Il cristianesimo armeno
Dalla prima evangelizzazione alla fine del IV secolo
A oriente della penisola anatolica, in una vasta area compresa fra il mondo greco, quello siriaco e quello iranico, sorge la civiltà armena. Parliamo di civiltà, perché nel corso dei secoli gli armeni sono stati divisi sotto differenti dominazioni e hanno conosciuto più di una persecuzione. In mancanza di una costante unità politica e geografica, i fattori di continuità e di identità nazionale sono stati la lingua, la cultura e la Chiesa. Il titolo del presente contributo parla di ‘cristianesimo armeno’, per evitare ogni possibile fraintendimento confessionale: quella armena è prima di tutto un’esperienza spirituale, teologica, rituale che attraversa le singole giurisdizioni canoniche e appartenenze confessionali nelle quali gli eventi contingenti hanno diviso il popolo armeno, benché il nucleo più consistente e costante sia indubbiamente costituito dalla Chiesa apostolica armena, che dall’inizio del VI secolo appartiene al novero delle cosiddette antiche Chiese orientali non-calcedonesi.
La Chiesa armena può vantare un primato tra le antiche comunità cristiane: l’Armenia, infatti, è stato il primo regno cristiano. Su questo primato ci sono pochi dubbi fra gli studiosi, mentre resta discussa la questione della data, fissata dalla tradizione al 301, benché in realtà le ricostruzioni più accreditate posticipino l’evento di alcuni anni, in piena età costantiniana, non oltre il 315. A partire dalla datazione vulgata, nel 2001 la Chiesa armena ha potuto celebrare solennemente i 1.700 anni di evangelizzazione.
La ricostruzione degli eventi relativi alla storia armena del IV secolo e della prima penetrazione del cristianesimo nei secoli precedenti è complicata dalla mancanza di fonti scritte coeve, dal momento che l’invenzione dell’alfabeto armeno, e il conseguente costituirsi di un corpus letterario, risalgono all’inizio del V secolo. Due sono i fattori importanti da segnalare in ordine all’utilizzo delle fonti. Il primo è il rischio che esse possano proiettare su un’epoca precedente prospettive, strutture, concezioni che in realtà appartengono al V/VI secolo. Il secondo rischio è legato al genere letterario: alcune fonti che ci permettono di ricostruire i primi secoli della Chiesa armena appartengono al genere agiografico, con tutti i limiti e le problematiche a esso connessi.
Tenendo conto di questi due scogli con i quali lo studioso deve fare i conti, il presente contributo propone una sintesi della ricerca storica recente, relativa alla prima evangelizzazione e alla conversione definitiva dell’Armenia, evidenziando i tratti peculiari delle strutture e delle istituzioni della Chiesa nascente. Come termine cronologico estremo verrà tenuto l’inizio del V secolo, quando fu inventato l’alfabeto1.
Prima di affrontare il problema storico dell’evangelizzazione dell’Armenia e della conversione ufficiale al cristianesimo all’inizio del IV secolo, è necessario chiarire che cosa si intenda dal punto di vista geografico con il termine Armenia2. Gli armeni vivono infatti in un vasto territorio, i cui confini sono abbastanza indeterminati, diviso fra giurisdizioni e signorie diverse, che tendono a variare nel corso dei secoli in esame. Il nucleo principale è costituito dalla cosiddetta Grande Armenia, sulla quale regna a partire dal I secolo a.C. la dinastia artasside, seguita da quella arsacide. Nel 66 d.C. il re Tiridate I si recò a Roma per essere incoronato dall’imperatore Nerone, ricevendo un’accoglienza d’onore che sancì il protettorato di Roma sull’Armenia3.
In una data compresa tra il 383 e il 388 (il 387 per la maggior parte degli storici), l’imperatore Teodosio e il re sasanide Shabur III misero fine alle contese secolari sul regno arsacide della Grande Armenia dividendoselo, e lasciando una parvenza di potere a due rappresentanti delle dinastie locali. Benché la parte toccata ai romani occupasse circa un quinto dell’antico dominio arsacide, essa permetteva loro di far avanzare la frontiera dell’Impero verso est, superando il limite dell’Eufrate, imposto da secoli a partire da Augusto. Il confine scendeva dalla regione di Teodosiopoli (oggi Erzurun) fino a Dara in Mesopotamia, a nord-ovest di Nisibi. Il nuovo limes venne fortificato nel VI secolo da Giustiniano. Questa parte acquisita eredita talvolta il nome di Grande Armenia, mentre la parte rimasta sotto l’influenza persiana prende anche il nome di Persarmenia. Nella porzione persiana la dinastia arsacide si mantenne fino al 428; nel lato imperiale, invece, solo fino al 3904.
A ovest dell’Eufrate troviamo la cosiddetta Piccola Armenia, che faceva parte dell’Impero romano. Teodosio la divise in Armenia I e Armenia II alla fine del IV secolo, con Sebaste e Melitene come rispettive metropoli. Entrambe avevano lo statuto di province amministrate da un praeses, che dipendeva dal vicario della diocesi del Ponto.
Più a sud, lungo l’Eufrate orientale e al di là del Tigri, si trovano dei principati armeni autonomi, il più noto dei quali è la Sofene. Essi furono in parte acquisiti dall’Impero romano in seguito alla pace di Nisibi del 299, con lo statuto di civitates liberae et immunae5, e ritornarono alla Persia dopo il 3636. Altri resistettero fino alla riorganizzazione giustinianea.
