Il contenzioso sul precariato pubblico e scolastico
Da anni si discute delle complesse problematiche connesse al fenomeno della illegittimità e/o dell’abuso dei contratti a termine da parte delle pp.aa., fenomeno riguardante tutti i Comparti del lavoro pubblico contrattualizzato, con punte massime soprattutto nella Scuola e nella Sanità. Ne è nato un imponente contenzioso incentrato sulla individuazione del relativo regime sanzionatorio, nel quale il precariato scolastico (di docenti e personale ATA) è sempre stato considerato autonomamente rispetto al precariato pubblico in genere. Di recente la materia è stata oggetto di ulteriori importanti sentenze della Corte di giustizia, nonché di Cass., S.U., 15.3.2016, n. 5072 sul “danno comunitario” e della recentissima C. cost., 20.7.2016, n. 187 sul precariato scolastico e, in quest’ultimo ambito, si è in attesa della imminente decisione da parte della cassazione di numerosi ricorsi il cui esame è stato fissato per l'udienza del 18.10.2016, come risulta da un comunicato stampa della stessa Corte, emanato onde assicurare «uniformi linee interpretative» da parte dei giudici del merito.
Il fenomeno della illegittimità e/o dell’abuso dei contratti a termine da parte delle pp.aa. nel corso degli anni, è divenuto sempre più imponente, producendo così pregiudizi “di sistema” sempre più delicati ed incisivi, sia in termini di violazione dei diritti fondamentali dei lavoratori, sia in termini di aumento della spesa pubblica sia in termini di complessiva disorganizzazione della p.a., con conseguenti disagi per gli utenti.
A tale ultimo riguardo va sottolineato come i costi della vicenda sul bilancio statale siano stati accresciuti in modo considerevole dal vasto contenzioso che ne è nato, nel quale si sono innestate plurime decisioni della Corte di giustizia, della Corte costituzionale e della Corte di cassazione, che però non hanno ancora consentito di giungere ad una soluzione univoca per tutte le molteplici questioni controverse, principalmente incentrate sulla individuazione delle relative misure sanzionatorie, alla luce, da un lato, della dir. 1999/70/CE e dell’Accordo quadro CES, UNICE E CEEP ad essa allegato, contenente la prima compiuta regolazione del contratto a termine nell’Unione europea e dall’altro, dell’art. 97, co. 3, cost., che sancisce il principio fondamentale secondo cui l’instaurazione del rapporto di impiego alle dipendenze delle pp.aa. avviene, di regola, mediante pubblico concorso.
Peraltro, essendo pacifico per la giurisprudenza della corte di giustizia, che la suindicata normativa riconosce agli Stati membri la facoltà di tenere in considerazione le esigenze particolari degli specifici settori d’attività e/o delle categorie di lavoratori, il precariato scolastico (di docenti e personale ATA) è sempre stato considerato autonomamente rispetto al precariato pubblico in genere.
Va anche sottolineato che, in questa complessa situazione, l’emanazione della suindicata normativa Ue non ha certamente determinato una riduzione del contenzioso, soprattutto nell’ambito del lavoro pubblico.
Infatti, benché la citata direttiva e l’Accordo quadro ad essa allegato rappresentino un importante elemento di rafforzamento del dialogo tra gli Stati Ue nella materia del lavoro privato, tuttavia il rapporto di “pubblico impiego” - anche quello, da noi, contrattualizzato (a partire dal d.lgs. 3.2.1993, n. 29) – in linea generale, è stato sempre lasciato da parte, nell’ambito di tale dialogo, in conformità con quel che dispongono i Trattati, per i quali si tratta di un settore in cui va riconosciuta ampia discrezionalità agli Stati membri, salvo che vengano in considerazione violazioni di diritti fondamentali dell'Unione, come quello di discriminazione1.
E una impostazione analoga – mutatis mutandis – viene seguita anche da parte della corte di Strasburgo, la quale – in assenza nella convenzione e nei suoi Protocolli, di uno specifico titolo di competenza in materia di lavoro, ad eccezione dell’art. 11 della CEDU sulla libertà sindacale – ha sempre affermato che, in linea di principio, agli Stati è riconosciuta ampia discrezionalità nella regolamentazione del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici (v., per tutte sentenza del 20.9.2005 Akat c. Turchia) e, se si è occupata della materia, lo ha fatto per altre strade, in applicazione del suo consueto “dinamismo” interpretativo.
