hanno evidenziato l'uso alimentare di un arbusto spontaneo, la Bauhinia, e di una palma selvatica e lo sfruttamento di altri vegetali disponibili in loco, tra cui la zucca, usata come contenitore, mentre piante come la Commiphora e la Swartzia madagascarensis fornivano veleno per le frecce usate per la caccia. L'allevamento del bestiame, soprattutto quello bovino, non rappresentò mai in Africa la soluzione per l'approvvigionamento della carne, che restò ovunque affidato alla caccia; degli animali tutt'al più furono utilizzati il latte e forse il sangue, come attestano ancora oggi certi usi alimentari dei gruppi Niloti e Nilo-Camiti. L'introduzione agli inizi dell'era volgare del complesso malese, con una nuova specie di igname (Dioscorea papuana), taro (Colocasia antiquorum), banano (genere Musa con decine di varietà) e palma da cocco (Cocos nucifera) e, nel XVI secolo, del complesso americano, con mais (Zea mays), manioca (Manihot utilissima), patata dolce (Ipomoea batatas) e arachide (Arachis hypogaea), acquistò un'importanza fondamentale nella dieta di numerose popolazioni africane, tanto da modificare in larga misura gli usi alimentari basati sul consumo delle colture tradizionali.
B.M. Fagan - F. van Noten, Hunters-Gatherers of Gwisho, Tervuren 1971; J.R. Harlan - J.M.J. de Wet - A.B. Stemler (edd.), Origins of African Plant Domestication, The Hague 1976; T. Shaw, Agricultural Origins in Africa, in A. Sherratt (ed.), The Cambridge Encyclopaedia of Archaeology, Cambridge 1980, pp. 179-84; J.D. Clark - S.A. Brandt (edd.), From Hunters to Farmers. The Causes and Consequences of Food Production in Africa, Berkeley 1984; R. Porteres - J. Barrau, Inizi, sviluppo ed espansione delle tecniche agricole, in J. Ki-Zerbo (ed.), Storia generale dell'Africa, Milano 1987, pp. 695-712; F. Giusti, La nascita dell'agricoltura. Aree, tipologie, modelli, Roma 1996 (passim).
di Christine Niederberger
Le nostre conoscenze sulle abitudini alimentari dei popoli precolombiani dell'America Settentrionale e della Mesoamerica provengono non solo da documenti scritti europei e indigeni dell'inizio del XVI secolo, da testimonianze etnologiche e da contesti etnografici attualmente osservabili, ma anche dall'analisi dei resti animali, del polline fossile e dei macroresti di piante coltivate. Altri dati derivano dallo studio delle sepolture, dallo stato dei resti ossei (ad es., l'usura dei denti), dall'esame dei coproliti o ancora dalle analisi iconografiche relative alla fauna e alla flora. Emergono due grandi tradizioni: quella dei gruppi di pescatori o di cacciatori-raccoglitori, che si limitavano allo sfruttamento delle piante e degli animali, e quella delle società agricole, che integravano le attività di caccia e raccolta, comunque importanti nell'economia di sussistenza, con alcuni animali domestici e con una ricca gamma di piante coltivate. Il primo caso può essere illustrato sia dalle opulente comunità Tlingit o Kwakiutl della costa nord-occidentale dell'America Settentrionale (che sfruttavano, tra le altre risorse, il salmone e l'ippoglosso, cacciavano la balena e scambiavano l'olio estratto dagli animali marini), sia dalle più primitive tribù nomadi del Messico settentrionale. Queste ultime, note con la denominazione generale di Chichimechi, applicavano con successo la tecnica dello sfruttamento stagionale programmato dei loro territori semiaridi. Vi raccoglievano Graminacee silvestri, fichi di Opuntia e pitahayas, frutti