La maggior parte delle fonti in nostro possesso per il periodo in esame sono armene, e solo saltuariamente sarà possibile fare riferimento a fonti esterne. Il testo che narra con maggior dovizia di particolari i primi eventi relativi alla conversione dell’Armenia è la Storia di Agatangelo, pseudonimo di origine greca che significa ‘messaggero di bene’, opera che rivela fin dal nome dell’autore il proprio contenuto salvifico. Dietro a questo pseudonimo potrebbe celarsi un riferimento non tanto all’autore, quanto piuttosto al protagonista dell’opera, cioè Gregorio Illuminatore. Il testo di Agatangelo ebbe una fortuna straordinaria in tutto l’Oriente cristiano e fu tradotto in varie lingue, fra le quali il greco. Nel 1946 venne pubblicata una Vita di Gregorio in greco7. Da questo testo greco deriverebbe una versione araba, già nota precedentemente. A sua volta il greco presupporrebbe un originale armeno, che non possediamo, e che sarebbe più antico rispetto ad Agatangelo armeno da noi conosciuto. Più che a un’opera precisa, come si può notare, ci troviamo davanti a una complessa tradizione agiografica con diverse redazioni8. L’autore sostiene di essere segretario del re Tiridate e dunque testimone oculare della conversione, ma è ben noto che la scrittura armena compare solo un secolo più tardi, e non è stato provato con certezza che la lingua originale possa essere il greco. Il nome di Agatangelo è menzionato nel prologo della versione armena, ma non è presente ad esempio in P῾awstos Buzand, che pur conosce le vicende relative alla figura di Gregorio Illuminatore.
Sotto il nome di P῾awstos Buzand indichiamo una fonte che presenta gli eventi della storia armena compresi tra il 330 e il 3879. Il nome dell’autore e il profilo dell’opera creano non pochi problemi agli studiosi. Lazzaro di P῾arpi, storico armeno della fine del V secolo, nell’introduzione alla sua opera (§ 3) nomina un certo P῾awstos Buzandac῾i (che in passato è stato interpretato con poca verisimiglianza come Fausto di Bisanzio), suo predecessore, che avrebbe narrato i fatti storici fino al 387 nella Storia degli armeni. Tale nome, di origine latina, è attestato anche in ambito armeno, e nella stessa Storia10, dove figura un vescovo di nome P῾awstos, che si è voluto talvolta identificare con l’autore stesso dell’opera. D’altra parte, il termine buzand è stato ricondotto a un’etimologia che significherebbe ‘bardo’, ‘cantore’. I manoscritti intitolano l’opera Patmut῾iunk῾ buzandaran, che, alla luce della citata etimologia, potrebbe essere tradotto con Storie epiche. Il testo di P῾awstos deve aver subito diversi rimaneggiamenti: l’anomalia più evidente è che l’opera inizia con il terzo libro. Significa che i primi due sono andati perduti? Difficile crederlo. Più probabilmente i primi due erano di altro autore (forse Agatangelo) e trattavano l’avvento del cristianesimo e la conversione, ed erano stati uniti ai successivi a formare una sorta di biblioteca storica. Prova ne è il fatto che lo stesso Lazzaro di P῾arpi cita come secondo libro quello che per noi è il quarto. P῾awstos afferma di essere testimone dei fatti narrati, ma, come si è già notato, nel IV secolo non esisteva la scrittura, e che si tratti di una traduzione dal greco è improbabile per le sue peculiarità linguistiche. La Storia di P῾awstos si presenta più come un’opera agiografica che come un’opera storica nel senso classico del termine: non dichiara un metodo, non mostra grande attenzione per la cronologia e l’attendibilità delle fonti, ed emergono spesso elementi appartenenti alla tradizione epica e orale. Tuttavia, pur con la prudenza richiesta all’indagine storica, quest’opera può essere considerata una miniera per la ricostruzione delle vicende del IV secolo.
Molto più vicina all’impianto della storiografia classica è la Storia di Mosè di Corene, che costituisce una delle fonti privilegiate per la storia armena dei primi secoli11. L’autore afferma di appartenere alla cerchia di quei sapienti che visitarono i principali centri di cultura dell’orbe cristiano, in vista delle prime traduzioni in armeno delle opere classiche e cristiane12. Tuttavia la datazione dell’autore è tra le più discusse: le opinioni degli studiosi oscillano tra il V e l’VIII secolo, anche se alcuni orientamenti recenti tendono a rivalutare la datazione tradizionale, nel tardo V secolo, mettendo in conto alcuni rimaneggiamenti redazionali. Certamente Mosè è posteriore a P῾awstos, che ne costituisce una delle fonti. L’opera di Mosè copre un segmento cronologico molto vasto, perché va dalle origini mitiche fino al 439, anno della morte di Mesrop Maštoc῾, inventore dell’alfabeto armeno.
Al genere agiografico e del panegirico appartiene l’ultima fonte che prendiamo in considerazione: la Vita di Mesrop Maštoc di Koriwn13. Mesrop non fu soltanto l’inventore dell’alfabeto armeno, all’inizio del V secolo, ma fu anche, insieme a Sahak, il promotore di una vasta operazione culturale che portò alla traduzione della Scrittura e di numerose opere filosofiche e teologiche, molte delle quali, perdute nell’originale, sopravvivono grazie alla versione armena. Con Mesrop si può dire pertanto che inizi la letteratura armena, e la sua biografia, opera del discepolo Koriwn, scritta intorno al 440, costituisce il primo esempio di vero e proprio testo agiografico in lingua armena.
È un’acquisizione storica ormai assodata che la prima evangelizzazione dell’Armenia preceda l’attività di Gregorio Illuminatore, che è strettamente correlata con l’ambiente cappadoce di lingua greca del IV secolo. Le fonti permettono di ravvisare una precedente penetrazione, più limitata, di impronta siriaca, proveniente da Edessa e destinata alle aree meridionali dell’Armenia14. Il centro di questa prima evangelizzazione è la città di Aštišat, nella regione del Tarōn, dove, secondo P῾awstos Buzand, si trovava la madre di tutte le chiese armene15. Stando a quanto affermato da Mosè di Corene16, fin dal I secolo a.C. era presente in Armenia una comunità giudaica, e non è da escludere che essa possa essere stata destinataria di una precoce missione cristiana.
