Il costituzionalismo liberale
Il costituzionalismo liberale ottocentesco affonda le sue principali radici dottrinali e istituzionali nella cultura madre del costituzionalismo ‘rivoluzionario’ del 17° e 18° secolo. Forma un grosso ramo dell’‘albero’ che chiamiamo costituzionalismo; ne ripensa e analizza criticamente i risultati, respinge alcuni profili, ne sviluppa e valorizza altri. Non si tratta quindi di un legato univoco, di un patrimonio che si possa accogliere come un tutto unitario.
Per il contesto italiano definiremo come costituzionalismo liberale quel movimento intellettuale e quei processi storici concreti che sfociano in una dimensione costituzionale nell’ambito di uno sviluppo cronologico che per mera convenzione occupa il secolo che corre dagli anni delle Restaurazioni alla crisi del primo dopoguerra. E, tuttavia, se questa dimensione temporale può essere considerata in termini di sostanziale unitarietà, nello stesso tempo il nostro obiettivo risiede soprattutto nel cogliere i presupposti e i fondamenti del costituzionalismo liberale, lasciando ad altro contributo l’esame specifico dello statualismo costituzionale che rappresenta al tempo stesso uno sviluppo e un superamento della prima fase del costituzionalismo liberale (1815-1880 circa).
Questo movimento si mette alla ricerca di un punto di equilibrio e di un difficile compromesso, quasi a voler temperare la potenza profetica delle inedite energie che le dinamo rivoluzionarie tra Seicento e Settecento hanno prodotto nel contesto del più ampio processo di evoluzione e di articolazione tipologica dello Stato moderno. Si ha l’impressione che nel frangente del costituzionalismo rivoluzionario le diverse esperienze (in special modo nel triangolo atlantico dell’Inghilterra, dell’America e della Francia) abbiano prodotto categorie, linguaggi, soluzioni che il lungo Ottocento vorrà o potrà metabolizzare solo in parte e in chiave sostanzialmente eclettica.
Nel periodo preso in esame, inoltre, rimangono fermi i pilastri originari del costituzionalismo moderno, ma ciò che è oggetto di ripensamento e di nuova balance sono alcuni orizzonti che appaiono radicali o almeno tali potenzialmente. Si tratta, dunque, non di tornare indietro (cosa certo possibile a livello teorico e dottrinale) quanto piuttosto di combinare assieme e di governare quell’insieme di regole e di principi politico-giuridici in grado di dare soluzione all’incontro, fonte di tensioni e di contraddizioni, tra le libertà/garanzie dei moderni e un principio stabile e progrediente di ordine costituzionale.
La dimensione propria del costituzionalismo liberale italiano non può prescindere da alcuni ‘formanti’ quali l’immediata dominazione francese sino all’età napoleonica, il perdurare di presenze ‘straniere’ e la frammentazione politico-istituzionale nell’età della Restaurazione, l’avvio e lo sviluppo del Risorgimento nazionale, il carattere proprio degli strati borghesi, il complesso processo di building-State, il dibattito dottrinale sulle scelte istituzionali compiute e sulla costruzione dello Stato liberale di diritto che trova nel Vittorio Emanuele Orlando degli anni Ottanta l’artefice del principale paradigma scientifico teso a rileggere e rifunzionalizzare la stessa cultura del costituzionalismo liberale.
Nella fase storica oggetto di questo contributo a emergere con maggiore evidenza sembrano essere, almeno sino all’unificazione, più le ‘politiche costituzionali’ e la ‘costituzione come ideologia’ che non una organica costellazione concettuale di tipo giuspubblicistico. Tale rispondenza ai canoni scientifici del «diritto costituzionale» sarà più forte e visibile nel contesto rinnovato che unisce il problema della costituzione al processo di edificazione dello Stato nazionale.
Il costituzionalismo liberale segue in Italia una linea di sviluppo che è più vicina, per ragioni storiche, all’esperienza francese postrivoluzionaria. Per vicinanza è da intendere anzitutto una prossimità di tipo culturale e istituzionale, nel senso che l’età delle costituzioni in Italia ha un avvio significativo negli anni del cosiddetto triennio giacobino. È in questi anni che scorgiamo l’influenza della costituzione dell’anno III sui complicati ‘esercizi’ di assetto costituzionale delle repubbliche italiane, alla ricerca di un ordine che sarà trovato più sul piano delle forze reali (esercito e amministrazione) che su quello del rendimento e delle culture istituzionali. Si è però alla ricerca del ‘governo migliore’ e il ‘modello’ francese – che è a sua volta un complesso palinsesto testuale e ideologico – pone senza dubbio il problema tutto moderno della scrittura della costituzione-atto e della sua natura conformativa. L’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 rappresenta una tessitura di principi imprescindibili che potranno, come in un gioco di specchi, rinviare a loro volta immagini del costituzionalismo atlantico, britannico e americano, per lo più filtrato attraverso questo primo dimensionamento di impianto francese.