di un grande cactus che venivano consumati freschi, secchi, trasformati in sciroppo o ancora in una sorta di vino, noci, ghiande e una grande quantità di baccelli e fave di piante leguminose. Con i frutti macinati del Prosopis si preparavano grandi focacce, adatte ad essere conservate per mesi, mentre durante tutto l'anno erano consumate le foglie carnose dell'agave, cotte in forni sotterranei. Grandi cacciatori, questi popoli utilizzavano arco e frecce, mazze o reti per catturare Cervidi, tacchini selvatici e conigli e la fionda per cacciare gli uccelli. Lucertole, iguane, serpenti, topi, talpe, cavallette, cimici dei boschi o larve di farfalle integravano la dieta alimentare. Le società a economia prevalentemente agricola comprendevano numerosi gruppi dell'America Settentrionale e Centrale, quali le genti di lingua algonchina del Nord-Ovest, i Natchez del Mississippi, i Pueblo del Sud-Ovest americano, così come i fondatori delle grandi civiltà mesoamericane (Zapotechi, Nahua, Mixe-Zoque o Maya). In queste comunità la triade agricola mais-fagioli-zucche occupava un posto fondamentale. Gli agricoltori dell'America Settentrionale coltivavano anche il girasole e nella regione dei Grandi Laghi raccoglievano il riso selvatico, che consumavano bollito con sciroppo d'acero o con carne di orso, di cervo, d'anatra o di cane. Presso alcune tribù delle Grandi Pianure il bisonte aveva un'importanza economica notevole e serviva come base per l'alimentazione, l'abbigliamento e la fabbricazione di utensili. Quanto alla Mesoamerica, uno dei centri più importanti al mondo per l'origine e la domesticazione delle piante, essa offriva per ogni pianta nativa (mais, fagioli, zucche, pomodori, peperoncini, avocado, vaniglia e cacao) non solo numerose varietà, ma anche diversi modi di preparazione. Il mais veniva consumato in piccole pannocchie tenere (xilatl in lingua Nahuatl), in pannocchie mature (elotl ), in chicchi bolliti, scoppiati o macinati. Prima di essere macinati con un pestello sui metates (macine di pietra), i chicchi erano ammorbiditi nell'acqua di calce (nixtamal ). Con la semola cotta al vapore in una foglia di mais venivano preparati i tamales; l'atole era ottenuto diluendo la farina di mais in un'acqua spumosa profumata con petali di fiori, frutti, peperoncini, miele di api domestiche o zucchero di agave. Con il mais macinato si preparavano piccole frittelle (tlaxcalli), che costituivano la base quotidiana di tutte le pietanze, di solito molto piccanti. Un'altra pianta di grande importanza, sia economica che sacrale, era l'amaranto, che possiede il 18% di proteine, tra cui la lisina, un aminoacido necessario al metabolismo umano assente nel mais. La coltivazione dell'amaranto, pianta che era presente nelle offerte dedicate agli dei precolombiani sotto forma di pasta mescolata al sangue dei sacrificati, fu vietata dagli Spagnoli. Nel grande mercato di Tenochtitlan, la capitale azteca a 2200 m di altitudine, convergevano prodotti alimentari originari delle basseterre tropicali, quali l'avocado, la papaya, la chirimoya (Annona cherimolia), la sapodilla zuccherina nera (Diospyros sp.) o bianca (Casimiroa sp.), il nanché (Malpighia sp.), l'ananas o la guaiava. Da queste regioni calde provenivano anche il cacao e vari tuberi coltivati, ricchi di destrina e di zucchero, tra cui la patata dolce. Tra gli animali apprezzati nell'alimentazione vi erano in primo luogo il tacchino e il cane, entrambi domestici, oltre