Il contratto a termine nel 'collegato lavoro'. Rapporti a termine e rimedi
Rapporti a termine e rimedi*
Il contributo analizza gli artt. 32 e 50 della legge 4.11.2010, n. 183 (cd. collegato lavoro), concentrando l’attenzione sui due momenti essenziali in cui la nuova normativa incide sui rimedi attivabili in caso di violazione della disciplina in materia di rapporti di lavoro a tempo determinato e di collaborazioni coordinate e continuative, anche a progetto (id est, da un lato, sul neo-introdotto regime delle impugnazioni, quale specificamente applicabile a tale sfera di rapporti, e, dall’altro, sull’apparato lato sensu sanzionatorio per i medesimi ora prefigurato dal legislatore).
Il «collegato lavoro» – espressione compendiosa quanto infelice, con la quale si riassume per convenzione linguistica già entrata nell’uso la lunga e farraginosa rubrica della l. 4.11.2010, n. 183, recante «deleghe al governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e controversie di lavoro» – è intervento normativo per definizione eterogeneo e, come tale, irriducibile a logiche e letture unitarie. Ciò non impedisce, tuttavia, di individuare alcune linee di fondo nell’intervento legislativo, suscettive di riunificare l’interpretazione della sparsa congerie di norme contenute in tale legge attorno a taluni poli aggreganti, sia sotto il profilo della politica del diritto (o senz’altro delle opzioni ideologiche perseguite dal legislatore), sia sotto quello delle scelte tecniche dallo stesso compiute. La nuova disciplina del contratto a termine, contenuta nell’art. 32 l. n. 183/2010, come pure il successivo art. 50, in tema di collaborazioni coordinate e continuative (anche a progetto), costituiscono senza dubbio, da questo punto di vista, uno dei poli più importanti dell’intervento legislativo in commento. L’art. 32 e l’art. 50 l. n. 183/2010, cui è dedicata l’analisi che segue, sono infatti legati da un filo conduttore, che sostanzia una precisa opzione – ad un tempo politica e tecnica – del legislatore del «collegato lavoro». Questa opzione consiste, in sintesi, nella sottrazione di momenti essenziali della disciplina del rapporto di lavoro – quali sono quelli relativi al nuovo regime delle impugnazioni ed ai rimedi azionabili dal lavoratore che faccia valere la illegittimità del termine (anche nei casi in cui si contesti, a monte, la genuinità della riconduzione del rapporto allo schema della collaborazione autonoma coordinata, pure a progetto) – all’operare dei principi e delle regole del diritto comune delle obbligazioni. Essa si sostanzia, in altre parole, in una deroga (in peius) ai principi del diritto privato generale, altrimenti operanti – in favore del lavoratore come di qualunque altro contraente o creditore – in assenza della specifica deviazione imposta dal legislatore. Il legislatore – come di recente avvenuto anche in materia di coazione indiretta delle obbligazioni di fare infungibili ai sensi dell’art. 614 bis c.p.c. (introdotto dall’art. 49 l. 18.6.2009, n. 69), in tal caso con la negazione della astreinte ivi prevista all’area dei rapporti di lavoro subordinato e delle collaborazioni coordinate e continuative di cui all’art. 409 dello stesso codice – sottrae nuovamente al lavoratore (subordinato o parasubordinato), in quanto tale, rimedi e mezzi di tutela che rende accessibili, a garanzia dell’effettività dei diritti, alla generalità dei soggetti dell’ordinamento. Questa deroga è evidente nel caso del nuovo regime dei rimedi attivabili in ipotesi di accertamento giudiziale della nullità del termine apposto al contratto o della natura subordinata di rapporti di non genuina collaborazione coordinata e continuativa. Sia l’art. 32, co. 5, che l’art. 50 l. n. 183/2010 stabiliscono, infatti, un meccanismo indennitario, fortemente compresso nel suo limite massimo, che assoggetta il lavoratore che veda accertata la nullità del termine apposto al contratto o che (al ricorrere di certi presupposti) ottenga, in sede giudiziale, la riqualificazione del rapporto di (non genuina) collaborazione coordinata e continuativa (anche a progetto), ad un regime fortemente deviante rispetto ai comuni principi civilistici in tema di conseguenze della nullità e di risarcimento del danno, ovvero di accertamento della natura subordinata del rapporto, che, sino a ieri, in virtù del «diritto vivente», governavano la materia. Ciò che, in relazione all’art. 32, ha subito indotto a prospettare prime questioni di legittimità costituzionale, fondate, in parte, proprio sulla irragionevole disparità di trattamento che, in violazione dell’art. 3, co. 1, Cost.1, tale opzione legislativa determina a svantaggio dei lavoratori a termine rispetto a tutti gli altri contraenti che abbiano costituito in mora la propria controparte contrattuale2. Ma la deviazione rispetto ai comuni principi civilistici non appare meno incisiva ove si consideri l’estensione, anche all’azione di nullità del termine illegittimamente apposto, delle regole in tema di impugnazione del licenziamento e delle connesse decadenze. Come è stato osservato, all’interno di un’impostazione generale tutta proiettata ad introdurre «forti limitazioni del diritto di azione», la «generalizzazione della disciplina sui licenziamenti e sui relativi termini di decadenza a specie totalmente diverse (quali ad esempio l’impugnativa dei contratti a termine o l’accertamento della natura del rapporto) » infligge, infatti, «un grave colpo alle classiche categorie giuridiche del diritto dei contratti»3. Entrambi gli interventi qui in esame sui rapporti di lavoro a tempo determinato, al pari della previsione di cui all’art. 50 l. n. 183/2010, incidono, dunque, in maniera rilevante sul sistema dei rimedi, ossia dei «mezzi o strumenti destinati a rispondere al mancato rispetto di regole poste a tutela del sistema»4, sollevando inevitabili dubbi sulla compatibilità delle scelte in tal modo compiute dal legislatore con i principi costituzionali ed i vincoli derivanti dal diritto europeo. Non meno problematiche appaiono, d’altra parte, le implicazioni che possono derivare – pure in ordine allo specifico profilo dei rimedi disponibili in caso di violazione della disciplina di legge sui contratti di lavoro a termine e sulle collaborazioni coordinate e continuative, anche a progetto – dalla recentissima previsione introdotta con l’art. 8 d.l. 13.8.2011, n. 138, recante «ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e lo sviluppo». La norma – che prospetta una radicale rivisitazione dell’assetto delle fonti del diritto del lavoro nazionale, con una delega a larghissimo spettro alla contrattazione collettiva aziendale e territoriale (o di «prossimità », come viene definita nella rubrica) – è oggetto di commento in altra sede della presente opera5, anche in relazione ai problematici profili di costituzionalità. Qui preme solo segnalare, in particolare, il contenuto della lett. d) del secondo comma dell’art. 8 d.l. n. 138/2011, a mente del quale – allorché ricorrano i presupposti ampiamente definiti dal comma precedente – i contratti collettivi sottoscritti a livello aziendale o territoriale da associazioni di lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o dalle rappresentanze sindacali operanti in azienda sono abilitati a intervenire sulla regolazione delle materie relative alle modalità di assunzione, anche con contratti a tempo determinato, e alla «disciplina dei rapporti di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative a progetto e le partite IVA, alla trasformazione e conversione dei contratti e alle conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio e il licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio». È trasparente, al di là dell’approssimativa e grossolana formulazione, l’intento del legislatore di consegnare alla contrattazione di «prossimità» un potere di «flessibilizzazione» della disciplina dei rapporti di lavoro subordinato o parasubordinato, suscettivo di spingersi sino a riconfigurare il sistema dei rimedi disponibili, oltre che nelle ipotesi di licenziamento (non discriminatorio), anche nelle diverse fattispecie di trasformazione o conversione dei contratti di lavoro (indifferentemente a tempo determinato o a progetto). Una delega ad abbassare ulteriormente i livelli di tutela dei diritti e l’effettività dei rimedi attivabili dai lavoratori, anche oltre quanto già disposto con gli artt. 32 e 50 l. n. 183/2010; con la conseguente dilatazione e amplificazione dei problemi di legittimità costituzionale e comunitaria, di cui si darà sinteticamente conto, per il «collegato lavoro», nelle conclusioni di questo contributo.