La democrazia rappresentativa affermata dalla costituzione dell’anno III doveva rappresentare per il primo ‘costituzionalista’ italico Giuseppe Compagnoni il modello per l’Italia (Elementi di diritto costituzionale democratico [1797], a cura di I. Mereu, D. Barbon, 1985).
Un modello politico-costituzionale che poteva contenere a sua volta elaborazioni mentali assai diverse, dall’ordine plurale al governo elitario. La pedagogia costituzionale è, in questa fase, il principale approccio ‘costituzionalistico’ e ben rappresenta temi e culture circolanti allora tra la Francia e l’Italia. Non mancano elementi di differenziazione nell’esperienza delle cosiddette Repubbliche sorelle, pur in presenza di un modus agendi che privilegia formule costruttiviste e ‘uniformatrici’ in campo istituzionale. Si pensi, per es., alla Costituzione partenopea del 1799 elaborata da Francesco Mario Pagano con i suoi Efori e Censori e un'organizzazione dei poteri che rappresenta, a parte la Francia, un unicum nel contesto europeo o ancora alla costituzione della Repubblica italiana del 1802 che segue, vieppiù complicato, lo schema della costituzione dell’anno VIII. Vista nella prospettiva dell’imperialismo napoleonico, la costituzione del governo di brumaio rivela, dietro l’apparenza di complesse dinamiche costituzionali e attraverso la moltiplicazione e il depauperamento rappresentativo delle assemblee legislative, i poteri reali ben serrati nelle mani del primo console.
Nel 1804 Vincenzo Cuoco, riprendendo le critiche all’astratto costruttivismo ‘giacobino’, scorge nella rifondazione ereditaria del potere esecutivo, accompagnata dalla responsabilità dei ministri, la via per una possibile conciliazione tra la libertà e l’Impero (V. Cuoco, Napoleone Imperatore, «Il giornale italiano», 30 maggio-2 giugno 1804, in Id., Scritti vari, 1° vol., 1924, p. 104). Proprio Cuoco aveva preso atto nel Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli (1802) della necessità realistica di governare le diverse «nazioni» che formavano la società «italiana» attraverso la leadership dei savi resa possibile dal sostegno decisivo dello Stato napoleonico. Un modello nel quale la pedagogia costituzionale difficilmente poteva conciliarsi con lo spirito più genuino del costituzionalismo. In un raro scritto del 1815 l’esule Pellegrino Rossi e futuro costituzionalista tracciava un lucido bilancio di un’epoca letta in chiave ‘progressiva’:
Il regno d’Italia, benché troppo soggetto alla dominazione francese, e non ancora ben mondo d’ogni macchia rivoluzionaria, offriva cionostante uno spettacolo abbastanza grato a un italiano, perché aveva infine una costituzione, un’amministrazione propria, un’armata, un tesoro, quell’insieme in una parola, che costituisce uno stato separato: col tempo la dominazione francese poteva diminuire, le istituzioni migliorarsi, l'insieme consolidarsi: non era al certo una stoltezza lo sperare che alfine, alcune almeno di quelle parti d’Italia, che erano si mostruosamente attaccate alla Francia, potessero più naturalmente e convenevolmente unirsi al regno d’Italia. In somma se non potevasi ancora godere, vi era almeno qualche ragione di sperare, e più vi era da sperare pei figli nostri (Autodifesa. Risposta alle imputazioni diffuse contro di lui dopo la fuga da Bologna, scritta a Genthod in data del 14 luglio 1815, Ginevra, Bibliothèque publique universitaire, Gh 977 Réserve, pp. 10-11).
Al momento della Restaurazione uno spirito militante e originale come Gian Domenico Romagnosi elabora quel vasto disegno – rimasto allora in gran parte inedito – di filosofia ‘costituzionale’ che individua nella «Monarchia nazionale rappresentativa» il polo attorno al quale costruire una complessa scienza delle costituzioni (Della costituzione di una monarchia nazionale rappresentativa: la scienza delle costituzioni [1815], a cura di G. Astuti, introduzione di F. Patetta, 1937). La costituzione politica come limite è valida se riesce ad armonizzare le diversi parti, a disciplinare il regime, a garantirne l’esecuzione. Ma in Romagnosi quella che lui chiama la compotenza non può fare a meno della nuova grande forza morale che è l’opinione pubblica in grado, se illuminata e savia, di legare la società civile a quella politica nonché a diventare il potere predominante della macchina costituzionale verso cui devono convergere i poteri governativi e quelli popolari.
La monarchia di Romagnosi ha, come in certe riflessioni di Benjamin Constant, un fondamento repubblicano e non può assolutamente guardare in direzione della costituzione inglese (o a una forma 'autoctona' anglofila quale quella siciliana del 1812) che viene rappresentata come costituzione di impronta feudale e nobiliare. Nella singolare architettura romagnosiana vediamo riaffiorare quell’immaginifico linguaggio che, a partire dal tumultuoso decennio rivoluzionario, aveva cercato di individuare lo spazio di un ‘potere supplementare’ che potesse conciliare la volontà del legislativo e l’azione dell’esecutivo, il dogma dell’unità sovrana del corpo politico della nazione e la logica razionalizzata dell’equilibrio o della balance.