Questa situazione non è cambiata con il Trattato di Lisbona. Infatti, l’art. 4, paragrafo 1, TUE stabilisce che «qualsiasi competenza non attribuita all’Unione nei trattati appartiene agli Stati membri» e la corte di giustizia, richiamando questa norma, ha sempre riconosciuto il potere degli Stati membri di organizzare e razionalizzare le rispettive pp.aa., anche con riguardo alle modalità di reclutamento del personale.
Tale self restraint delle istituzioni UE rispetto al pubblico impiego è stato concepito in modo molto rigoroso.
Pertanto, in mancanza di un organico intervento del legislatore nazionale, le numerose pronunce della corte di giustizia in materia non hanno consentito di risolvere alcune tra le più spinose questioni tuttora aperte anche se, indubbiamente hanno reso più agevole percorrere la strada della soluzione di tipo giurisprudenziale, che peraltro non ha consentito ancora di dare risposta a tutti i dubbi, specialmente con riferimento al precariato scolastico, settore nel quale anche dopo C. cost., 20.7.2016, n. 187 sono rimaste incertezze interpretative di non poco conto, che ora la corte di cassazione e i giudici del merito sono chiamati a risolvere, muovendo dalla soluzione della questione preliminare concernente i rapporti tra la anzidetta sentenza del giudice delle leggi, C. giust., 26.11.2014, cause riunite C-22/13; C-61/13; C-62/13; C-63/13; C-418/13, Mascolo e altri e Cass., S.U., 15.3.2016, n. 5072, che si è pronunciata sulle conseguenze dell’abuso dei contratti a termine ‒in particolare, sui criteri di liquidazione del cd. danno comunitario, in relazione alla previsione di cui all’art. 36 del d.lgs. 30.3.2001, n. 165 (co. 2, ora co. 5) ‒con riguardo a settori diversi rispetto a quello della Scuola, la cui specialità è pacifica anche per la corte di giustizia, anche se tale specialità non deve indurre a credere che nei settori diversi da quello scolastico il fenomeno sia marginale, basti pensare che ad esempio, nella Sanità, solo per i medici, si parla di più di 20.000 precari, la maggior parte dei quali a causa di contratti a termine reiterati nel tempo.
Va, del resto, tenuto presente che, nel nostro ordinamento, l’adozione del modello di lavoro “flessibile” derivante dall’adeguamento al famoso rapporto dell’OCSE sull’occupazione del 1994 (Job Study)nel quale si sosteneva che per tutta l’Unione europea la politica della “flessibilizzazione” estrema era lo strumento giusto per affrontare la crisi occupazionale e imprenditoriale dell’epoca ‒fino al cd. Jobs act e ai relativi decreti attuativi2 non è stata mai dismessa nel corso degli anni, nonostante la modifica della posizione dell’OCSE e gli interventi critici dell’OIL, ed ha, fra l’altro, dato luogo alla massiccia utilizzazione abusiva dei contratti a termine, sia nel settore privato sia in quello pubblico.
Per quanto si è detto, la dir. 1999/70/ce non ha migliorato la situazione interna, visto che anzi la sua contestata normativa di recepimento (contenuta nel d.lgs. 6.6.2001, n. 368) ha addirittura consentito un utilizzo indiscriminato del contratto a termine, attraverso un superamento dei principi restrittivi prima vigenti.
Ma, va anche detto che la direttiva stessa ha avuto, in ambito giurisdizionale, l’effetto di provocare numerosi interventi sia della corte costituzionale sia della corte di giustizia, sulla premessa del mancato rispetto da parte dei datori di lavoro sia privati sia pubblici, delle regole previste in sede comunitaria per l'utilizzazione dei contratti a termine. Tutto questo mentre sia sul fronte della contrattazione collettiva sia sul fronte legislativo si sono succeduti molteplici interventi, peraltro non risolutivi.
Le sentenze della Corte di giustizia relative alla nostra normativa nazionale in materia sono molto numerose, anche se al vaglio della corte, per effetto della nuova direttiva, sono state sottoposte anche legislazioni di altri Paesi UE attuative della direttiva stessa. Infatti, la prima delle sentenze emesse al riguardo si è riferita alla legislazione tedesca ed ha esaminato importanti questioni interpretative, tra cui, in particolare quella riguardante l’ambito applicativo della cd. clausola di non regresso (clausola 8.3 dell’Accordo quadro recepito dalla suddetta) – clausola secondo cui: «l'applicazione del presente accordo non costituisce un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell'ambito coperto dall'accordo stesso» – (C. giust., 22.11.2005, C-144/04, Mangold).
