Il controllo delle acque
La laguna di Venezia, analogamente a quelle che si svilupparono, quasi senza soluzioni di continuità, lungo il versante alto adriatico della pianura padana, si formò grazie all’azione combinata dei fiumi e delle correnti marine costiere, le quali presentano andamento costante da nord-est a sud-ovest. Azione cui si associarono e sovrapposero nel tempo altri fattori, fra i quali si possono ricordare le cicliche variazioni del livello medio del mare, i fenomeni più o meno accentuati di bradisismo e anche eventi naturali catastrofici, come le disastrose alluvioni del 589 d.C. ricordate da Paolo Diacono. La formazione di allineamenti sabbiosi, costituiti soprattutto da materiali provenienti dai bacini fluviali di Piave e Tagliamento, isolò dal mare vasti «laghi» costieri, nei quali sfociava la rete di corsi d’acqua dell’entroterra veneto-friulano. Un territorio anfibio, nel quale all’iniziale dominio del dolce — pur con sensibili variazioni nel tempo del tasso di salinità — subentrò quello del salso, quando prevalse l’apporto del mare che s’era aperto numerosi varchi lungo i cordoni litoranei o aveva invaso e risalito le foci dei fiumi.
Un ambiente peculiare, per molti aspetti inospitale, che sembrerebbe aver assunto caratteristiche e dimensioni paragonabili a quelle attuali in epoca relativamente tarda, nel quale la presenza d’insediamenti permanenti è attestata solo nei primi secoli dopo Cristo e dove soltanto nel Duecento iniziano ad essere documentati interventi centralmente coordinati dal nascente Comune Veneciarum. Interventi che nei secoli successivi verranno invece perseguìti con crescente determinazione per garantire accettabili opportunità di vita ad una comunità finalmente stabile e in rapida espansione, ad uno «Stato» di fatto indipendente, orientato sul mare con i suoi interessi primari, ma che aveva ormai definitivamente individuato la sua capitale nelle isole dell’arcipelago rialtino, strategicamente ubicate al centro della laguna di Venezia propriamente detta. Interventi dettati anche dalla consapevolezza che soltanto una decisa e continuamente rinnovata azione di «regimazione» e tutela avrebbe consentito il mantenimento dell’originaria «nicchia» lagunare, la cui sopravvivenza era inscindibilmente legata all’equilibrio, avvertito quanto mai fragile e precario, fra le opposte forze della natura. Un liquido territorio vitale che soltanto la costante azione correttiva e contenitiva dell’uomo avrebbe garantito perpetuo, proteggendolo dall’impeto demolitore del mare e preservandolo nel contempo dall’interramento alimentato dai fiumi.
Tentare una sintesi, anche se estrema, della plurisecolare azione perseguìta dai Veneziani, in ordine alla tutela della loro laguna, sarebbe del tutto fuori luogo; nel rinviare, per l’epoca tardo antica e alto medioevale, al primo volume di questa stessa Storia (1) e, più in generale, ad una nota bibliografica essenziale (2), in questa sede abbiamo preferito focalizzare l’attenzione su un arco cronologico più circoscritto e, a tutt’oggi, ancora relativamente poco indagato: il Seicento, secolo per molti aspetti contraddittorio, dominato da ricorrenti polemiche e inconclusi progetti l’un l’altro contrapposti. Un secolo che tuttavia vedrà perfezionarsi quel prolungato processo di «regimazione» idraulica che, avviato almeno dal tardo Duecento, verrà finalmente concluso con l’estromissione di gran parte dei corsi d’acqua che nell’invaso lagunare ancora sfociavano. Un secolo che si apre infatti con la realizzazione dei «tagli» del Po di Levante e della Brenta novissima, per chiudersi con quello del Sile e con il definitivo allontanamento della foce di Piave verso nord-est.
Alla fine del Seicento la laguna di Venezia è ormai un ambiente che potremmo definire, usando un termine forse improprio, totalmente artificiale. In altri termini un «territorio storicizzato», pesantemente modellato dall’uomo per bloccarne la naturale evoluzione. La costruzione di argini perimetrali lungo gran parte della gronda di terraferma, il generalizzato marginamento di isole e «sacche» all’interno dell’estuario, il rafforzamento delle difese a mare lungo i litorali, l’otturazione (già avviata in epoche remote) di canali e bocche portuali e la realizzazione di palade, moli guardiani ed altri manufatti a protezione delle tre bocche superstiti (i porti di San Nicolò di Lido, Malamocco e Chioggia), avevano infatti cristallizzato i naturali processi involutivi che avrebbero altrimenti inevitabilmente trasformato la laguna in un braccio di mare aperto, ovvero in terraferma. Interventi culminati con la costruzione, progettata fin dal tardo Seicento e concretamente avviata nel quinto decennio del secolo successivo, degli imponenti murazzi in pietra d’Istria lungo il fronte a mare dei litorali; ed infine, nel secolo scorso, delle sei grandi dighe foranee, l’ultima delle quali inaugurata solo nel 1934 per il porto di Chioggia.
Il completamento della «linea di conterminazione», di fatto già perfezionata sullo scorcio del Seicento (anche se compiutamente realizzata solo nel 1792), aveva inoltre consentito di fissare — anche, e soprattutto, sotto il profilo giuridico — una rigida demarcazione fra il territorio lagunare propriamente detto (nell’àmbito del quale vigeva una rigida normativa di tutela, mantenuta, pur con esiti spesso incerti, dai governi che alla veneta Repubblica subentrarono) e quello che invece laguna non era.
Lo sviluppo superficiale dell’invaso salmastro, alla fine del Settecento, era di circa 57.000 ettari, progressivamente ridottosi a causa delle bonifiche, colmate e costruzioni effettuate in più riprese all’interno dell’originaria conterminazione: basti citare, a mo’ d’esempio, la realizzazione — sulle barene dei Bottenighi — della prima e seconda Zona industriale di Marghera (circa 1.000 ettari), dell’areoporto di Tessera sulle omonime barene a nord di Venezia, delle bonifiche agricole estese per quasi 2.500 ettari lungo la sinistra idrografica del Taglio novissimo verso Chioggia. E ancora la creazione ex novo del «quartiere urbano» di Sant’Elena, delle isole di Sacca Sessola e Sacca Fisola, di varie altre «sacche» ai margini delle isole di Murano, Mazzorbo e della stessa Venezia, nonché lungo i versanti interni dei litorali di Malamocco, Pellestrina e Chioggia; la costruzione del ponte ferroviario translagunare fra Mestre-Marghera e Venezia, inaugurato nel 1846 e raddoppiato in larghezza pochi anni or sono, del parallelo ponte automobilistico aperto nel 1933, della strada su terrapieno che unisce Chioggia alla vicina terraferma, l’escavo di canali di navigazione d’inedita larghezza e profondità, atti a consentire il transito di navi da crociera e petroliere con pescaggio sempre maggiore, la chiusura non più con sbarramenti stagionali, bensì con arginature permanenti di vasti specchi d’acqua destinati alla «coltivazione» del pesce, sono alcune, fra le tante concause che hanno contribuito ad alterare radicalmente le caratteristiche fisiche, morfologiche e idrauliche dell’ambiente lagunare. Un territorio che, pur rimasto sostanzialmente invariato nella sua circonferenza e nei suoi principali insediamenti abitati e percorsi acquei, ha registrato al suo interno la scomparsa — negli ultimi duecento anni — di circa 15.000 ettari di barene: vale a dire circa i tre quarti del loro sviluppo superficiale complessivo documentato all’inizio dell’Ottocento.
Tentare la ricerca di facili paralleli con il passato, o impietosi paragoni fra tecnici e amministratori antichi, recenti e contemporanei, può essere esercizio quanto mai rischioso e fuorviante. La tutela oggi esercitata dagli organi periferici dello Stato, pur fra perduranti incertezze e con gravissimi ritardi, si rivolge ad una laguna intesa quale «ecosistema» da preservare, in primis, per i valori storico-paesaggistici e naturalistici che le sono propri; ma anche per essere la laguna cornice e sfondo dai quali la città che essa ingloba non può prescindere. Erano ben diverse le motivazioni della «tutela» in un passato meno recente, quando la «conservazione» era condizione essenziale per la stessa sopravvivenza, per garantire perpetuo e sicuro rifugio ad una comunità indipendente e sovrana. Quando la laguna era baluardo invalicabile e «spazio vitale», cui le esigenze e gli interessi dei singoli, ma anche delle vicine comunità di terraferma, per quanto legittimi andavano sempre e comunque subordinati. Venezia, anche dopo l’espansione del suo dominio nell’entroterra padano, non esitò mai ad agire in tal senso, senza troppo curarsi degli squilibri idraulico-ambientali che le opere di regimazione fluviale a protezione della laguna avrebbero potuto causare: si pensi, tra tutti, al rapido degrado e generalizzato impaludamento che subì la bassa pianura, fra Livenza e Piave, quando il corso di quest’ultimo fiume venne deviato verso nord-est, al fine di allontanarne la foce dalle bocche portuali di Lido e Treporti. La preoccupazione primaria, dopo l’esperienza della guerra di Chioggia (1379-1381) e ancor più di quella di Cambrai (1509), era di ordine strategico; non ultime, oltre all’esigenze di natura economico-commerciale (con particolare riferimento alla funzionalità dei porti marittimi e dei principali canali di navigazione endolitoranei), venivano anche considerazioni di tutela sanitaria, poiché s’intuiva che il prevalere del dolce generasse mal aere: l’abbandono delle antiche comunità insulari di Ammiana e Costanziaco, prossime a Torcello, costituiva precedente ben noto a tecnici e amministratori che paventavano analogo destino per Mazzorbo e Burano, per Murano, per la stessa Dominante.
Dio perdoni a chi ha causato li tagli Garzoni, con supposto che il dilattar l’acque oltre il dovere e condurle fuori de proprii e naturali canali fosse l’unico antidoto per migliorar la laguna.
Il monito di Ferigo Contarini, in apertura alla sua scrittura presentata, all’alba del 1673, nel magistrato alle acque, si trasforma in accorata esortazione, nell’incitamento ad agire senza frapporre altri indugi:
Dio perdoni, et illumini, chi pretende dar ad intendere come li tagli Garzoni già habbino fatto il male che potevano fare, non avedendosi che ‚remota causa removetur effectus’. Et ciò che è stato una volta male sarà sempre male, sin tanto che vi sarà la causa che lo produce (3).
La scrittura del Contarini rappresenta forse uno dei momenti conclusivi di quella tendenza che si potrebbe definire «anti-sabbadiniana» e che, nel progredire del XVII secolo, prese piede con crescente vigore tra savii ed esecutori, ma anche tra proti e ingegneri alle acque. Un diverso orientamento, in ordine alla tutela idraulica della laguna, che venne gradualmente consolidandosi; e che, nel rigettare l’antico assioma «gran laguna fa gran porto» — così caro proprio a Cristoforo Sabbadino — si richiamava piuttosto, pur senza nominarlo, alle tesi e proposte elaborate dal più celebre antagonista di quest’ultimo, vale a dire da Alvise Cornaro.
Lasciare libero sfogo al salso, anche nei frastagliati recessi paludosi che contornavano il bacino lagunare propriamente detto, veniva infatti ritenuto esiziale; da molti era anzi valutato la causa primaria del progressivo e generalizzato interrarsi di canali e bassifondali che le replicate campagne d’escavo (con «zappa e badil» prima, poi con «macchine cavafango» sempre più perfezionate) non erano state in grado di eliminare con accettabile efficacia. L’oggetto specifico della polemica, focalizzato da Ferigo Contarini, erano i tagli realizzati, con la soprintendenza dell’esecutor alle acque Zuanne Garzoni, verso la fine del secondo decennio del Seicento: si trattava di canalizzazioni rettilinee, realizzate in buon numero, col fine dichiarato di favorire l’espansione del flusso montante di marea in quei settori più lontani dalle bocche portuali litoranee; particolarmente in quelli ubicati a ridosso del Taglio novissimo di Brenta (realizzato, come si vedrà, fra 1609 e 1611), o incuneati nel «delta» di Sant’Ilario.