a cervi, antilopi, pecari, conigli, tatù, tepezcuintli (Cuniculus paca), pernici, quaglie, folaghe, anatre, serpenti, tartarughe, rane, pesci marini secchi, pesci freschi lacustri e axolotl (un anfibio neotenico del genere Ambystoma, la cui carne era considerata un piatto da re). Alcuni invertebrati, vermi bianchi o rosa dell'agave, mosche acquatiche e formiche con sacca di miele (Myrmecosistus sp.) erano utilizzati per elaborate preparazioni. Gli abitanti del Golfo del Messico consumavano inoltre alghe lacustri, tra cui la spirulina (Spirulina geitleri), conosciuta oggi per il suo elevato contenuto di proteine (65%), vitamine e sali minerali. Come la calce di nixtamal o il sale, la spirulina era oggetto di un commercio interregionale regolare. In ragione di questi dati, l'ipotesi secondo cui i popoli precolombiani in generale, e gli Aztechi in particolare, avrebbero praticato l'antropofagia a causa di una dieta povera di proteine si rivela infondata. Nella loro alimentazione i Maya delle regioni costiere sudorientali integravano mais, fagioli, zucche e tuberi con numerose risorse marine: molluschi (tra cui ostriche e Strombus), granchi, gamberetti, pesci, uova e carne di tartaruga di mare o Manatidi (Trichecus manatus), grandi mammiferi marini cacciati con l'arpione intorno alla Penisola dello Yucatán. È inoltre possibile che il Brosimum alicastrum, albero in grado di fornire stagionalmente più di 30 kg di noci farinose, facili da conservare, abbia avuto un importante ruolo nella sussistenza dei Maya. Esso è spesso presente nei siti Maya, allo stesso modo del balché (Lonchocarpus sp.), la cui corteccia serviva a preparare una bevanda fermentata. Nel Messico centrale la maggior parte delle bevande fermentate era invece ottenuta partendo dal succo lattiginoso dell'agave selvatica o coltivata. Tra gli alimenti stimolanti o narcotici vi erano numerosi funghi allucinogeni e fiori come l'ololiuqui (Turbina corymbosa). Quanto al cacao, questo era servito alla corte dell'imperatore azteco Moctezuma II sotto forma di bevanda spumosa preparata sia con miele e peperoncini macinati, sia con succo di agave fermentato (octli), vaniglia o ancora polvere di fiori aromatici. La tavola del sovrano comprendeva più di trecento piatti, che venivano mantenuti caldi su piccoli bracieri e serviti con tamales, decorati con spirali di fagioli di diversi colori e con numerose varietà di tlaxcalli e posti in cestini coperti di cotone bianco. Prodotti vegetali quali il chayote (Sechium), fagioli verdi, verdure crude o cotte, passati di fagioli neri, fiori di zucca e semola di amaranto accompagnavano quaglie, tacchini, anatre, folaghe, conigli, pecari e cervi, la cui carne era arrostita o bollita. Peperoncini, sia freschi che secchi, di colore, sapore e intensità diversi, costituivano il condimento preferito per questi piatti. La selvaggina e il tacchino, accompagnati da una salsa particolare preparata con pomodori, semi di zucca macinati, cioccolato e peperoncini piccanti, avevano un posto particolare accanto a piatti di rane al peperoncino verde, axolotl al peperoncino giallo, pesci o gamberi al peperoncino rosso. Dopo una grande varietà di frutta tropicale, bevande di cacao bruno, bianco o rosso venivano servite con cucchiai di tartaruga in piccole tazze di zucca laccata poggiate su pelli di cervo o di giaguaro. Il pasto finiva con la distribuzione di "canne da fumo" riempite di tabacco profumato con vaniglia o petali di fiori.