La maggior parte delle questioni pregiudiziali proposte dai giudici italiani ha riguardato contratti a termine stipulati nel settore pubblico (vedi C. giust., 7.9.2006, C-180/04, Vassallo e C. giust., 7.9.2006, C-53/04, Marrosu e Sardino, peraltro coeve alla C. giust., 4.7.2006, C-212/04, Adeneler, relativa ad analoga questione rimessa dai giudici della Grecia sulla propria legislazione, cioè a quella delle sanzioni per l’abuso di successione di contratti a termine nell’impiego alle dipendenze delle pp.aa.).
Fin da queste prime sentenze la Corte di giustizia, dopo aver premesso che la dir. 1999/70/ce trova applicazione al settore pubblico, ha chiarito (punti 91-95, 101-102 della sentenza Adeneler, punti 48-53 della sentenza Marrosu e Sardino) che l’accordo quadro non stabilisce un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti a tempo determinato ma lascia agli Stati la facoltà di scegliere le forme ed i mezzi più idonei al fine di garantire l'efficacia pratica delle direttive. In definitiva, nelle citate sentenze, la corte ha affermato – come principio generale – la compatibilità con i principi della direttiva di una soluzione sanzionatoria esclusivamente risarcitoria per l’ipotesi di contratti a termine stipulati al di fuori dei limiti comunitari, purché adeguata al danno patito e dissuasiva e purché risulti rispettato il principio secondo cui (come di recente ribadito da C. giust., 9.7.2015, C-117/14, Regojo Dans) la dir. 1999/70/CE e l’Accordo quadro ad essa allegato si applicano a tutte le categorie di lavoratori, in quanto la definizione della nozione di «lavoratore a tempo determinato», enunciata nella clausola 3, punto 1, dell’accordo citato non opera distinzioni basate sulla natura pubblica o privata del datore di lavoro, a prescindere dalla qualificazione del contratto nel diritto nazionale (fra le tante: C. giust., c-212/04, cit., punto 56; C. giust., 11.4.2013, C-290/12, Della Rocca, punto 34; C. giust., 13.3.2014, C-190/13, Márquez Samohano, punto 38; C. giust., 13.9.2007, C-307/05, Del Cerro Alonso, punto 28 nonché cause riunite C. giust., 17.9.2014, C-362/13, C-363/13 e C-407/13, Fiamingo e altri, punti 29-30 e giurisprudenza ivi citata).
A tale ultimo riguardo, la corte di giustizia, pur ribadendo che il diritto nazionale non deve portare ad escludere arbitrariamente una categoria di soggetti dal godimento della tutela offerta dall’accordo quadro (C. giust., 15.3.2012, c-157/11, Sibilio, punti 42 e 51; C. giust., 8.9.2011, C-177/10, Rosado Santana; C-53/04, Marrosu e Sardino, cit.), si però sempre rimessa alla legislazione e/o alle prassi nazionali per la specifica definizione dell’ambito applicativo dell’Accordo a livello nazionale, anche in considerazione dei diversi settori.
in applicazione di tale indirizzo, la corte di giustizia, pur senza fare espresso riferimento all’art. 97, co. 3, cost., tuttavia ha implicitamente ritenuto che, nella discrezionalità da riconoscere agli Stati membri in materia di lavoro pubblico, rientri anche la regola dell’accesso con pubblico concorso che si traduce in un diverso regime delle conseguenze dell'abuso di contratti a termine, rispettivamente applicabili al lavoro privato e a quello pubblico.
Tale diversità comporta che per i lavoratori del settore pubblico non sia prevista la possibilità della trasformazione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato, diversamente da quel che accade per i lavoratori del settore privato.
In sede giudiziaria nazionale e UE la principale questione controversa è sempre stata quella della determinazione delle conseguenze dell’abuso e/o dell’illegittima utilizzazione dei contratti a termine, contestandosi, da parte degli interessati, anche la previsione del suddetto differente regime considerata in contrasto con la normativa comunitaria, contrasto prospettato con principale riferimento alla disciplina attuativa della suindicata direttiva, di cui al d.lgs. n. 368/2001, spesso violata dalle pp.aa., con riferimento al limite temporale previsto dal legislatore per la legittima utilizzazione dei contatti a termine.