Giudizi contrastanti — ma sostanzialmente negativi — in ordine all’utilità di tali opere idrauliche erano già stati a suo tempo avanzati, drasticamente riassunti dal Contarini: avendo «un solo ingresso et uscita per la medema strada, causano il sconcerto del moto et le grandissime atterrationi»; provocavano cioè l’interramento di canali e laghi mediante la deposizione sia delle sabbie e torbide in sospensione, trasportate all’interno della laguna dal crescente del mare (che la ridotta forza del quotidiano riflusso non era in grado di ricondurre fuori dal porto di Malamocco), sia della materia proveniente dalla disgregazione delle barene, che una consolidata tradizione empirica (peraltro confermata da recenti contributi scientifici) sapeva soggette ad una erosione più accentuata quando il salso avesse sopravanzato il dolce.
In aperta polemica con i periti del magistrato alle acque, ch’egli invita a contraddittorio («che mi daranno occasione d’imparar qualche cosa dalla loro virtù»), Ferigo Contarini ribadisce l’urgenza di provvedere al ripristino ed al prolungamento delle antiche arginature di Fusina e di eliminare nel contempo, con l’otturazione dei tagli Garzoni, ogni inutile e dannosa commistione tra laguna «viva» e «morta». Precisa infine, in un’altra sua coeva scrittura, che le acque della «laguna morta» andavano mantenute negli alvei naturali dei canali, al fine di garantirne il più rapido corso, soprattutto nelle fasi di riflusso. Le massicce e dispendiose campagne di escavo, progettate anche in quel torno d’anni, si sarebbero rivelate inutili se non accompagnate da una preventiva, radicale rimozione delle cause che il lamentato degrado avevano provocato: vale a dire, in primis, i tagli Garzoni (4).
Riprendono piede nel dibattito alimentato da tecnici, esperti e «cultori» d’idraulica, che si farà particolarmente intenso nel terzo quarto del Seicento, le teorie e i progetti elaborati un secolo prima da Alvise Cornaro. Egli propendeva, in sintesi, per la realizzazione di una rigida perimetrazione endolagunare, con andamento parallelo a quello dei cordoni litoranei, in grado di separare — mediante arginature adeguate e grandi canali circondari — la laguna «viva» alimentata due volte al giorno dalle maree da quella ch’era invece solo eccezionalmente invasa, nell’intera sua estensione, dal flusso e riflusso del mare.
Era nuovamente tornata attuale la vecchia proposta di garantire incremento alla circolazione delle acque, profondità adeguata ai canali di navigazione convergenti a raggiera verso la Dominante, funzionalità e sufficiente pescaggio alle bocche portuali, anche realizzando una sensibile riduzione dell’invaso lagunare propriamente detto. Riduzione che si sarebbe potuta facilmente ottenere prolungando, lungo i margini della «laguna morta», l’argine di «conterminazione» di fatto attestato per un buon tratto, a decorrere dal 1611, lungo la sinistra idrografica del Taglio novissimo di Brenta (l’argine, per intenderci, sul quale venne costruita l’attuale strada statale Romea). Un’operazione, questa — e non s’era mancato di porlo in rilievo —, che richiedeva impegno finanziario tutto sommato contenuto e che avrebbe anzi garantito consistenti introiti per l’erario, grazie al recupero ed alla vendita di vaste estensioni sterili o paludose così trasformate in fertili terreni coltivabili.
I numerosi progetti ispirati in tal senso, presentati da tecnici e «consulenti» anche esterni al magistrato alle acque (relativamente ai quali si sono conservati cospicui riscontri documentari nell’archivio di quell’ufficio), non mancarono di influenzare gli stessi savii ed esecutori, nel cui àmbito erano invece di regola sempre prevalse posizioni più vicine a quelle del Sabbadino.
Emblematica di tale mutamento d’indirizzi è una scrittura, presentata in senato dagli stessi savii ed esecutori nel 1664, che sposava molte delle tesi propugnate da Ferigo Contarini, ma anche dal procuratore di San Marco Nicolò Sagredo (e, sia pur con qualche distinzione, dai proti del magistrato) e ricordava che, fino agli albori del secolo, «tutta la laguna che soprasta a Venezia, per il gran spaccio che camina da Dese sino incontro al porto di Malamocco, era difesa da forti arzeri, escluse tottalmente l’acque dolci. In che haveva sudato lungamente la vigilanza de’ nostri benemeriti progenitori [...]». Savii ed esecutori lamentavano che, dopo l’escavo del Taglio novissimo, erano state abbandonate a se stesse le arginature realizzate fin dal Trecento per deviare le torbide della Brenta verso occidente, allontanandole da Venezia, erano stati rimossi gli antichi carri di Marghera e Lizza Fusina (che consentivano alle imbarcazioni di superare le arginature stesse) e che infine, essendo «per disgracia publica prevaluto all’hora una massima: che gran laguna fa gran porto», erano stati aperti numerosi varchi per garantire il montar del salso. Massima, attribuita a Cristoforo Sabbadino, che lo stesso Ferigo Contarini richiama polemicamente in altra sua scrittura, rimarcando che il suo estensore non avesse valutato che le acque di marea entrano, ma non sempre escono dai porti due volte al giorno, bensì «spaciza [divagano] su e in giù, che si chiamano acque vagantive» (5). Il magistrato s’era ormai fatto convinto che fossero questi i principali motivi a cui imputare l’esteso interrimento e a cui si doveva porre rimedio non tanto con interventi contingenti volti a contenerne gli effetti più evidenti, bensì affrontandone radicalmente le cause: separando, una volta per tutte, le aree ritenute irrimediabilmente degradate ed escludendo ogni loro possibile contatto con un bacino lagunare certo meno esteso ma finalmente risanato. Non s’era mancato di mettere altresì in rilievo l’inutilità, nonché il costo difficilmente sostenibile, delle sistematiche campagne d’escavo che si continuavano a proporre, anche nel pregadi: il breve e apparente sollievo in tal modo ottenuto alla perpetua atterazione veniva anzi paragonato, con efficace metafora, a quello d’una nave con «li fianchi sdrusciti», alla quale ci si fosse limitati a rimuovere l’acqua che filtrava nelle sentine, o a quello d’una cisterna che non poteva garantire acqua potabile se non si risanavano le sponze guastate dal salso (6).
Il fiorire di numerosissimi «pareri» e progetti, come vedremo sostanzialmente concordi con quanto postulava la «scrittura» del magistrato (7), non partorirà tuttavia, nel decennio successivo, alcun provvedimento concreto. Nell’aprile 1674 Ferigo Contarini presenterà un’altra sua scrittura al magistrato, riassuntiva di quelle precedenti ed ancor più critica in ordine, appunto, alla prolungata incertezza dimostrata dagli organi d’indirizzo politico. Egli non mancherà di rimarcare la sostanziale identità fra le molteplici ipotesi prodotte in quel torno d’anni, tutte riconducibili all’opportunità di separare in qualche maniera la laguna «viva» da quella «morta», e propone di procedere alla sperimentazione di un’arginatura, che descrive fornita di aperture e porte, in grado di aumentare la circolazione dell’acqua nei canali di navigazione, «essendo il tutto senza minomo pericolo d’alcun pregiuditio della laguna, ma solo si resta sul vantagio di riceverne il benefittio» (8).
Pochi mesi dopo, tuttavia, con la parte del 7 settembre 1674, il pregadi («non apparendo del beneffitio la propositione di conterminar la laguna con l’arzere e con la divisione raccordata») effettuerà una decisa correzione di rotta, assecondando il circostanziato parere presentato da una speciale commissione di sei «delegati alla laguna» che lo stesso consiglio aveva in precedenza nominata e che invita, quanto all’arzere, a «cessar di riflettervi». I delegati, a consuntivo del loro accurato itinerario endolagunare, condotto «osservando in molti siti, così della viva che della morta, le qualità de’ canali, gl’effetti dell’acque, le barene, i palludi, con tutte quell’altre più considerabili circostanze che possino sensibilmente pregiudicarla» (itinerario nel corso del quale avevano «compreso con l’occhio, dalle misure de’ scandagli et dall’informationi de’ periti, come d’altri vechi e prattici pescadori, non esservi nelle parti più rimote quel danno così sensibile e pericoloso che universalmente è temuto»), rigettano decisamente le proposte arginature, in ordine alle quali paventano non solo la «gravità del dispendio», ma anche la possibilità d’imprevedibili inconvenienti e di «altre gravissime conseguenze, così politiche che naturali». Nuove arginature endolagunari avrebbero cioè ottenuto soltanto il «mero restringimento» dell’invaso, senza alcun duraturo effetto benefico; facendo sì che anzi «nel corso di pocco tempo succedano le stesse atterrationi nell’estremità di essa laguna ristretta».
Il degrado più evidente viene piuttosto riscontrato nelle immediate adiacenze della capitale ed il pregadi dispone che i delegati rinnovino i sopralluoghi, riferendo entro due mesi sul da farsi, «essendo intentione del senato che s’intraprendino i lavori che saran raccordati con la più espedita e sollecita deliberatione, onde si principii a portar a questa Dominante, et al respiro di quest’aria, il beneffitio ch’è così necessario» (9).
Questa fondamentale correzione di rotta, forse non a caso, era maturata in coincidenza con l’avvio delle impegnative opere di regimazione idraulica e deviazione di corsi d’acqua intraprese lungo la gronda lagunare a nord di Venezia e che lo stesso senato aveva nuovamente sollecitato fin dal 1664, disponendo, «oltra lo sboccamento della Piave, la diversione delli quatro fiumi decretatti, che devono nell’alveo della Piave stessa portarsi» (10). Opere che furono concluse nel 1683 con l’inaugurazione del Taglio di Sile e delle complementari conche fluviali alle Portegrandi e alle Trepalade: l’ultimo intervento di grande portata effettuato dalla Serenissima sul «bacino scolante» in laguna, che consentì di dare finalmente concreta attuazione all’estromissione — progettata da Cristoforo Sabbadino e mai, peraltro, portata a definitivo compimento — di una quota non trascurabile del carico d’acque dolci gravitante sull’estuario settentrionale.
Principale motivo di preoccupazione, concordemente segnalato lungo tutto il XVI secolo, era l’eccesso d’acque dolci (vettore di torbide e sedimenti, nutrimento del canneto e quindi del «mal aere») massicciamente immesso in laguna da fiumi e scoladori (canalizzazioni artificiali al servizio di terreni agricoli); sull’urgenza di estrometterle — con qualche distinzione e pur nella sostanziale divergenza di vedute in ordine agli obiettivi da conseguire — erano concordi anche gli opposti «partiti» che avevano in Cristoforo Sabbadino ed in Alvise Cornaro gli esponenti più noti e attivi.
Le esortazioni del Sabbadino non si limitavano tuttavia a perorare tale primaria necessità: andava altresì eliminato qualsivoglia e per quanto minimo impedimento, fosse esso naturale ovvero opera dell’uomo, che ostasse all’azione purificatrice del mare: solo così «la laguna e tutto il suo contorno serà dominato dal salso» (11). Obiettivi che verranno sempre riproposti nell’agire — preventivo ed anche repressivo — del magistrato alle acque. L’imperativo sabbadiniano di «far che la laguna si faci granda e maggior di quel che la s’attrova» (12) permea, infatti, le parti e terminazioni che rinnovano continuamente, pur con esiti spesso incerti, l’ordine di procedere alla distruzione di arginature e valli da pesca e alla rimozione di sbarramenti e financo di singoli pali, ribadendo l’assoluto divieto di coltura o di pascolo all’interno dell’ancóra non ben definita «linea di conterminazione» e imponendo altresì la costruzione, lungo le sponde della città, delle isole, dei lidi e dei possedimenti agricoli di gronda, di solide fondamente perimetrali atte a trattenere il dilavarsi del terreno.
All’intransigenza del Sabbadino si contrappone l’ottica maggiormente disincantata del Cornaro, convinto che la laguna «si può proteggere chiudendola verso la terraferma con argini che le siano da riparo; una laguna che può anche essere ridotta nelle sue dimensioni, rinunciando all’espandersi delle acque nei canneti che la orlano, e lasciando che si imbonisca nelle parti in cui — come a Chioggia — l’imbonimento pare ormai irreparabile. L’importante è che rimanga lo spazio lagunare in cui si specchia Venezia, e che esso sia di una vastità sufficiente a proteggere la città da chi volesse attaccarla» (13).
Facile fu l’accusa, rivolta al Cornaro da Cristoforo Sabbadino, d’essere (con la sua proposta di bonifica, e quindi di riduzione a coltura dei paludosi contorni dell’estuario) interessato fautore di quel «partito agrario» che premeva per l’intensificazione della produzione agricola, anche a discapito della conservazione, la più ampia possibile, del bacino lagunare salmastro; e «si avverte che dietro di loro, a sostenerli, magari a spronarli, ci sono due settori ben distinti della classe dirigente veneziana, e che il vigore con cui polemizzano tra di loro dipende dall’appoggio da cui si sentono sostenuti» (14).
