Il cosmo sferico
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
All’altezza del IV secolo a.C. si definisce nel mondo greco, e in particolare per opera dei più illustri filosofi e matematici che frequentano l’Accademia di Atene – Platone, Eudosso e Aristotele – l’idea di un cosmo formato da sfere concentriche. Questa idea comprende altri tre principi canonici: la perfetta immobilità della Terra al centro dell’universo in virtù del suo essere pesante, la circolarità e uniformità dei moti planetari, e l’esistenza di due fisiche distinte che governano la regione terrestre e la regione celeste.
L’aspetto più significativo delle scienze matematiche greche, e più in particolare dell’astronomia, consiste nell’ampio ricorso a modelli geometrici esplicativi. Un “modello” è una costruzione teorica in cui un fenomeno, come il moto di un punto nello spazio, è descritto attraverso una combinazione di figure geometriche elementari, rette o cerchi, in parte fisse e in parte in reciproco movimento.
Per comprendere questo concetto di “modello” si può pensare al caso della cosiddetta “trisettrice” di Ippia di Elide. Per trovare la soluzione del problema geometrico di dividere un angolo in tre parti uguali, Ippia ricorre a un modello costituito da un quadrato e da due segmenti di retta. Se il primo segmento, il lato superiore del quadrato, trasla uniformemente verso il basso e se il secondo segmento, il lato sinistro del quadrato, ruota uniformemente intorno all’angolo inferiore sinistro del quadrato, la curva prodotta dalla traiettoria del punto di intersezione dei due segmenti può essere usata per trisecare un angolo qualsiasi.
In modo analogo, i matematici che si dedicano all’astronomia elaborano modelli dei moti planetari in grado di visualizzare ciò che, almeno in ipotesi, presiede ad alcuni aspetti dei fenomeni osservati. Un modello astronomico offre in genere la possibilità di ricostruire le posizioni del pianeta nel passato, nel presente e nel futuro. Questo non deve però far pensare che gli enti geometrici che formano un modello costituiscano le varie parti dei meccanismi che producono i fenomeni osservati. Allo stesso modo, non è detto che la traiettoria del pianeta descritta da un modello corrisponda alla traiettoria reale del pianeta nello spazio. Come si comincia a sostenere all’epoca, un modello serve solo a “salvare i fenomeni”, vale a dire descriverne le apparenze dal particolare punto di vista dell’osservatore terrestre. Il compito di riflettere su cosa realmente presiede ai fenomeni osservati spetta semmai ai filosofi. Tuttavia, poiché è molto difficile trarre conclusioni cosmologiche sulla base del solo ragionamento, i filosofi stessi prendono in prestito dai matematici i modelli geometrici più convincenti e li adattano alle proprie esigenze per spiegare come funziona la macchina del cosmo.
I violenti sconvolgimenti causati dalle guerre persiane determinano la straordinaria ascesa politica di Atene che, all’inizio del V secolo a.C., diviene il principale centro del pensiero filosofico dell’area mediterranea.
È in questa città che si trasferisce Anassagora di Clazomene, il primo tra i filosofi greci a delineare una genesi del mondo regolata dall’azione meccanica di un’intelligenza ordinatrice sulla materia preesistente. Questa intelligenza, il Nous, imprime alla materia un moto di rotazione che induce la separazione dell’etere (caldo, luminoso e sottile) dall’aria (fredda, oscura e pesante). L’aria si raccoglie al centro del mondo condensandosi successivamente in acqua, in terra e, infine, in pietra. L’etere permea invece il mondo celeste all’interno del quale si collocano i pianeti, secondo una sequenza di distanza crescente dalla Terra destinata a restare canonica per alcuni secoli: la Luna, il Sole, Venere, Mercurio, Marte, Giove e Saturno. Tutti questi astri e le stelle fisse sono molto più piccoli della Terra – per esempio, la Luna e il Sole sono grandi quanto il Peloponneso – e posseggono una duplice natura terrosa e ignea. Anassagora giunge a questa originale conclusione dopo aver esaminato una grande pietra ferrosa – probabilmente un meteorite – caduta a Egospotami nel 467 a.C. e che egli suppone essersi staccata dal Sole. Tutte queste idee sono sentite dagli Ateniesi come troppo azzardate. Esse procurano ad Anassagora, insieme all’accusa di empietà per essersi allontanato dall’usuale Olimpo degli dèi creatori con l’introduzione di un unico Nous, la condanna all’esilio.