Al riguardo si deve sottolineare che – per il precariato pubblico, in genere ‒ più che le molteplici sentenze della corte di giustizia che hanno esaminato la disciplina sostanziale nazionale, un grande rilievo pratico ha avuto l’ordinanza della C. giust., 12.12.2013, C-50/13, Papalia, che ha, nella sostanza, ritenuto incompatibile con la normativa comunitaria il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in base al quale, in caso di ricorso abusivo ai contratti a termine da parte della p.a., il diritto al risarcimento del danno era subordinato all’obbligo, gravante sul lavoratore, «di fornire la prova di aver dovuto rinunciare a migliori opportunità di impiego», avendo la Corte di giustizia sottolineato che detto obbligo può avere «come effetto di rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio, da parte del citato lavoratore, dei diritti conferiti dall’ordinamento dell'Unione».
Per il precariato scolastico la sentenza della corte di giustizia di maggiore impatto è senz’altro la sentenza Mascolo, già menzionata.
L’adeguamento alla suddetta ordinanza Papalia ha dato origine, nell’ambito della giurisprudenza di legittimità, al dibattito sul cd. “danno comunitario” che ha dato luogo alla citata Cass., S.U., n. 5072/2016, la quale in relazione a fattispecie di illegittimità e/o abuso delle assunzioni a termine verificatesi nell'ambito del lavoro pubblico non scolastico, ha affermato importanti principi, muovendo dal riconoscimento dell’esattezza dell’orientamento emerso in precedenti sentenze della Sezione lavoro nel senso della necessità di un’operazione di integrazione in via interpretativa, orientata dalla conformità comunitaria, diretta a dare maggiore consistenza ed effettività al danno risarcibile, la cui prova è a carico del lavoratore, che però può giovarsi del regime delle presunzioni semplici (art. 2729 c.c.).
Le Sezioni Unite, hanno rilevato che nella suddetta precedente giurisprudenza, alla indicata questione sono state date soluzioni non univoche, in quanto, muovendosi in tutti i casi dall'esatta premessa della esclusione del diritto alla costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato:
a) Cass., 21.8.2013, n. 19371, in una fattispecie relativa al comparto sanitario aveva affermato che l’unica strada che residua in favore del lavoratore è quella di ottenere il risarcimento dei danni subiti, per la cui determinazione trova applicazione, d’ufficio ed anche nel giudizio di legittimità, l’art. 32, co. 5-7, l. 4.11.2010, n. 183, a prescindere dall’intervenuta costituzione in mora del datore di lavoro e dalla prova concreta di un danno, trattandosi di indennità forfetizzata e onnicomprensiva per i danni causati dalla nullità del termine (come, del resto, precisato dal giudice delle leggi nella sentenza 11.11.2011, n. 303);
b) le successive Cass., 30.12.2014, n. 27481; Cass., 22.1.2015, n. 1181; Cass., 23.1.2015, n. 1260 e 1261; Cass., 26.1.2015, n. 1334; Cass., 4.2.2015, n. 2024, n. 2025 e n. 2026; Cass., 11.2.2015, n. 2685, in materia di impiego regionale, erano invece per-venute alla diversa conclusione del riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno nel senso di “danno comunitario”, per la cui liquidazione, in conformità ai canoni di adeguatezza, effettività, proporzionalità e dissuasività rispetto al ricorso abusivo alla stipulazione di contratti a termine, avevano ritenuto utilizzabile, in via tendenziale, il criterio indicato dall’art. 8 della l. 15.7.1966, n. 604 e non il sistema indennitario onnicomprensivo previsto dall’art. 32 della l. n. 183/2010, né il criterio previsto dall’art. 18 st. lav. A tale più recente indirizzo ha dato continuità Cass., 3.7.2015, n. 13655.