J.D. Jennings, Ancient Native Americans, San Francisco 1978; P. Kopper, The Smithsonian Book of North American Indians, Washington 1986; B. de Sahagún, Historia de las cosas de Nueva España, México 1986; T. Castello Yturbide, Presencia de la comida prehispánica, México 1987.
di Duccio Bonavia
Le prime ondate di popolamento raggiunsero il continente sudamericano quando questo era ancora popolato dalla fauna pleistocenica, che sarebbe in seguito scomparsa molto rapidamente a causa dei mutamenti climatici e dell'intervento umano. Sono state rinvenute associazioni tra mastodonti, cavalli, bradipi terrestri, Cervidi e resti umani: l'uomo dovette utilizzare in diversi casi le carni di questi animali per scopi alimentari, sebbene sia molto probabile che, relativamente almeno alle specie di grande taglia, egli abbia sovente approfittato delle loro carogne, senza praticare attività propriamente venatorie. Le specie più frequentemente cacciate dai primi Americani erano Camelidi, Cervidi quali il taruca (Hippocamelus antisensis) e il cervo dalla coda bianca (Odocoileus virginianus), un numero ridotto di Canidi, la sariga, la viscaccia (Lagidium peruvianum), l'anatra muschiata (Cairina moschata), una varietà di pernice detta tinamu e Roditori. La dieta era integrata dalla raccolta di chiocciole, rospi e vegetali. Quanto alla coltivazione delle piante, i due grandi centri di domesticazione furono la Mesoamerica e le Ande Centrali. Si tratta senza dubbio di due centri indipendenti, poiché si conosce una serie di piante della medesima famiglia in entrambe le aree, in ciascuna delle quali, però, i generi domestici presentano diversità. È il caso della Cucurbita, zucca di cui si conoscono varie specie (quattro in Mesoamerica e una in America Meridionale) che vennero domesticate in forma indipendente; lo stesso avvenne per il cotone (Gossypium barbadense), il peperoncino (Capsicum sp.), il Chenopodium, l'Amaranthus e la Canavalia, una leguminosa dal frutto simile al fagiolo. Vi è però anche il caso del fagiolo (Phaseolus vulgaris) e del cosiddetto pallar (Phaseolus lunatus), che rappresentano varianti intraspecifiche. Fino al 1950 per l'area delle Ande Centrali erano disponibili scarsissimi dati etnobotanici; fu J.B. Bird, con il suo lavoro a Huaca Prieta, a dimostrare due fatti fondamentali: l'estensione temporale della cultura andina e l'importanza che le piante rivestirono nel processo culturale di quest'area fin dagli inizi delle fasi preceramiche, vale a dire quasi dal momento dell'arrivo dell'uomo nel continente. I gruppi di cacciatori- raccoglitori che, già in possesso di una tecnologia efficiente, si dispersero nel territorio andino in un arco cronologico relativamente breve vi trovarono risorse faunistiche scarse se comparate con quelle a cui essi potevano accedere nel subcontinente settentrionale. La fauna pleistocenica era inoltre quasi estinta: gli unici animali di grande taglia sopravvissuti erano i Camelidi e alcuni Cervidi. Fu dunque la necessità a spingere questi gruppi verso l'applicazione delle conoscenze botaniche accumulate durante millenni di contatti con l'ambiente naturale. La grande antichità delle prime specie coltivate evidenzia questo processo: i primi indizi di piante domestiche si collocano infatti intorno all'8000 a.C. Sulla puna l'attività principale continuò comunque ad essere rappresentata dalla caccia agli Ungulati (Camelidi e Cervidi) almeno fino al 5200 a.C., periodo a partire dal quale l'uomo iniziò a radunare gli animali in mandrie e a specializzarsi nella caccia al guanaco e alla vigogna. Intorno al 4000 a.C. prese avvio il processo di domesticazione dei Camelidi, che può considerarsi concluso intorno al 3000 a.C., quando questi