Il legislatore del «collegato» ha voluto estendere anche alle azioni di nullità del termine il nuovo regime di impugnazione previsto, per il licenziamento e per altre fattispecie, con il doppio termine decadenziale in funzione acceleratoria del giudizio, in virtù della riscrittura dell’art. 6 l. n. 604/1966 operata col primo comma dell’art. 32. L’assoggettamento a tale nuovo regime è imposto, anzi, nella materia qui considerata, in forma ancor più incisiva di quanto non valga per il licenziamento e per le ulteriori fattispecie a questo assimilate, in considerazione sia dell’ampiezza delle ipotesi in cui si contesti la legittimità del termine che vengono ricomprese nella nuova previsione normativa, sia dell’effetto retroattivo chiaramente voluto dall’art. 32, in particolare con il disposto del suo quarto comma. Rinviando ad altro luogo di quest’opera per una più approfondita analisi di carattere generale di tale disposizione6, qui preme soffermarsi sugli specifici aspetti problematici che incidono – a regime – sull’attivazione dei rimedi previsti dal «collegato» per l’ipotesi di illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro subordinato. Le norme sui cui focalizzare qui l’attenzione sono, pertanto, essenzialmente quelle contenute nella lett. d) del terzo comma e nelle lett. a) e b) del quarto comma dell’art. 32 del l. n. 183/2010. Con tali disposizioni viene stabilito che la disciplina delle impugnazioni previste dal nuovo art. 6 l. n. 604/1966 si applichi, in primo luogo, anche «all’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e successive modificazioni, con termine decorrente dalla scadenza del medesimo». La citata disposizione ha subito suscitato letture discordanti, anzitutto in ordine al suo raggio di applicazione materiale. Secondo una lettura estensiva, essa dovrebbe essere riferita anche alle ipotesi – che il legislatore ha omesso di considerare, almeno esplicitamente – nelle quali l’azione intentata dal lavoratore sia diretta a far valere la nullità del termine apposto in violazione dell’art. 3 d.lgs. n. 368/2001, come pure in quelle considerate dall’art. 5 (di rinnovo del contratto senza soluzione di continuità, ovvero senza il rispetto dell’intervallo minimo prescritto dalla legge, e di superamento del periodo massimo complessivo di 36 mesi secondo il precetto dettato dal comma 4 bis)7. Tale interpretazione non sembra tuttavia fondata8, non riuscendo a superare l’ostacolo che deriva dal dato testuale, che riferisce l’applicazione della regola del nuovo art. 6 l. n. 604/1966 unicamente alle azioni di nullità del termine che sia apposto al contratto ai sensi degli artt. 1, 2 e 4 d.lgs. n. 368/2001 e, dunque, soltanto alle azioni volte all’accertamento della carenza delle ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive legittimanti, in via generale, il ricorso a tale tipologia contrattuale, ovvero dirette a contestare la ricorrenza delle specifiche condizioni tipizzate per i settori del trasporto aereo e dei servizi postali, oppure rivolte a sanzionare l’insussistenza delle condizioni che consentono la proroga del contratto. Non vale a superare questa conclusione una lettura orientata della disposizione, alla cui stregua questa andrebbe letta a partire dal riferimento all’azione di nullità e non già alle ipotesi legali nominate di stipulazione del contratto a tempo determinato. Si deve infatti replicare che è proprio tale ultimo riferimento a costituire il baricentro della disposizione, in quanto serve a delimitare le ipotesi di azione di nullità del termine apposto al contratto, nelle quali il legislatore ha ritenuto opportuno rendere applicabile il nuovo regime delle impugnazioni disegnato dal primo comma dell’art. 32 l. n. 183/2010. Né sembra possibile argomentare diversamente sulla base della supposta ratio della previsione, sostenendo, in particolare, che – non esistendo reali differenze tra le ipotesi contemplate dagli artt. 1, 2 e 4 e quelle regolate dagli artt. 3 e 5 d.lgs. n. 368/2001 – nessuna differenziazione potrebbe giustificarsi sul piano delle trattamento, quanto a regime delle impugnazioni. Anche sotto tale profilo può invero obiettarsi che le ipotesi di (violazione dei precetti di) cui agli artt. 3 e 5 d.lgs. n. 368/2001 sono, in realtà, contrassegnate da una innegabile specificità (e dunque da un’indubbia differenza, anche di ratio) rispetto a quelle nominate dalla lett. d) del terzo comma (e dalla lett. a) del quarto comma) dell’art. 32 l. n. 183/2010: quelle dell’art. 3, per il peculiare disvalore che connota le assunzioni a termine effettuate in violazione degli specifici divieti stabiliti a protezione di interessi intensamente qualificati sul piano costituzionale; quelle dell’art. 5, come è stato rilevato, perché l’esenzione dall’onere d’impugnazione delle azioni di nullità «fondate sulla violazione dei limiti alle successioni dei contratti a termine, che costituiscono, in conformità alla direttiva comunitaria 1999/70, il vero strumento di ingiusta precarizzazione »9, serve proprio a contrastare forme di ricorso abusivo (di abuso di reiterazione, come si dice) al contratto a tempo determinato. Occorre pertanto concludere che l’onere d’impugnazione non si estende oltre le ipotesi di azione di nullità intentate per violazione delle disposizioni di cui gli artt. 1, 2 e 4 d.lgs. n. 368/2001: lo impongono argomenti letterali (da soli cogenti, in presenza di norme che, in quanto stabiliscono decadenze, sono di stretta interpretazione), ragioni di carattere sistematico ed esigenze di conformità ai principi costituzionali ed europei10. La conclusione testé raggiunta non esime, peraltro, dal prendere posizione sul problema interpretativo-applicativo, variamente risolto in dottrina, della individuazione del dies a quo del termine ai fini della impugnazione nelle ipotesi regolate dall’art. 5 d.lgs. n. 368/2001. Quanto alle ipotesi di prosecuzione del rapporto considerate dal secondo comma dell’art. 5, una soluzione proposta in dottrina, ed astrattamente in linea con la sequenza temporale delineata dalla norma, fa decorrere detto termine rispettivamente dal ventesimo e dal trentesimo giorno successivo alla scadenza del termine contrattuale fissata dalle parti, a seconda che si tratti di un contratto a tempo determinato di durata inferiore o superiore a sei mesi11. Si è però obiettato che, in dette ipotesi, essendo il rapporto di lavoro considerato a tempo indeterminato ex nunc allorché la prestazione si protragga oltre il ventesimo o il trentesimo giorno, non può non tenersi conto della suddetta trasformazione o conversione, come ormai la chiama lo stesso legislatore, recependo l’impropria espressione gergale. Ne consegue che «l’iniziativa del datore di lavoro – che potrebbe anche non aversi e il rapporto proseguire sine die – di porre fine al rapporto non è altro», in tali casi, com’è stato osservato, «che un licenziamento, al quale andrà applicata la disciplina dei primi due commi dell’art..1.1 32»12. Nell’ipotesi di cui al comma 4 bis dell’art. 5 (che contempla i casi di successione di contratti a termine con lo stesso datore di lavoro per lo svolgimento di mansioni equivalenti per un periodo complessivo superiore a 36 mesi, comprensivi di proroghe e rinnovi), dovrebbe poter essere in astratto argomentata una soluzione analoga, visto che anche in tali casi il rapporto si considera a tempo indeterminato dal momento del superamento della predetta soglia temporale complessiva. Non può peraltro essere ignorato il problema della sorte dei singoli rapporti a termine in ipotesi illegittimamente reiterati all’interno del predetto arco temporale massimo consentito (pur con le possibilità di deroga rimesse alla contrattazione collettiva), visto che, «ciò che sembra emergere, è che i precedenti contratti intercorsi tra le parti, per i quali non è stata intrapresa l’azione di nullità del termine nei termini decadenziali previsti, sono ormai inoppugnabili, salvo ritenere che l’impugnativa dell’ultimo contratto, a partire dalla sua scadenza, sia in grado di sottoporre a revisione giudiziale tutto l’intervallo intercorso tra le parti»13. La questione più seria è proprio