Ma a quando risale il primo annuncio del Vangelo in Armenia meridionale? I testi canonici non fanno alcuna allusione all’Armenia, ma la tradizione apocrifa e agiografica la collega all’età apostolica, in particolare alla predicazione degli apostoli Giuda Taddeo e Bartolomeo. Lo stesso P῾awstos Buzand, nel corso della sua opera, definisce più volte la sede di Gregorio Illuminatore come «sede dell’apostolo Taddeo»17, e attribuisce il medesimo titolo anche alla chiesa di Aštišat, attorno alla quale si sarebbe formata la prima comunità cristiana. Fin dall’inizio della Storia (III 1), poi, P῾awstos fa un generico riferimento a una tradizione scritta riguardo all’origine apostolica della Chiesa armena, alla missione e al martirio di Taddeo per mano del re Sanatruk.
Non è dato conoscere la fonte alla quale P῾awstos allude, ma ci sono pervenute diverse tradizioni apocrife relative alla figura dell’apostolo Taddeo. Il Martirio di Taddeo18 narra la predicazione dell’apostolo in Armenia nel distretto di Artaz, nell’attuale Iran settentrionale. Qui sarebbe stato messo a morte dal re Sanatruk. Secondo un’altra fonte, la Scoperta delle reliquie di Taddeo19, le reliquie del santo sarebbero state rinvenute nel medesimo luogo, al tempo del governatore Vahan Mamikonean, alla fine del V secolo. Dal punto di vista canonico, è evidente l’importanza di questa tradizione: la continuità della presenza delle reliquie dell’apostolo in Armenia garantisce l’autorità apostolica della Chiesa armena. Il Martirio di Taddeo, poi, narra la precedente predicazione di Taddeo a Edessa, presso il re Abgar, confermando indirettamente il legame della prima evangelizzazione dell’Armenia con l’ambiente siriaco. Lo stesso Martirio di Taddeo, infine, mostra di conoscere la Dottrina di Addai, attribuita a Labubna, il cui originale siriaco20 venne tradotto in armeno all’inizio del V secolo21. In essa viene narrata la conversione del re Abgar e la fondazione della Chiesa di Edessa a opera dell’inviato di Cristo, di nome Addai. L’identificazione fra la figura di Addai e quella di Taddeo sembra innegabile, e pare confermata esplicitamente da quanto riportato da Eusebio di Cesarea22, che attribuisce a Taddeo la conversione di Abgar.
Può essere interessante osservare come la traduzione armena della Dottrina di Addai si differenzi dall’originale siriaco: se nella fonte siriaca il santo muore a Edessa, nella versione armena parte da lì per l’Armenia. Questa tradizione confluisce in Mosè di Corene23, il quale narra la predicazione di Taddeo a Edessa, la conversione del re Abgar, il trasferimento di Taddeo in Armenia e il suo martirio sotto il regno di Sanatruk, il quale era imparentato con Abgar. Il processo di armonizzazione fra le tradizioni relative all’evangelizzazione della Siria e quelle armene culmina nella notizia, fornita ancora una volta da Mosè di Corene, riguardo al concepimento di Gregorio Illuminatore presso la già citata contrada di Artaz, luogo del martirio di Taddeo, nel quale erano conservate le reliquie dell’apostolo24.
Ancora più problematica è la tradizione agiografica sulla presenza in Armenia dell’apostolo Bartolomeo. Il Martirio di Bartolomeo, il cui originale è in armeno25, presenta l’apostolo come prosecutore della missione di Taddeo, dopo il martirio di quest’ultimo. All’interno del genere agiografico si distingue il sottogenere delle liste degli apostoli e dei discepoli, che ha un proprio antecedente veterotestamentario nelle liste dei profeti. Queste liste furono probabilmente redatte in un’epoca in cui le Chiese locali erano strutturate abbastanza da sentire la necessità di far rimontare la loro fondazione alla predicazione apostolica. L’insistenza sul luogo di sepoltura degli apostoli si spiega attraverso l’interesse dei pellegrini per la visita e la devozione per le loro sante reliquie. Il documento più antico pervenutoci riguardo alla predicazione di Bartolomeo in Armenia potrebbe essere una lista attribuita a Epifanio di Salamina († 403), benché la paternità sia molto discussa fra gli studiosi. Secondo questa lista, il martirio di Bartolomeo avvenne «ad Albanopoli, nell’Armenia maggiore». Liste successive riportano il toponimo nella forma ἐν ’Aλβανίᾳ o ἐν ’Aλλανῷ. Risale invece all’inizio del VII secolo il Breviarium Apostolorum26, che colloca il martirio dell’apostolo in Albano maioris Arminiae. Il toponimo Albanopoli/Albano sarebbe da identificare con Nicopoli, al confine orientale dell’impero bizantino. La città, chiamata prima Urbanopoli, sarebbe stata ribattezzata con il nome di Nicopoli dopo la vittoria di Pompeo su Mitridate, re del Ponto, nel 66 a.C. Il problema posto da questo toponimo è che sembrerebbe trovarsi nell’Armenia Minore e non nella Maggiore. In realtà, in un decreto di Giustiniano del 528 questa città figura effettivamente localizzata nell’Armenia Maggiore27, e questo spiegherebbe l’unanime collocazione di quest’ultima da parte delle fonti.
Se queste tradizioni collocano la presenza di Bartolomeo nell’Armenia occidentale, un’altra tradizione, testimoniata dall’apocrifo intitolato Scoperta delle spoglie mortali dell’apostolo Bartolomeo28, colloca il santo nella parte orientale. Il vescovo siro Marutha di Maypherqat, infatti, avrebbe rinvenuto, alla fine del IV secolo, in Persarmenia, cioè nella parte orientale, le reliquie del santo apostolo, e le avrebbe fatte traslare nella propria città, che prese poi il nome di Martiropoli.