animali divennero la base fondamentale della dieta dei gruppi stanziati nella sierra. Per la costa pacifica non si possiedono associazioni tra resti umani e fauna estinta; inizialmente l'uomo si alimentò di Pesci, Roditori, Canidi, Rettili e Uccelli e si dedicò alla raccolta di chiocciole marine e terrestri e di Crostacei (la presenza di macinelli segnala inoltre l'utilizzazione di qualche tipo di seme). Le piante domestiche vennero acquisendo maggiore importanza e, almeno per le Ande Centrali, da cui proviene la maggiore quantità di dati, tale processo fu particolarmente rilevante; tra l'VIII e il II millennio a.C. vennero infatti domesticate nell'area oltre 56 specie di piante. Tra queste una delle meno conosciute è l'achira (Canna edulis), che apparve come specie domestica tra il 2500 e il 1800-1500 a.C. e il cui centro di domesticazione si ubicherebbe in un luogo non ancora identificato del Perù, della Bolivia o del Nord- Ovest argentino. Essa presenta una radice simile alla patata ed è stata di basilare importanza prima della domesticazione della manioca e del mais. L'avocado (Persea americana) e l'arachide (Arachis hypogaea) possiedono un grande valore alimentare per il loro alto contenuto di grassi e, sebbene appaiano precocemente sulla costa, sono originari della selva. Il fagiolo (Phaseolus vulgaris) è anch'esso di primaria importanza: delle 160 specie conosciute, 80 sono originarie dell'America e sono diffuse dal Messico fino all'Argentina, con fenomeni di domesticazioni multiple. Lo stesso è per il fagiolo chiamato pallar (Phaseolus lunatus), sebbene esso derivi da sottospecie distinte, distribuite nell'America Centrale e in quella Meridionale, è una delle piante più antiche (metà del IX millennio a.C.). La manioca (Manihot esculenta) è tra i cultigeni domesticati più redditizi e, dal momento che è una pianta della selva, la sua presenza sulla costa già dal 3000 a.C. ne retrodata ulteriormente la domesticazione. Ne esistono due varietà, la dolce e la amara, che contiene glucosidi cianogenici e prima del consumo deve essere sottoposta a trattamenti particolari; il suo contenuto proteico è basso, mentre possiede una notevole quantità di amido. La patata dolce (Ipomoea batatas), sulla quale si hanno scarsi dati, è originaria della selva e la sua domesticazione deve essere avvenuta in epoche remote, dal momento che essa era presente sulla costa già intorno al 2500 a.C. Il peperoncino domestico (Capsicum sp.), di cui si conoscono numerose specie, risale all'8000 a.C.: è una delle piante con il più alto contenuto di vitamina C. La patata (Solanum sp.) è una delle piante più importanti: ne sono state individuate 7 specie domestiche e più di 200 selvatiche; è molto probabile che esistano due centri di domesticazione indipendenti, nelle Ande Centrali e in Cile. A causa della scarsa conservabilità, la sua storia è poco conosciuta: i resti più antichi provengono dalla costa e sono datati approssimativamente al 2500 a.C. Le Cucurbitacee, il cui uso è documentato già intorno all'8000 a.C., venivano utilizzate, oltre che nell'alimentazione, per scopi funzionali, ad esempio come recipienti. La domesticazione della Lagenaria, conosciuta con il nome di mate, risale probabilmente a prima del 6000 a.C.; il suo impiego è stato comunque essenzialmente di tipo funzionale, ad esempio come galleggiante per le reti da pesca. Il mais (Zea mays) fu una pianta di fondamentale importanza. Sulla sua antichità vi sono due teorie, in base alle quali la sua domesticazione oscilla tra il 6000 e il 4000 a.C. sulla sierra, mentre sulla costa esso è presente dal 4000 a.C. Rispetto a quello di altri cultigeni, il suo processo di domesticazione è ben conosciuto: ne sono state