Sono tuttavia le soluzioni pratiche, presentate dal Cornaro in supporto alla propria visione del «problema lagunare», che maggiormente preme segnalare in questa sede, anche perché esse ebbero non secondaria influenza nelle rinnovate diatribe sviluppatesi nel secolo successivo. Accanto alla progettata «divisione» della laguna (vale a dire al restringimento del suo sviluppo superficiale, così avversato dai «sabbadiniani» e così attuale persino nel recente contendere fra tecnici, ma anche fra troppi «cultori» dilettanti), va segnalata la sua proposta di mantenere aperta, lungo i cordoni litoranei, una sola bocca portuale, che l’accresciuto flusso e riflusso delle maree avrebbe di conseguenza meglio conservata (garantendo pescaggio adeguato alle esigenze mercantili e militari). Proposta che verrà ripresa e sviluppata in numerosi aricordi e progetti elaborati nel secolo successivo.
Nel secondo Cinquecento, per ovviare al progrediente interramento, si continua a postulare che «non vi è altro rimedio che la vanga et il badil», come esorta Giovan Battista Luran nel 1578, dopo aver constatato che «per tutto è terra ferma, tutto è secco». Sono le medesime parole usate da un altro dei grandi tecnici al servizio della Repubblica: il veronese Michele Sammicheli, contemporaneo del Sabbadino, il quale (anche per la sua specifica formazione e competenza quale architetto «militare»), paventava funeste conseguenze innanzitutto d’ordine strategico. Affinché «l’atterrar de quella si vadi differendo quanto piui si possi», la laguna andava pertanto «cavada cum la zappa et badil, ché li altri inzegni sono chimere: la zappa et badil è la vita». Era con tali modesti ma efficaci strumenti che, senza frapporre più indugi né lesinare risorse, si doveva continuamente, anno dopo anno, «andar scavazando le velme et dar il corso suo alle acque» (15).
Il Luran aveva a sua volta proposto l’ingaggio di quattro o cinquemila contadini, a cui dare solo vitto e alloggio, — nei mesi invernali di ridotta attività agricola — per «in tempo poi delle secche che regnano, ponerli a cavar questa laguna suso per le velme, che con le zosane stariano discoperte. Et così in pochi anni se darebbe buon fondo a quella, et con poca spesa del publico» (16).
Lo stato infelicissimo della laguna era stato ben sintetizzato nel 1568 in una scrittura letta dal savio alle acque Dolfin Valier ai colleghi del magistrato, «come quello che di qualche giorno prima che le vostre signorie son entratto a questo carico [...] offerendomi esser non solamente servo a brazzo a brazzo, ma obendientissimo essecutore a quello che giudicheranno et dellibereranno che sii bene et apposito»:
Per tutta questa città et Canal grando sonno fatte cavane con palli da ogn’uno chi vuole. Schoazze et altre immonditie sono tratte ne li rii et in molti altri luochi senza alcuna sorte di rispetto. La navigation del Friuli è prossima a perdersi afatto, per causa del Calligho, del Cavallin et della Zuccarina, essendo tutti questi alvei amonidi, né essendovi quei remedii et provisioni ordinate dalle leggi, nelle escresentie della Piave portano grandissima quantità de materia nella laguna. La Taglia del Re è destrutta, né se li fa provision che vaglia. Molti arzeri nella Piave sonno aperti et cressendo l’acque della ditta, come presto potrà fare, tutto sarà con estremo danno della laguna. [...] La navigatione solita di Lombardia è tutta perdutta, per la qualle non possono più passar le gondole; et per questo rispetto si è fatta cavar la Cavanella da Fosson, fattovi le sue porte et di giorno in giorno si potrà sboccar, ma perché si torneria tosto per l’escresentie del Ladese [sic = Adige] a monire col nuovo travaglio et danno di essa navigatione. [...] Spesso bisogna acconciar arzeri, rotte della Brenta et il parador da Brondolo, per conservar più che si può la laguna di Chioza, la qual si va tuttavia in bona parte atterrando. Et questo perché non vi essendo alcuno che le guarda et che n’habbia cura, li detti arzeri sonno danifficati et tagliati, cusì da quelli che sonno sul Bacchion come da altri che cerchano d’atterrar i luochi che sonno verso Chioza, dentro essi arzeri verso la laguna.
Disordini ed inosservanza delle leggi che coinvolgono altresì il proto ai lidi (i quali ultimi «hanno bisogno di molti lavori»), che «si è partito un mese e mezo fa senza lassar alcun ordine»; ed anche gli stessi bassi ministri esecutivi, che invece di vigilare e reprimere gli abusi danno invece pessimo esempio:
Molte leggi et terminationi sonno neglette et interrotte, da che molti si fanno licito di oprare molte cose che sonno di grandissimo pregiuditio di questi canali et laguna; è a tanto redutta questa licentia et libertà che si pigliano le genti, che li medesmi homeni del capitanio dall’acque, publici ministri a quali incombe il carico de prohibir et devedar la trasgressione delle leggi et ordeni, sonno quelli che si fanno licito di prohibir et commandar, per ordene de i savii et essecutori, alli pallatieri et soprastanti che permettano et tollerano quello ch’in tutto è prohibito dalle leggi. Il che se si tollerarà senza farne alcuna dimostratione, cresserà tanto la inobbedientia et insolentia, et de gl’altri ministri et de tutti i particulari, che sarà grandissima difficultà poi a potervi provedere che sia in tempo di giovamento (17).
«Disordini» continuamente rilevati lungo tutto il prosieguo del secolo ed all’aprirsi di quello successivo, cui si tenta in varie maniere di rimediare, come ad esempio proporrà nel 1608 il fedelissimo servitor Paulo Campana che, anche per ricondurre la circolazione idraulica endolagunare al suo «libero e naturale corso», reputa necessario
sboccar et levar via le intestadure delli rami, ghebi et rivi di queli canali fatti dalli primi habitanti, rimovendo li impedimenti che divertiscono l’acqua da propri vasi; profondando col badil quelli anco dove farà bisogno per facilitar il corso delle acque, acciò per quelle vie si possano espurgar le immondicie che causano l’atterratione, et ricever il flusso et riflusso proprio senza impedimento (18).
Man mano che ci s’inoltra nel nuovo secolo iniziano invece a farsi strada pareri discordanti in merito all’efficacia delle teorie sabbadiniane (e del Sammicheli) per ovviare allo spaventoso interrimento della laguna e dei porti, che le visite dei periti e gli itinerarii del magistrato continuamente segnalano. Vengono pesantemente criticate in particolare, come s’è visto, le canalizzazioni artificiali realizzate per assecondare il montar delle acque salse nelle aree marginali comprese fra la Brenta novissima e Marghera. Anche se va detto che non cesseranno mai di riecheggiare i moniti del Sabbadino; in apertura alla sua scrittura, presentata ai savii ed esecutori il 5 maggio 1638, il protho alla laguna Bernardin Contin ripropone così i timori (ed i nemici) di sempre, esortando all’azione:
La laguna, madre non solo di questa serenissima città, ma sacrosante mura per la stabile sua sicurezza et unico fondamento della sua conservatione e libertà, è hora ridota a si deplorabil stato che, persa la pristina sua ampiezza, resta talmente ristretta da mortali suoi nemici, fiumi et huomini, che se non sarano dalla publica sapienza con ogni maggior diligenza e celerità proveduto a sì gravi mali, ne seguirà in breve corso di anni la total sua rovina, con perdita della più meravigliosa città che nell’universo s’attrovi (19).
Anche i proposti rimedii «per conservar essa laguna et farla etterna» mutuano quelli ribaditi dal Sabbadino nelle sue scritture, le quali vengono ancóra attentamente studiate dal magistrato (e financo portate e «lette», insieme ai complementari disegni, nei periodici sopralluoghi condotti ‚sul campo’) perché considerate il necessario bagaglio teorico per la miglior programmazione della propria attività istituzionale. «Rimedii» che peraltro solo in minima parte erano stati portati a compimento, dei quali il Contin ribadisce l’urgenza:
Prima alluntanar la Piave dalla laguna più che sia possibile, mandandola al porto Cortelazzo; et se bene il danno della laguna non cesserebbe immediate per esser di già preparata molta matteria nel mare, ma solo continuerebbe per qualche anno, sino a tanto che essa matteria fusse o respinta dalla marema alli lidi, over restasse trattenuta alongo di essi dalle palade che a tal effetto si mantengono [...] (20). Secondo divertir li fiumi dalla laguna, Marzenego, Dese, Zero et Sile, mandandoli al mare o per l’alveo della Piave, che alluntanato resterebbe asciuto, ovvero per altro alveo separato ma ben inarzerato verso la laguna [...]. Per terzo et ultimo bisogna conservar la laguna con li suoi canali profondi, escavando quelli che sono atterati, agrandendo quelli che sono ristretti et abbassando quelli paludi che impediscono il corso delle acque. Et, finalmente, levando ogni impedimento che trattengono il corso delle acque [...].
Riecheggiano nel Contin, anche nelle esortazioni conclusive, i caposaldi delle opinioni sabbadiniane: «il primo conservar li litti, il secondo levar da quella le fiumare correnti e continue, il terzo levar via tutti li impedimenti che ostono all’acqua del mare» (21). Vi sono tuttavia anche elementi di valutazione da esse divergenti, che nel prosieguo del secolo diverranno uno dei principali motivi di discussione e contrasto anche in seno allo stesso magistrato alle acque: tutti ancóra una volta riconducibili, in estrema sintesi, all’opportunità (decisamente avversata da quello che continueremo a definire «partito sabbadiniano») di separare rigidamente, con adeguate arginature e paralleli canali circondarii, la laguna «viva» da quella che le acque del mare raggiungevano solo sporadicamente, in occasione di sciroccali, mareggiate e soracomuni.
Nel caso specifico Contin si riferiva al territorio lagunare di gronda compreso fra Fusina e Marghera, ove l’accennato progressivo collasso degli antichi argini che costringevano le acque della Brenta verso il porto di Malamocco aveva provocato un tangibile degrado ambientale, da più parti imputato, come s’è detto in apertura, ai tagli realizzati per consentire il flusso del mare nella «laguna morta». Un territorio tipicamente deltizio (il cosiddetto «delta Ilariano», antica area di confine fra il Dogado e il Padovano), ove anche dopo la parziale estromissione della Brenta continuavano a sversare numerosi corsi d’acqua e scoladori minori e nell’àmbito del quale, nonostante replicate parti del collegio alle acque e dello stesso senato, non era ancora stata portata a compimento una definitiva «linea di conterminazione»: vale a dire un preciso confine giuridico, ancor prima che fisico, fra terraferma e laguna, entità soggette a normative e vincoli diversi. Linea che avrebbe dovuto rappresentare la continuazione di quella realizzata nel secondo decennio del secolo — contestualmente all’escavo della Brenta novissima — fra l’estremità occidentale del veneto estuario, a sud di Chioggia, e la stessa Lizza Fusina. E che il pregadi, con parte del 12 luglio 1636, aveva disposto fosse portata a compimento «senza alcuna ben che minima dilatione» (22).
Lo stesso Contin riteneva indispensabile «anco proveder all’alveo del Soprabondante, acciò non capiti le sue acque nella laguna di Venetia. Et sarà col farli un novo cavamento et separar le acque delli scoladori della seconda presa da quelle soprabondante della Brenta magra. Et di tutta la terra che caveranno dal novo cavamento far un arzere dalla parte della laguna per assicurarsi maggiormente dalle rotte» (23).