L’egemonia politica di Atene è tuttavia di breve durata. Gli ultimi anni del secolo sono particolarmente difficili per la città, in lotta con Sparta. Si assiste così al susseguirsi di condanne sommarie di personaggi anche in vista, ritenuti nemici della patria, nel cui novero rientra Socrate. Le idee astronomiche di questo filosofo, che non ci ha lasciato alcuno scritto, sono influenzate da Anassagora, ma risentono anche del pensiero pitagorico. Tali idee sono oggi piuttosto difficili da distinguere da quelle del suo più illustre allievo, Platone. Sappiamo tuttavia che Socrate giunge a ritenere che il cosmo sia perfettamente sferico e che la Terra, sferica anch’essa, vi si trovi in equilibrio esattamente al centro anche senza un qualche sostegno.
La Terra è molto grande e, se la si potesse osservare dall’esterno, apparirebbe iridescente e intarsiata di colori luminosi. Gli uomini ne abitano una minima parte e, in proporzione, quelli fra loro che popolano le coste del Mediterraneo sono così piccoli da somigliare a formiche che si affollano sulle sponde di una palude.
Il ruolo decisivo nella storia dell’astronomia occidentale spetta però proprio al maggiore allievo di Socrate. Nelle opere di Platone appaiono vari riferimenti a questioni astronomiche, affrontate in un contesto ora mitologico, ora metafisico. È a Platone che si deve la definizione generale della struttura classica del cosmo a sfere concentriche e l’enunciazione del principio regolatore di tutti i moti celesti, che devono essere perfettamente circolari e uniformi. Questi due elementi diverranno punti di riferimento imprescindibili per generazioni di astronomi, di formazione sia filosofica che matematica, fino al XVII secolo, quando cadranno definitivamente con la pubblicazione dell’Astronomia nova (1609) di Johann Kepler. Si può in effetti dire che la storia dei modelli planetari inizia con la geometria e la cinematica dei moti celesti delineate da Platone.
L’opera astronomicamente più significativa di Platone è il Timeo, un dialogo nel quale espone la genesi metafisica del mondo. All’inizio del tutto ci sono tre elementi preesistenti: una materia disordinata in movimento caotico, un insieme di idee eterne e perfette (i paradigmi), e uno spazio (la chora) in cui avviene la creazione. L’opera della creazione si verifica una volta per tutte per intervento del Demiurgo, un ente superiore che ricorda in parte un artigiano e in parte un legislatore. Il Demiurgo realizza il bello e il buono dotando la materia di un ordine ispirato alle idee e, in pratica, agendo su di essa mediante le forme della geometria e i numeri della matematica. Il primo atto della creazione è di fatto costituito dalla formazione dei cinque diversi elementi che compongono il mondo a partire dai cinque solidi regolari della tradizione pitagorica: il tetraedro per il fuoco, l’esaedro (il cubo) per la terra, l’ottaedro per l’aria, l’icosaedro per l’acqua e il dodecaedro per l’etere o quintessenza. Mentre i primi quattro elementi, nelle giuste proporzioni, sono usati dal Demiurgo per comporre la Terra, il quinto elemento costituisce da solo la materia di cui sono fatte le regioni celesti e gli astri che vi si muovono.