quella della sorte dei singoli rapporti a termine intermedi, cioè ricompresi nel predetto arco temporale, e comunque dei contratti – stipulati in successione – che non siano stati specificamente impugnati entro i sessanta giorni dalla rispettiva scadenza: l’impugnativa che sia rivolta a contestare la legittimità dell’ultimo non sembra, infatti, di fronte al tenore letterale delle norme in commento, poter rimettere in discussione la validità anche dei precedenti. La tesi evocata poc’anzi, nel far leva sull’effetto della conversione, con la dichiarazione della sussistenza di un unitario rapporto a tempo indeterminato, non riesce infatti a superare l’ostacolo frapposto dal dato letterale della legge, che preclude la contestazione della legittimità del singolo contratto a tempo determinato intermedio, una volta spirato il rispettivo termine di decadenza, senza far retroagire l’eventuale dichiarazione d’illegittimità dell’ultimo ai passaggi intermedi della sequenza14. Meno problematiche appaiono, per contro, le ipotesi regolate dai commi 3 e 4 dell’art. 5 d.lgs. n. 368/2001: essendo qui precisamente stabilita la illegittimità del termine apposto (con o senza soluzione di continuità rispetto al precedente rapporto) al secondo contratto, «è allo scadere di questo che, per la chiara formulazione dell’art. 32, co. 3, lett. d), inizia il termine a quo»15, non potendosi condividere la tesi che fa coincidere detto termine «con la data della stipula del secondo contratto »16.
2.1 Il nuovo regime rimediale dei contratti a termine: conversione e risarcimento del danno
Il quinto comma dell’art. 32 l. n. 183/2010 dispone, testualmente, che «nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno, stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604». Il successivo comma 6 contempla un meccanismo di riduzione della misura massima della predetta indennità in funzione promozionale di soluzioni già da tempo sperimentate in sede contrattuale collettiva, in vista della gestione consensuale del vasto contenzioso seria le sedimentatosi in alcuni settori produttivi e, segnatamente, in talune realtà aziendali del Paese17. Esso stabilisce, infatti, che in presenza di contratti ovvero di accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell’indennità fissata dal comma 5 sia ridotto alla metà (cioè, a 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto). Se dipendesse unicamente dall’intento manifestato dal legislatore nel corso dei lavori preparatori, la lettura della norma testé riportata non darebbe invero luogo a soverchi problemi interpretativi (salvi, s’intende, i dubbi di illegittimità costituzionale e di contrasto con la disciplina comunitaria, di cui si dirà più avanti). Da questo punto di vista, lo scopo e l’effetto della disposizione appaiono, infatti, piuttosto chiari: in tutti i casi in cui si faccia luogo a «conversione» del contratto a termine in rapporto a tempo indeterminato18, per il periodo intercorrente tra l’interruzione di fatto del rapporto e la sentenza dichiarativa della nullità del termine illegittimamente apposto, è sempre dovuta al lavoratore unicamente un’indennità onnicomprensiva (idonea dunque ad assorbire ogni pretesa risarcitoria e/o retributiva)19 compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità (ridotte eventualmente a 6, laddove ricorra l’ipotesi del comma 6), con graduazione e concreta commisurazione giudiziale del quantum d’indennizzo ancorata ai criteri di cui all’art. 8 l. n. 604/196620. La conversione21 o trasformazione22 del rapporto, che consegue alla declaratoria di nullità parziale della clausola appositiva del termine23, tornerebbe dunque a produrre gli effetti di diritto comune solo successivamente alla sentenza, dovendosi ritenere che in forza della stessa il lavoratore abbia diritto, da un lato, alla riammissione in servizio ed alla ricostituzione della effettiva funzionalità del rapporto e, dall’altro, ove ciò non dovesse avvenire, al risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni maturande (o senz’altro a queste ultime, secondo altra possibile ricostruzione), anche a prescindere da un ulteriore specifico atto di messa in mora con l’offerta della prestazione lavorativa al datore inadempiente al comando giudiziale. Per il periodo precedente all’accertamento giudiziale della nullità parziale il lavoratore, per effetto della sentenza, avrebbe invece solo il diritto di vedersi riconosciuta, con il ripristino del rapporto, l’anzianità giuridica maturata ai soli fini contrattuali, non potendo contare sul riconoscimento della stessa ai fini previdenziali (dovendosi infatti escludere, in ragione del carattere onnicomprensivo dell’indennità, qualunque obbligo di versamento contributivo sulla somma a tale titolo liquidata dal giudice con riferimento al periodo pregresso)24. In questa prospettiva, l’indennità, nella misura fissata tra il predetto minimo e massimo, assorbe e sostituisce qualunque pretesa risarcitoria collegata alla eventuale situazione di mora accipiendi del datore di lavoro, a prescindere dalla durata del periodo in contestazione, come anche – evidentemente – da quella del processo. Il lavoratore – che può comunque contare sull’effetto ripristinatorio pieno della conversione per il periodo successivo alla sentenza – si vede pertanto liquidata l’indennità, quantomeno nell’importo minimo delle 2,5 mensilità, in ogni caso di dichiarazione giudiziale della nullità del termine: dunque, anche a prescindere dalla circostanza che abbia messo in mora il datore di datore di lavoro, offrendogli la propria prestazione, ovvero abbia patito un effettivo danno (l’indennizzo forfettario spetta, infatti, anche nell’ipotesi in cui il lavoratore si sia immediatamente rioccupato, senza subire pregiudizi patrimoniali, continuando a percepire redditi da lavoro). Qualificata dal richiamo alla volontà del legislatore (e alla ratio compromissoria da questo perseguita in funzione del contemperamento dei contrapposti interessi in gioco), quella appena delineata è senz’altro l’interpretazione prevalente in dottrina del disposto dell’art. 32, co. 5, l. n. 183/201025; ed è, con ogni probabilità, anche quella più lineare, oltre che maggiormente coerente con il precipitato della voluntas legislatoris. Essa non è, però, l’unica lettura possibile: volendo sgombrare il campo dalle ipotesi esegetiche che appaiono anche testualmente meno plausibili26, resta, infatti, tra i possibili significati attribuibili in chiave di interpretazione costituzionalmente orientata della norma, una lettura rivale e alternativa quanto agli esiti di tutela attingibili dal lavoratore, che risulta dotata d’una qualche forza suggestiva. Si tratta della lettura – diffusamente argomentata in dottrina e subito accreditata da una prima, per quanto minoritaria, giurisprudenza di merito27 – secondo cui la liquidazione dell’indennità compresa tra le 2,5 e le 12 mensilità sarebbe aggiuntiva, e non già sostitutiva, rispetto alle conseguenze derivanti, alla stregua del «diritto vivente», dai comuni principi in tema di conversione del contratto e di mora credendi, dovendosi ritenere sanzione tipica automatica «correlata esclusivamente al mero accertamento della nullità del termine»28. Una «penale sanzionatoria», dunque, «connessa al mero accertamento dell’illegittimità del termine»29, che si aggiungerebbe sia all’effetto della conversione del contratto, in applicazione degli artt. 1339 e 1419, co. 2, c.c. (e, ora, direttamente dell’art. 32, co. 5, l. n. 183/2010), sia alla comune disciplina delle conseguenze risarcitorie della mora accipiendi del datore di lavoro30. Il grado di persuasività di questa lettura, che invero forza in modo significativo il dato testuale dell’art. 32, co. 5., l. n. 183/2010, sta tutta nel preteso rispetto, che solo essa sarebbe in grado di assicurare, dei principi posti dalla Costituzione e dalla direttiva europea sul contratto a termine; onde è opportuno rinviare al paragrafo conclusivo di questo contributo, dedicato alle questioni di legittimità costituzionale e di conformità al diritto dell’Unione europea sollevate dalla disposizione, ogni valutazione sulla sua fondatezza.