È l’area dove all’aprirsi del secolo il pregadi, con parte del 23 giugno 1604, valutati i pareri presentati dalle speciali commissioni a ciò deputate, aveva infatti dato avvio alla regolatione della Brenta Magra e del Muson, rimarcando «che la dilatione nell’essequirla apporterà sicura et indubitatamente la ruina et perdita del porto et laguna di Malamocco et di tutta la parte verso Chioza, cosa ch’è di quela somma importanza et notabile consequenza alla salute della città et a tutti gli interessi publici». Le operazioni verranno avviate con terminazione di uno speciale collegio di 8 «delegati sopra la conterminazione della laguna», il quale, sulla scorta delle relazioni e dei disegni redatti dai tecnici del magistrato, aveva definiti tracciato ed effetti giuridici della «linea di conterminazione» stessa:
tutta la laguna che resta di sotto dela linea rossa, tirata nel dissegno fatto fare da questo collegio per il presente negotio, debba restar libera cossì per lunghezza come per larghezza, né in quella si possa meter badile o zappa, né piantar, arrare, far cavamenti, arzeri, fabriche o altra sorte di lavoro imaginabile che possa impedire il montar liberamente delle acque salse, sotto tutte le penne statuite dalle leggi in materia di contrafatione. Con riserva solo delle raggioni dei possessori, quanto all’usufrutto de’ pascoli et herbe per li legittimi titoli del loro possesso. Et oltre la sopraditta linea, dalla parte di sopra dapertutto per pertiche cento, non possino esser fatti arzeri d’alcuna sorte et debba esser fatta la conterminazione per la linea sopraditta o con un cavamento non arzerato (et la terra che si caverà da quello debba esser riposta dove sarà stimato più espediente), overo con li infrascritti termini di pietra viva, come meglio sarà giudicato (24).
Le operazioni, approvate nel pregadi l’8 marzo 1611, si concluderanno nel corso dell’anno stesso, contestualmente al completamento del Taglio novissimo di Brenta, per proseguire quindi, per lotti successivi e con alterne vicende, fino al 1792, allorché la «linea» definitiva (ancor oggi in vigore, con alcune recentissime marginali modifiche al suo tracciato) venne finalmente completata lungo l’intero perimetro della laguna (25).
Pochi anni dopo un altro Contin, il proto alle acque Tommaso (padre di Bernardin, che all’epoca ricopriva la carica di viceproto (26)), segnala l’insorgere di vari inconvenienti, che la nuova imponente opera di diversione fluviale stava già provocando, nonché l’urgenza di realizzare adeguate arginature a protezione del taglio, «acciò non rompino come ogn’anno fano con le sue escresenzie, che diretivamente viene nella laguna con grandissimo danno di essa et porti insieme. Et similmente queli verso le terre [vale a dire le arginature della sponda destra, a protezione dei terreni agricoli], perché, rompendo come ha fatto, vano sopra li terreni aradi et passa per li ponticanalli in essa laguna, facendo li danni come di sopra» (27).
I prospetti degli impegni di spesa, ordinari e straordinari, confermano l’indirizzo assolutamente prevalente nell’azione del magistrato in ordine all’escavo di tagli e canalizzazioni artificiali e, soprattutto, all’erezione o adeguamento delle relative arginature; in un elenco dell’annuale «bisogno et spesa del mio carico», redatto verso il 1630, il proto alle fiumare Nicolò Galli segnala infatti che ben 10.000 ducati, su un totale di 14.270, erano destinati nel «formar, alzar et spalegiar arzeri della Brenta novissima dalla parte della laguna, et continuarli dalla parte della terra», 600 ducati per le arginature in Piave ed altri importi più contenuti per la conservatione o il cavamento della Cavanella di Po, della Cavanella di Fosson e di altri corsi d’acqua, nonché della Seriola creata per condurre l’acqua potabile dal Dolo ai Moranzani.
Spese queste, considerate dal Galli di «ordinaria manutenzione», che presupponevano tuttavia la preventiva esecuzione di operazioni «straordinarie», con un impegno di oltre 50.000 ducati, per nuove canalizzazioni fra Brondolo ed il Po, per l’adeguamento del Taglio novissimo («cioè alzarlo piedi tre almeno et allargarlo la metà dove è magnato da restíe»), per l’escavo della Fossa Gradeniga (l’attuale Canal Salso, che garantiva l’essenziale collegamento acqueo fra Mestre e Venezia, ove «non si può navigar se non con colme d’acqua») e infine per portare a compimento il nuovo taglio del Cavallino, destinato a sostituire l’ormai inadeguato canale del Caligo nel collegamento endolitoraneo tra Piave e laguna (28).
La conclusione delle opere di deviazione fluviale nel bacino occidentale dell’estuario, pur da molti contestata per le sue deleterie conseguenze in ordine all’impaludamento di vaste estensioni lagunari di gronda ed alla praticabilità di canali e porti, farà comunque tornar d’attualità l’esigenza di procedere ad analoghe operazioni (peraltro progettate fin dal 1561), anche sui principali corsi d’acqua che sfociavano invece nel bacino orientale: i cosiddetti «quattro fiumi», vale a dire Sile, Zero, Dese e Marzenego. È lo stesso Tommaso Contin a rimarcare in una sua scrittura del 1622 l’inerzia degli organi superiori («perché vedo che per il corso de anni 61 non è stato fatto provissione alcuna a detta regolazione, sebene sono statti fatti alcuni senatori illustrissimi per riveder detta regolazione, che fu l’anno 1620, 24 aprile, quali ancora non s’hano ridoti, nonché messo all’ordine per andar fuori»), e a segnalare «l’atterrazioni che si ha fatto in quele parti, d’anni dieci in qua, ch’è cosa lacrimabille» ed il conseguente «cativo aiere» che aveva reso impossibile la permanenza di stabili comunità nella laguna torcellana (29).
Non sarebbe stato comunque possibile perfezionare l’auspicata diversione dei «quattro fiumi» all’esterno dell’invaso salmastro (come non manca di rilevare lo stesso Contin) se prima non si fosse proceduto alla deviazione dell’alveo della Piave verso nord-est, per allontanarne la foce dalla laguna; operazione prevista anch’essa nel secolo precedente quando, dopo la realizzazione del poderoso «arzere di San Marco» (avviata nel 1534 e conclusa dieci anni dopo, lungo la sinistra idrografica di quel fiume rapacissimo, al fine di impedire alle frequenti e disastrose sue piene torrentizie di entrare in laguna), il collegio alle acque aveva deliberato nel 1560 di far «condur la Piave a porto Cortelazzo per benefitio del porto et della laguna [...] de sotto la Cava Zuccarina da Gesolo a porto Cortelazzo, cavando ove sarà bisogno l’alveo largo quanto è la Piave et passando per paludo et vale [...] si che l’alveo sia condotto al dretto verso el mare» (30). La parte, rimasta inattuata, verrà riproposta soltanto nel 1642, quando con decreto del 23 agosto il pregadi darà finalmente avvio alla diversione, predisposta lungo un nuovo tracciato aperto poco a valle di San Donà, che avrebbe condotto il fiume a sboccare in prossimità di Caorle e, precisamente, nel porto di Santa Margherita (31). Il nuovo percorso, anche a causa della sua tortuosità e della quasi inesistente pendenza, provocherà tuttavia, nei successivi decenni, danni ambientali gravissimi in tutto il territorio compreso tra basso Piave e Livenza: un generalizzato impaludamento (il «lago della Piave», come usava all’epoca chiamare), l’imperversare del mal aere; le continue tracimazioni che l’impeto del fiume provocava, risolte alfine dalla natura (forse con un doloso concorso umano, che peraltro mai venne provato (32)) con una rotta incontrollabile all’inizio del 1684. La Piave s’era infatti aperta un varco nelle forse inadeguate difese arginali in località Landrona, grazie al quale trovò la sua definitiva strada verso il mare, sfociando come ancor oggi — nel porto di Cortelazzo (33).
Proprio in quell’anno, come si vedrà, fu possibile completare la deviazione del Sile (il cui antico corso, che si disperdeva nella laguna di Torcello, aveva ormai reso invivibili quelle contrade dominate dal canneto), immettendolo con un taglio rettilineo, lungo quasi dieci chilometri, nell’alveo antico della Piave, ormai abbandonato da circa quarant’anni; il basso corso del Sile assunse da quell’epoca l’idronimo di Piave Vecchia, come usa tuttora chiamare la popolazione rivierasca, sfociando ancor oggi a mare nel vecchio porto di Jesolo.
Nel frattempo, in attesa di tempi migliori, il Contin sollecita l’esecuzione di altre operazioni atte a ridurre in qualche modo i segnalati inconvenienti: il rinforzo dell’arzere di San Marco pericolosamente eroso dalla violenza delle acque ed il suo prolungamento anche a valle del canal Caligo (dove terminava quello esistente), al fine d’impedire le tracimazioni della Piave anche nelle contigue lagune di Cavallino e Lio Mazor; egli segnala al riguardo che «per le rote che in diverse volte ha fatto la Piave in quela parte, è venuta nella laguna de Lio Mazor, particolarmente nella valle de Dragogiesolo, la qual era delle famose che fusse nella laguna et al presente è quasi del tutto atterata; e si può dirli vale d’aqua dolce». Sollecita inoltre il consolidamento delle arginature del canale Osellin — creato all’inizio del Cinquecento fra Marghera e Tessera — nel quale confluivano anche le acque del Marzenego, ricordando, al proposito, «che quando fu tagliato l’arzere l’anno 1614, et che andai fuori sopra loco d’ordine della banca, insieme col protto Galese, a riveder li dani che poteva far detta aqua di esso Marzenego», la corrente che fuoriusciva dalla rotta
veniva con tanta violenza verso la cità che, essendo in gondola a quatro remi, si stentava andar avanti, et era grandissima torbida. Il dano che facesse essa aqua così torbida era che atterrava la laguna et di salsa la faceva dolce, et haveria indurito li fondi et infetato l’aria, quando dal continuo fusse venuta. Et le canelle havrebbe presso poscesso di essa laguna, come ha fatto dove sboca esso Marzenegho in essa (34).
Un’altra rotta improvvisa che, come in analoghi casi, si sospettava potesse essere d’origine dolosa, verrà segnalata lungo l’Osellin nel 1620, provocando l’intervento dello stesso consiglio di dieci, che delega il proprio «rito» ai savii ed esecutori alle acque; prassi, questa (prevedeva una procedura abbreviata, con facoltà d’inquisizione e di far «liberar banditi» a favore dei complici delatori, nonché amplissima autonomia anche penale) che veniva raramente delegata a magistrature ordinarie, fatta eccezione appunto per il magistrato alle acque; proprio perché, analogamente a quello alla sanità, esso esercitava diretta giurisdizione su «materie» di primaria rilevanza per la sicurezza dello Stato. Con parte del 10 ottobre, udita la relazione dei savii alle acque che avevano avviato l’istruttoria, «afine di venir in cognitione dei delinquenti, né bastando l’autorità ordinaria che tengono essi», i dieci dispongono che
sia loro per autorità di questo consiglio concesso il poter continuar la formatione del detto processo col rito del medesimo consiglio, promettendo la secretezza a testimonii, et se nella formatione del detto processo troveranno di non poter venir in luce dei rei, sia data loro auttorità di devenire con pubblico proclama a promettere l’impunità a uno o più de’ complici, purché non sia principal nel delitto; et inoltre facoltà di prometter, a chi accuserà alcuno dei delinquenti, benefitio di liberar un bandito da questo consiglio, da dieci anni in giù [...] affine di reprimer temerità et eccesso tanto rilevante (35).
L’archivio del magistrato testimonia l’accumularsi dei pareri, richiesti dal collegio alle acque o dai savii ed esecutori ai propri organi tecnici, in merito ai provvedimenti più congrui ed efficaci da adottarsi. «Pareri» che lasciano trasparire persistenti incertezze in ordine alle soluzioni ritenute le più appropriate: agli interramenti sempre più estesi, che vengono associati allo smottamento delle sponde ed al disfacimento delle superfici barenicole (accentuatosi, si riteneva, non senza fondamento, per l’azione combinata del salso e delle mareggiate alimentate dal vento di scirocco) si propone di rimediare sia con arginature o altre protezioni, sia con replicate campagne d’escavo dei fondali. Queste incertezze possono essere colte non solo nelle parti di collegi e consigli, ma anche nelle relazioni dei periti, a cui gli organi di «indirizzo politico» si richiamano; un esempio significativo, riassuntivo dei tanti, è dato dal parere presentato congiuntamente nel 1662 dal proto alla laguna Iseppo Benoni, dal proto ai lidi Carlo Guberni e dal viceproto Giovan Battista Bagatella:
I detrimenti che conseguitano le barene viene da cause naturali et accidentali. Naturali sonno che l’acque salse per nattura rodono e consumano tutto quello che vi è congionto; gli accidentali che con le fortune di levante scatia il maresino a terra, batte e ribatte nelle rive quelle li vengono a rodere, il che cadendo la matteria con la medesima fortuna, vien respinta la maggior parte piutosto al insù che al ingiù. O che rimane vicino alle barene e nel calar non può venir a basso, mentre partendossi dalle rive delle medessime barene non ha motto, per non haver acqua superiore che le scatia. Per remediare che le barene non si rodino né disfacino vi vorebbero valevoli ripari, che sarebbero constossissimi; ma quello che più importa il mantenerli, mentre si vede che gli ortolani, nonostante che li costodiscono con ripari di lotte, di palli, di grisiole, d’alega et ancora di pietre, epure dificilmente si mantengono, che molto meglio et di maggior giovamento sarà far la spessa nei cavamenti de canalli [...] (36).