A questo primo atto di ordinamento fa seguito la strutturazione dei cieli. Innanzitutto il Demiurgo plasma il cosmo in forma perfettamente sferica e lo regola dotandolo di due movimenti principali. Il primo movimento consiste in una rotazione circolare uniforme dell’“Identico” in se stesso verso destra, cioè di tutti i corpi celesti da est verso ovest parallelamente alla circonferenza dell’equatore celeste. Il secondo movimento consiste invece nella rotazione circolare uniforme del “Diverso” in diagonale verso sinistra, cioè di una parte dei corpi celesti da ovest verso est parallelamente alla circonferenza dello Zodiaco, inclinata rispetto all’equatore celeste. A differenza del primo movimento, che coinvolge tutti gli astri allo stesso modo, portandoli a compiere una rotazione completa intorno alla Terra in un giorno, il secondo movimento si esplica in modo diverso da pianeta a pianeta; la Luna appare infatti percorrere lo Zodiaco in circa un mese, il Sole, Venere e Mercurio in un anno, Marte in circa due anni, Giove in 12 e Saturno in 30. La combinazione dei due movimenti principali genera i percorsi che le stelle e i pianeti appaiono compiere intorno alla Terra. Ultimato il proprio intervento creatore, il Demiurgo si ritira e abbandona il mondo a se stesso. Una volta che è stato dotato di ordine e di leggi, il mondo può infatti durare in eterno, a meno che il Demiurgo stesso non torni a disfare la propria opera.
Il compito di risolvere nel dettaglio i moti planetari, di fatto molto più complessi di semplici rotazioni circolari uniformi intorno alla Terra immobile, spetta secondo Platone ai matematici. Quello che interessa il filosofo è invece il principio generale secondo cui il moto circolare uniforme è l’unico a possedere la proprietà di non avere né inizio né fine, essendo sempre uguale a se stesso. Questo moto si contrappone al moto rettilineo di caduta dei corpi pesanti o di ascesa dei corpi leggeri che caratterizza la regione terrestre, moto che è sempre delimitato da un principio e da una fine. In questo modo Platone contribuisce a marcare la distinzione fra la regione celeste, sopralunare, e la regione terrestre, sublunare, già sommariamente introdotta da alcuni filosofi presocratici. A differenza dei predecessori, Platone accentua la cesura fra le due regioni con l’introduzione di caratteri fisici specifici. Le due regioni si distinguono non solo nella geometria, per il diverso spazio che occupano, ma anche nella sostanza, a causa della diversa materia che le compone, e nella cinematica, a causa dei due diversi moti naturali che vi dominano.
In un’altra opera, la Repubblica, Platone tratteggia anche una struttura più fine del cosmo. In un celebre passo, il filosofo evoca il fuso di Ananke, la personificazione del fato. Attorno al fuso girano otto sfere cristalline che appaiono esattamente incastonate l’una dentro l’altra, in modo da evitare la presenza di spazi intermedi vuoti. Queste sfere rappresentano le sfere celesti preposte al movimento dei sette pianeti, che si succedono dalla Terra nell’ordine canonico di Anassagora, e delle stelle fisse.
La geometria dei moti planetari: Eudosso di CnidoRitenendo di aver individuato le idee seguite dal Demiurgo per costruire il mondo, Platone fissa i criteri a cui i matematici e i filosofi devono ispirarsi per definire il funzionamento dettagliato della macchina del cosmo. In estrema sintesi, ogni pianeta deve muoversi intorno alla Terra immobile di moto circolare e uniforme. La soluzione del problema è tutt’altro che semplice poiché, se si eccettuano le stelle fisse, che in prima approssimazione appaiono muoversi da est verso ovest secondo circonferenze parallele all’equatore celeste, gli altri pianeti compiono moti apparenti assai più complicati.