La presenza di cristiani armeni in epoca anteriore rispetto alla conversione ufficiale è attestata anche dalle tradizioni agiografiche relative a numerosi santi, il cui culto si è diffuso soprattutto in Occidente. Nella gran parte dei casi, tuttavia, si tratterebbe di figure riconducibili alle province dell’Armenia Minore, appartenenti all’Impero romano29: Crysolio, martire nel 303 sotto Diocleziano, inviato dal vescovo di Roma a evangelizzare le Fiandre; Miniato, che sarebbe stato figlio di un re armeno, arruolato nell’esercito imperiale e martire sotto Decio intorno al 250; Emiliano, vescovo di Trevi, martire sotto Diocleziano nel 302; Biagio, martire a Sebaste nel 316; Espedito, appartenente forse al gruppo dei martiri di Melitene del 303.
La problematicità delle fonti agiografiche riguardo alla prima evangelizzazione dell’Armenia induce a ricercare ulteriori indizi della loro attendibilità. Un dato interessante viene da Tertulliano, il quale, nel 196, riprendendo At 2,9-11, cita le popolazioni che all’epoca avevano già ricevuto l’evangelizzazione, e sostituisce, rispetto alla lista di Atti, l’Armenia alla Giudea: «parti, medi, elamiti e abitanti della Mesopotamia, dell’Armenia e della Cappadocia»30. Identica sostituzione ricorre anche nella versione di Atti del codex Bezae. L’apologista latino sembra così confermare l’ipotesi che, alla fine del II secolo, gli armeni (senza poter specificare ulteriormente la zona geografica) fossero tra le popolazioni notoriamente raggiunte dal Vangelo.
Ulteriori indizi possono venire da alcune fonti papiracee, epigrafiche e storiche relative al manicheismo31, in base alle quali è possibile ricostruire una missione di Mani in Armenia, a metà del III secolo. È interessante osservare che, per quanto è dato sapere, le missioni manichee tendevano a indirizzarsi alle regioni già precedentemente raggiunte dal cristianesimo, e l’Armenia doveva essere pertanto fra queste.
Ben più noto è un passo di Eusebio di Cesarea32, nel quale si cita una lettera Sulla penitenza, scritta dal patriarca di Alessandria Dionigi (248-265) e indirizzata agli armeni, il cui vescovo, precisa Eusebio, era un certo Μερουζάνης. Il fatto che non sia citata una sede, potrebbe far pensare che si tratti di una regione ancora in via di cristianizzazione. Il nome Meružan, di origine iranica, è tradizionale nella famiglia degli Arcruni, una dinastia della Sofene, vale a dire nelle province transtigritane. Questa collocazione geografica appare verosimile anche sulla base del contenuto della lettera. Difficilmente, infatti, il decreto dell’imperatore Decio sui lapsi, in questione nella lettera di Dionigi a Meružan, avrebbe potuto essere applicato nell’Armenia Maggiore.
Un ulteriore apporto viene dall’epigrafia. Nel 1863 e nel 1907 vennero rinvenute a Vałaršapat/Eǰmiacin due iscrizioni interessanti33: la prima attesta la presenza in loco, nel 185, della legione romana XV Apollinare; la seconda, invece, della legione XII Fulminata, in un periodo compreso fra il 172 e il 175. Noi sappiamo che la legione Fulminata conteneva soldati cristiani originari di Melitene, molti dei quali armeni; la legione Apollinare, invece, era comandata fin dal II secolo dal dux Armeniae. Non è da escludere che questi soldati, di stanza a Vałaršapat, abbiano fatto proselitismo tra i propri connazionali, favorendo, se pur in maniera non capillare, la penetrazione del cristianesimo. Questo dato potrebbe combinarsi con un’ipotesi suggestiva di Yevadian34: la fuga dall’Occidente e l’insediamento a Vałaršapat della vergine Hṙip῾simē e delle sue compagne, come si vedrà più avanti, potrebbero essere stati favoriti dalla presenza in loco di una comunità cristiana.
Per quanto riguarda le satrapie meridionali, dotate di una certa autonomia, sotto l’influenza ora della Persia, ora dell’Impero romano, i martirologi possono offrire indicazioni preziose. Le persecuzioni persiane nel IV secolo, al tempo del re dei re Shabur II, furono particolarmente intense nelle satrapie. Non è difficile ipotizzare che la presenza massiccia di cristiani in quelle regioni confinanti con il mondo siriaco abbia indotto il re persiano a temere un’alleanza a lui avversa con i correligionari dell’Impero romano, stimolandone l’attività persecutoria. Questa ipotesi sembra avvalorata dall’affermazione di Sozomeno35, secondo il quale l’Adiabene era totalmente cristianizzata. Garsoian36 fa riferimento anche a un’iscrizione trilingue di Shabur I, nella quale si enumerano una serie di prigionieri catturati dopo la vittoria del 260 sull’imperatore Valeriano, e si vanta la sottomissione di nazareni e cristiani.
Alla luce di numerosi indizi, non è da escludere che al tempo di Gregorio vi fossero già dei vescovi armeni. Eppure Gregorio non si fece ordinare né da questi (troppo legati alla corrente siriaca, estranea alla cultura di Gregorio), né dai metropoliti di Sebaste e Melitene, i quali, pur vicini al mondo armeno, non godevano del prestigio primaziale della sede cappadoce.
Prima di affrontare i complessi problemi storici riguardanti le motivazioni, le circostanze e la datazione della conversione ufficiale dell’Armenia, è necessario riassumere brevemente i fatti come sono narrati dalla tradizione agiografica e in particolare da Agatangelo.