Quanto ai bari (accumuli d’alghe ed altre «materie vegetali» che il gioco delle correnti concentrava lungo i partiacqua o nei bassifondali, ove il flusso dell’acqua era più ridotto), i tre proti avevano rilevato un loro anomalo sviluppo anche nei principali canali di navigazione, dove i pescatori usavano operare «con rette dette bragagne: queste tagliano il baro nel modo come si segano li pradi, il che causa che tanto più si alarga e s’imbarisse, ingrosandosi il piede et affermandosi con maggior radici, che più dificilmente possono esser levane». E propongono al magistrato di farli rimuovere «con instrumenti pesenti [sic], che rodessero sino al fondo, principiando verso li porti», facendo obbligo agli appaltatori di procedere all’opera nelle ore delle zosane (maree di riflusso), «che sono molto maggiori delle cresenti»; e di «scaciarla in mare tutta quella che si formasse nelli molenti, il che facendo gioverebbe molto al corso delle acque per beneficio della laguna e porti».
Uno dei massimi protagonisti del dibattito progettuale interno al magistrato alle acque nella seconda metà del secolo fu senz’altro Iseppo Benoni, proto alla laguna per quasi un trentennio; è a lui che forse vanno ascritte le prime proposte, avanzate già nel 1660, per opere di difesa litoranee in pietra viva, anticipatrici di soluzioni concretizzatesi soltanto nel secolo successivo, oltre a quelle finalizzate a migliorare il regime idraulico delle bocche lagunari, approfondendo ad esempio i fondali mediante la chiusura-apertura del porto di Sant’Erasmo in sintonia con il quotidiano ciclo delle maree (37); proposte riprese e precisate in numerose sue scritture, che lasciano trasparire i due tradizionali imperativi di fondo: allontanare dall’estuario le acque dolci, fortificare i lidi e le difese a mare. L’eliminazione degli atterramenti, sviluppati soprattutto lungo i partiacqua, può essere condotta a buon fine, ribadisce Benoni nel 1664, realizzando due nuovi canali: uno «trasversale fra le cime de’ canali di laguna viva ed il fine di canali di laguna morta», l’altro «perpendicolare nelli sitti delli partiacqua, nel qual venissero e si ricevessero l’acque del sudetto canal trasversale. Servirebbe il sudeto canal trasversale a disunire la laguna viva dalla morta e chiudendolo dalla parte superiore o con grisiole o con arzeri, o come meglio richiedessero li sitti e luochi, devertirebbero le torbide che vengono giù dalli ghebbi di canedo e da tagli Garzoni che cadono e si distendono hora in laguna viva e non in canali, da che ne deriva non solo la sua aterratione, ma s’imbarisse ancora». Operazioni che Iseppo Benoni reputa indispensabili nella laguna «media» (ovvero nel suo settore centrale, «che circonda questa nobilissima città», empiricamente delimitato a nord da Torcello e a sud dal canal di Piove), mentre la «laguna inferiore», da Malamocco verso Chioggia, appariva al contrario essersi «assai ampliata», poiché l’azione del salso aveva gradualmente «corosi e distrutti» paludi, canneti, barene «et anco campi arrativi» (38).
Erano comunque molteplici le concause che alimentavano ed acuivano la progressiva atterrazione, analiticamente riassunte, per esempio, in un ricordo di Fantin Contarini, presentato al magistrato nel 1664 — con qualche integrazione personale — dal figlio Marco: 1) «la tera portata dentro per li porti dalle acque delli comuni et sopracomuni», strappata dai banchi sabbiosi esterni alle bocche portuali alimentati dalle «torbide» condotte in sospensione dai fiumi Piave, Livenza, Brenta e Adige, «onde il crescente del mare, rinforciato dalli venti di sirocho, et le porta vive vive nella laguna, con tutta la loro terra»; 2) quella «portata dalle alluvioni, o vogliamo dir brentane, et anco dalle acque ordinarie delle fiumare e torrenti che sbocano in laguna: cioè Meolo, Sile, Zero, Dese, Marzenego, Botenigo, Scioco»; 3) quella dilavata dalla pioggia, lungo i margini interni dei litorali e lungo la gronda di terraferma, a causa anche dei privati possessori che «vi acomodano li suoi scoladori a posta per tenir tutte le sue terre, con danno incredibile di essa laguna, non ostante le parti in contrario»; 4) le imonditie prodotte nella Dominante e nelle isole, che finivano in acqua o vi venivano gettate; 5) le lotte (zolle di riporto) largamente utilizzate dai vallesani per consolidare gli sbarramenti di reti e grisiòle (graticci di canna palustre) con i quali venivano periodicamente intercluse le valli da pesca; 6) le alghe che si staccavano dai fondali lagunari.
Il Contarini esorta savii e proti del magistrato ad appurare l’entità di tali fenomeni di degrado, anche confrontandola con la documentazione prodotta dai loro antecessori, immediati e remoti. Genesi e caratteristiche del lamentato accrescimento non potevano infatti che essere valutate, con adeguata cognizione di causa, «se non nelle historie, nelli discorsi, nelle parti et capitulari delli officii, et nelli disegni, i quali non sono mai né veduti, non letti et considerati, se non da pochissimi; o pur da alcuno, ma asolutamente da alcuno che governa questa materia. Questa dico è la cagione che questa ruina et questa acqua ne venga a dare, senza che la sia veduta se non quando la sarà tanto accresciuta e rinforziata che non si sia per poterne havere scampo alcuno».
La necessità di comprendere i presupposti dei fenomeni d’involuzione ambientale — e, quindi, la conseguente diversa efficacia degl’interventi da programmare per meglio affrontarli — richiedeva infatti uno sforzo comparativo esteso ad un arco cronologico il più ampio possibile. Ricerca che doveva attentamente considerare — prosegue il Contarini — oltre ai dati desumibili dalle carte d’archivio, anche quelli della tradizione empirica, quanto mai labile perché priva di supporti scritti. Tradizione di cui i più anziani huomini pratici, che la laguna ben conoscevano per quotidiana esperienza di vita trasmessa di padre in figlio, erano i principali se non esclusivi depositari: «barcaruoli, pescadori, hortolani da Lio, Chiozza et cetera», i quali tutti testimoniavano «la faccia presente di essa laguna esser grandemente mutata da quello soleva esser in altro tempo dell’età sua».
È questa, forse, l’ammaestrante essenza del ricordo presentato al magistrato da Marco Contarini, ch’egli non manca d’inframmezzare d’efficaci metafore. Poiché:
come il razzo del relogio, se bene etiam a chi fissamente lo mira, non lo vede a moversi, et pur si move. Si come il sole et la luna, mirata quanto fissamente si voglia, non si vede a moversi, epur si move. Si come li animali et le piante, siano pur mirate quanto fissamente si voglia, con tutto ciò non si vedono crescere, et pure crescono. Così anco questa atterratione et queste seche, sebene mirate quanto fissamente si voglia, non si vede a crescere, con tutto ciò è cosa chiara che giornalmente et continuamente la va accrescendo et inalzandosi [...] (39).
I rimedii che i due Contarini proponevano «al solievo di questa guasta et deturpata laguna» ricompongono, in singolare commistione, le teorie sabbadiniane di ampliamento dell’invaso salmastro con quelle di riduzione o chiusura delle bocche portuali, in qualche modo riconducibili piuttosto ad Alvise Cornaro. Essi propendevano infatti per un sensibile arretramento della linea di gronda verso l’entroterra mestrino, «in modo che tra Venezia et l’Anconeta non vi fosse altro che laguna semplice, disfacendo dalli fondamenti la palada de San Zulian. Et cavar tutta quella terra in modo che, in suma, dove hora è tutta terra fusse tutta laguna». Rimuovendo nel contempo «tutte le cose possibili che dalla circonferenza della laguna per tutto il suo corpo sino alli lidi [...] indeboliscono, trattengono, impediscono, difficultano o minorano il corso dell’acqua, sì nel flusso come nel riflusso, il libero montare et avvanzarsi per tutte le parti et siti possibili della laguna» (40).
Tali interventi correttivi, che riprendono esattamente quelli postulati dal Sabbadino, dovevano però essere preceduti e accompagnati da scelte radicali, le sole in grado di garantire duraturo miglioramento al regime idraulico lagunare: la chiusura di tutte le foci portuali litoranee, fatta eccezione per quella di Lio Mazor, la più settentrionale e, al contempo, la creazione di una serie di aperture, dotate di «porte» che consentivano il flusso esclusivamente unidirezionale, fra mare e laguna a nord di Lio Mazor, fra laguna e mare a sud di Chioggia. Tale forzata regimazione idraulica, costringendo le acque di marea a scorrere in un solo verso («a guisa delle valvule del cuore, per onde entra il sangue della vena cava del cuore, et per onde entrato ch’è non può più uscirne ») avrebbe sùbito eliminato i partiacqua (causa di ristagni e sedimentazioni) e garantito un continuo, intenso flusso atto a mantenere naturalmente scavati i canali di navigazione interna.
L’assunzione di testimonianze dagli huomini pratici, che le due scritture dei Contarini avevano sollecitato, era prassi inveterata del magistrato. Le alterazioni all’ambiente lagunare ed al suo regime idraulico, che la realizzazione del Taglio novissimo aveva rapidamente prodotto nel bacino lagunare occidentale, furono anzi occasione per una rinnovata indagine conoscitiva, condotta nel 1623 dal magistrato interrogando i pescatori delle varie comunità lagunari, convocati a Palazzo.
Domenico Papaciza, gastaldo dei Nicolotti (rappresentante elettivo della comunità veneziana di San Nicolò dei Mendicoli, costituita in larga parte da pescatori) riferisce del rapido interrarsi di quel settore dell’estuario, nel breve torno d’anni ch’era intercorso dal completamento, nel 1611, del Taglio stesso: «tutto Bombagio et San Marco di Lama et tutti quei luoghi da Lizafonise [sic] fino ai lidi; et il Melison, per causa della Brenta, che se Dio non vi provede nel Melison vi s’anderà presto caminando» (41). Il ridotto riflusso della marea era unanimemente imputato essere la causa immediata dell’interramento: dove l’acqua «non può caminar la non può portar via il sporchezzo», riferisce Domenico Vesentin (42). Le barene si vanno rapidamente «consumando» e «si va sparpagnando per i canali et per le velme per tutta la laguna», ammonisce Nadalin Gritti, sessantenne pescatore di San Nicolò, che ricorda — nell’area portuale di Malamocco di «haver preso dei cievoli dentro di quelle bricole, che adesso sono si può dir in vigna» (43). Proprio dove l’ottantenne giudecchino Nicoletto Cavallotta ricorda, a sua volta, di «haver preso delle cappe longhe soravento del porto di Malamocco, dove al presente nascono meloni; et una volta i sabbioni erano sotto le cime di Alboroni, et questo è andato tutto nel porto et ha causati de quelle secche» (44). Quanto alle cause, unanime è il parere espresso dai pratici invitati a testimoniare: la deviazione della Brenta all’esterno dell’invaso lagunare e l’escavo dei tagli Garzoni («perché sono venuti fuori de detti tagli l’acque morte di quei canedi») (45); unanimi altresì i rimedi proposti, vale a dire ripristinare lo statu quo ante e far tornar la Brenta «come la era, perché Dio l’ha fatta così bisogna lasciarla». Riferendosi al diminuito pescaggio riscontrato nel porto di Malamocco, Domenico Rizzo, pescatore del luogo, ricorda che «quando l’acqua della Brenta vegniva, la tegniva el sabbion spento alla riva, ma dopo levata il sabion è venuto nel canal» e che la bocca del canal Fisolo, nel punto dove s’immetteva nell’area portuale, si era ridotta in profondità da 16-20 a 5-6 piedi, cioè da circa sei-sette metri a due (46).