Sempre in prima approssimazione, il Sole e la Luna percorrono lo Zodiaco con moto uniforme da ovest verso est. Se però si osserva il corso dei due astri con sufficiente attenzione, si nota che la loro velocità di spostamento non è costante, ma presenta una o più “anomalie” di diversa entità. Con questo termine (dal greco anomalia, “irregolarità, ineguaglianza”) si designa ancora oggi ciascun elemento che allontana il moto di un pianeta dall’ideale moto platonico circolare uniforme da ovest verso est. Nel caso del Sole e della Luna, l’anomalia più rilevante in longitudine, cioè lungo la circonferenza che attraversa il centro dello Zodiaco, l’“eclittica” (così detta perché è lungo di essa che si verificano le eclissi), dipende dalla costellazione dove appare l’astro e, per questo motivo, è denominata “anomalia zodiacale”. Inoltre, nel caso della Luna, il moto dell’astro non avviene lungo l’eclittica, ma lungo una circonferenza inclinata di circa 5° rispetto a essa. La Luna presenta perciò, oltre a un’anomalia zodiacale, anche un moto in latitudine, vale a dire in direzione perpendicolare all’eclittica.
Molto più elaborato è il corso degli altri cinque pianeti classici: Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno. Se si traccia giorno dopo giorno il cammino di uno di questi astri rispetto alle stelle dello Zodiaco si può agevolmente constatare che il moto si differenzia in modo appariscente dall’ideale platonico. Quando un pianeta come Marte, Giove o Saturno compare a ovest subito dopo il tramonto, si muove velocemente verso est rispetto allo Zodiaco. La velocità decresce man mano che il pianeta, aumentando di luminosità, avanza di mese in mese lungo lo Zodiaco. A un certo punto il pianeta appare fermarsi, mantenendo grossomodo la stessa posizione rispetto alle stelle di sfondo per alcuni giorni (primo punto stazionario). Il pianeta appare tornare indietro per alcuni giorni, muovendosi da est verso ovest, e raggiungere la massima luminosità quando sorge esattamente mentre il Sole tramonta (opposizione). Appare poi fermarsi di nuovo (secondo punto stazionario) e infine riprendere il corso diretto verso est, decrescendo in luminosità e accelerando gradatamente, fino a quando sorge a est poco prima del Sole. Il comportamento di Venere e di Mercurio è simile, tranne per il fatto che questi due pianeti appaiono allontanarsi dal Sole per non più di un certo angolo (elongazione massima) e che il loro moto retrogrado non è direttamente osservabile, in quanto avviene in prossimità della congiunzione con il Sole. Questo comportamento dei pianeti porta a definire un’anomalia diversa da quella zodiacale e denominata “anomalia sinodica” (dal greco synodos, “unione”), in quanto la sua evoluzione appare sincronizzata sulla posizione assunta dal pianeta rispetto al Sole. L’introduzione dell’anomalia sinodica non esaurisce il problema. Nelle loro evoluzioni i cinque pianeti non si mantengono quasi mai sulla circonferenza dell’eclittica, ma, così come già la Luna, se ne allontanano sensibilmente in latitudine. Quando si traccia il corso di un pianeta rispetto alle stelle, si vede che esso disegna curve elaborate che, in dipendenza del segno dello Zodiaco in cui avviene la retrogradazione, possono presentarsi come cappi rivolti verso nord o verso sud, oppure come “S” diritte o speculari.
Di fronte a queste osservazioni e alla sfida lanciata da Platone, alcuni matematici si preoccupano molto modestamente di individuare la geometria di base del cosmo usando varie figure geometriche. Euclide dedica per esempio una preposizione degli Elementi al pentadecagono, il poligono regolare di 15 lati. Come Proclo Licio Diadoco nota alcuni secoli dopo, si tratta di una preposizione molto utile in astronomia. Una volta iscritto questo poligono nella sfera celeste secondo un piano perpendicolare all’equatore e all’eclittica, il lato del pentadecagono fissa la reciproca inclinazione di 24° di queste due ultime circonferenze.