Le vicende relative alla conversione dell’Armenia hanno inizio con una congiura di corte, tesa a rovesciare la dinastia arsacide sul trono armeno. Alla congiura sarebbero scampati solo due fanciulli: il figlio del re, di nome Tiridate, e il figlio del capo della congiura, di nome Gregorio. Educato in Cappadocia nella fede cristiana e nella cultura greca, Gregorio ritornò da adulto in Armenia, dove regnava l’altro sopravvissuto alla congiura, Tiridate. Perseguitato per la sua fede cristiana, Gregorio venne rinchiuso in una prigione interrata, ai piedi del monte Ararat (Xor Virap). A questo punto la storia di Gregorio si intreccia con un’altra tradizione agiografica. Alcune vergini cristiane, tra le quali la più famosa è Hṙip῾simē, giunsero in Armenia da Occidente, per sfuggire alle persecuzioni di Diocleziano. Esse, tuttavia, incapparono nella persecuzione di Tiridate e subirono il martirio37. Secondo alcune tradizioni agiografiche georgiane, a questo gruppo apparteneva anche Santa Nino, che sfuggì alla morte in Iberia (l’attuale Georgia), dove predicò il Vangelo e convertì il paese al cristianesimo38. Il re Tiridate, macchiatosi del sangue delle vergini, venne punito da Dio e trasformato in un cinghiale. È evidente la rilettura teologica operata dalla fonte: l’uomo che si abbassa a un delitto così efferato perde la propria dignità umana e diventa come la più abbietta delle fiere. Nessun medico umano, infatti, riuscì a guarirlo dalla sua infermità; solo il santo Gregorio, sopravvissuto miracolosamente alla prigionia, riuscì a sanarlo, provocandone la conversione. Il re e il suo popolo furono battezzati, e l’Armenia divenne la prima nazione ad accogliere il cristianesimo come religione ufficiale. Dopo la conversione, il re Tiridate e Gregorio avrebbero effettuato un viaggio in Occidente per essere ricevuti con tutti gli onori dall’imperatore Costantino39 e da papa Silvestro, ma si tratta di una notizia molto discussa. Alla guarigione prodigiosa di Tiridate e alla sua conversione fa un breve cenno anche Sozomeno40, mostrando così di conoscere le vicende narrate da Agatangelo. Fin qui i dati della tradizione.
Le affinità del racconto di Agatangelo con il genere del romanzo antico, con Luciano e Apuleio, che presentano eroi in preda a un destino cieco e irresistibile, sono evidenti41. I suoi protagonisti, Tiridate e Gregorio, sono entrambi orfani fin dalla prima infanzia per il massacro delle loro famiglie, educati lontano dalla patria, nell’Impero romano, sulla base però di valori tra loro inconciliabili. Alla fine di incredibili peripezie, sono chiamati a ritrovare la patria, a riconoscersi entrambi, e a riformare radicalmente il mondo caduco nel quale erano nati. Al di là dei topoi e degli stilemi tipici del genere letterario agiografico, è possibile isolare alcuni fatti che vanno esaminati dal punto di vista storico.
Il primo problema che si pone agli studiosi è quello cronologico: quando avvenne esattamente la conversione dell’Armenia, che la cronologia vulgata pone nel 30142? L’unica certezza è che l’Armenia è la prima nazione a convertirsi ufficialmente al cristianesimo. Atanasio43, ad esempio, intorno al 318 cita l’Armenia fra le nazioni cristiane, ma da quanti anni lo era? Le opinioni degli studiosi su questo punto divergono. In Agatangelo, che è la fonte principale per la ricostruzione della vita di Gregorio, non troviamo purtroppo una cronologia stricto sensu, proprio perché gli interessi di quest’opera sono più agiografici che storiografici. Dobbiamo pertanto rivolgerci ad altre fonti44.
Stando a Mosè di Corene45, il regno di Tiridate inizierebbe nel terzo anno di Diocleziano, mentre l’insediamento come patriarca di Gregorio risalirebbe al diciassettesimo anno di Tiridate46. Di conseguenza, la prima data sarebbe da collocare nel 287, mentre l’altra nel 302 o nel 304 (a seconda che si consideri un calcolo esclusivo o inclusivo). Questa scansione cronologica corrisponde a quanto affermato dalla Narratio de rebus Armeniae, un testo greco filocalcedonese composto intorno al 700, secondo il quale il concilio di Nicea avvenne nel trentasettesimo anno dall’intronizzazione di Tiridate. Ignoriamo, però, se Mosè di Corene conoscesse la data corretta dell’inizio del regno di Diocleziano (scil. 284). Secondo uno storico armeno del VII secolo, di nome Sebēos (hist. III), Tiridate avrebbe regnato nel quindicesimo anno di Diocleziano (scil. 298), e di conseguenza l’intronizzazione di Gregorio sarebbe da spostare al 315.
Ulteriori elementi sono desumibili dalla Vita greca di Gregorio, che, come si è detto, testimonia una tradizione più antica rispetto all’Agatangelo armeno in nostro possesso. La Vita greca ci descrive con dovizia di particolari le circostanze della consacrazione episcopale di Gregorio a Cesarea47. Un immenso corteo, formato dalla moglie, dai figli, da sedici principi e 30.000 soldati, accompagna Gregorio in Cappadocia per ricevere l’ordinazione per mano del metropolita di Cesarea, Leonzio, e al suo passaggio incontra ovunque un’accoglienza trionfale. Altrettanto solenne è il viaggio di ritorno: tutti i vescovi presenti accompagnano il neoeletto alle porte della città, dando mandato al vescovo di Sebaste, Petros, di scortarlo fino in Armenia per il possesso canonico. E questo insediamento avviene ad Aštišat, nel Tarōn, proprio laddove P῾awstos Buzand (III 14) afferma esserci la madre di tutte le chiese dell’Armenia, cioè la sede apostolica di Taddeo.
Sappiamo che nel viaggio di ritorno Gregorio porta con sé le reliquie di Giovanni Battista (prese a Cesarea) e quelle del martire Atenogene (prese probabilmente a Sebaste). È proprio la figura di quest’ultimo a permettere ad Ananian di integrare i dati mancanti48: Atenogene fu martirizzato sotto Diocleziano il 17 luglio del 303, e questa data costituisce pertanto il terminus post quem della consacrazione episcopale di Gregorio. L’editto di persecuzione fu emanato proprio nel 303 e le persecuzioni durarono, anzi, si acuirono con i successori di Diocleziano, Galerio e Massimiano, proseguendo fino al 311-312. Fino a quella data pare improbabile pensare il viaggio di Gregorio a Cesarea con tutta la pompa descritta dalla Vita greca, e dunque il terminus post quem si sposterebbe dopo il 311. La stessa Vita afferma che a Cesarea erano riuniti venti vescovi, e ciò pare ancora una volta inconciliabile con una campagna di persecuzione in atto. Queste considerazioni permettono ad Ananian di fissare al 314 la data della conversione49.