2.2 Le nuove disposizioni in materia di co.co.co. (anche a progetto)
L’art. 50 l. n. 183/2010 estende la tecnica della predeterminazione dell’importo minimo e massimo dell’indennità risarcitoria anche a talune fattispecie nelle quali la «conversione» del rapporto costituisce la conseguenza dell’accertamento giudiziale della natura subordinata di una collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto, non genuina, in ipotesi anche in virtù dell’applicazione dell’art. 69, co. 1, del d.lgs. 10.9.2003, n. 27631. Vi si prevede, infatti, che, salvi gli effetti delle sentenze passate in giudicato, «in caso di accertamento della natura subordinata di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche se riconducibili ad un progetto o programma di lavoro, il datore di lavoro che abbia offerto entro il 30 settembre 2008 la stipulazione di un contratto di lavoro subordinato ai sensi dell’articolo 1, commi 1202 e seguenti, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, nonché abbia, dopo la data di entrata in vigore della presente legge, ulteriormente offerto la conversione a tempo indeterminato del contratto in corso ovvero offerto l’assunzione a tempo indeterminato per mansioni equivalenti a quelle svolte durante il rapporto di lavoro precedentemente in essere, è tenuto unicamente a indennizzare il prestatore di lavoro con un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità di retribuzione, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604». La formulazione della norma è particolarmente complessa e confusa, non essendo chiari i presupposti in presenza dei quali può operare, a beneficio del committente/datore di lavoro, il pagamento della indennità compresa tra l’indicato minimo e massimo, né se questa abbia natura integralmente sostitutiva della «conversione» delle collaborazioni coordinate e continuative, anche a progetto, in un ordinario rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Nell’incertezza interpretativa32, va adottato, in coerenza con i principi generali, il canone ermeneutico che consenta quantomeno di ridurre, se non di evitare completamente, i profili di possibile illegittimità costituzionale del precetto normativo. In questa prospettiva, vanno anzitutto intesi restrittivamente i presupposti in presenza dei quali soltanto il committente/datore di lavoro è legittimato a giovarsi della disposizione con il pagamento della ridotta indennità risarcitoria dalla stessa contemplata. Detti presupposti vanno così individuati: a) in presenza di un accertamento giudiziale (ovviamente non passato in giudicato) della natura subordinata del pregresso rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto, il datore deve avere già offerto, nel termine di legge del 30 settembre 200833, la stipulazione di un contratto di lavoro subordinato ai sensi dell’art. 1, co. 1202 e ss., l. n. 296/2006; b) il medesimo datore, successivamente all’entrata in vigore del «collegato», deve reiterare tale offerta, a seconda dei casi in rilievo, o offrendo al prestatore di convertire in contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato il rapporto in corso, ovvero offrendogli di assumerlo, sempre con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, in mansioni equivalenti a quelle svolte nel periodo in cui il rapporto di lavoro era effettivamente in esecuzione. Non è ammissibile ipotizzare l’operatività di tale meccanismo, che in buona sostanza riapre (seppure in forma rinnovata) i termini della stabilizzazione e della sanatoria di cui alla l. n. 296/2006, al di là di tali precise coordinate temporali e di tali limiti sostanziali34. Va in secondo luogo fissato un preciso confine funzionale alla indennità forfettaria nuovamente impiegata dal legislatore del «collegato ». Contrariamente a quanto pure è ipotizzabile sulla base della infelice formulazione letterale della disposizione35, occorre ritenere che l’effetto della «conversione» – derivante dall’accertamento (ancorché non passato in giudicato) della natura subordinata del rapporto da parte del giudice – resti comunque fermo, nel senso che il prestatore di opere avrà in ogni caso diritto al ripristino della funzionalità (e, in tal senso, per usare il linguaggio gergale, alla «stabilizzazione») del rapporto di lavoro in esecuzione della sentenza. Pertanto, fermo l’accertamento della subordinazione da parte del giudice, «il rapporto di lavoro rimane salvo», con la conseguenza che «all’inciso ‘unicamente’ dell’articolo 50 va data una connotazione prettamente temporale in quanto … la funzione dell’indennità è esclusivamente quella di regolare il periodo pregresso in relazione al quale è stata accertata la natura fittizia della collaborazione, senza incidere sulla disciplina futura del rapporto»36. Analogamente a quanto stabilito per l’indennità prevista dal quinto comma dell’art. 32 l. n. 183/2010, anche tale misura indennitaria non assorbe la conversione del rapporto conseguente all’accertamento giudiziale, ma si limita a ridurre entro i ricordati limiti il risarcimento del danno o le retribuzioni dovute al prestatore per il periodo pregresso, senza «menomare la tutela del lavoratore in ordine alla continuità del rapporto di lavoro per il periodo successivo all’accertamento giudiziale»37. Questa appare l’unica interpretazione idonea quantomeno ad attenuare, pur senza fugarli del tutto, gli altrimenti evidenti problemi di contrasto in primis con gli artt. 3 e 24 Cost., subito diffusamente messi in rilievo dalla dottrina38.