Ben diverso è lo sforzo intellettuale che si richiede a chi vuole spiegare, nei limiti posti da Platone, l’astrusità dei moti planetari osservati. Ai matematici che si dedicano al problema appare evidente la non ammissibilità della soluzione base, consistente nell’accettare la rotazione uniforme rispetto all’asse del mondo di sette sfere celesti cristalline recanti ciascuna il pianeta incastonato in un punto dell’equatore. Per fortuna, l’impostazione platonica lascia uno spiraglio aperto proprio con l’introduzione dei due principali movimenti associati all’equatore celeste e all’eclittica. Il moto di un pianeta non è costituito da una singola rotazione circolare uniforme, ma dalla combinazione di due rotazioni circolari uniformi, in parte concorrenti, che si compiono intorno a due assi distinti, uno fisso (l’asse polare del mondo) e uno che descrive quotidianamente la superficie di un cono intorno all’asse polare (l’asse dell’eclittica).
Accettata questa prima apertura verso la complessità, il problema del moto planetario si trasforma nella ricerca di una opportuna combinazione di sfere o di circonferenze, mutuamente inclinate e animate ciascuna di moto circolare uniforme, tale da salvare i fenomeni osservati.
Il destino di un illustre matematico – grande fama, ma vita breve – è segnato in gioventù dall’avere il lembo della veste leccato da un bue. L’animale deve però essere Api, il bue sacro, e il matematico deve chiamarsi Eudosso di Cnido, in viaggio d’istruzione in Egitto. Passato alla storia della matematica per aver elaborato la teoria delle proporzioni poi ripresa da Euclide e il metodo di esaustione per l’analisi delle figure curvilinee poi ripreso da Archimede di Siracusa, Eudosso è allievo di Platone. Non solo prende molto sul serio le idee cosmologiche del maestro, ma è il primo a cimentarsi con successo nell’elaborare modelli geometrici in grado di descrivere l’alternarsi del moto diretto e del moto retrogrado, nonché le deviazioni in latitudine dei pianeti, ricorrendo a combinazioni di moti circolari uniformi.
Purtroppo, gli specifici scritti di Eudosso sull’argomento, e in particolare il suo trattato Le velocità, sono perduti e le poche notizie sui modelli planetari da lui elaborati si ritrovano nella Metafisica di Aristotele e nel commento di Simplicio al De coelo di Aristotele. “Eudosso” – così riferisce Aristotele nella Metafisica (12, 8, 1073b) – “sostiene che il movimento di traslazione tanto del Sole quanto della Luna si compie nell’ambito di tre sfere, la più esterna delle quali, secondo lui, è quella delle stelle fisse”, mentre “il moto di traslazione di ciascun pianeta si attua mediante quattro sfere, e le prime due sono identiche alle prime due del Sole e della Luna”.
Aristotele accenna anche alla disposizione delle sfere planetarie di Eudosso, tutte concentriche alla Terra, e perciò dette omocentriche (“con lo stesso centro”). La prima sfera di ogni pianeta è quella delle stelle “fisse”. Questa sfera presiede al primo movimento dei cieli: essa compie un giro al giorno da est verso ovest parallelamente all’equatore celeste e produce il sorgere e il tramontare del pianeta.
Sotto questa prima sfera, e da essa trascinata, si muove la seconda, inclinata di quanto l’eclittica è inclinata sull’equatore celeste (24°). Questa sfera compie un giro da ovest verso est in 30 anni nel caso di Saturno, in 12 in quello di Giove, e così via. In altri termini, questa sfera presiede al secondo movimento principale dei cieli proprio del particolare pianeta. Grazie a essa il pianeta percorre lo Zodiaco con un periodo assegnato; lo fa però senza accelerare o decelerare, fermarsi o tornare indietro.
La spiegazione dell’anomalia sinodica dipende dalle due sfere più interne, sulle quali però Aristotele sorvola. Nella Metafisica egli ci dice soltanto che “la terza sfera di tutti i pianeti ha i suoi poli nel cerchio che biseca lo Zodiaco e, infine, la quarta sfera compie la traslazione lungo un cerchio che è inclinato in rapporto all’equatore della terza”.