Qual era l’occasione di questo raduno di vescovi? Come ha dimostrato Lebon50, nell’estate del 314 vi fu a Cesarea un concilio, al quale parteciparono effettivamente venti vescovi, e i cui canoni sono conservati apparentemente solo in traduzione armena e siriaca; in realtà essi corrispondono ai canoni 20-25 del testo greco del sinodo di Ancira del 314, che precedette l’altro di pochi mesi51. Pertanto la data della consacrazione di Gregorio sarebbe da collocare nel 314, periodo favorevole per il viaggio descritto, dopo l’editto costantiniano del 313.
Non tutti gli autori più recenti condividono la ricostruzione di Ananian, benché rimanga una delle più convincenti. Mahé52, pur ammettendo la data del 314 per la consacrazione di Gregorio, anticipa di alcuni anni la data della conversione. Partendo dal legame che Agatangelo istituisce fra Diocleziano e la vicenda di Hṙip῾simē, lo studioso francese osserva che il martirio delle vergini si inserisce nell’attività di persecuzione avviata dall’imperatore nel 303 e sostenuta da Tiridate. Ogni data precedente l’abdicazione di Diocleziano nel 305 sarebbe pertanto precoce. Dopo l’abdicazione, però, l’Impero fu retto da due coimperatori, Galerio e Costanzo, e alla morte di quest’ultimo, nel 306, le legioni della Gallia si schierarono a favore di suo figlio Costantino; al tempo stesso, Galerio concentrò la propria attenzione sull’Occidente. Sarebbe stato questo, secondo Mahé, il momento opportuno per la conversione. Ammettendo che l’Armenia fosse cristiana già nel 306, infatti, si spiegherebbe anche la guerra del 312 di Massimino Daia contro gli armeni, che, secondo Eusebio di Cesarea53, «erano amici e alleati dei romani; erano anche cristiani e compivano con zelo i loro doveri di pietà verso la divinità». Questo passo è stato spesso riferito ai soli armeni dei territori transtigritani. Diverso il parere di Mahé, secondo il quale non ci sarebbe nessuna ragione di applicare questo testo alle cinque satrapie transtigritane, perché dei territori ridotti alla condizione di province romane non verrebbero mai qualificati come ‘amici e alleati’, espressioni che si possono riferire solo a uno Stato di riconosciuta indipendenza, come l’Armenia Maggiore. Secondo lo studioso francese, pertanto, la conversione sarebbe da collocare tra il 305 e il 306. Questa ricostruzione sarebbe compatibile con quanto affermato dalla Narratio de rebus Armeniae (§ 1), cioè che l’uscita di Gregorio dalla prigione sarebbe avvenuta vent’anni prima del concilio di Nicea.
Una delle ricostruzioni più recenti è quella di Mardirossian54, che propone il 311 come data della conversione del sovrano armeno e del suo regno. Lo studioso franco-armeno, sulla scorta di Manaseryan55, riscrive la successione dei re armeni, complicata dalle omonimie, ipotizzando l’esistenza di un Tiridate IV, che sarebbe il protagonista della conversione e avrebbe regnato dal 298 al 330. Una delle motivazioni addotte dagli studiosi per collocare la conversione nel 314 poggia sul fatto che Tiridate non avrebbe potuto abbracciare il cristianesimo prima del cosiddetto editto di Milano. Questa argomentazione sarebbe, secondo Mardirossian, inconsistente perché nell’Oriente amministrato da Licinio vennero in seguito ripristinate norme vessatorie e restrittive nei confronti delle Chiese, fino al 324, anno della vittoria di Costantino a Crisopoli. Se la conversione non può essere anteriore all’abdicazione di Diocleziano nel 305, dal momento che il re arsacide prese parte alle persecuzioni anticristiane perpetrate dall’imperatore, che portarono al martirio di Hṙip῾simē e delle compagne, non può nemmeno essere posteriore al 312, anno in cui Massimino Daia, stando alla già citata testimonianza di Eusebio di Cesarea, intraprese una campagna contro l’Armenia già cristiana56. Pertanto, secondo Mardirossian, la conversione dovrebbe collocarsi in un periodo compreso fra il 305 e il 312 e la data precisa sarebbe desumibile con esattezza a partire dalla ricezione in Armenia dell’Henotikon di Zenone, attraverso il quale l’imperatore romano fece un maldestro tentativo di compromesso fra la corrente calcedonese e quella anticalcedonese.
Secondo l’anonima Storia del paese degli albani57, l’Henotikon fu accolto in Armenia 180 anni dopo la conversione, dunque fra il 485 e il 492. Sappiamo però anche che essa avvenne sotto il pontificato di Babgen I (490-515). Incrociando i dati, lo studioso conclude che la ricezione debba essere avvenuta negli anni 490-492 e di conseguenza la conversione sarebbe da collocare tra il 310 e il 312. La ricostruzione di Mardirossian è molto complessa e articolata, ma poggia su un presupposto alquanto fragile, cioè l’idea per cui sarebbe esatto stimare 180 anni tra la ricezione dell’Henotikon e la conversione, come attestato dalla Storia del paese degli albani. Allo stato attuale delle nostre conoscenze, l’ipotesi più fondata continua a essere quella di Ananian, che pone la consacrazione di Gregorio nel 314. Quanto alla data della conversione del sovrano armeno, non è possibile dire con certezza se la preceda di soli pochi mesi o di alcuni anni.