rinvenute non solo le radici, ma anche sue sottospecie. La grande varietà dimostra la rilevanza di questa pianta nel mondo americano: 32 specie in Messico e 49 nelle Ande Centrali; tuttavia, in quanto a potere nutritivo, il mais presenta serie carenze e all'interno della dieta è stato sempre associato, sia nelle Ande che in Mesoamerica, a fagioli e zucche (Cucurbita sp.). Esso infatti fornisce carboidrati, ma scarse quantità di grassi e di proteine, che sono invece apportate dal fagiolo, insieme ad aminoacidi essenziali e a due vitamine (la riboflavina e l'acido nicotinico); la zucca produce calorie, apporta vitamina A e i suoi semi forniscono grassi. Occorre inoltre ricordare anche piante, come la arracacha (Arracacia sp.), il pomodoro (Lycopersicon sp.) e il tabacco (Nicotiana sp.), delle quali non si conosce la storia. La dieta era integrata dai prodotti marini, dai proventi della caccia, nonché dal consumo di carne di Camelidi e di cavie (Cavia porcellus). Per il periodo Inca si possiedono, oltre alle evidenze archeologiche, le fonti scritte dei cronisti spagnoli, che documentano un abbondante consumo di prodotti ittici sulla costa, mentre nella sierra non era altrettanto diffuso quello di pesci d'acqua dolce. Gli alimenti venivano solitamente bolliti o arrostiti, mentre la frittura era sconosciuta; i cibi più comuni erano costituiti da zuppe e da stufati conditi con peperoncino ed erbe. Si preparava una sorta di pane di mais, sebbene questo cereale venisse con più frequenza tostato; molto comune era anche il consumo di carne disidratata (charqui) e di pesce secco, oltre a quello di patate disidratate (chuño) attraverso un particolare processo di congelamento e scongelamento per esposizione notturna e diurna alle intemperie. La bevanda più importante era la chicha, prodotta soprattutto attraverso la fermentazione del mais, ma ottenuta anche da altri frutti. I vegetali fondamentali all'interno della dieta erano il fagiolo, la manioca, il pomodoro, l'avocado e la patata dolce. Un posto importante occupava anche la raccolta di piante, uova e insetti; molto apprezzato era inoltre il fico d'India (Opuntia sp.). Si sopperiva infine al fabbisogno di proteine animali mediante le attività di caccia, soprattutto al cervo e al guanaco e, in percentuale maggiore, con il consumo di carne di lama e di alpaca domestici. Questo è il panorama generale delle fonti alimentari per l'area delle Ande Centrali; nel resto del continente il quadro è sostanzialmente diverso. Con riferimento ai gruppi marginali stanziati nell'area meridionale del continente sudamericano, la dieta era costituita da Molluschi, Pesci, otarie, nutrie e dalla carne di Cetacei spiaggiati; occasionalmente veniva cacciato il huemul (Hippocamelus bisulcus). I prodotti vegetali non costituivano una fonte nutrizionale di grande importanza; diffuso era il consumo di olio di otaria. In Patagonia l'attività di sussistenza più importante era costituita dalla caccia ad animali quali il guanaco, lo struzzo, il huemul, l'armadillo e la moffetta. I Guaraní coltivavano il mais e la zucca, mentre nelle regioni orientali del Brasile si praticava la coltivazione della manioca dolce e amara, delle patate dolci, dell'igname (Dioscorea), dei fagioli e degli alberi da frutto, integrata da attività di caccia, pesca e raccolta. La dieta dei gruppi della foresta tropicale amazzonica era abbastanza variata: integrata di norma anche dai prodotti della pesca, della caccia e della raccolta, in tale area l'alimentazione si basava soprattutto su specie vegetali. In realtà quasi ovunque era diffuso il consumo della manioca dolce e amara, di igname, fagioli, zucche, patate, patate dolci, arachidi e di diverse varietà di frutta.