Ma in che modo queste due sfere più interne producono le variazioni di velocità, le stazioni e le retrogradazioni del pianeta, nonché le digressioni in latitudine dall’eclittica? Nel suo lavoro Aristotelis “De coelo” commentaria (II, 12), Simplicio fornisce alcune notizie supplementari ricavate da trattati oggi perduti. La terza sfera, trascinata dalla seconda, ruota in direzione perpendicolare allo Zodiaco con il periodo proprio dell’anomalia sinodica di ogni pianeta, cioè nell’intervallo di tempo fra due retrogradazioni successive. La quarta sfera, che porta incastonato il pianeta sull’equatore, è leggermente inclinata rispetto alla terza e compie una rotazione con lo stesso periodo, ma in verso opposto. Questa combinazione di moti uguali e contrari costituisce il colpo di genio di Eudosso: sotto l’azione delle due sfere più interne, il pianeta oscilla intorno alla posizione media descrivendo una curva chiusa detta “ippopeda” (piede di cavallo), dal nome del percorso a otto che un cavallo compie nel fare la spola fra due paletti infissi nel terreno.
Quando le due sfere interne sono trascinate dalla seconda sfera del moto medio, l’ippopeda si apre e il pianeta compie le complicate evoluzioni riscontrabili con le osservazioni, arrestandosi e tornando periodicamente indietro lungo lo Zodiaco, nonché allontanandosi dall’eclittica ora verso nord e ora verso sud.
I modelli planetari di Eudosso danno risultati accettabili per Giove e per Saturno, ma non per gli altri pianeti. I modelli a tre sfere non spiegano infatti perché, pur senza compiere retrogradazioni, il Sole e la Luna appaiono muoversi con velocità variabile lungo lo Zodiaco.
I modelli a quattro sfere sono invece incapaci di riprodurre il moto retrogrado di Marte e di Venere. Non sappiamo se questi problemi siano intrinseci ai modelli o se dipendano invece dai difetti di trasmissione delle informazioni manoscritte nel corso dei secoli.
Di fatto alcune carenze devono sussistere fin dall’origine, poiché Callippo di Cizico, studente di matematica con un associato di Eudosso e collega di Aristotele ad Atene, si preoccupa di eliminare le incongruenze aggiungendo due sfere al Sole e alla Luna, e una sfera a Marte, a Venere e a Mercurio. Purtroppo né Aristotele né Simplicio spiegano la funzione di queste sfere addizionali e, in particolare, di quelle di Marte e di Venere. La ricostruzione dello stadio finale dei modelli omocentrici resta perciò ancora oggi congetturale.
Il primo tentativo in proposito si deve all’astronomo italiano Giovanni Virginio Schiaparelli, altrimenti noto per la scoperta dei “canali” di Marte. Cultore della storia dell’astronomia antica, alla quale dedica molti lavori, Schiaparelli affida la propria interpretazione dei modelli planetari di Callippo a una memoria del Reale Istituto Lombardo intitolata Sulle sfere omocentriche di Eudosso, di Callippo e di Aristotele (1877). Fermo il ruolo delle due sfere esterne di ciascun modello nel descrivere i moti diurno e medio di un pianeta, secondo Schiaparelli le tre sfere più interne servono a produrre un’ippopeda modificata, cioè una curva chiusa a quattro cuspidi che il pianeta percorre al centro con velocità molto maggiore che alla periferia.
Tale curva permette anche a Marte e a Venere di retrogradare senza allontanarsi troppo dall’eclittica. Nel caso del Sole e della Luna, mentre i modelli a tre sfere di Eudosso si limitano a descrivere il moto diurno e il moto medio del pianeta lungo circonferenze leggermente inclinate rispetto all’eclittica (specialmente nel caso della Luna), le due sfere aggiunte da Callippo introdurrebbero nel modello la spiegazione dell’anomalia zodiacale. Anche il Sole e la Luna eseguirebbero una piccola ippopeda che, insufficiente in ampiezza per produrre una retrogradazione, basterebbe invece a produrre la minima differenza di velocità dei due astri nell’attraversare le costellazioni dello Zodiaco.