Ma quali sono state le cause della conversione? Le fonti storico-agiografiche sono unanimi nel riconoscere una motivazione religiosa: la guarigione prodigiosa del re Tiridate e l’efficacia della predicazione di Gregorio Illuminatore. Alcuni studiosi contemporanei, tuttavia, hanno avanzato ragioni meramente politiche: da una parte le pressioni dell’Impero romano (motivazione che convince poco, considerando l’ostilità anticristiana che caratterizza la pars orientis nei primi due decenni del IV secolo), dall’altra motivi di opportunità interna al regno stesso. A sviluppare quest’ultima ipotesi è stato soprattutto Manaseryan, seguito anche da Mardirossian e da Mahé58. Lo studioso armeno nota che la supremazia dell’Impero romano sull’Armenia, iniziata ai tempi di Augusto, comportava la pratica di far incoronare il re di Armenia per mano dell’imperatore o di un suo rappresentante, in una cerimonia nella quale l’imperatore donava al re i simboli della sovranità. In questo modo l’imperatore assumeva il ruolo della divinità creatrice di re nel pantheon armeno. Nel 66 d.C., ad esempio, Tigrane, prima di ricevere dalle mani di Nerone il diadema, definisce l’imperatore come suo Dio e lo paragona a Mihr59. Ciò determinava evidentemente una forma di dipendenza dell’Armenia da Roma. Il fatto di ricevere la corona dall’imperatore negava al re armeno ogni carattere divino. La desacralizzazione del re d’Armenia era quindi uno degli obiettivi della politica imperiale. Dal I secolo d.C. il re di Armenia porta solo il diadema, simbolo delle sue funzioni militari, e non la tiara, collegata alle funzioni cultuali del sommo pontefice e monarca. Ma l’incoronazione da parte dell’imperatore provocava anche un ridimensionamento dell’autorità del re nel proprio paese. La conversione al cristianesimo, secondo questa lettura, significò l’interruzione definitiva dei legami di dipendenza dall’imperatore di Roma e il venir meno delle fondamenta ideologico-religiose della supremazia dell’impero rispetto all’Armenia; il re di Armenia era nuovamente tale per volontà divina e a buon diritto il kat῾ołikos Nersēs poteva affermare: «il re è il signore naturale che Dio vi ha dato»60.
Ipotesi suggestiva, quella di Manaseryan, che tuttavia sembra non tenere in alcun conto le cause religiose addotte dalle fonti, che non escludono la compresenza di motivazioni di opportunità politica. Queste ultime non fanno altro che rafforzare e consolidare l’adesione convinta alla nuova fede. Si noti anche che l’opzione per l’una o l’altra motivazione può influenzare la ricostruzione cronologica: gli autori sensibili solo alle ragioni politiche debbono supporre che Tiridate abbia atteso il momento opportuno per attuare il proprio piano di affrancamento autoritativo da Roma, e ricercano questo momento favorevole nelle vicende politiche e militari dell’Impero. Al contrario, accettare la motivazione religiosa vulgata, senza escludere concause politiche, rende inutile l’individuazione di un tempo opportuno, perché non si tratterebbe di una scelta pianificata, ma di un fatto inatteso.
Gran parte delle informazioni sull’operato di Gregorio Illuminatore nel periodo successivo alla conversione viene dalla Storia di Agatangelo, che esprime le prospettive e il punto di vista del casato dei Mamikonean, mostrando l’Armenia come una realtà omogenea e compatta, accentuando i legami con il mondo greco cappadoce, e oscurando l’apporto e l’influenza del mondo siriaco. L’Armenia alla quale si indirizza Agatangelo non comprende tutti i territori qualificati come armeni all’epoca, ma si rapporta più precisamente al regno arsacide dell’Armenia Maggiore, e in particolare alla sua parte settentrionale. Benché l’autore celebri la distruzione del tempio della divinità iranica Vahagn ad Aštišat, a sud, nel Tarōn (§ 809), e sebbene riferisca della sua azione evangelizzatrice agli estremi confini del regno (§ 842), la porta degli Alani a nord, le terre dei Caspi a est, Nisibi, l’Adiabene e il Korduk῾ a sud, in realtà egli presenta, come centro dell’attività di Gregorio, il Nord del paese (§§ 741-742): Vałaršapat (§ 841), Artašat e Duin nella regione di Ayrarat. Un confronto fra Agatangelo e P῾awstos Buzand, che ci restituisce la tradizione relativa all’apporto siriaco, permette di ricostruire un quadro più completo.
Se si congiungono i resoconti delle due principali fonti emerge che due erano i centri spirituali della nascente Chiesa armena: Aštišat a sud e Vałaršapat a nord. Il primo era senza dubbio il centro più antico, legato a una precedente evangelizzazione di impronta siriaca61. Agatangelo e P῾awstos menzionano entrambi i siti, ma attribuiscono loro importanza diversa. P῾awstos, che riflette la tradizione meridionale, di stampo siriaco, menziona solo occasionalmente Vałaršapat, mentre definisce Aštišat come madre di tutte le chiese62, facendo anche riferimento ai due martyria più importanti presenti in essa, l’aṙak῾elakan (‘apostolico’) e il margarēaran (‘profetico’), fondati entrambi da Gregorio. D’altra parte Agatangelo (§ 814), pur menzionando la prima chiesa di Aštišat e affermando che in questo luogo avvenne il primo battesimo di massa del popolo armeno, non la qualifica come chiesa madre. Egli insiste piuttosto sull’attività di Gregorio nella regione di Ayrarat e presenta la città di Vałaršapat come sorgente di salvezza e di luce per tutta l’Armenia. Fu qui, in seguito a una rivelazione divina, che Gregorio edificò la sua chiesa principale, attenendosi alle precise indicazioni geometriche e architettoniche contenute nella rivelazione stessa (§§ 731-756). In questo racconto è evidente il modello biblico: Dio prescrive le dimensioni e le modalità di costruzione dell’arca dell’alleanza (Es 25,10-22) e del tempio (1 Re 6), e rivela le misure della Gerusalemme celeste (Ez 40-42; Ap 21). La città di Vałaršapat, novella Gerusalemme, prenderà poi il nome di Ēǰmiacin (‘è disceso l’Unigenito’), proprio in ossequio alla teofania narrata da Agatangelo63.