Le Sezioni Unite, dopo aver posto in rilievo l’attinenza dell'inconveniente rilevato dalla ordinanza Papalia attiene al regime probatorio riguardante il suddetto danno e dopo aver escluso la possibilità di ricercare la soluzione nell’ambito della fattispecie del licenziamento illegittimo, hanno ritenuto esatto il riferimento all’art. 32, co. 5, della l. n. 183/2010 (in tal senso già Cass. n. 19371/2013 cit.), precisando che, peraltro, per il dipendente pubblico, l’indennità ex art. 32, co. 5, cit. va ad innestarsi, nella disciplina del rapporto, in chiave agevolativa dell’onere probatorio del danno subito e non già in chiave di contenimento di quest’ultimo, come accade per il lavoratore privato: il lavoratore è esonerato dalla prova del danno nella misura in cui questo è presunto e determinato tra un minimo ed un massimo.
La misura dissuasiva ed il rafforzamento della tutela del lavoratore pubblico, quale richiesta dalla giurisprudenza della corte di giustizia, viene così individuata proprio in questa agevolazione della prova, specificandosi che tale soluzione esprime anche una portata sanzionatoria della violazione della norma comunitaria sì che il danno così determinato può qualificarsi come danno comunitario (così già Cass., n. 27481/2014 e Cass., n. 13655/2015) nel senso che vale a colmare quel deficit di tutela, ritenuto dalla giurisprudenza della corte di giustizia, la cui mancanza esporrebbe la norma interna (art. 36, co. 5, cit.), ove applicabile nella sua sola portata testuale, ad essere in violazione della clausola 5 della direttiva e quindi ad innescare un dubbio di sua illegittimità costituzionale; essa quindi esaurisce l’esigenza di interpretazione adeguatrice.
A ciò le Sezioni Unite soggiungono che il trattamento così attribuito ai lavoratori pubblici è, in realtà, equivalente a quello offerto ai lavoratori privati.
Questi ultimi, infatti, possono ottenere la conversione del rapporto e quindi la reintegrazione nel posto di lavoro oltre all'indennità risarcitoria ex art. 32, co. 5, cit. ma per loro tale indennità è configurata come strumento di contenimento del danno risarcibile per essere ‒o poter essere ‒l'indennizzo meno del danno che potrebbe conseguire il lavoratore secondo i criteri ordinari; contenimento che è risultato essere compatibile con i parametri costituzionali degli artt. 3, 4 e 24 Cost., nel senso della esclusione della possibilità di provare un danno maggiore, proprio in considerazione del diritto alla conversione del rapporto (C. cost., n. 303/2011, cit.).
Per i lavoratori pubblici, cui è riconosciuto soltanto il risarcimento del danno da quantificare innanzi tutto nella misura della stessa indennità risarcitoria, in realtà tale indennità, non collegata alla conversione del rapporto, ha solo una funzione di agevolazione probatoria, nel senso che, come richiesto dall'interpretazione comunitariamente orientata, questa categoria di lavoratori è sollevata dall'onere probatorio, all’indennità risarcitoria ex art. 32, co. 5, cit., ma può sempre provare che le chances di lavoro perse a causa dell’impiego in reiterati contratti a termine in violazione di legge si sono tradotte in un danno patrimoniale più elevato, perché impiegato in reiterati contratti a termine in violazione di legge si traducano in un danno patrimoniale più elevato.
Come si è detto, dalla giurisprudenza della corte di giustizia risulta che non è di per sé incompatibile con la normativa europea la previsione di una disciplina particolare per i contratti a termine del personale scolastico (docente e non docente), dal momento che non possono nutrirsi dubbi sul fatto che il servizio svolto dalla scuola pubblica abbia caratteristiche del tutto particolari, come più volte ribadito anche dalla giurisprudenza costituzionale (vedi, tra la tante: C. cost., 23.7.2015, n. 178).
Proprio con riguardo a tale settore ‒nel quale, peraltro, il contenzioso in materia è molto nutrito la corte costituzionale, per la prima volta nella propria storia, con ordinanza n. 207 del 18.7.2013 ha rimesso alla corte di giustizia in via pregiudiziale la questione interpretativa della clausola 5, punto 1, dell’Accordo quadro richiamato, con riferimento alla speciale disciplina delle supplenze annuali. La Corte, pur muovendo dalla premessa della compatibilità con la normativa UE come interpretata dalla corte di giustizia della previsione di una disciplina particolare per i contratti a termine del personale scolastico, ha comunque sottoposto all’attenzione della stessa la disciplina in materia di conferimento delle supplenze annuali, nella parte relativa alla possibilità di un rinnovo dei contratti a tempo determinato senza la previsione di tempi certi per lo svolgimento dei concorsi nonché laddove non prevedeva disposizioni attributive, ai lavoratori della scuola, del diritto al risarcimento del danno in favore di chi è stato assoggettato ad un’indebita ripetizione di contratti di lavoro a tempo determinato.