Malgrado gli sforzi operati sul registro del costituzionalismo, la Monarchia nazionale rappresentativa di Romagnosi è una possibile sintesi di una stagione che non lascia in eredità all’Italia, al momento della Restaurazione, un insieme organico di principi costituzionali, come nel caso di Constant in Francia. Essa rimane legata alle radici rivoluzionarie innervate dalla concezione napoleonica dello Stato pedagogico, istitutore del sociale, per certi versi autentica forma razionalizzata dell’assolutismo settecentesco. La centralità di una mediazione tecnocratico-amministrativa non rompe i legami con i modelli di costruzione corporata del sociale tipici dell’antico regime e in questo contesto non si riesce ancora a immaginare un legame politico-fiduciario tra l’esecutivo monarchico, l’opinione pubblica e le istituzioni rappresentative.
L’Italia della Restaurazione si ritrova senza costituzioni e il fragile costituzionalismo, evocato dai liberali e operante in brevi interludi ‘dinamici’ – i cosiddetti moti risorgimentali – è ben poco supportato da una elaborazione dottrinale: in realtà, la costituzione appare come un bene in sé (a prescindere da forma e contenuti), possiede forza in quanto ideologia, è una tavola di valori che tende a subordinare i fatti alle idee. La Costituzione di Cadice o la Costituzione siciliana del 1812 – allora richiamate o 'recepite' – sono dunque idee di costituzione. E malgrado il tentativo di impiantare istituzioni rappresentative, come nel caso napoletano del 1820-21, l’esito fallimentare del biennio accentuò la diffidenza dei governi e non di rado anche la critica dei moderati verso un parlamentarismo privo di tradizioni che non fossero quelle che riportavano agli antichi Stati. La sostanziale ineffettività delle esperienze costituzionali era lo specchio di una fragilità strutturale. Né la breve stagione della ‘monarchia consultiva’, a prevalente valenza politico-territoriale, né i progetti infrastatuali degli anni Quaranta nel segno di un indefinito discorso ‘federalistico’ (la ‘costituzione’ di Vincenzo Gioberti) acceleravano, negli Stati, lo sviluppo della cultura rappresentativo-parlamentare.
Sarebbe tuttavia un approccio parziale quello che volesse leggere i fondamenti del costituzionalismo liberale solo attraverso i testi costituzionali. Non bisogna infatti dimenticare quella vicenda dell’ordine giuridico ottocentesco, liberal-borghese, che trova nel codice civile – ovvero il Code Napoléon quale suo paradigma par excellence – la sua più autentica costituzione materiale. Lo spazio del codice civile possiede un’indubbia vocazione ‘costituzionale’ e una forte pretesa di stabilità e di autonomia.
Il 19° sec. principia, nel ‘modello francese’ (che avrà ampia risonanza europea), con un costituzionalismo debole o puramente imperiale e con un ordine costituzionale dei privati straordinariamente forte. Sulla scia dell’individualismo proprietario, la dimensione costituzionale accentua, a partire dall’età napoleonica, la logica del privatismo. Il binomio al centro della scena non è più quello libertà/eguaglianza, dirompente nella fase più radicale della Rivoluzione, ma libertà/proprietà, con l’égalité neutralizzata dall’antropologia del possesso e la liberté resa possibile nella sfera dell’homo oeconomicus.
La garanzia costituzionale (e quindi il costituzionalismo) può operare principalmente nell’ambito delle libertà economiche, impallidisce quanto più ci si allontana dall’antropologia del proprietario maschio e maggiorenne. La logica del codice è, al tempo stesso, la logica della legge. Questo tipo di ‘regno della legge’, con le sue radicate mitologie, è ben diverso dal rule of law di matrice anglosassone. Il legicentrismo determina una progressiva scissione tra legge e costituzione, tra legge e diritti. La legge par excellence, il codice civile, ha, in tal senso, impoverito la teoria costituzionale dei diritti.
Non ci meraviglia che il filone più sostanzioso del costituzionalismo liberale del primo Ottocento trovi, a livello europeo, in Constant lo scrittore che, muovendo proprio dall’esperienza rivoluzionaria e napoleonica, censura il legislatore onnipotente e considera la costituzione «un acte de défiance puisqu'elle prescrit des limites à l'autorité [...]» (Opinion, 15 nivoso anno VIII, 5 genn. 1800, cit. in L. Jaume, L'individu effacé ou le paradoxe du libéralisme francais, 1997, p. 106). Limitare la sovranità, e dunque il potere, significa tracciare anzitutto la linea invalicabile della «libertà dei moderni» che garantisce i cittadini «contre le pouvoir». Ma ciò non basta. Constant coglie lucidamente i pericoli del privatismo. Il governo rappresentativo non sana del tutto l'irriducibile distanza tra governanti e governati, così come la divisione dei poteri è inutile se i poteri finiscono per non limitare la prorompente autorità sociale.