M.T. Mejía Xesspe, Alimentación de los indios, in Wira Kocha, 1, 1 (1931), pp. 9-24; HSAI, I; J.H. Rowe, Inca Culture at the Time of the Spanish Conquest, in HSAI, II, pp. 183-330; HSAI, III; N.I. Vavilov, The Origin, Variation, Immunity and Breeding of Cultivated Plants, New York 1951; A.W. Crosby Jr., The Columbian Exchange. Biological and Cultural Consequences of 1492, Wesport 1972; K.V. Flannery, The Origins of Agricolture, in AnnRAnthr, 2 (1973), pp. 271-310; D. Bonavia, Los Gavilanes. Mar, desierto y oasis en la historia del hombre, Lima 1982, pp. 312-73; Id., La domestication des plantes dans le monde andin, in Inca-Peru. 3000 ans d'histoire, Bruxelles 1990, pp. 78-89; Id., Perú: hombre e historia. De los orígenes al siglo XV, I, Lima 1991.
di Gaetano Cofini
Le immense risorse che popolano i mari dell'Oceania rappresentarono le basi dell'alimentazione dei gruppi umani, che dal Pleistocene tardo (50.000 anni fa) iniziarono a inoltrarsi nei territori inesplorati del Pacifico. Le specie marine furono integrate, sin dalle prime fasi di colonizzazione del Sahul (il continente pleistocenico che comprendeva la Nuova Guinea, l'Australia e la Tasmania), dalla caccia ai mammiferi terrestri, ai rettili, ai megapodi e agli altri uccelli e dalla raccolta di vegetali non domesticati. I rinvenimenti di resti faunistici nei depositi pleistocenici di siti dell'Australia meridionale (Mammoth Cave, Lancefield e Clogg's Cave, Victoria; Mungo, Nuovo Galles del Sud; Rocky River, Isola di Kangaroo), databili tra 30.000 e 10.000 anni fa, testimoniano l'importanza di alcune specie terrestri (canguri, opossum, macropodi, koala, wombat, bandicoot) per la sussistenza dei gruppi aborigeni, sebbene sia difficile valutarne l'incidenza nell'alimentazione giornaliera. Il consumo di specie vegetali selvatiche è testimoniato indirettamente dalle macine rinvenute a Lake Tandon e a Mulurulu, datate a partire dal 16.000 a.C. circa e utilizzate per la triturazione dei semi di miglio selvatico (Panicum decompositum) o di Portulacca o dei rizomi di Typha. La diffusione di questi utensili nei territori semiaridi e desertici australiani costituisce l'indizio di importanti cambiamenti nelle abitudini alimentari dei gruppi aborigeni, causati, all'apice dell'ultima fase glaciale, dal prosciugamento dei bacini idrici e dal conseguente impoverimento delle specie faunistiche e vegetali presenti in questi ambienti. Nel periodo olocenico l'estinzione della macrofauna pleistocenica, l'introduzione di nuove specie animali e vegetali e le modifiche apportate al paleoambiente dall'uso intensivo del fuoco determinarono ulteriori cambiamenti del quadro alimentare aborigeno. Le variazioni a livello stagionale debbono essere ricondotte, oltre che alla disponibilità delle risorse, anche alle difficoltà di conservazione dei prodotti raccolti a causa delle temperature e delle medie di piovosità stagionali, assai elevate nelle regioni tropicali australiane. Nei mesi estivi erano raccolti i semi del miglio selvatico; particolarmente ricercate per l'alto contenuto calorico erano le larve di bogong (Agrotis infusa), che nella stagione estiva migravano negli altopiani sud-orientali. Altri prodotti che integravano l'alimentazione dei gruppi olocenici erano i tuberi selvatici della Microseris scapigera, la polpa commestibile di Cycas e i frutti dell'Araucaria bidwillii, una conifera endemica detta bunya bunya pine. Il rilevante contributo delle risorse marine all'alimentazione è testimoniato dai consistenti resti rinvenuti in numerosi siti stagionali localizzati sulle coste dell'Australia sud-orientale, in particolare nel territorio compreso tra le foci dei fiumi Darling e Murray, e della Tasmania. È stato calcolato che nel sito di West Point Midden (Tasmania nord-occidentale), databile tra il IV