L’ordinanza è stata esaminata dalla corte di giustizia nella nota sentenza Mascolo e altri cit., nella quale è stato affermato il principio secondo cui la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro cit. «deve essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale, quale quella di cui trattasi nei procedimenti principali, che autorizzi, in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali per l’assunzione di personale di ruolo delle scuole statali, il rinnovo di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di docenti nonché di personale amministrativo, tecnico e ausiliario, senza indicare tempi certi per l’espletamento di dette procedure concorsuali ed escludendo qualsiasi possibilità, per tali docenti e detto personale, di ottenere il risarcimento del danno eventualmente subito a causa di un siffatto rinnovo. Risulta, infatti, che tale normativa, fatte salve le necessarie verifiche da parte dei giudici del rinvio, da un lato, non consente di definire criteri obiettivi e trasparenti al fine di verificare se il rinnovo di tali contratti risponda effettivamente ad un’esigenza reale, sia idoneo a conseguire l’obiettivo perseguito e sia necessario a tal fine, e, dall’altro, non prevede nessun’altra misura diretta a prevenire e a sanzionare il ricorso abusivo ad una successione di contratti di lavoro a tempo determinato».
All’esito del giudizio dinanzi alla corte di giustizia la trattazione delle questioni di costituzionalità, la corte costituzionale si è pronunciata sulle questioni stesse con la recente sentenza n. 187/2016 cit., nel cui dispositivo è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale, nei sensi e nei limiti di cui in motivazione, dell’art. 4, co. 1 e 11, della l. 3.5.1999, n. 124, nella parte in cui autorizza, in mancanza di limiti effettivi alla durata massima totale dei rapporti di lavoro successivi, il rinnovo potenzialmente illimitato di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di docenti nonché di personale amministrativo, tecnico e ausiliario, senza che ragioni obiettive lo giustifichino.
La corte costituzionale ‒dopo aver precisato che la suindicata conclusione consegue al doveroso rispetto della sentenza Mascolo e altri della Corte di giustizia ‒ha aggiunto che, tuttavia, la questione di legittimità costituzionale in esame non si esaurisce in quella oggetto del rinvio pregiudiziale, collegandosi altresì ai principi costituzionali dell’accesso mediante pubblico concorso agli impieghi pubblici (art. 97, co. 4, cost.), e del diritto all’istruzione (art. 34 Cost.), la cui applicazione anche per la corte del Lussemburgo è rimessa alle competenze degli Stati membri, cui vengono espressamente riconosciuti spazi di autonomia, in particolare con riguardo alle ricadute sanzionatorie dell'illecito.
Di conseguenza, la Corte costituzionale ‒ integrando espressamente il dictum del giudice comunitario ‒ afferma che l’esame della questione in oggetto non deve essere effettuato alla luce della sola normativa vigente all’epoca della relativa sollevazione ma comporta anche la verifica della incidenza della sopravvenuta l. 13.7.2015, n. 107 (conosciuta come la legge sulla “buona Scuola”), verifica che si ritiene costituisca parte integrante della pronuncia della Corte costituzionale stessa, diversamente da quanto avviene nei giudizi di costituzionalità meramente interni, in cui è necessario il rinvio al giudice a quo per una sua ulteriore delibazione.
Così, dalla combinazione dei vari interventi sia a regime che transitori effettuati dal legislatore nel 2015, il Giudice delle leggi desume l’esistenza, in tutti i casi in esame, di una delle misure rispondenti ai requisiti richiesti dalla Corte di giustizia, costituite da procedure di assunzione certe anche nel tempo e dal risarcimento del danno, che sono configurate anche dalla Corte di giustizia come alternative (sentenza Mascolo cit., par. 79; C. giust., 15.4.2008, c268/06, Impact; C. giust., 23.4.2009, cause riunite da C-378/07 a c-380/07, Angelidaki ed altri).