Dubbi di legittimità costituzionale, come anche di violazione delle clausole 5 e 8.3 dell’accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, sono stati subito prospettati – come si è già accennato – con riguardo a tutte le principali novità in tema di contratto di lavoro a tempo determinato contenute nella l. n. 183/2010, sia in riferimento al nuovo regime delle impugnazioni, sia (con questione già rimessa alla Corte costituzionale) in relazione alle disposizioni sulle conseguenze dell’accertamento della nullità del termine. E dubbi di legittimità costituzionale ha suscitato, in dottrina, come si è appena ricordato, anche l’art. 50 del «collegato lavoro». Sebbene un’analisi particolareggiata degli argomenti spesi per sostenere o rigettare l’incostituzionalità (o la contrarietà ai principi comunitari) delle norme in commento esuli dall’economia di questo contributo, non possiamo qui esimerci da una pur sintetica rassegna e valutazione critica degli stessi, anche per le implicazioni che essi evidentemente possono avere in sede di interpretazione «costituzionalmente orientata» o «conforme », in particolare delle nuove disposizioni in tema di contratti di lavoro a tempo determinato39. Larga parte della dottrina ha anzitutto dubitato della coerenza con gli artt. 3 e 24 Cost. della estensione – che andrà a regime nei termini prorogati dall’art. 2, co. 54, l. n. 10/2011 – delle novellate previsioni sulle impugnazioni e le connesse decadenze ex art. 6 l. n. 604/1966, all’azione di nullità del termine illegittimamente apposto al contatto di lavoro subordinato40. In effetti, può dubitarsi della ragionevolezza della equiparazione tra situazioni sostanzialmente diverse, quali devono considerarsi, rispettivamente, quella dell’azione diretta a far valere le conseguenze della illegittimità del licenziamento (specie nell’aerea di applicabilità della tutela obbligatoria) e quella dell’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro (o della sua proroga o abusiva reiterazione nel tempo). E, soprattutto, proprio in ragione di tale diversità di posizioni sostanziali, appare eccessivamente breve il termine, di soli 60 giorni, concesso allo stesso lavoratore a tempo determinato per l’impugnazione stragiudiziale del contratto41. Come è stato ben detto, «il breve lasso di tempo di sessanta giorni postula piena facoltà di iniziativa processuale di un soggetto che, al contrario, ne è privo e la vede molto contenuta»42, assoggettato com’è al metus esercitato di fatto dal datore di lavoro con tutta la forza di persuasione di chi può decidere se offrire o no nuove occasioni di impiego, sia pure precario. Il rischio che il nuovo regime delle decadenze applicabili alle azioni di nullità del termine svuoti di effettività i rimedi attivabili dal lavoratore (peraltro essi stessi ridimensionati nel loro contenuto sostanziale), oltre che con l’art. 24 Cost., crea altresì indubbie tensioni con i principi affermati dalla Corte di giustizia dell’Unione europea in sede di interpretazione della direttiva 1999/70/CE (in particolare, della clausola 5 dell’accordo quadro ad essa allegata) e, più in generale, in sede di elaborazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale, ora espressamente sancito dall’art. 47 della Carta di Nizza43. L’imposizione di così stringenti e ravvicinati termini di decadenza per l’esercizio dell’azione di nullità del termine rischia, infatti, di vanificare la possibilità stessa che il lavoratore si avvalga dei rimedi che il diritto nazionale astrattamente gli mette a disposizione44. Seppur in termini più problematici, può poi essere prospettato un contrasto con la clausola 8.3 della direttiva, riguardante il divieto di regresso generalizzato del livello di tutela esistente nell’ordinamento interno in sede di attuazione della disciplina europea. Ed invero, sia pure nella consapevolezza della debole accezione che la Corte di giustizia accoglie della clausola di non regresso45, sembra che l’effetto congiunto della imposizione di uno stringente regime decadenziale ai fini della impugnazione del termine nullo e della drastica decurtazione delle tutele sostanziali attivabili da parte del lavoratore ponga una questione di conformità con la clausola 8.3 dell’accordo quadro europeo allegato alla direttiva. Il nuovo regime indennitario introdotto dai commi 5 e 6 dell’art. 32 l. n. 183/2010, anche in ragione della sua estensione a tutti i giudizi pendenti46, ha come ricordato già occasionato il rinvio alla Corte costituzionale per ipotizzato contrasto con una pluralità di parametri costituzionali47. Le ordinanze, più volte evocate, con cui prima il Tribunale di Trani e poi la stessa Corte di cassazione hanno rimesso la relativa questione alla Corte costituzionale sono improntate a percorsi motivazionali solo in parte comuni. Comune ad entrambe – in buona sostanza anche nell’iter argomentativo – è il sospetto che le norme in questione violino gli artt. 24, 111 e 117 Cost.48, stante il sostanziale svuotamento dell’effettività della tutela giurisdizionale dei diritti del lavoratore a tempo determinato, che esse paiono idonee a determinare, ove intese – in linea con l’opinione prevalente tra gli interpreti – nel senso del carattere sostitutivo dell’indennità forfettaria dalle stesse prevista rispetto alle comuni conseguenze risarcitorie della mora accipiendi del datore di lavoro. Il percorso motivazionale comune è anche quello – dal punto di vista di chi scrive – più convincente e condivisibile. Una differente impostazione si registra, invece, rispetto ad altri parametri costituzionali. Il Tribunale di Trani fa (persuasivamente49) riferimento all’art. 3, co. 1, Cost., tanto sotto il profilo della irragionevole estensione alle fattispecie di nullità del termine dei criteri di risarcimento del danno adottati dalla l. n. 604/1966 per i licenziamenti illegittimi intimati nell’area applicativa della tutela obbligatoria, quanto sotto il profilo della disparità di trattamento subita dai lavoratori a tempo determinato. La Corte di cassazione, per contro, esclude il contrasto col primo comma dell’art. 3 Cost., in quanto il trattamento sfavorevole che l’art. 32, co. 5 e 6, l. n. 183/2010 riserva al «lavoratore precario» sarebbe giustificato dall’obiettivo di interesse generale di evitare eccessivi e non prevedibili esborsi risarcitori a carico delle imprese, come anche il pregiudizio che ad esse deriverebbe da un eccessivo ampliamento degli organici «dovuto alla conversione a tempo indeterminato di numerosi contratti di lavoro a termine»50. Si tratta d’un profilo delle motivazione della Cassazione che non convince e che – come rilevato da alcuni commentatori – si pone del resto in contraddizione con altri passaggi della stessa ordinanza51. Ugualmente discutibile – per come viene motivato – pare poi il richiamo che solo la Cassazione fa all’art. 4 Cost., in quanto, nei termini in cui viene formulato, esso sembra implicare che il datore di lavoro potrebbe limitare, alla stregua del comma 5 dell’art. 32 l. n. 183/2010, il risarcimento del danno dovuto iure communi al lavoratore anche per il periodo successivo alla sentenza di accertamento della nullità del termine con la conseguente «conversione » del rapporto52; mentre – come si è argomentato in precedenza53 – per tale periodo deve ritenersi pacifico che il prestatore di lavoro possa invocare le piene conseguenze risarcitorie di diritto comune dell’eventuale persistenza della mora accipiendi del datore. Non è ad ogni modo questa – come si ripete – la sede adatta per un’analisi articolata delle ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale e del vivace dibattito dottrinario in argomento. Sarebbe del resto prematuro e azzardato tentare di sciogliere qui i tanti problemi di carattere esegetico e sistematico posti – ben al di là delle dette questioni di legittimità costituzionale – dalle disposizioni commentate in questo scritto: saranno come sempre gli effettivi orientamenti che maturerà la prassi a fornire – nel tempo – le risposte ai dubbi e agli interrogativi che si sono posti. Quello che tuttavia sembra certo, e che possiamo assumere come non consolante conclusione di questa analisi, è che la l. n. 183/2010 è, con ogni probabilità, destinata a frustrare già in partenza uno degli obiettivi fondamentali perseguiti dal legislatore del «collegato» in vista della cd. «modernizzazione» del diritto del lavoro italiano: quello di ridurre il contenzioso, in particolare in materia di contratti a tempo determinato e di collaborazioni coordinate e continuative, anche se riconducibili ad un programma o ad un progetto.
* Novità in tema di rapporti a termine. Quando questo contributo era già in bozze, la Corte costituzionale, con sentenza 11.11.2011, n. 303, ha risolto le questioni di costituzionalità sollevate dal Tribunale di Trani e dalla Corte di cassazione con riguardo all’art. 32, co. 5, 6 e 7 del «collegato lavoro», di cui si è dato conto in particolare nel paragrafo conclusivo del saggio. La Corte ha dichiarato l’infondatezza di tutte le questioni sollevate in relazione agli artt. 3, 4, 11, 24, 101, 102, 111 e 117, co. 1, Cost., con una motivazione molto articolata che tuttavia non mancherà, prevedibilmente, di suscitare reazioni critiche, anche per i dubbi interpretativi che potrebbero aprirsi circa l’esatta delimitazione del periodo di tempo (cd. «intermedio») coperto dall’indennizzo forfetario di cui al co. 5 dell’art. 32 del «collegato lavoro».
