Il 2015 sarà ricordato come l’anno della crisi di Schengen, la cui tenuta è stata messa in questione dalla più grande emergenza profughi che l’Unione Europea ricordi e dall’avvicendarsi di eventi tragici, come i numerosi naufragi nel Mediterraneo o gli attentati terroristici di Parigi. Tali vicende hanno alimentato una spirale in cui tanto l’opinione pubblica quanto gli attori politici si sono avviluppati, senza essere in grado di districare la contraddizione tra esigenze umanitarie e spinte securitarie che da anni affligge le politiche di controllo della frontiera. La crisi del regime confinario europeo è infatti una crisi di lunga durata che affonda le sue radici negli sconvolgimenti geopolitici innescati dalle cosiddette primavere arabe. Già gli episodi del 2011 mostrarono come la sostenibilità del regime confinario europeo si basasse sulla collaborazione con i paesi terzi: venendo a mancare quest’ultima, l’intero sistema di controllo delle migrazioni rischiava di crollare. Altro punto di rottura furono poi la sentenza ‘Hirsi’ (2012) della Cedu e la tragedia di Lampedusa dell’ottobre 2013, che resero più complicato per i paesi membri continuare a perseguire le politiche di respingimento dei migranti che erano state al centro delle attività di pattugliamento del Mediterraneo negli anni precedenti.
L’Italia, insieme alla Grecia, è stata l’epicentro della crisi. Stando alle cifre rese note alla fine del 2015, essa ha accolto 153.000 migranti. Un numero che, pur segnando una riduzione rispetto al 2014, rappresenta un aumento del 565% rispetto alla media del decennio 2003-2013. Sin dal principio l’Italia ha privilegiato una risposta umanitaria, anche e soprattutto al fine di ottenere una revisione del regolamento Eu n. 604/2013 (c.d. regolamento Dublino) e la condivisione dell’onere dell’accoglienza con gli altri partner europei. A dispetto delle dichiarazioni di intenti, l’Unione Europea ha invece assunto un atteggiamento più riluttante. Solo dopo il naufragio dell’aprile 2015, in cui persero la vita oltre 800 migranti, essa ha accettato di estendere il mandato dell’operazione di Frontex denominata ‘Triton’, triplicandone il budget e dotandola di mezzi che fossero in grado di svolgere attività di soccorso in mare analoghe a quelle realizzate con l’operazione ‘Mare Nostrum’ durante il 2014. L’agenda europea sulle migrazioni adottata nel maggio 2015 prevede tuttavia solo parziali concessioni sul piano della ridistribuzione dell’onere dell’accoglienza, proponendo l’adozione di un piano per la ricollocazione dei richiedenti asilo e invitando la Commissione a presentare una proposta di riforma del ‘regolamento di Dublino’ che includa delle deroghe alla regola che impone al paese di primo ingresso l’onere di trattare la domanda di protezione internazionale. Mentre il destino della proposta è ancora incerto, la ricollocazione dei richiedenti asilo procede a rilento, al punto che il New York Times ha stimato che al ritmo attuale ci vorranno 750 anni per completare il piano.
Molto più decisa è stata invece la risposta sul piano delle misure di sicurezza. Non solo si è lanciata una controversa operazione militare contro i ‘trafficanti’ nel quadro della Pesc, ma con l’acuirsi della crisi del sistema Schengen la strategia della Commissione ha progressivamente subordinato le concessioni sul piano della redistribuzione dell’onere dell’accoglienza al rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne. Ciò è stato fatto essenzialmente in due modi: da un lato imprimendo un’accelerazione nella creazione dei cosiddetti hotspots, dall’altro proponendo un’ambiziosa riforma dell’agenzia Frontex, che dovrebbe trasformarsi in un autentico corpo di guardie di frontiera europeo.
Delle caratteristiche che tali hotspots dovranno assumere non si sa molto, anche perché essi sono privi di base legale nel diritto dell’Unione. Stando a quello che si legge nei documenti di indirizzo della Commissione, essi dovrebbero essere centri di ‘prima accoglienza’ in cui la registrazione dei migranti verrà effettuata con l’assistenza di Frontex e dell’Easo. Italia e Grecia sono state invitate ad identificare tali centri, precisandone anche la base legale nel diritto nazionale, in modo da conferire alle autorità di polizia il potere di trattenere i migranti in stato di detenzione in attesa del disbrigo delle pratiche di identificazione, esercitando anche poteri coercitivi nei confronti dei meno collaborativi. Al settembre 2015 il governo italiano aveva già individuato cinque hotspots in strutture ubicate a Pozzallo, Porto Empedocle, Trapani e Lampedusa, per una capacità di circa 1500 posti, anche se l’obiettivo è quello di aprire altre due strutture ad Augusta e Taranto. La loro base legale sembra doversi rintracciare nel D.lgs 142/2015, che ha recepito la direttiva 2013/33/Eu sull’accoglienza dei richiedenti asilo, stabilendo che le funzioni di prima assistenza ed identificazione continuano ad essere svolte nei centri già allestiti ai sensi del D.l. 30 ottobre 1995, n. 451. Sfortunatamente la disciplina dei centri di accoglienza in Italia è sempre stata carente, al punto che la dottrina giuridica non ha esitato a definirla come una forma di detenzione extra ordinem priva di tutele giurisdizionali. Per tale motivo numerose voci si sono levate per denunziare la debolezza della base legale dei nuovi hotspots, nonché il rischio di violazione dei diritti fondamentali alimentato dall’assenza di adeguate garanzie circa le condizioni di detenzione e l’effettività dell’esercizio del diritto d’asilo in luoghi lontani dallo sguardo della società civile e strettamente presidiati dalle forze di sicurezza.