La libertà degli antichi assicurava la partecipazione al potere sociale ma con il rischio che gli uomini cedessero a poco prezzo i diritti e i godimenti individuali. La libertà dei moderni, ovvero la libertà individuale che offre il benessere e l’indipendenza privata, rischia di annullare quella politica. L’uomo moderno ‘costituzionale’, invece, ha bisogno di entrambe le libertà, ovvero di combinarle assieme. È questa l’alchimia del costituzionalismo liberale di matrice individualistica che Constant elabora durante l’età napoleonica e codifica nella sua celebre conferenza su La liberté des anciens comparée à celle des modernes (1819). In questo costituzionalismo del soggetto cogliamo la tensione tra la necessaria difesa dell’individuo attraverso le garanzie e il pericolo dell’esorbitanza di un potere sociale che, sotto varie forme a cominciare dalla forma-Stato, minaccia lo stesso ordine dei privati.
Se in ambito continentale il costituzionalismo liberale si esprime essenzialmente attraverso la stagione ‘anglofila’ delle Chartes constitutionnelles francesi, l’innovativa esperienza belga del 1831, il variegato Frühkonstitutionalismus di area tedesca, in Italia è il quarto decennio del secolo quello che apre nuovi orizzonti. Aveva scritto la figlia del banchiere ginevrino Necker:
Il credito è dunque la vera scoperta moderna che ha legato i governi coi popoli. Il bisogno di credito obbliga i governi a rispettare la pubblica opinione; ed allo stesso modo che il commercio ha incivilito le nazioni, il credito che da esso deriva ha reso necessarie delle forme costituzionali qualsivoglia […] (A.-L.- de Staël-Holstein, Considérations sur les principaux événements de la Révolution française [1818]; trad. it. 1943, p. 96).
Le monarchie italiane senza costituzione sono – direbbe Madame de Staël – monarchie «senza credito», governi che non possono «rispettare l’opinione pubblica» e collegarsi alla nazione. Ma proprio in quegli anni comincia a emergere quella sfera pubblica – fondata sui presupposti della comunicazione sociale: la nazione dei lettori e del pubblico criticante – che funge da terreno di collegamento tra esperienze distinte ed eterogenee. L’opinione pubblica e la nazione sono dunque le strutture decisive per collegare i soggetti negli Stati e tra gli Stati. L’ampliamento di scala, da regionale a nazionale, apre prospettive in parte inedite e si comincia a codificare un’idea di pubblico.
Massimo D’Azeglio nella sua celebre Proposta d’un programma per l’opinione nazionale italiana (1847) costruisce la figura dell’opinione pubblica – di cui invoca il ruolo decisivo – come forza morale trasparente. È proprio la necessità di uscire definitivamente dalla stagione della forza materiale segnata dalle società segrete e dal loro sterile settarismo, a spingere verso mezzi capaci di influire sull’opinione pubblica che è la prima dispensatrice della forza morale. D’Azeglio intravede – specie dopo il programma di Pio IX – la possibilità per il partito moderato di non essere più percepito come fazione ma come opinione nazionale italiana.
L’obiettivo, certo difficile, è dunque quello di integrare nell’opinione pubblica nazionale quell’insieme di identità diverse che caratterizzano la nazione plurale degli Italiani. In questi anni l’opinione pubblica invocata e abbozzata dal moderatismo liberale ha ancora una dimensione più ‘prepolitica’ che costituzionale. La sua struttura di civil society guarda anzitutto allo sviluppo di una classe borghese di stampo europeo che unifica ceti e dimensioni sociali rivolte al progresso materiale (dalle ferrovie alle leghe doganali) e alla distinzione per merito e per «capacità di innovazione».
Ma il governo con il pubblico è la strada per arrivare al governo con la costituzione. Non sorprende che gli ‘incunaboli’ del costituzionalismo italiano siano incentrati in grandissima misura sul nesso libertà di stampa, opinione pubblica, governo costituzionale/monarchia rappresentativa. Non è difficile cogliere l’affioramento di quella cultura liberalcostituzionale che ha radici britanniche ma forma francese, filtrata attraverso Constant, Rossi, Charles-Guillaume Hello e altri scrittori orleanisti.
In pochi mesi, tra la fine del 1847 e la primavera del 1848, lo scenario nazionale cambia decisamente. Le monarchie «senza credito» devono prendere la strada del modello censitario-rappresentativo di impianto liberale. La costituzione, rapidamente, consacra l’avanzata nazionale dell’opinione pubblica, imita modelli stranieri coniugandoli ai contesti, si conquista credito. Il 1848 afferma in Italia le prime esperienze costituzionali, fatte di dottrine, lotte parlamentari, prassi: inizia una brevissima, difficile ma decisiva stagione che segnerà un punto di non ritorno. La vita costituzionale consente di consolidare logiche e dinamiche ‘rappresentative’ che vengono così messe alla prova per la prima volta.