Il secondo, e per ora ultimo, tentativo di ricostruire i modelli di Eudosso modificati da Callippo si deve allo studioso israeliano Ido Yavetz. La nuova ricostruzione, pubblicata nell’articolo On the homocentric spheres of Eudoxus (1998), è molto differente da quella di Schiaparelli ed evidenzia le grandi potenzialità dei modelli omocentrici nel descrivere i moti planetari. Tuttavia, l’introduzione a opera di Yavetz della necessità di aggiustare volta per volta i parametri alla base di ciascun modello – le velocità di rotazione e le inclinazioni degli assi delle sfere – lascia seri dubbi sulla legittimità della ricostruzione. Di fatto, i modelli planetari antichi ambiscono a essere universali, vale a dire a essere costruzioni in cui i parametri di regolazione sono fissati una volta per tutte. Se così non fosse, e li si dovesse adeguare ogni volta al caso specifico, essi verrebbero doppiamente meno alla loro funzione.
Dal punto di vista matematico, i modelli salverebbero i fenomeni solo nel presente e sarebbero inutili per prevedere le posizioni future dei pianeti. Dal punto di vista filosofico, la regolazione continua dei parametri presupporrebbe un protrarsi dell’intervento creatore del Demiurgo, in netta contraddizione con il pensiero di Platone.
In qualità di matematico, Eudosso pensa probabilmente ai propri modelli omocentrici in senso astratto. Sfere e assi non sono oggetti materiali, ma figure geometriche utili per eseguire i calcoli di previsione delle posizioni apparenti dei pianeti. Una prova evidente di questa circostanza consiste nel fatto che la sfera più esterna di ciascun modello omocentrico, da quella del pianeta più lontano, Saturno, a quella del pianeta più vicino, la Luna, è sempre la stessa e coincide con la sfera delle stelle fisse. Se i modelli di Eudosso e di Callippo avessero una consistenza fisica, questa circostanza costituirebbe un assurdo; non vi sarebbe alcun modo per collegare meccanicamente la rotazione della sfera delle stelle fisse alla seconda sfera del moto medio di tutti e sette i pianeti evitando interferenze con le altre sfere intermedie, a meno di non ammettere il verificarsi di influenze occulte in grado di filtrare attraverso l’etere cristallino e agire a distanza solo su alcune e ben determinate sfere.
Diversamente dai matematici, Aristotele non ritiene importante individuare le posizioni future dei singoli pianeti. Il suo interesse come filosofo è quello di delineare una macchina complessiva del cosmo organica e funzionante. Al di là dei principi platonici generali, solo i modelli a sfere omocentriche gli offrono la possibilità di costruire una tale macchina, in cui il movimento si origina dal primo di tutti gli esseri, motore esterno al cosmo, eterno e immobile. Aristotele prende perciò in prestito i modelli omocentrici e, da puri artifici geometrici, li trasforma in entità materiali composte dal quinto elemento, l’etere cristallino o quintessenza, al quale associa le proprietà di essere perfettamente trasparente, imponderabile, incorruttibile ed eterno. Aristotele suppone inoltre che il movimento sia trasmesso da una sfera cristallina a quella immediatamente sottostante in misura decrescente. In tal modo la velocità dei pianeti diminuisce progressivamente all’aumentare della distanza dal primo motore, fino alla totale immobilità della Terra posta al centro del cosmo. Per completare la trasformazione, vale a dire perché il sistema funzioni dal punto di vista meccanico, Aristotele ha però bisogno di introdurre alcune ipotesi aggiuntive. È soprattutto nella Metafisica (12, 8, 1073b-1074a), che il filosofo si preoccupa di organizzare i singoli modelli planetari omocentrici in un sistema organico. In linea di principio, i modelli vanno inseriti l’uno dentro l’altro, a partire dalla sfera delle stelle fisse fino alla sfera più interna, quella della Luna, seguendo l’ordine canonico dei pianeti. Non è però possibile far funzionare il sistema correttamente introducendo le quattro sfere regolatrici del moto di Giove subito sotto le quattro sfere regolatrici del moto di Saturno; le cinque di Marte subito sotto le quattro di Giove, e così via, per un totale di 33 sfere. Così facendo, il moto complessivo di un pianeta soprastante influenzerebbe il moto della sfera del moto diurno del pianeta sottostante producendo anomalie indesiderate. Secondo Aristotele occorre perciò interporre fra i vari gruppi di sfere regolatrici anche dei gruppi di sfere reagenti: tre sotto Saturno e Giove, quattro sotto Marte, Mercurio, Venere e il Sole. Le sfere reagenti annullano il moto del pianeta soprastante, così che il moto del pianeta sottostante sia di nuovo riferito a un’unica sfera delle stelle fisse. In definitiva, Aristotele introduce 22 sfere reagenti e compone un sistema del cosmo formato da ben 55 sfere cristalline concentriche.