1 V., in particolare, Trib. Trani, ord. 20.12.2010, in Mass. giur. lav., 2011, 41 ss., con commento critico di Vallebona, Indennità per il termine illegittimo: palese infondatezza delle accuse di incostituzionalità. E già Id., Una buona svolta nel diritto del lavoro: il «collegato» 2010, in Mass. giur. lav., 2010, 210 ss.
2 Parzialmente diverso è, al riguardo, il percorso motivazionale dell’ordinanza di rimessione 28.1.2011, n. 2112, della Corte di cassazione, nella quale, mentre si esclude un contrasto con l’art. 3, co. 1, Cost. (in quanto «il trattamento sfavorevole riservato al lavoratore precario, unico contraente spogliato della pienezza dei rimedi previsti dalla disciplina generale dei contratti», sarebbe giustificato dall’esigenza di dettare una disciplina speciale sorretta da un nuovo e ragionevole contemperamento degli interessi in gioco), si solleva, tuttavia, il dubbio sulla ragionevolezza intrinseca e sull’effettività del rimedio prefigurato dall’art. 32, co. 5, l. n. 183/2010, in relazione ai principi espressi dagli artt. 3, co. 2, 24 e 111 Cost., unitamente all’art. 4 della Carta fondamentale. Per valutazioni di diverso segno su tale ordinanza v. Pisani, Significato e legittimità costituzionale della disposizione sull’indennità per il lavoro a termine e Menghini, I commi 5-7 dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010: problemi interpretativi e di legittimità costituzionale, entrambi in Argomenti dir. lav., 2011, risp. 325 e 336 ss.
3 Mazzotta, La Giustizia del lavoro nella visione del «Collegato»: la disciplina dei licenziamenti, in Cinelli-Ferraro (a cura di), Il contenzioso del lavoro nella Legge 4 novembre 2010, n. 183 (Collegato lavoro), Torino, 2011, XXVII.
4 Di Majo, Le tutele contrattuali, Torino, 2009, 1.
5 Si rimanda al commento di Treu, 5.1.2.
6 Si veda il commento di Amoroso, 3.1.1 al quale si rinvia anche per l’analisi della discussa norma di cui all’art. 2, co. 54, d.l. 29.12.2010, n. 225, conv. nella l. 26.2.2011, n. 10, che, nell’aggiungere un comma 1 bis all’art. 32 l. n. 183/2010, ha inteso differire l’entrata in vigore delle nuove previsioni sui termini di impugnazione e di decadenza a decorrere dal 31.12.2011.
7 Cfr. Tosi, Il contratto di lavoro a tempo determinato nel «collegato lavoro» alla legge finanziaria, in Riv. it. dir. lav., 2010, I, 473 ss. In senso adesivo, Mimmo, Decadenza e regime sanzionatorio: come il «collegato lavoro» ha modificato la disciplina del contratto a termine, in Argomenti dir. lav., 2011, 86 ss.
8 Nel senso qui sostenuto Lamberti, L’estensione del regime delle decadenze (lavoro a termine, trasferimento d’azienda e rapporti interposi tori), in Cinelli-Ferraro (a cura di), Il contenzioso del lavoro nella Legge 4 novembre 2010, n. 183, cit., 251 ss.
9 Vallebona, Il Collegato lavoro: un bilancio tecnico, in Mass. giur. lav., 2010, 900 ss., qui 903, alla cui opinione aderisce Pisani, Significato e legittimità costituzionale della disposizione sull’indennità per il lavoro a termine, in Mass. giur. lav., 2011, 334.
10 In questo senso anche Corvino, L’impugnazione del contratto a termine, in Tiraboschi (a cura di), Collegato lavoro. Commento alla legge 4 novembre 2010, n. 183, Milano, 2010, 84.
11 Cfr. Tosi, Il contratto di lavoro, cit., 474.
12 Così Ianniruberto, Il nuovo regime delle decadenze nell’impugnazione degli atti datoriali, in Cinelli- Ferraro (a cura di), Il contenzioso del lavoro nella Legge 4 novembre 2010, n. 183, cit., 221 ss., qui 232.
13 Lamberti, L’estensione del regime delle decadenze, cit., 260.
14 Cfr. Gragnoli, L’impugnazione di atti diversi dal licenziamento, in Argomenti dir. lav., 2011, 232 ss., sul punto 248, il quale rileva come il lavoratore non possa «fare valere dopo il decorso dei sessanta giorni questioni inerenti ai vecchi contratti in quanto tali e, se vi sono stati più rapporti, l’esistenza di quelli precedenti, senza impugnazione tempestiva, serve solo a dare i presupposti per azioni di nullità riferite all’ultimo contratto».
15 Ianniruberto, Il nuovo regime, cit., 233.
16 Ibid. L’opinione rigettata (sostenuta da Tosi, Il contratto di lavoro, cit., 475) comporta, tra l’altro, il grave inconveniente che il lavoratore debba, in ipotesi, impugnare il termine nullo in pendenza dell’esecuzione del nuovo contratto a tempo determinato, esponendosi ad ovvie censure di incoerenza con i principi affermati a partire da Corte cost. n. 63/1966.
17 Si allude – come ovvio – a Poste Italiane Spa, alla cui esperienza contrattuale il comma 6 è chiaramente rivolto e ispirato.
18 La previsione dell’art. 32, co. 5, l. n. 183/2010, è formulata in termini generali, apparentemente inclusivi – come tali – anche dei rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni a regime contrattualizzato. Sennonché, è proprio il riferimento alla «conversione », quale presupposto applicativo del nuovo regime indennitario forfettario, a far dubitare dell’applicabilità della norma a tali rapporti, visto che per essi vale la regola speciale dettata dall’art. 36, co. 5, d.lgs. 30.3.2001, n. 165, alla cui stregua «in ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione». Detta disposizione precisa, del resto, che tali lavoratori hanno diritto al «risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative». Il coordinamento sistematico delle disposizioni in commento alla stregua del principio lex posterior generalis non derogat priori speciali, induce così a ritenere che l’area del lavoro pubblico privatizzato resti interamente regolata dalla speciale previsione dell’art. 36 d.lgs. n. 165/2001, con la conseguenza – a rigore – che, non sussistendo il presupposto applicativo della conversione, lo stesso risarcimento del danno dovuto al lavoratore debba continuare a essere determinato secondo i comuni principi civilistici, senza i limiti (e le presunzioni) stabiliti dall’art. 32, co. 5, l. n. 183/2010. Tale conclusione non è tuttavia immune da profili problematici: da un lato, perché per tal via si continuerebbe ad affidare agli ondivaghi orientamenti della giurisprudenza la determinazione (secondo criteri equitativi fortemente differenziati) del risarcimento del danno ex art. 36 d.lgs. n. 165/2001 (si veda la recente rassegna di Fenoglio, Il contratto a tempo determinato nel pubblico impiego: luci ed ombre della recente riforma legislativa, in Lav. dir., 2009, 283 ss.), inconveniente, questo, che ha già indotto qualche giudice ad impiegare anche in quest’area, come utile parametro di quantificazione del danno da illegittima reiterazione di contratti a termine, la regola del quinto comma dell’art. 32 del «collegato» (cfr. Trib. Treviso, 28.1.2011); dall’altro, perché – nonostante le numerose pronunce della Corte di giustizia dell’Unione europea e della Consulta – la questione dell’esclusione della conversione del rapporto nel campo del lavoro pubblico non può dirsi ancora del tutto risolta, come dimostra quella minoritaria (e discutibile) giurisprudenza di merito che è giunta ad applicare tale forma di rimedio disapplicando l’art. 36 d.lgs. n. 165/2001 per (supposto) contrasto con la dir. CE 1999/70 (v. Trib. Siena, 27.9.2010, in Lav. pubbl. amm., 2010, II, 869 ss., con commento di Preteroti, A proposito della possibile «disapplicazione» del divieto di costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato nella P.A.). Il tema, molto complesso, non può evidentemente essere approfondito in questa sede: si rinvia, anche per più ampi riferimenti, oltre che agli autori appena richiamati, a Rizzo, Il diritto europeo, le decisioni della Corte di giustizia, e le conseguenze della illegittima stipula di contratti di lavoro a tempo determinato nel settore pubblico; questioni ulteriori introdotte dall’entrata in vigore del Collegato lavoro (legge n. 183/2010), relazione svolta il 16.3.2011 nell’ambito del corso organizzato sul tema dal C.S.M., reperibile in www.tosclavgiur. it. Va altresì aggiunto, per incidens, che Trib. Napoli, 21.12.2010, ha escluso l’applicabilità dell’art. 32, co. 5, l. n. 183/2010, al lavoro marittimo. È infine dibattuta l’applicabilità della disposizione ai rapporti di lavoro a termine in regime di somministrazione (v., per opposte soluzioni, Trib. Roma, 25.11.2010, e Trib. Padova, 4.2.2011, nonché, per ulteriori ragguagli, De Marchis, Osservazioni critiche alle prime decisioni sulla legge 4 novembre 2010, n. 183, in Riv. giur. lav., 2011, II, 3 ss., spec., 22).