Nell’aprire la nuova stagione, il movimento politico-costituzionale del 1848 contribuisce in maniera significativa a dare un primo imprinting al costituzionalismo italiano. Anzitutto la vicenda storica: dalle ceneri del 1848-49 resterà in piedi solo l’esperimento sabaudo. Spesso si è portati a ritenere che la forza del Regno di Sardegna come motore dell’unificazione risieda anzitutto in un esercito moderno e in uno stato amministrativo ben funzionante. A nostro avviso la vera forza risiede prima di tutto nella tenuta e nello sviluppo della costituzione, del Parlamento e del rapporto con l’opinione pubblica (nazionale). La dinastia sabauda (e la classe dirigente che la sostiene) acquistano meriti e credito più che per concedere lo Statuto, per mantenerlo vivo una volta passato il Quarantotto. Questa è la decisione fondamentale da cui discendono molte conseguenze.
Il costituzionalismo liberale si sviluppa nell’alveo dottrinario del costituzionalismo moderno inteso come teoria e pratica istituzionale di limitazione e regolazione politico-giuridica dei poteri pubblici di governo allo scopo di garantire ambiti di autonomia definiti da diritti e libertà, con l’obiettivo di progettare e decidere equilibri storico-concreti che mutano dinamicamente nel corso del tempo. L’Italia, dunque, fa il suo ingresso definitivo nel percorso plurale del costituzionalismo moderno, in un momento specifico. La costituzione del ’48 è scritta ma è il risultato di un dibattito che a lungo ha fatto perno sullo schema della monarchia cetuale e consultiva. La costituzione 'antica' di Gioberti – storicamente segnata da una determinante di tipo pattizio-federativo che viene dalla tradizione municipale – non è del tutto estranea ai liberali moderati che rileggono la costituzione inglese come modello per una graduale transizione verso la monarchia costituzionale rappresentativa.
Bisogna fare i conti con la costituzione-atto, ma l'appello alla storia suggerisce la ricerca di un fattore di temperamento. Si cerca di ‘correggere’ la rigidità della costituzione artificiale, fondata sulla preminenza dell'indirizzo politico come atto di sovranità, rileggendola alla luce di una ‘razionalizzazione’ storicistica. Al principio della Restaurazione Constant aveva detto che «les constitutions se font rarement par la volonté des hommes» perché «le temps les fait» (Réflexions sur les constitutions, la distribution des pouvoirs et les garanties, dans une monarchie constitutionnelle, 1814). Il discorso viene spostato dalla mera contrapposizione costituzione razionale/costituzione storica, a una prospettiva assai più complessa senza la quale è difficile immaginare il processo di razionalizzazione e di ‘funzionalizzazione’ della monarchia costituzionale.
Il costituzionalismo liberale italiano nasce, come quello francese o tedesco, dalla stagione dell’octroi, ovvero delle costituzioni concesse dai monarchi. Attraverso questa modalità il sovrano cerca di riportare nel suo raggio d’azione l’idea della costituzione-atto. Cerca così di sterilizzare il più terribile dei poteri, il potere costituente del popolo. Nella seconda metà del 18° sec. We the people, Nous la nation hanno definito – pur con forme ed esiti differenti – un nuovo ordine concettuale destinato a segnare in maniera indelebile le moderne dottrine della costituzione. È il popolo che si autodefinisce e si autorappresenta come totalità, come unità politica consapevole di esistere e di avere una capacità politica di agire. Tutti i corpi ‘estranei’ - ovvero 'altri' rispetto alla nazione – non possono più esistere se non annullandosi nella sovranità popolare.
Il costituzionalismo liberale intende invece ricondurre questo percorso all’interno di una forma complessa di legittimazione. Il principale artefice dello Statuto albertino del 4 marzo 1848, il conte Giacinto Borelli, dirà a Carlo Alberto, titubante ma consapevole della situazione:
Bisogna darla [la costituzione], non lasciarsela imporre; dettare le condizioni, non riceverle; bisogna avere il tempo di scegliere con calma i modi e l’opportunità, dopo aver promesso di impiegarli (Lo Statuto albertino e la sua preparazione, a cura di G. Falco, 1945, p. 180).
Il costituzionalismo liberale muove da testi che sembrano guardare più al passato che al futuro. Il lessico utilizzato è arcaico, evoca franchigie feudali, organismi cetual-territoriali, liberi Comuni. È un lessico medievaleggiante che richiama la diplomatica dell’epoca, stilemi e formule antichissime, concezioni di antico regime. È un lessico complesso che copre un’area semantica al cui interno troviamo l’idea di privilegio, i concetti di concessione, imposizione, ma anche di disposizione e di accordo. È «con lealtà di Re e con affetto di Padre» che Carlo Alberto concede il suo Statuto. Il re-patriarca ha inteso trovare «un mezzo il più sicuro di raddoppiare coi vincoli d’indissolubile affetto che stringono all’itala Nostra Corona un Popolo».