La consuetudine di assumere testimonianze dai pescatori «più sensati, vecchi [dai 35 anni in su, in base ai canoni dell’epoca] et pratici» era comunque per il magistrato, nonostante le perplessità di Fantin e Marco Contarini, un obbligo sancito fin dal 1536 dal collegio alle acque. Obbligo che non sembrerebbe essere mai stato disatteso e che prevedeva l’attiva partecipazione, nelle periodiche riunioni del collegio medesimo, di otto pescatori nominati dalle principali comunità d’appartenenza, di Venezia (Sant’Agnese e San Nicolò) e dell’estuario (Chioggia, Murano e Burano): si trattava di una forma di «consulenza empirica» istituzionalizzata, cui s’aggiungevano saltuarie assunzioni di testimonianze straordinarie, ricercate in occasioni particolari analoghe a quella del 1623. La comparazione di tali «deposizioni», rese in un arco cronologico protratto, consente anzi di meglio valutare (e certo lo consentiva a proti, savii ed esecutori, i quali tali testimonianze si premuravano di far registrare ed attentamente conservare), filtrata dal linguaggio immediato proprio del «popolo della laguna», l’estensione delle modificazioni idraulico-ambientali fra XVI e XVII secolo. Due di tali «deposizioni», raccolte rispettivamente nel 1550 e nel 1663, sono al riguardo decisamente esemplificative. Il 20 maggio 1550 Domenego Franco, settantacinquenne gastaldo dei Nicolotti, rilascia la seguente testimonianza giurata:
Za alla volta de Siocho, a visin de una valle nominata Navaiosa, erano due barene salde et ferme con herbe, che molto ben si caminava di sopra, dove li ocelli faceano nido. Le qual barene erano cadauna granda come la piazza de San Marco, le qual da trenta anni in qua sono andate mancando, et zà otto anni se ne vedeva una particella ed hora niente si vede di esse e tutta è sotto acqua [...]. Item la ponta de Restadaio se extendeva molto più et era più longa di quello è adesso, anci al presente la è in peci et se va desperdendo. Item l’isola de San Marco de Lama, alla volta de Sant’Anzolo de Concordia, era più granda: il che so perché l’ho vista essendo puto [quindi negli anni Ottanta del Quattrocento] molto granda; adesso se vede le fundamente delle celle ne l’aqua et per il ditto delli nostri antiqui lì era lazareto. Item la ponta de San Marco de Lama era più de passa vinti di quello se trova al presente. Item la ponta de Lizzafusina soravento era più de passa trenta longa de quel che l’è adesso. Et zà mi aricordo che in capo de ditta ponta era un horto dove era uno figher, che zà mio padre mi dete delli fighi, et hora tutto è sotto aqua (47).
La vivacissima descrizione si riferisce a quel settore del bacino occidentale compreso fra l’area portuale di Malamocco e l’opposta gronda di terraferma; il degrado segnalato (che oggi sappiamo dovuto a varie concause, naturali ma anche antropiche), può essere facilmente paragonato a più recenti, e gravissime, alterazioni volute dall’incoscienza d’immemori tecnici e reggitori a noi contemporanei: proprio in quei paraggi la ferita del cosiddetto Canale dei Petroli ha infatti, nel breve volgere d’un paio di lustri, ridotto la laguna ad un braccio di mare e le «fundamente delle celle» dell’antico monastero di San Marco in Bocca Lama (dove, a conferma dell’arcaica ‚memoria familiare’ trasmessaci dal gastaldo di San Nicolò, nel 1348 erano state in effetti predisposte fosse comuni per le vittime della peste), sulle quali fino a vent’anni or sono si poteva camminare,. ora giacciono, intatte, ad oltre un metro di profondità.
Di tutt’altro tenore sono invece le «deposizioni» rese nel 1663 dai pescatori convocati a Palazzo per esprimere il proprio giurato parere in merito alla «atterratione monstruosa della laguna». Il povegioto Antonio Cassiola, settantaseienne rappresentante della comunità veneziana di Sant’Agnese, ricorda che nella sua gioventù la laguna «era assai più con acque et con più fondi» e che verso Torson una scomenzera (canale di collegamento, d’origine artificiale) consentiva il transito anche ai natanti di una certa portata: «barche carghe de vin, de farine et altre robbe, et adesso è secco marzo, che bisogna venir alla Rocheta per trovar el canal». Interrogato in merito all’interramento riscontrato nei porti, lo imputa al degrado o alla mancanza d’adeguate palificazioni foranee; riferisce che ai margini di quella del porto di San Nicolò (che si protendeva dalle Vignole fino al faro della Rochetta, al centro del bacino portuale, «piena di sassi per sua fortezza») l’acqua, un tempo profonda oltre due metri, era ormai sostituita dalla spiaggia e che la diga di Sant’Erasmo era disfatta, mentre l’interramento del porto di Malamocco procedeva, a suo dire, per le sedimentazioni provenienti dalla Piave, che le correnti costiere dominanti, com’egli correttamente rileva, conducevano verso la laguna. E ricorda, al proposito, di aver egli stesso contribuito a recuperare, un quarto di secolo prima, parte del carico di sacchi e balle di lana di una nave «turchesca» naufragata presso le foci di quel fiume; carico che il gioco delle correnti aveva sospinto fin dentro al porto di Malamocco. Il più ovvio «rimedio» a consimile degrado non poteva che essere quello di allungare e rinforzare le palale protese a mare, che avrebbero così impedito il «venir la sabia nei porti» e contribuito a formare «spiaggie grandissime» a protezione del versante marittimo dei cordoni litoranei (48). Opere, queste — va ricordato — che verranno compiutamente realizzate soltanto nel corso dell’Ottocento.
Carlo Rubini, settantenne pescatore di San Nicolò dei Mendicoli, ricorda a sua volta che agli albori del secolo si poteva andare ovunque in laguna «che erano corsi grandi d’acqua belli», mentre ora «se voleino andar in caneo bisogna che aspitemo la colma dell’acqua». Egli individua le cause di tale involuzione, sulle quali come s’è visto molti altri concordavano, nelle aque marze che escono dai tagli praticati verso la gronda di terraferma ed anche nella pratica, abusivamente perpetrata dai colleghi muranesi, d’esercitare con pesanti reti piombate (le bragagne) che tranciavano le alghe dei fondali, favorendo la loro crescita ancor più rapida, «a guisa de noi altri homini che si radiamo la barba, che poco dopo ci cresse». I Muranesi, continua, «vanno a fòssina, a trezòla, a zàttara, a togna, a ostreghèr, le notti col fogo per pàssari», tutti sistemi in qualche misura vietati, o comunque rigidamente regolamentati, dal magistrato alle acque. E conclude, con tono sommesso («dicens ex se», come non manca di rilevare l’attento ministro addetto a registrare la testimonianza), che «tutti del mio parentà, figlioli et altri parenti, mi consigliavano a non dir questi pareri alla giustitia, dicendomi che se li muranesi lo sapevano mi leveran di pan, overo qualchedun dei suoi patroni mi farà dispiaceri» (49). Quest’ultima affermazione lascia trasparire la presenza d’una più o meno inconsapevole componente «di parte» nelle deposizioni rese dai pratici (che gli stessi savii ed esecutori certo ben avevano presente), che poteva in qualche misura influenzarne i contenuti e far loro privilegiare, nell’individuazione di cause, effetti e rimedi, quelli maggiormente interessanti la propria «giurisdizione territoriale» o specializzazione professionale. Una posizione peraltro comprensibile: le risorse della laguna costituivano l’unica garanzia per la stessa sopravvivenza alimentare ed era pertanto vitale la libera disponibilità delle acque ed il controllo della concorrenza esercitata, più o meno abusivamente, da altre comunità dell’estuario. Nel caso specifico, ovviamente, le testimonianze rese dai pescatori di Murano erano di ben altro tenore e proponevano inconvenienti e obiettivi diversi, segnalati per i settori dell’estuario di loro più diretta frequentazione; come diversi erano quelli indicati dai Chioggiotti, comunità maggiormente orientata verso la pesca marittima, ma interessata anche a quella endolagunare che le deviazioni della Brenta avevano in qualche misura compromesso.
Le osservazioni dei pratici non mancarono, come s’è visto, di essere riprese nelle stesse scritture di savii ed esecutori, né sappiamo se Ferigo Contarini, nel redigere una delle sue memorie indirizzate al magistrato, avesse avuto modo di conoscerle; concorde con i pareri dei pescatori è comunque la sua descrizione del degrado provocato dal baro, che egli etimologicamente associa alla barena, il quale
nasce ogn’anno nelle lagune, in quella parte dove il corso dell’acque va più rimesso, e produce come una foglia di verze mezza marza. E se non viene sbarbato o distrutto se ne more con la sua radice insieme. Ma per il più viene rotto continuamente dal pescar a bragagna sopra tutto il paludo con quelle rede che sono molto potentemente armate di piombi, che vano raspando il palludo e portano via quanto retrovano, onde bisognarebbe prohibir la maniera di questa pesca; et in questa forma poi l’anno seguente il baro rinasce più poderoso et ampio che mai, facendo quel medesimo effetto che fanno gli albori e bruscar le vide nelle campagne: come l’esperienza ha insegnato che bisogna carpir gl’albori e bruscar le vide chi vuole che ben si fortifichi di radici sotto terra, et così gl’uni et l’altra si rende più atta ad una gran durata d’anni. Così parimente il baro, nascendo ogn’anno da urgentissima causa dell’atterrationi, per via che questo impedisce il corso dell’acque, trattiene le torbide che se le va attaccando, unendosi poi a poco a poco un baro con l’altro, che forma poi la barena [...].
Al costante interesse rivolto a migliorare le tecniche d’escavo, a razionalizzarne i costi e a individuare siti appropriati per la discarica dei fanghi di risulta, perseguìto con particolare intensità nella prima metà del Seicento, si contrappone nel prosieguo del secolo l’opposto parere di quanti ritenevano consimili operazioni essere soluzioni di ripiego, d’incerta efficacia e di gravosissimo dispendio. Tali perplessità, spesso ben circostanziate, emergono soprattutto in occasione della «general escavazione» programmata dal pregadi nel 1673. Esemplificativi al riguardo sono i numerosi pareri presentati dai periti del magistrato fra 1672 e 1673, fra i quali si segnala quello del proto ingegner alle fiumare Francesco Alberti:
Non devo tralasciar di rifletter a quanto è statto stabilito dall’eccellentissimo senato li mesi decorsi, ch’è il far un’escavatione generale della laguna, intrapresa veramente dalla repubblica veneta; perché ardisco dire che sii una delle più ardue opperationi che dalla grandezza d’alcun imperio siano statte intraprese [...]. Oltre che chi volesse cavarla tutta, non sollo vi vorebbero infiniti tesori ma, a dir poco, un seccolo di tempo. Si che quando dall’eccellenze vostre non venirà rimediatto all’inconvenienti sopracenati, operando in modo che la natura da sé medesima vadi facendo detta escavatione, dubito grandemente che si corri al precipitio (50).
Alle difficoltà ed ai mai sopiti contrasti, in ordine ai più adeguati interventi, risolutivi o preventivi, atti ad ovviare al progrediente interramento, s’associano replicate emanazioni di proclami sanzionatori, esplicitamente rivolti a quanti «habituati nelle rilassate contrafationi e privi d’humanità», ardissero
getar o far getar, così di giorno come di notte, in questa laguna, rii, canali et sopra le strade della città, né sopra le rive delle Fabbriche nove a rialto, come nelle altre tere et isole della laguna, scoazze, ceneri, calizeni, tereni, ruinazi, scorze di qual si sia sorte così d’erbazi come de pessi armati, niuna eccetuata. E qual si sia altra materia così di fossa, come polvere, spazzadure di nave, vasselli, burchi o barche d’ogni sorte, niuna eccettuata, che causar possa ateratione. Sotto pena di corda, berlina, galera et altre ad arbitrio (51).