Tuttavia, più che per i dettagli della macchina del cosmo, che in breve vedranno sostanziali modifiche a opera di altri matematici, Aristotele resta un punto fermo nella storia dell’astronomia dei secoli successivi per un altro motivo. È infatti a lui che si deve la radicalizzazione della cesura fra il mondo sopralunare e il mondo sublunare. Stabilita solo su base spaziale per vari filosofi presocratici, su base spaziale e cinematica per Platone, la cesura acquista per Aristotele anche una valenza dinamica al punto che, da lui e fino all’apparire del De revolutionibus orbium coelestium (1543) di Niccolò Copernico, si riterrà che il cosmo sia diviso in due regioni dotate di due fisiche distinte. Il fatto stesso di essere costituita da un singolo elemento rende la regione celeste eterna e incorruttibile. Tale regione è dominata da un preciso tipo di moto naturale, quello circolare e uniforme già introdotto da Platone. Diversamente dalla regione eterea, la regione sublunare è composta da quattro elementi che, di per sé, tendono a distribuirsi su quattro sfere concentriche in virtù del loro peso. La terra, più pesante, tende a formare la sfera infima; l’acqua, pesante anch’essa, ma meno della terra, tende a occupare la sfera immediatamente soprastante; l’aria, leggera, tende a occupare la sfera ancora soprastante; infine, il fuoco, l’elemento più leggero di tutti, tende a disporsi nella sfera immediatamente sottostante il concavo della sfera della Luna. Incidentalmente, nelle sfere dell’aria e del fuoco ha sede, come Aristotele chiarisce nei Meteorologica, tutta una serie di fenomeni transitori. Nuvole, arcobaleni, meteore, stelle nuove e comete, per quanto possano sembrare di natura celeste, sono in realtà da ritenersi di natura terrestre. Se così non fosse, tali fenomeni costituirebbero gravissime violazioni dell’ordine incorruttibile e immutabile dei cieli. Oltre a disporsi secondo sfere, gli elementi della regione sublunare si mescolano gli uni con gli altri in proporzioni differenti per costituire tutte le cose terrene. La commistione fa sì che gli enti animati e inanimati della regione sublunare siano soggetti a generazione, mutamento, corruzione e morte. Dalle differenti proporzioni degli elementi componenti dipendono le differenze di peso degli oggetti e, in definitiva, il moto naturale rettilineo e in verticale che a tali oggetti compete. Ogni elemento tende infatti a ritornare alla sfera che ne costituisce il luogo naturale. Se in un oggetto prevalgono l’aria e il fuoco, esso sale in verticale; se prevalgono invece l’acqua e la terra, esso cade in verticale. Ogni altro moto osservabile nella regione sublunare è, secondo Aristotele, di natura violenta. Un simile moto si realizza solo sotto l’azione di una forza motrice; ne è dimostrazione lo spostamento di oggetto su un piano orizzontale: l’oggetto si ferma più o meno rapidamente non appena si smette di spingerlo.