Perciò di Nostra certa scienza, Regia autorità, avuto il parere del Nostro Consiglio, abbiamo ordinato ed ordiniamo in forza di Statuto e Legge Fondamentale, perpetua ed irrevocabile della Monarchia (Statuto del Regno di Sardegna, 4 marzo 1848).
Costituzione-atto ma mediante concessione, forma arcaica ma con contenuti riconducibili ai diversi percorsi dell’ordine liberal-costituzionale. Tale ambivalenza è uno dei tratti forti di questo costituzionalismo liberale. Ma tale carattere deriva soprattutto dall’apparato ermeneutico che si forma nel dibattito teorico e nella lotta politico-parlamentare. Il liberale Karl Theodor Welcker aveva scritto, nel contesto del Frühkonstitutionalismus tedesco, che le costituzioni ottriate non sono «vere» costituzioni. Esse, semmai, lo diventano quando il popolo le accoglie con favore: «Solo l’accettazione e la garanzia reciproca, su basi contrattuali, libera e sincera le rende una costituzione» (Octroyirte Verfassungen, in K. von Rotteck, K. Welcker, Das Staats-Lexikon. Encyclopadie der sammtlichen Staatswissenschaften fur alle Stande, 1864. B. X, p. 735). Nel momento in cui il sovrano concede, come rappresentante del potere costituente, la legge costituzionale, questa non potrà più essere revocata.
Il recupero tardivo del modello della Charte del 1814 non impedì ai liberali piemontesi di leggere lo Statuto come la fonte di un assetto costituzionale progressivo. Esemplare l’interpretazione immediata e autorevole del conte di Cavour che, nel celebre articolo del 10 marzo apparso in «Il Risorgimento», osserva che, una volta intrapresa la strada dell’«autolimitazione», il potere unilaterale «il Re non [lo] possiede più. Un ministro che gli consigliasse di farne uso, senza consultare la nazione, violerebbe i principii costituzionali, incorrerebbe nella più grave responsabilità». Il King in Parliament, nella lettura dualistica che fu da allora proposta, servì a delineare – all’interno di un testo come lo Statuto che veniva dopo il costituzionalismo orleanista e la carta belga – una struttura rigida – il patto – che avrebbe dovuto limitare e contemperare le ragioni e gli interessi contrapposti offrendo garanzie reciproche.
Cavour conosceva bene il dibattito e il conflitto politico-costituzionale che aveva portato alla costituzione orleanista del 1830 e allo sconfitta della lettura ultraroyaliste che si era trincerata dietro il baluardo della lettre e della Carta come atto giuridico unilaterale. Al contrario – come osservava lo stesso Cavour – i liberali avevano fatto leva soprattutto sull’esprit e sul fatto che la Carta aveva istituito un certo grado di collaborazione tra il principio monarchico e il principio rappresentativo incarnato dalla Camera dei deputati.
La costituzione non è dunque il punto di arrivo, al contrario è il punto di partenza per lo sviluppo del governo monarchico rappresentativo. La Charte del 1814 è il modello per la forma della Costituzione, ma i liberali hanno poi in mente il framework dinamico e sostanziale della Charte orleanista del 1830 e la Costituzione belga del 1831 che presuppone un accordo costituzionale nel segno di una rappresentanza plurale.
Quella che solitamente viene chiamata ‘onnipotenza parlamentare’, ovvero la capacità di decisione politico-costituzionale riconosciuta al costrutto King in Parliament, non può essere scollegata, anche per l’esperienza italiana, dalla teoria della sovranità della costituzione. Ancora una volta i liberali italiani parlano inglese, enfatizzano l’esperienza e la cultura britannica, ma poi agiscono soprattutto ‘alla francese’. Ciò significa aver meditato e valorizzato quelle dottrine che si sviluppano in Francia tra la Restaurazione e soprattutto l’età orleanista. La Charte era diventata l’alfa e l’omega, la risorsa strategica da richiamare per fronteggiare quelle che per i liberali sono due distinte e potenziali minacce, lo spettro del potere costituente rivendicato dalla sovranità del popolo e quello della sovranità assoluta del monarca.
In particolare sono i dottrinari francesi ad affermare che la sovranità della ragione è il fondamento di un costituzionalismo moderato e di una forma di governo well balanced. Nella loro riflessione convergono, in maniera eclettica, il costituzionalismo alla Constant e l’idea di nazione elaborata dagli scrittori controrivoluzionari. Alla fine non è sovrano da solo nessuno dei poteri istituiti dalla costituzione. Essa finisce con il diventare un parametro di ragione e a essa si assegna, sorta di ‘luogo neutrale’, l’attributo di entità sovrana per modo che né il principe né il popolo, né la monarchia né la democrazia potessero pretendere l’esercizio del temibile potere costituente.
L’obiettivo del costituzionalismo di età liberale è perseguire la logica del bilanciamento e dell’equilibrio, la collaborazione/unione dei poteri lungo l’asse monarca-parlamento.