Quanto alle situazioni antecedenti la l. n. 107/2015, la corte costituzionale ha ritenuto necessario operare la seguente distinzione: a) per i docenti, essendo stato autorizzato per l’anno 2015/16 un piano straordinario di assunzioni a tempo indeterminato di personale docente per la copertura di tutti i posti dell’organico di diritto, rimasti vacanti e disponibili all’esito delle operazioni di immissione in ruolo ai sensi dell’art. 399 d.lgs. 14.4.1994, n. 297, vi sarebbe stata la conseguente attribuzione di serie e indiscutibili chances di immissione in ruolo a tutto il personale interessato, in conformità con una delle alternative espressamente prese in considerazione dalla corte di giustizia; b) per il personale ATA, invece, non essendosi previsto alcun piano straordinario di assunzione e pertanto deve trovare applicazione la misura ordinaria del risarcimento del danno, misura del resto prevista dal co. 132 dell’art. 1 della l. n. 107/2015, soluzione anch’essa da considerare in linea con la normativa comunitaria.
La corte precisa, da ultimo, che l'illecito di cui si è reso responsabile lo Stato italiano a causa della violazione del diritto dell’UE è stato dal nostro legislatore “cancellato” con la previsione di adeguati ristori al personale interessato, sottolineando che tale conclusione trova una indiretta ma autorevole conferma nell’archiviazione senza sanzioni con la quale la commissione UE ha disposto di concludere la procedura di infrazione aperta nei confronti del nostro Paese per la violazione della normativa UE in oggetto, che è stata motivata facendosi riferimento alla indicata normativa nazionale sopravvenuta, secondo quanto evidenziato dalla difesa dell'italia.
In sintesi, mentre per il precariato pubblico in genere tra interventi della Corte di giustizia e della Corte di cassazione si è trovata una soluzione compatibile con il diritto comunitario, per il precariato scolastico anche dopo la sentenza del giudice delle leggi n. 187/2016 restano molte questioni aperte sulle quali la Corte di cassazione e i giudici del merito sono chiamati ad intervenire.
La Corte di cassazione, in un comunicato stampa, ha preannunciato di aver fissato per il 18.10.2016 la trattazione di numerosi ricorsi in materia, onde assicurare “uniformi linee interpretative” da parte dei giudici del merito.
Nome
1 Il principio di non discriminazione è alla base della sentenza della C. giust., 13.8.2007, c-307/05, Del Cerro Alonso, nella quale, con riferimento alla legislazione spagnola, la Corte ha affermato il principio secondo cui la nozione di «condizioni di impiego» di cui alla clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18.3.1999, contenuto in allegato alla dir. 1999/70/CE, del consiglio del 28.6.1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE E CEEP sul lavoro a tempo determinato, può servire da fondamento ad una pretesa come quella in esame nella causa principale che mira ad attribuire ad un lavoratore a tempo determinato scatti di anzianità che l’ordinamento nazionale riserva ai soli lavoratori a tempo indeterminato, senza che la suddetta disparità di trattamento – di tipo discriminatorio – possa considerarsi giustificata dalla mera circostanza che il suddetto differente regime sia previsto da una disposizione legislativa o regolamentare di uno Stato membro ovvero da un contratto collettivo concluso tra i rappresentanti sindacali del personale e il datore di lavoro interessato.
2 Si ricorda, in particolare per l’art. 1 del d.lgs. 15.6.2015, n. 81: «il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro». e tale norma non solo rappresenta un anello di congiunzione con la disciplina del lavoro pubblico contrattualizzato (art. 36, co. 1, d.lgs. n. 165/2001) e con quella del contratto a termine (art. 1, co. 01, d.lgs. n. 368/2001, peraltro abrogato dall’art. 55, lett. b, del d.lgs. n. 81/2015, con le modalità ivi previste), contenenti analoga disposizione, ma costituisce anche un riferimento che può, in ipotesi, rivelarsi utile per rafforzare l{attrazione nell’area della subordinazione di eventuali ipotesi di difficile inquadramento. Sicché non si comprendono le posizioni di coloro che, criticando la nuova normativa perché nella sostanza poco chiara e non sufficientemente garantista per i lavoratori precari, ritengono che il suddetto art. 1 sia, in sostanza, un «inutile orpello». Si rinvia, sul punto, a Tria, l., La nuova disciplina delle collaborazioni etero-organizzate tra giurisprudenza della Corte di cassazione e vocazione sovranazionale e internazionale del diritto del lavoro e sindacale, in www.europeanrigts.eu.