19 Invero, alla stregua della giurisprudenza prevalente, ma non univoca, formatasi dopo Cass., S.U., 5.3.1991, n. 2334, è corretto parlare di spettanze dovute a titolo risarcitorio, giacché, in presenza di un contratto sinallagmatico e in mancanza della prestazione lavorativa, non vi è diritto alla retribuzione da parte del lavoratore, ma – dal momento della costituzione in mora del datore ex art. 1217 c.c. – diritto al risarcimento del danno, sia pure commisurato alle retribuzioni perdute (e da cui scomputare l’eventuale aliunde perceptum). Per un riepilogo critico degli orientamenti della giurisprudenza v. da ultimo Pisani, Significato e legittimità costituzionale della disposizione sull’indennità per il lavoro a termine, cit., 332-333.
20 V., in tal senso, nella prevalente giurisprudenza, tra le altre, Trib. Milano, 2.12.2010, e Trib. Roma, 10.12.2010, le cui massime sono pubblicate in Riv. giur. lav., 2011, II, 54. Una completa rassegna critica della prima giurisprudenza in materia si trova in De Marchis, Osservazioni critiche, cit., 6 ss., e in Di Paola, e Fedele, Il contratto di lavoro a tempo determinato, Milano, 2011, 431 ss.
21 Cass., S.U., 8.10.2002, n. 14381.
22 Cass., sez. lav., 21.5.2008, n. 12985.
23 Cfr. da ultimo De Matteis, Le ordinanze di rimessione sulla nullità del termine, in Riv. giur. lav., 2011, I, 97 ss., spec. 101, ed Emiliani, La nuova indennità per la conversione del contratto di lavoro a tempo determinato, in Proia-Tiraboschi (a cura di), La riforma dei rapporti e delle controversie di lavoro. Commentario alla legge 4 novembre 2010, n. 183 (cd. Collegato lavoro), Milano, 2011, 205 ss.
24 In tal senso Menghini, Il regime delle impugnazioni, in Riv. giur. lav., 2011, I, 123 ss., spec. 143-144, che giustamente si discosta, sotto tale profilo, dalla più radicale conclusione alla cui stregua l’art. 32, co. 5 e 6, l. n. 183/2010, avrebbe introdotto uno speciale regime di nullità ex nunc (cfr. Vallebona, Il Collegato lavoro, cit., 904; Pisani, Significato e legittimità costituzionale della disposizione sull’indennità per il lavoro a termine, cit., 331), che impedirebbe alla pronuncia di «conversione» del giudice di produrre i consueti effetti retroattivi, utili almeno sotto il profilo della ricostruzione della anzianità giuridica del lavoratore. Sembra invero più corretto ricostruire la norma nel senso che la stessa si è limitata a introdurre, per il periodo anteriore alla sentenza dichiarativa della nullità parziale, un regime risarcitorio speciale, derogatorio (e sostitutivo) rispetto a quello di diritto comune, quale derivante dai principi generali in tema di mora credendi. Per la tesi, qui respinta, secondo cui resterebbe invece integro, per tutto il periodo successivo all’illegittima estromissione del lavoratore alla scadenza del termine, di cui sia stata accertata la nullità, anche l’obbligo del pagamento dei contributi previdenziali, v., infine, Ianniruberto, Il contratto a termine dopo la legge 4 novembre 2010, n. 183, in Mass. giur. lav., 2011, 17 ss., spec. 21.
25 Oltre agli autori citati alle note precedenti v. Tosi, Il contratto di lavoro, cit., 480 ss.; De Matteis, Le ordinanze di rimessione, cit., 101 ss., nonché, ma solo in parte, Emiliani, La nuova indennità, cit., 214, che – pur assumendo il carattere sostitutivo o alternativo dell’indennità rispetto alle conseguenze risarcitorie di diritto comune della mora accipiendi – ritiene, alla luce di un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma, che la stessa non possa coprire anche il danno non patrimoniale subito dal lavoratore, il quale, ove provato, dovrebbe essere risarcito alla stregua delle regole generali.
26 Si fa riferimento alla lettura, davvero contro-intuitiva rispetto al testo della norma, alla cui stregua il richiamo che questa fa in esordio alla «conversione » starebbe ad escluderne tout court gli effetti, che sarebbero interamente rimpiazzati dal pagamento della mera indennità risarcitoria, unica conseguenza riconnessa così all’accertamento della illegittimità dell’apposizione, della proroga o della rinnovazione del termine. Lettura invero inammissibile ben oltre il dato testuale e prospettabile più che altro per gusto dialettico, che non si giova neppure del richiamo allo sfortunato precedente dell’art. 4 bis d.lgs. n. 368/2001, che – introdotto dalla l. 6.8.2008, n. 133, e prontamente eliminato, per eclatante contrasto con l’art. 3 Cost., da Corte cost. n. 214/2009 – aveva almeno il pregio di prevedere espressamente l’indennizzo come unico obbligo gravante sul datore di lavoro, senza menzionare la conversione, per questo pacificamente esclusa.
27 V. Trib. Busto Arsizio, 29 novembre 2010, n. 528, in Guida lav., fasc. n. 49/2010, 18, con commento critico di Putaturo Donati, Sulla natura della nuova sanzione per la conversione del contratto a termine. È di qualche significato che tale interpretazione adeguatrice abbia ricevuto un avallo nella relazione n. 2 del 2011 dell’Ufficio del Massimario della Corte di cassazione, Problematiche interpretative dell’art. 32, commi 5-7, della legge n. 183/2010 alla luce della giurisprudenza comunitaria, CEDU, costituzionale e di legittimità. Va peraltro dato atto – come già accennato (supra, alla nota 2) e come meglio si dirà più avanti – che la Suprema Corte, nella prima occasione utile di applicazione della norma, ha ritenuto di dover accogliere l’interpretazione che assegna all’indennità forfettaria, per il suo carattere onnicomprensivo, natura sostitutiva del risarcimento di diritto comune, salvo – per ciò stesso – dubitare della legittimità costituzionale delle disposizioni del quinto e del sesto comma dell’art. 32 e sollevare, di conseguenza, la questione di costituzionalità in ordine ai medesimi per sospetto contrasto con gli artt. 3, 4, 24, 111 e 117 Cost.