La cultura liberale pensava di poter ‘prevenire’ le pericolose infatuazioni offrendo strumenti critici, aggiornati, adeguati allo stato della più moderna civilizzazione. Cesare Balbo traccia nel 1847 l’autobiografia di una generazione: la sua «parte» è quella dei liberali o progressisti
meno estremi, meno puri, che nominano sé stessi liberali di mezzo, o liberali moderati; e che così sono pur nominati da tutti, perché questa denominazione è necessaria, è inevitabile, perché sola esprime il fatto relativo dello star in mezzo alle altre due parti […] (Dell’uso delle parole moderazione, opinione moderata e parte moderata. Lettera al signor***, 19-23 giugno 1847, in Id., Lettere di politica e letteratura edite ed inedite di Cesare Balbo precedute da un discorso sulle rivoluzioni, 1855, p. 460),
ovvero dei conservatori puri e dei liberali più radicali. Il partito moderato, scrive il conte di Cavour a Victor Cousin, «s’efforce d’opérer le progrès sans recourir aux moyens révolutionnaires» (Lettera del 4 febbraio 1846, in C. Cavour, Epistolario, a cura di C. Pischedda, 3° vol., 1844-1846, 1973, pp. 274-75).
È anche per questo che la categoria della ‘parlamentarizzazione’ non descrive in maniera esaustiva la logica istituzionale del costituzionalismo liberale. Se per parlamentarismo, inteso come regime o governo liberale, intendiamo – secondo la classificazione tradizionale delle forme moderne di governo (parlamentare, presidenziale, collegiale/direttoriale) – quello nel quale il governo è ritenuto, in solido, politicamente e giuridicamente responsabile del suo programma davanti a un parlamento eletto (in tutto o in parte) che gli affida, attraverso un vincolo maggioritario revocabile, il potere di guidare le Camere (e quindi la nazione in esse rappresentata), non sarà facile collocare dentro questo schema e con questi termini i fenomeni osservabili nel periodo esaminato.
Allora, più che di governo parlamentare, bisognerebbe parlare del principio parlamentare come problema, come cifra da leggere all’interno del campo da gioco che trova nel governo rappresentativo la formula più ampia e più elastica. Il parlamentarismo – diversamente da quanto viene ancora sostenuto – non appare una conseguenza naturale, logica e quasi automatica dell’applicazione sincera del sistema rappresentativo. Principio parlamentare e governo rappresentativo sono invece i termini compresenti ma non convergenti di una vicenda complessa.
Piuttosto sembra emergere e strutturarsi un regime di bilanciamento dei poteri ad esecutivo monarchico, nella convinzione che lo stretto rapporto tra monarca e governo (affermato dal testo dello Statuto, artt. 5, 6 e 65) debba contrastare – in funzione conservatrice – la pretesa o la tendenza della Camera elettiva ad ‘assorbire’ il potere esecutivo e assumere una posizione di preponderanza in contraddizione con il principio del concorso e dell’equilibrio dei poteri.
La monarchia costituzionale è la forma prevalente di ordine politico per tutto il 19° sec., uno spazio concettuale che nel corso dell’Ottocento assume caratteri e condizioni diversi pur muovendo da ragioni e presupposti comuni. Gli esiti però non sono scontati. Per comprendere la funzione monarchica nel suo processo di adattamento costituzionale è fondamentale il concetto di influenza, un concetto chiave, ancorché sfuggente. Basta leggere le riflessioni dei costituzionalisti liberali per rendersi conto di questo aspetto.
La fortunata formula dell’orleanismo francese, il «re regna ma non governa», deve essere letta in questa prospettiva. Già Constant, al momento della Restaurazione, aveva rivalorizzato le potenzialità costituzionali della «condizione monarchica». Nella sua lucida riflessione – non di rado malintesa – sul «potere neutro», concepito sia come «potere neutro e preservatore» sia come «potere neutro e intermedio», il sovrano è l’organo dell'unità nazionale e della continuità dello Stato, organo che incarna la «puissance publique». Il re potere neutro dovrebbe avere la capacità e la volontà – e qui sta il problema – di tenere in equilibrio l'opinione e il «potere ministeriale», le Camere e la funzione di governo, individuando il punto variabile di compromesso.
Mediare tra queste due grandi forme di legittimità indipendenti, il sovrano e la «rappresentanza dei moderni», è dunque il compito storico del 19° sec. e in particolare del costituzionalismo liberale. La non casuale vaghezza e duttilità della formula costituzionale – strutturale nel costituzionalismo della Restaurazione – era in realtà un programma, da interpretare e riempire di contenuti. E, a ben vedere, la difficile separazione fra regnare e governare è anche il grande tema della storia italiana.
Queste matrici istituzionali e culturali troveranno il più lucido sistematore in Vittorio Emanuele Orlando, a cominciare da uno dei suoi grandi saggi giovanili, gli Studi giuridici sul governo parlamentare (1886). Se guardiamo, in conclusione, il costituzionalismo liberale da questo osservatorio possiamo cogliere l’avvio e il primo consolidamento di una strategia ideologica e discorsiva incentrata sul trasferimento allo Stato-persona della piena titolarità di una sovranità opportunamente ridefinita. L’obiettivo non è solo quello classico del costituzionalismo liberale, ovvero limitare/regolare i poteri pubblici e garantire i diritti; ora si tratta di assicurare un valore centrale nell’antropologia liberale: la stabilità del costrutto sociale reso ‘persona’ attraverso il diritto e la sua capacità di conformarne i poteri a guisa di organi.