sec. a.C. e l'VIII sec. d.C., il 65% dell'alimentazione aborigena si basava sul consumo della carne di Mammiferi marini, il 25% era fornito dai Molluschi e la percentuale rimanente da varie specie di animali terrestri (wallabia, marsupiali di piccola taglia, lucertole). Nelle altre regioni dell'Oceania l'alimentazione preistorica fu integrata, nel periodo olocenico, dal consumo dei prodotti coltivati (tuberi e frutti), che tuttavia ebbero solo un ruolo secondario nel quadro nutrizionale di queste popolazioni. Il taro (essenzialmente Colocasia esculenta), l'igname (Dioscorea spp.), i frutti dell'albero del pane (Artocarpus altilis), presenti principalmente nell'alimentazione delle regioni tropicali dell'Oceania, e la patata dolce (Ipomoea batatas), coltivata nelle isole subtropicali e temperate della Polinesia (Hawaii, Isola di Pasqua, Nuova Zelanda) e in Nuova Guinea (Melanesia occidentale), non erano in grado di offrire un significativo apporto proteico o di grassi, sebbene contribuissero parzialmente al fabbisogno calorico giornaliero. Bisogna dire, comunque, che a differenza del taro, l'igname, la patata dolce e i frutti dell'albero del pane sono caratterizzati da un discreto contenuto vitaminico e di sali minerali. Gli zuccheri erano presenti nei frutti del cocco (Cocos nucifera), nella canna da zucchero (Saccharum officinarum) e nelle banane (Musa spp.), queste ultime ricche anche di vitamina C e di provitamina A. Ai fini di un'alimentazione bilanciata, le specie coltivate dovettero essere integrate dal consumo giornaliero di pesce e di carne, sostanze ricche di proteine e di grassi, e di altri prodotti vegetali. Con la colonizzazione delle isole centro- orientali dell'Oceania (XVI sec. a.C. - X sec. d.C.), le risorse del mare ricoprirono un ruolo ancora più determinante nell'alimentazione delle popolazioni austronesiane e polinesiane, in relazione al progressivo impoverimento dei complessi biotici terrestri e in virtù anche dell'alto grado di specializzazione raggiunto nella navigazione e nelle tecniche di pesca. Gli studi antropologici condotti sulle dentature di individui vissuti nella fase arcaica e classica della preistoria neozelandese hanno consentito, tramite l'esame dell'usura e della patologia dento-alveolare, di avanzare alcune ipotesi sull'evoluzione delle abitudini alimentari dei Maori. Tali studi, evidenziando la possibilità di verosimili variazioni su scala regionale, collegano il lieve grado di usura riscontrato sui molari di individui vissuti nelle fasi più antiche della preistoria Maori (dall'VIII-X al XV sec. d.C.) ad un'alimentazione "tenera" basata sul consumo prevalente della carne di Cetacei e di Mammiferi marini (foche, elefanti marini), dei Megapodi neozelandesi (moa, principalmente Euryapteryx e Dinornis spp.) e di altri volatili di grandi dimensioni, nonché dei tuberi della patata dolce. Nei molari appartenenti a individui delle fasi finali della preistoria Maori il grado di usura dentaria risulta notevolmente maggiore e riferibile a una masticazione più prolungata (alimenti ricchi di fibra) e alla contaminazione di elementi abrasivi (granelli di sabbia). Tali fattori indicherebbero il frequente consumo dei Molluschi raccolti in spiagge sabbiose e dei rizomi di una felce indigena (Pteridium esculentum), ampiamente diffusa allo stato selvatico o di semicoltivazione al momento dello sbarco dei primi Europei (XVIII sec. d.C.).
P. Houghton, Dental Evidence for Dietary Variation in Prehistoric New Zealand, in JPolynSoc, 87, 3 (1978), pp. 257-63; E. Massal - J. Barrau, Food Plants of the South Sea Islands, in SouthPacTechP, 94 (1980); P. Houghton, A Vigorous People, in J. Wilson (ed.), From the Beginning. The Archaeology of the Maori, Auckland 1987, pp. 37-42; J. Flood, Archaeology of the Dreamtime, Sydney 1995³.