La necessità di poter disporre, in una materia tanto delicata come il controllo delle acque, di tecnici affidabili ed altamente specializzati, prescelti unicamente per le loro competenze specifiche, è forse all’origine di un decreto del pregadi che nel 1657 derogava alla generalizzata vendita in atto delle «cariche di ministero». Vendita che interessava la gran parte delle magistrature veneziane, centrali e periferiche, sistematicamente perseguìta soprattutto negli anni della guerra di Candia per sovvenire — insieme ad altri cespiti straordinari — all’enorme sforzo finanziario cui l’erario era chiamato nel corso del lungo confronto armato con il Turco. Considerato infatti che il magistrato alle acque, il quale «di continuo versa nelle materie più gravi et importanti tutte, in ordine alla custodia della laguna, conservation de’ luochi e sovraintendenza de’ fiumi, tiene per principale bisogno quello dell’assistenza de’ periti che, possedendo i requisiti più pieni di grattia et intelligenza nelle materie stesse, possino perfettamente supplire alle parti di un essentialissimo servitio» e constatati altresì gli sconcerti non secondari che la «vendita generale degli offitii» aveva provocato, la parte del pregadi dispone
che le vendite delle cariche di proto alla laguna e de viceproti nel magistrato alle acque, rilevanti la summa in tutto de ducati 1500 in circa, siano, per i riguardi considerabili sopracennati, per autorità di questo consiglio tagliate et annullate come se fatte non fossero. Dovendo a compratori essere dal magistrato stesso alle acque restituito prontemente il denaro da essi esborsato, onde non restino in conto alcuno pregiudicati. Per provedere poi nelle predette cariche di persona di tutta peritia et intelligenza, sia incaricato il zelo del magistrato sudetto delle acque all’uso di tutte le diligenze possibili, facendo anco publicare proclami in questa città e nella Terraferma ancora, con invito a soggetti che possedessero li sopra accennati recquisiti di venire al concorso, capitando poi, previi gli essami da esser fatti alla presenza di tutto il magistrato, all’elettione de’ migliori e più provetti; e portandone nel collegio la notitia, con le informationi più esatte, onde si possi dal medesimo devenire all’approbatione conforme l’ordinario.
Il provvedimento, sollecitato dai savii ed esecutori nella loro scrittura al senato del maggio 1657, rappresenta pertanto un ritorno (o, meglio, una conferma, non essendovi evidenza di significative soluzioni di continuità) alla collaudata consuetudine di «formare» le figure tecniche specifiche del magistrato mediante una prolungata pratica empirica «sul campo». Un iter professionale che prevedeva altresì rigidi criteri di gradualità: da giorgine aiutante a viceproto, infine alla carica maggiore, tripartita nelle distinte (ma, almeno teoricamente, intercambiabili) specializzazioni di proto alla laguna, ai lidi e alle fiumare, cui gli aspiranti sarebbero pervenuti sotto la guida dei periti più anziani, ai quali erano spesso legati da vincolo di parentela.
Il decreto del pregadi prevedeva altresì periodiche verifiche circa le capacità e le predisposizioni di tali ministri primarii, con la facoltà di giungere financo al licenziamento di coloro che fossero stati ritenuti inadatti o inadeguati: «debbano li medesimi essere ogni due anni ribalottadi dal magistrato e collegio sudetti, facendosi prima li soliti proclami come sopra, perché, secondo l’esperienza che della loro peritia et habilità si haverà havuto, si possi o escluderli o confirmarli nelli stessi carichi, conforme sarà conosciuto poter meglio complire al pubblico importantissimo servitio». La presenza, lungo tutto il Seicento (ed oltre), di vere e proprie «dinastie familiari» che, da padre in figlio o da zio a nipote, trasmettevano nel loro àmbito ristretto la carica di proto, di fatto vitalizia, sembrerebbe tuttavia dover escludere la più rigorosa applicazione della normativa (52).
Sarà opportuno, al riguardo, fare qualche accenno alla struttura del magistrato ed alla sua giurisdizione, di fatto amplissima; né era stato un caso che l’istituzione della magistratura, in forma permanente, fosse stata deliberata dallo stesso consiglio di dieci, organo supremo in ordine alla «sicurezza», in senso lato, dello Stato; con la parte del 5 agosto 1501 erano state ben chiarite le premesse di tale istituzione, che si richiamavano all’azione di tutela comunque condotta, in precedenza, da organi e commissioni eletti saltuariamente:
Sapientes maiores nostri, bene considerantes et a longe providentes quod nihil magis esse posset contrarium salubritati et securitati huius nostre civitatis, quam munitio et atterramentum, quod fieret harum nostrarum lacunarum studiosissime et indefesse de tempore in tempus, quantum fieri humana ratione et provisionibus potuit, procuraverunt et elaboraverunt circa remedia ad reprimendum et stalandum hoc tantum et tam incomparabilem malum, quod solum facere posset hanc civitatem nostram et amantissimam et carissimam inhabitabilem, superveniente aeris intemperie, contra quod cum plerique cives nostri, timore dominii nostri, omni patrie charitate postposita, sed solummodo proprie utilitatis attendentes, quantum male fecerunt scriptura modo huic consilio lecta manifestissime declarat (53).
Nel 1505 gli stessi dieci istituirono il collegio solenne alle acque (abolito nel 1515, ma definitivamente ristabilito nel 1530), dotato di ampia giurisdizione, dispositiva ed anche penale e, via via, con la nomina di tre esecutori, che assistevano ed agivano di concerto con i tre savii (1531), di un «pubblico matematico» competente sull’intero Stato da terra nella materia specifica e quindi di un inquisitor alle acque, si viene a precisare la struttura di quest’organo, chiamato a garantire continuità d’azione e di controllo in ordine alla tutela della laguna ed alla miglior gestione del retrostante «bacino scolante», che sul regime idraulico lagunare direttamente o indirettamente influiva. Essenziali erano altresì le cariche propriamente tecniche, cui s’è accennato, costituenti un corpo altamente specializzato, chiamato a «versare» su una materia vastissima, per quanto indeterminata, «tota hec materia aquarum», in un àmbito territoriale che da Grado giungeva a Cavarzere (l’originario Dogado), che comprendeva i litorali, i porti e le foci fluviali, ma che di fatto s’estendeva a gran parte della terraferma veneto-friulana. Con una serie di obblighi ed incombenze continuamente precisate e aggiornate, come ad esempio in una parte del pregadi del 19 marzo 1633 che le riassume, disponendo che
il protho delle fiumare sia obligato dar conto in scrittura ogni mese dello stato et bisogno de’ fiumi, argeri et altro spettante al suo carico. Quello della laguna lo stesso, raccordando tutti in voce et in scrittura ciò che stimassero a proposito [...]. Et perché il maneggio de’ tolpi che sono condotti alli lidi [tronchi di seconda scelta, impiegati nelle difese litoranee] è di molta consideratione, et ne deve perciò esser tennuto buon conto, sia commesso al proto de’ lidi di presentare al magistrato [...] il conto di tutti li tolpi che son capitati alli lidi medesimi (54).
Quest’ultima carica (che fu per circa un secolo prerogativa di una «dinastia» di proti: i Guberni) ci introduce a quello che divenne, fra Sei e Settecento, uno dei principali oggetti all’attenzione del magistrato, ormai perfezionata l’estromissione dei principali fiumi dalla laguna e, di fatto, conclusa la sua «conterminazione»: la difesa dei litorali (e delle bocche portuali che lungh’essi s’aprivano), preoccupazione costante del Comune Veneciarum fin dal medioevo, ben prima quindi dell’istituzione del magistrato; e che avrà la sua più straordinaria concretizzazione (in un’epoca, da troppi ancor oggi, considerata d’inarrestabile decadenza) con la prolungata progettazione e quindi la messa a dimora, avviata nel 1738, dei poderosi «murazzi» lapidei lungo il fronte a mare dei lidi di Malamocco, di Pellestrina e di Chioggia.
Fin dallo scorcio del Seicento proti, ingegneri, esperti veneziani e foresti presentarono al riguardo proposte le più varie, talune applicate a titolo sperimentale, altre rimaste giacenti nell’archivio del magistrato alle acque o nella stessa «secreta» del senato. I primi progetti, presentati negli anni Novanta ed ancora basati sull’utilizzo massiccio del legname (come quelli dei proti Matteo Alberti nel 1692 e Andrea Tirali nel 1695), cedono il passo ad altri che prevedevano l’uso quasi esclusivo di pietra d’Istria e che propongono via via nuovi leganti atti a meglio fortificare i manufatti; fra di essi vanno segnalati quelli dell’abate Vincenzo Coronelli (1716) e del proto ai lidi Andrea Tirali (1720), che verrà poi ripreso e perfezionato da Bernardin Zendrini; con parte del 4 agosto 1740 il pregadi approvò finalmente quest’ultimo progetto, sperimentato due anni prima a Pellestrina e proseguito per «prese» e per lotti, ma senza significative interruzioni, reperendo risorse per quell’epoca ingentissime, fino all’abdicazione della Serenissima.
1. Storia di Venezia, I, Origini - Età ducale, a cura di Lellia Cracco Ruggini - Massimiliano Pavan e Giorgio Cracco - Gherardo Ortalli, Roma 1992, passim.
2. Oltre ai contributi più specifici, citati nelle nn. successive, si rinvia, in ordine all’azione e alle competenze del magistrato alle acque, a Giovanni Orlandini, Il veneto magistrato alle acque, «Ateneo Veneto», 29, 1906, nr. 1, fasc. 2-3, pp. 1-99; Giulio Rompiasio, Metodo in pratica di sommario o sia compilazione delle leggi, terminazioni et ordini appartenenti agl’illustrissimi et eccellentissimi Collegio e Magistrato alle acque, Venezia 1734 e 1771 (riediz. critica, a cura di Giovanni Caniato, Venezia 1988); Cristoforo Tentori, Della legislazione veneziana sulla preservazione della laguna. Dissertazione storico-filosofico-critica, Venezia 1792; Vettor Sandi, Magistrato sovra le acque e suo collegio solenne, in Principi di storia civile della Repubblica di Venezia, Venezia 1756, pt. III, libro IX, pp. 69-89; Silvia Gasparini, La disciplina giuridica dei lavori pubblici a Venezia nell’età moderna. I fondi archivistici del Magistrato alle Acque e dei Provveditori di Comun: ricerche e ipotesi, Padova 1993. Sulla «demanialità» delle acque lagunari, cf. Silvano Avanzi, Il regime giuridico della laguna di Venezia. Dalla storia all’attualità, Venezia 1993. Più in generale si rinvia alla vasta monografia La Laguna di Venezia, coordinata da Giovanni Magrini, I-XI, Venezia 1933-1955; ai volumi di Rapporti e studi della Commissione di studio dei provvedimenti per la conservazione e difesa della laguna di Venezia dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti (I-XII, Venezia 1960-1995); alla collana «Antichi scrittori d’idraulica veneta» edita a cura dell’Ufficio idrografico del magistrato alle acque fra il 1919 e il 1952 e ristampata nel 1987 dal medesimo Ufficio (Marco Cornaro, Scritture sulla laguna, a cura di Giuseppe Pavanello; Cristoforo Sabbadino, in Discorsi sopra la laguna e Scritture sopra la laguna di Alvise Cornaro e di Cristoforo Sabbadino, a cura di Roberto Cessi; La difesa idraulica della laguna veneta nel sec. XVI. Relazioni dei periti, a cura di Roberto Cessi - Niccolò Spada; Andrea Marini, Discorso sopra l’aere di Venezia e Discorso sopra la laguna di Venezia, a cura di Arnaldo Segarizzi), integrata sempre nel 1987 dal vol. V, a cura di Pasquale Ventrice, dedicato al Dialogo sulla laguna, con quello che si ricerca per la sua lunga conservatione di Marco Antonio Cornaro (1542-1602), opera cui si rinvia anche per ulteriori riferimenti bibliografici. Rilevante, anche per l’epoca in cui venne pubblicata, è l’opera pluridisciplinare Venezia e le sue lagune, edita in Venezia nell’anno 1847 nell’occasione del nono congresso degli scienziati italiani: in particolare il vol. II, pt. I (Notizie della laguna di Venezia). In Storia di Venezia, Temi, Il Mare, a cura di Alberto Tenenti-Ugo Tucci, Roma 1991, si segnalano i saggi di Paolo Morachiello (Le bocche lagunari, pp. 77-110; Fortezze e lidi, pp. 111-134) nonché quello di Donatella Calabi (Canali, rive, approdi, pp. 761-788). Da segnalare, fra i cataloghi di mostre, AA.VV., Mostra storica della laguna veneta, Venezia 1970; (Archivio Di Stato Di Venezia), Laguna, fiumi, lidi. Cinque secoli di gestione delle acque, a cura di Maria Francesca Tiepolo, Venezia 1983. In antitesi con le ipotesi sostenute nel I volume di questa Storia di Venezia, anche per l’apparato di fonti e la documentazione archeologica segnalati, Wladimiro Dorigo, Venezia Origini. Fondamenti, ipotesi, metodi, I-III, Venezia-Milano 1983; Id., Venezie sepolte nella terra del Piave. Duemila anni fra il dolce e il salso, Roma 1994; Id., Fra il dolce e il salso: origini e sviluppi della civiltà lagunare, in La laguna di Venezia, a cura di Giovanni Caniato-Eugenio Turri-Michele Zanetti, Verona 1995, pp. 137-191; di assoluto rilievo, in quest’ultima opera, le inedite restituzioni archeologiche d’epoca imperiale e tardo-antica presentate da Ernesto Canal nel saggio Le Venezie sommerse: quarant’anni di archeologia lagunare, pp. 193-225.