Negli anni del parlamentarismo e dei nuovi paradigmi scientifici, appare in crisi una certa retorica della costituzione, l’ottimismo – spesso anglofilo – per le intrinseche virtù organiche del governo parlamentare, per la mano invisibile dei pesi e dei contrappesi. Il costituzionale come politica/ideologia liberale – così era stato dai tempi di Constant – ha perduto la sua spinta. Costruito lo Stato con il sangue dei martiri, la generazione nuova degli Orlando assume per sé la missione del nation-building. Lo Stato liberale di diritto viene vincolato all’idea storica della nazione e delle sue generazioni, per cercare di depotenziare sia la mera forza del numero sia l’ingerenza della politica. Questa può trovare il suo cuore pulsante nel parlamento, ovvero in quel suo modo di essere che poggia sul circuito ‘fazionario’ che lo controlla, lo trasforma in una ipertrofica macchina legislativa, ne orienta in modo patologico il suo ‘comitato’, il ministero, ne depotenzia la responsabilità, si autoalimenta di personalismi e localismi e si scarica sull’amministrazione e sulla giustizia.
Nel riflettere sul governo parlamentare come forma politica non si poteva restare alla superficie, ma occorreva scavare più nel profondo osservando le forze operanti nella società incapaci di tradursi in unità politica e fondamento costituzionale dello Stato. L’evoluzione della forma politica rivelava in realtà le dimensioni del conflitto in seno al corpo sociale e alle sue forze. È in questi anni giovanili che Orlando costruisce, saggio dopo saggio, il mosaico che edifica la sua teoria giuridica dello Stato rappresentativo moderno inteso come Stato liberale di diritto. La fondazione dello Stato giuridico (e con esso della scienza deputata a sistemare e custodire le strutture di diritto pubblico che legano lo Stato alla società) è il risultato di una complessa e razionale concettualizzazione. Lo storicismo savignyano e la coscienza popolare depotenziano l’idea della sovranità popolare e del volontarismo politico, passando dall’indicibile potere costituente alla legge (propria/impropria) come forma che può solo dichiarare i rapporti giuridici che a essa preesistono. Ma lo Stato-persona non si può ‘spiegare’ e rappresentare attraverso la società e le forze che in essa operano. Lo Stato giuridico deve essere sottratto all’incandescenza del reale e alla dimensione del conflitto. L’autonomia di volontà della persona/Stato ha come corollari un’idea storicistica di diritto, una sovranità propria, un meccanismo di rappresentanza/designazione dei capaci, una forma bilanciata di governo parlamentare (di «gabinetto»). L’operazione orlandiana postula una soggettività statale dotata di autonomia giuridica che sterilizza ogni dimensione originaria e attribuisce dimensione organica alle forze sociali, sottoposte al vaglio di una razionalità amministrativa di tipo moderno. Non a caso, lo Stato amministrativo diventerà la forma tipica della piena sovranità dello Stato nel pieno esercizio dei suoi poteri.
Se nell’ottica del costituzionalismo liberale ogni forma di atomismo può indebolire la parte nobile e stabile della costituzione(Corona, esecutivo 'monarchico', prerogativa militare), il celebre Torniamo allo Statuto (1897) di Sidney Sonnino non riuscirà a fine secolo a reinventare una tradizione che già nel marzo del 1848 Cavour aveva inteso rifiutare. Il patto tra il popolo e il re sancito dalla ermeneutica dottrinale e consacrato dalla prassi istituzionale aveva in sé un forte potenziale di sviluppo in senso parlamentare. Ma, nello stesso tempo, il regime di bilanciamento dei poteri ad esecutivo monarchico poteva essere piegato a logiche ‘monocratiche’ sull’asse degli articoli 5, 6 e 65 dello Statuto.
Lo statualismo liberale non riuscirà a trovare il punto di equilibrio tra la sovranità dello Stato (con i suoi corollari di saldezza e stabilità) e le garanzie dell’individuo. Il problema delle libertà individuali e del pluralismo politico e sociale – visto perlopiù dalla sponda 'patologica' del fascismo – è in realtà un problema strutturale, costitutivo della statualità in Italia e del rapporto autorità/individuo. Lo Stato liberale di diritto riconosce le conquiste del costituzionalismo ma ha difficoltà a fare i conti con il dissenso politico e sociale che nasce al fuori dalla dimensione dello Stato monoclasse. L’ordine costituzionale liberale è fatto anche di zone grigie nelle quali operano lo stato d’eccezione e il governo dell’emergenza. Dal liberalismo del soggetto allo statualismo liberale: è questa la parabola del secolo lungo del costituzionalismo liberale, tra progressi e reazioni.
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