28 Cossu-Giorgi, Novità in tema di conseguenze della «conversione» del contratto a tempo determinato, in Mass. giur. lav., 2010, 895 ss., qui 899.
29 Ibid.
30 In senso analogo, all’interno d’una articolata (e parzialmente diversa) ricostruzione della funzione «aggiuntiva» di tale indennità, cfr. Coppola, Collegato lavoro, ordinamento comunitario e poteri del giudice, in Riv. giur. lav., 2011, I, 69 ss., spec. 88 ss.
31 In argomento cfr., da ultimo, anche per ampi riferimenti, Panci, La conversione ex art. 69, comma 1, del d. lgs. n. 276/2003: la compressione dell’autonomia privata individuale fra dubbi di legittimità costituzionale e «interpretazioni correttive», in Riv. it. dir. lav., 2011, I, 323 ss.
32 Cfr. le diverse letture e valutazioni proposte in dottrina da Putrignano, La misura indennitaria per la mancata «conversione» delle collaborazioni a progetto, in Tiraboschi (a cura di), Collegato lavoro, cit., 101 ss.; Mutarelli, Il risarcimento del danno per i collaboratori non stabilizzati, in Cinelli-Ferraro (a cura di), Il contenzioso del lavoro, cit., 303 ss.; Pocobelli, Il regime speciale delle collaborazioni coordinate e continuative, in Proia-Tiraboschi (a cura di), La riforma dei rapporti e delle controversie di lavoro, cit., 423 ss.
33 Si tratta del termine ultimo entro il quale le imprese hanno potuto aderire alle procedure di stabilizzazione e di sanatoria dei diffusi abusi nell’utilizzo delle collaborazioni progetto, quali introdotte dalla legge finanziaria per il 2007 con una cospicua dote di vantaggi contributivi e fiscali, offrendo la stipulazione di un contratto di lavoro subordinato ai prestatori coinvolti. V. per tutti Pizzoferrato, La stabilizzazione dei posti di lavoro nella Finanziaria 2007, in Lav. giur., 2007, 221 ss., e Dondi, Il lavoro a progetto dopo la finanziaria per il 2007, in Argomenti dir. lav., 2008, 6 ss.
34 Né francamente sembra possibile inferire (come fa invece Pocobelli, Il regime speciale, cit., 425) da una norma così contingente e in qualche modo così estemporanea, come quella in parola, implicazioni sistematiche più generali sulla natura della conversione prevista dall’art. 69, co. 1, d.lgs. n. 276/2003 e sul regime di presunzione (assoluto o relativo) della natura subordinata del rapporto che essa, secondo una diffusa ricostruzione, per l’appunto implica (v. ancora Panci, La conversione ex art. 69, comma 1, del d. lgs. n. 276/2003, cit., spec. 331 ss.).
35 Cfr. Putrignano, La misura indennitaria, cit., 103, che fa leva sull’avverbio «unicamente» usato dal legislatore per «escludere che il committente debba altro al collaboratore oltre l’indennità».
36 Così, con ragionamento del tutto condivisibile, Pocobelli, Il regime speciale, cit., 427.
37 Ibid.
38 Cfr. in particolare Mutarelli, Il risarcimento del danno, cit., 310 ss., il quale giustamente mette in risalto il possibile contrasto anche con altri parametri costituzionali, quali quelli di cui agli artt. 101, 102 e 103 Cost., «in relazione al mutamento del regime giuridico di fattispecie già compiutesi», e – in correlazione con l’art. 6 della Convenzione di Roma – quelli offerti dagli artt. 111 e 117, co. 1, Cost. Né meno significativo, ove si assumesse il carattere esaustivo e assorbente dell’indennizzo forfettario, risulterebbe il contrasto «con le affermazioni compiute dalla Corte costituzionale in tema di indisponibilità del tipo negoziale» (ivi, 311), visto che l’obbligo per il giudice di applicare la sola indennità si risolverebbe in un indiretto svuotamento della riconduzione al tipo legale del lavoro subordinato della collaborazione coordinata e continuativa non genuina.
39 Per un’analisi più approfondita sia ad ogni modo consentito rinviare a Giubboni, Il contratto di lavoro a tempo determinato nella l. n. 183 del 2010, in Riv. it. dir. lav., 2011, I, 227 ss., spec. 249 ss., e a Id., I contratti a termine e il nuovo regime delle impugnazioni nel «Collegato lavoro », in Mass. giur. lav., 2011, 298 ss.
40 In tal senso, tra gli altri, Roccella, Il regime delle impugnazioni, in Riv. giur. lav., 2011, I, 11 ss.; Lamberti, L’estensione del regime delle decadenze, cit., 260; Ianniruberto, Il nuovo regime delle decadenze, cit., 233; Menghini, Il regime delle impugnazioni, cit., 134-135. Contra, sull’assunto della piena ragionevolezza delle scelte effettuate dal legislatore, v. invece Vallebona, Il Collegato lavoro, cit., 904, e Tosi, Il contratto a termine, cit., 476.
41 Ma v. la diversa valutazione di De Angelis, Collegato lavoro e diritto processuale: considerazioni di primo momento, in C.S.D.L.E. «Massimo D’Antona», wp 111/2010, 11.
42Gragnoli, L’impugnazione, cit., 248.
43 V., da ultimo, per una rigorosa interpretazione di tale principio, le conclusioni presentate il 5 aprile 2011 dall’Avvocato generale Yves Bot nella causa C- 108/10, Scattolon, ove completi riferimenti alla giurisprudenza della Corte.
44 Cfr. Inanniruberto, Il nuovo regime delle decadenze, cit., 233.
45 Cfr. in particolare le sentenze pronunciate dalla Corte di giustizia nelle cause: C-212/04, Adeneler; C-378/07-C-380/07, Angeldidaki et al.; C-98/09, Sorge. Nella vasta letteratura sul principio di non regresso v., da ultimo e per tutti, Corazza, Hard Times for Hard Bans: Fixed- Terms Work and So-Called Non-Regression Clauses in the Era of Flexibility, in European Law Journal, 2011, 385 ss.
46 Ivi compresi quelli pendenti dinanzi alla Cassazione, come chiarito dalla stessa Suprema Corte nella citata ordinanza del 28.1.2011 (supra, nota 2).
47 Oltre all’ordinanza di rimessione della Cassazione, ricordata alla nota precdente, v. l’ordinanza del Tribunale di Trani del 20.12.2010 (pure citata supra, alla nota 1).
48 Il Tribunale di Trani solleva, in parte qua, la questione anche in riferimento agli artt. 101 e 102 Cost., e richiama le fonti europee (l’art. 6 della Convenzione di Roma e l’art. 6 del Trattato sull’Unione europea) per prospettare la violazione anche dell’art. 11 della Carta fondamentale.
49 V. quanto si è argomentato in apertura di questo scritto, al § 1.
50 Punto 6, in fine, dell’ordinanza di rimessione n. 2112/2011 della Cassazione.
51 Cfr. soprattutto De Matteis, Le ordinanze di rimessione, cit., 105.
52 Per tale critica Pisani, Significato e legittimità costituzionale della disposizione sull’indennità per il lavoro a termine, cit., 330, e Menghini, I commi 5-7 dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010, cit., 346.
53 Supra, § 2.1