3. Scrittura presentata da Ferigo Contarini quondam Gasparo il 5 gennaio 1673 (1672 m.v.): A.S.V., Savii ed esecutori alle acque, nr. 128, alla data.
4. Ibid.
5. Ibid., scrittura dell’11 gennaio 1673.
6. Scrittura del 23 aprile 1664: ibid.
7. Cf. infra le nn. 36-40.
8. A.S.V., Savii ed esecutori alle acque, nr. 128, scrittura del 27 aprile 1674.
9. Ivi, Senato, Terra, reg. 189, cc. 374v-376v; allegata alla minuta del decreto (ibid., filza 897) la scrittura del «magistrato dei sei delegati alla laguna» del 3 settembre, con sottoscrizioni autografe dei procuratori Andrea Contarini e Antonio Grimani, di Girolemo Foscarini, Marco Molin, Gerolemo Basadonna e Battista Nani. I delegati riferiscono anche nel merito dell’accennate «considerationi» di Nicolò Sagredo e Ferigo Contarini, nonché di quelle del fiscal Calcaneis e dei periti del magistrato; segnalano, al contempo, di aver riscontrato miglioramenti al porto di Malamocco, allegando al riguardo gli scandagli fatti effettuare e ritenevano potesse essere di qualche utilità una limitata «otturratione» di alcuni fra i tagli Garzoni, quando «non communicassero con li canali maestri e principali».
10. Ivi, Savii ed esecutori alle acque, nr. 123, parte del 30 aprile 1664. Allegata alla minuta del decreto in filza scrittura del magistrato alle acque del 22 aprile, «sopra l’atterratione della laguna».
11. Ibid., disegni, serie Laguna, nr. 168, legenda in calce.
12. Opinion di messer Alvise Cornaro e di Cristoforo Sabbatino circa il conservare la laguna. MDL, in R. Magistrato Alle Acque - Ufficio Idrografico, Antichi scrittori d’idraulica veneta, II, pt. I, a cura di Roberto Cessi, Venezia 1930, p. 104.
13. Gaetano Cozz1, Storia e politica nel dibattito veneziano sulla laguna (secc. XV-XVIII), in Istituto Veneto Di Scienze, Lettere Ed Arti, Conterminazione lagunare. Storia, ingegneria, politica e diritto nella Laguna di Venezia. Atti del convegno di studio nel bicentenario della conterminazione lagunare, Venezia 1992, p. 24 (pp. 15-37); contributo cui si rinvia, fra l’altro, in ordine al più ampio contesto in cui operarono il Sabbadino ed il Cornaro.
14. Ibid., p. 23.
15. A.S.V., Consiglio di dieci, parti segrete, reg. 4, c. 44.
16. Ivi, Savii ed esecutori alle acque, nr. 119, scrittura del 23 giugno 1578.
17. Ibid., nr. 171 («Diversi itinerarii et despositioni generali attinenti a diverse materie dal 1568 sino 670»), cc. iniziali non numerate (1-2v), scrittura del 14 marzo 1568: «In giorno di domenica, doppoi venuto giù il maggior Consiglio, fu letta la presente scrittura per el clarissimo messer Dolfin Vallier savio alli clarissimi messer Piero Sanudo et messer Nicolò Contarini suoi colleghi et al magnifico messer Piero Donado essecutor, redotti nell’offitio».
18. Ibid., nr. 122, scrittura del 27 febbraio 1608.
19. Scrittura allegata alla minuta del decreto del senato dell’8 maggio 1638: ivi, Senato, Terra, filza 409.
20. Il magistrato alle acque aveva infatti disposto il prolungamento della palàda (sorta di diga foranea costituita da due parallele palizzate lignee costipate di pietrame), protesa a mare dal lido di Sant’Erasmo, fino al faro della Rocchetta, che sorgeva isolato al centro della foce portuale di San Nicolò di Lido; opera che non era stata ancora eseguita, della quale il Contin (ibid.) invoca la rapida costruzione «acciò trattenghi li sabbioni che al presente vengono a drettura nella laguna per il porto di San Rasmo et di Venetia».
21. Ivi, Savii ed esecutori alle acque, disegni, serie Laguna, nr. 13, legenda a margine.
22. Ivi, Senato, Terra, reg. 114, c. 117v. Nella parte vengono richiamate anche precedenti disposizioni, rimaste ineseguite: in particolare i decreti del 7 settembre 1628, del 25 giugno 1632 e dell’8 marzo 1636. Cf. al riguardo G. Cozzi, Storia e politica; Maria Francesca Tiepolo, La conterminazione nei documenti dell’Archivio di Stato di Venezia fino al 1797, in Istituto Veneto Di Scienze, Lettere Ed Arti, Conterminazione lagunare. Storia, ingegneria, politica e diritto nella Laguna di Venezia, Atti del convegno di studio nel bicentenario della conterminazione lagunare, Venezia 1992, pp. 79-129; Giovanni Caniato, La conterminazione della Laguna di Venezia, in Istituto Veneto Di Scienze, Lettere Ed Arti, I cento cippi di conterminazione lagunare, a cura di Emanuele Armani - Giovanni Caniato-Redento Gianola, Venezia 1991, pp. 11-52.
23. Scrittura allegata al citato decreto del senato 8 maggio 1638.
24. A.S.V., Savii ed esecutori alle acque, nr. 348, cc. 26v-27, terminazione (in forma di parte) del 30 novembre 1610, presa dagli otto delegati, eletti in collegio alle acque il 16 giugno dell’anno precedente.
25. Ivi, Senato, Terra, reg. 74, cc. 40v-41; la parte prevedeva inoltre una serie di nuove imposte straordinarie, in grado di consentire la raccolta dei 100.000 ducati richiesti per le operazioni.
26. Bernardin Contin venne nominato sottoproto nell’ottobre 1619 (ivi, Savii ed esecutori alle acque, nr. 385, c. 234v) e proto alla laguna, dopo la morte del padre Tommaso, nel maggio 1630 (ibid., nr. 387, c. 157); la «dinastia» famigliare proseguirà con un altro Tommaso, figlio di Bernardin, eletto alla medesima carica nel dicembre 1664 (ibid., nr. 394, C. 120).
27. Ibid., nr. 171, c. 189. La scrittura, presentata il 19 maggio 1622, era stata letta, come s’usava, «avanti l’illustrissimi signori savii et essecutori alle acque, nella peota dell’officio nel viagio», vale a dire nel corso dei periodici sopralluoghi che il magistrato conduceva in laguna e lungo la vicina rete navigabile di corsi d’acqua.
28. Ibid., s.d. (ma post 1627).
29. Ibid., nr. 171, scrittura del 19 maggio 1622.
30. Ibid., nr. 345, c. 11, parte del 17 dicembre 156o.
31. Ivi, Senato, Terra, reg. 125, c. 155r-v.
32. Con parte dell’8 febbraio 1684 il consiglio di dieci, valutata la possibile «concorsa reità di parte interessata» nella rotta apertasi all’inizio dell’anno in località Landrona, concede al magistrato alle acque la facoltà di istruire il processo contro ignoti «col rito et autorità del Consiglio di dieci, con facoltà di promettere la secretezza a testimoni e l’impunità ad alcuno de’ complici, purché non sii principal autore o mandante» (ivi, Consiglio di dieci, comuni, reg. 123, c. 250). Cf. al riguardo, anche per le più generali vicende connesse ai progetti di deviazione della Piave e alla costruzione dell’«arzere di San Marco»: Giovanni Caniato, Fonti cartografiche per lo studio del territorio jesolano, in AA.VV., Studi fiesolani, Udine 1985 (Antichità Altoadriatiche, 27), pp. 49-63. Sulla giurisdizione penale delegata del magistrato alle acque cf. Michela Dal Borgo Bergamasco, Competenza del Magistrato alle Acque in campo penale: i processi con il rito delegato del Senato o del Consiglio di dieci, in Laguna, fiumi, lidi. Cinque secoli di gestione delle acque nelle Venezie, a cura di Maria Francesca Tiepolo, Venezia 1983.
33. A.S.V., Consiglio di dieci, comuni, filza 758, parte dell’8 febbraio 1683.
34. Ivi, Savii ed esecutori alle acque, nr. 171, scrittura del 19 maggio 1622.
35. Ibid., nr. 348, cc. 158v-159. Altri processi delegati dal Consiglio di dieci nel fondo stesso; al magistrato alle acque anche il pregadi usava delegare il proprio rito: cf. ad esempio, la parte del 22 gennaio 1637 in occasione dei tagli praticati l’anno precedente negli argini del Taglio novissimo di Brenta: ivi, Senato, Terra, filza 393.
36. Scrittura terminata il 22 luglio 1662, redatta in evasione a mandato dei savii ed esecutori del 17 giugno precedente, che ricercava la valutazione dei periti «sopra il partito che miglior prender si potesse, a fine di tener lontani i detrimenti che conseguitano dalle destrutioni delle barene e tereni; et altretanto considerar l’effetto dei bari»; ivi, Savii ed esecutori alle acque, nr. 123, c. 57r-v, alla data.
37. Ibid., nr. 123, scritture 3 e 14 gennaio 1660 (1559 m.v.).
38. Ibid., c. 164, scrittura del 12 aprile 1664.
39. Ricordo nel quale si dimostra il modo de levar la presente atteratione della laguna et conservarla in perpetuo, redatto dal quondam Fantin Contarini di Piero Paulo e presentato nel magistrato alle acque il 3 aprile 1664 dal di lui figlio Marco: ibid.
40. Ibid., «Scrittura» di Marco Contarini, integrativa a quella del padre.
41. Ibid., cc. 11-12. Informazione assunta il 27 giugno 1623.
42. Ibid., c. 13, 28 giugno 1623. Il Vesentin, pescador di anni 54, ritiene che l’interramento fosse provocato dalle «acque di ceventi», le quali conducevano nel corpo della laguna le alghe che la ridotta capacità di deflusso non consentiva di ricondurre verso il mare.
43. Ibid., c. 15. Nadalin Gritti aveva rilevato che «da dieci anni in qua le lagune si sono seccate et questo credo che sia per causa di quei tagli che sono nelli arzeri da Marghera in Restadaglio».
44. Ibid., c. 24. Il rimedio proposto dal Cavallotta «saría il tornar la Brenta et serrar i tagli».
45. Ibid., c. 16v, testimonianza di Tonolo Negro, sessantenne pescatore di San Nicolò dei Mendigoli, che ribadisce essere i tagli la causa della ruina della laguna, nella quale «i faria ben a tornarghe la Brenta».
46. Ibid., c. 25v. Di séguito altre testimonianze prodotte da pescatori malamocchini e della comunità veneziana di Sant’Agnese.
47. Ibid., nr. 608, cc. 110v-111v.
48. Ibid., nr. 123, «Essami dei pescadori elletti dalle scole in esecution della parte», c. 87; deposizione giurata del 23 maggio 1663. Va ricordato che l’antica comunità di pescatori povegioti (originarii cioè dell’isola di Poveglia) era stata da tempo in larga misura trasferita nella contrada veneziana di Sant’Agnese.
49. Ibid., c. 97, deposizione resa il 26 giugno.
50. Ibid., nr. 128, alla data. Il «parere», presentato nel magistrato il 14 dicembre 1672, era stato richiesto all’Alberti dai savii ed esecutori nel merito d’una scrittura di Nicolò Sagredo; il proto concordava con quest’ultimo circa l’opportunità di realizzare un’arginatura continua lungo la linea di separazione fra «laguna viva» e «morta».
51. Ibid., nr. 186, terminazione dei savii ed esecutori del 6 settembre 1664, pubblicata in forma di proclama il 10 settembre.
52. Ibid., nr. 349, c. 195v, parte del 17 maggio 1657; la «scrittura» dei savii ed esecutori è allegata alla minuta del decreto, in filza.
53. Ivi, Consiglio di dieci, parti miste, reg. 28, c. 181v.
54. Ivi, Savii ed esecutori alle acque, nr. 348, c. 185; parte del 19 marzo 1633 (ivi, Senato, Terra, reg. 109,
cc. 33-36).