Senza escludere rivelazioni soprannaturali, dietro la scelta di questi due centri fondativi della spiritualità armena si può intravvedere una precisa strategia. Le prime chiese armene furono edificate per lo più sulle rovine di precedenti luoghi di culto pagani. Presso Aštišat, ad esempio, sul monte K῾ark῾ē, che domina l’Eufrate, vi erano numerosi luoghi di culto pagano, soprattutto il tempio di Vahagn (divinità iranica assimilata a Eracle), e vi erano venerati anche Anahit (assimilata ad Artemide) e Astłik (assimilata ad Afrodite). Qui, secondo le fonti, Gregorio, impugnando la croce, affrontò uno stuolo di demoni e sulle rovine di questi luoghi di culto venne edificata la prima chiesa armena. Sempre sulle rive dell’Eufrate, a Bagawan, in un sito ancora una volta consacrato al culto degli idoli, avrebbe avuto luogo il battesimo del re e della corte. Ad Artašat, l’antica capitale, uno dei centri dell’attività gregoriana, erano venerati Tiur-Apollon e Anahit. Quest’ultima era particolarmente oggetto di culto anche a Erēz, e proprio qui sarebbe avvenuto il primo incontro tra Tiridate e Gregorio, il quale si rifiutò di sacrificare alla dea, scatenando le ire del re64.
Il piano di Gregorio era chiaro: santificare i luoghi consacrati agli idoli (e dunque al demonio, secondo una consolidata lettura cristiana del paganesimo) attraverso le reliquie dei santi, sopra le quali vengono edificati i principali santuari. A Vałaršapat, infatti, sono venerate le reliquie di Hṙip῾simē e delle compagne martirizzate dal re Tiridate65. Ad Aštišat vengono traslate da Cesarea e da Sebaste le reliquie di Giovanni Battista e di Atenogene66. In seguito il culto sembra essersi diffuso anche tra monaci aventi fama di santità, come Daniēl e Šałitay67, e il monaco di origine greca Epip῾an avrebbe costruito un martyrium a Tigranakert in onore dei santi68.
Analogamente a quanto avviene nell’Impero romano con la conversione del sovrano, anche per il caso armeno non si deve pensare che il cristianesimo sia stato in grado di spazzare via nel giro di pochi anni ogni forma di idolatria e di paganesimo. P῾awstos Buzand (III 13) lamenta che a metà del IV secolo gran parte della popolazione, e anche della nobiltà, era incapace di comprendere i contenuti dell’evangelizzazione (non si dimentichi che non esisteva ancora una lingua armena scritta, e i testi sacri venivano veicolati in greco o in siriaco), e versava in uno stato di degrado morale e spirituale. Inoltre non mancavano i rinnegatori della fede. P῾awstos (V 43), ad esempio, racconta che il principe Meružan Arcruni, convertitosi alla fede dei magi, faceva ricorso ai sortilegi caldei e ai dadi. Superstizioni, divinazioni e pratiche magiche durarono ancora a lungo, come è possibile dedurre dai canoni del concilio di Šahapivan del 444, che condannano queste pratiche.
L’azione di Gregorio e dei suoi successori si concentrò non solo sull’evangelizzazione e sulla formazione del popolo armeno, ma anche sulla creazione di istituzioni ecclesiali stabili69. Fin dalla sua fondazione la Chiesa di Gregorio Illuminatore è dotata di un importante patrimonio. Agatangelo precisa che, in virtù di un editto di Tiridate, furono attribuiti alla Chiesa proprietà, territori, terreni e villaggi (§§ 778-784), e incamerati i tesori degli antichi santuari pagani distrutti. In alcuni casi i ministri di culto dei templi pagani furono reimpiegati a servizio della nuova religione (sappiamo, infatti, che una parte significativa del clero cristiano fu reclutata fra i convertiti del clero pagano e mazdeo), in altri casi si verificarono veri e propri massacri (§ 813). Alcuni principi fecero donazioni liberali di terreni alla Chiesa70, e alcune di queste proprietà furono devolute a fini caritativi71, soprattutto sotto il patriarcato di Nersēs I (353-373). Doveva inoltre esistere una sorta di tassa o di contributo a favore della Chiesa, soppresso dal re Pap nella seconda metà del IV secolo, ma esistente fin dai primi tempi72.
Dal punto di vista gerarchico, la Chiesa armena si organizza attorno alla figura del kat῾ołikos73, secondo un modello monarchico, al quale se ne affiancherà in seguito uno collegiale. Malgrado numerose analogie tra l’organizzazione della Chiesa armena e quella imperiale, alcune differenze sono sensibili. Il primo dato significativo è che l’insieme del clero è ereditario e appartiene alla classe dei nobili. Fin dall’epoca di Gregorio, il kat῾ołikos della Chiesa armena è il capo incontestato del clero, e tende a ereditare tutti i titoli e le prerogative del capo dei magi: è detto k ῾ahanayapet (capo dei preti), come il suo predecessore era mogpet (capo dei magi); è ‘giudice supremo e protettore dei poveri’ come lo era il capo dei magi, ed eredita di conseguenza tutte le istituzioni e le funzioni caritative legate a questa funzione.
Accanto al kat῾ołikos vi è un collegio di vescovi. Agatangelo, dopo aver elencato i nomi dei primi dodici vescovi ordinati da Gregorio (§ 845), afferma in seguito con poca verosimiglianza che egli procedette alla consacrazione di ben quattrocento vescovi (§ 856). Il numero esorbitante potrebbe derivare da una confusione con i quattrocento principi che componevano la corte di Tiridate. Più realisticamente, P‘awstos Buzand afferma che Nersēs I era circondato da dodici vescovi (numero dalla forte valenza simbolica, poiché richiama il collegio apostolico), e ad essi vanno aggiunti alcuni vescovi a capo delle province (VI 5). Ancora al sinodo di Šahapivan del 444 sono presenti non più di una ventina di vescovi, e pertanto, anche nel V secolo, il numero complessivo non doveva essere molto superiore. Certo è che nei secoli immediatamente successivi, per i quali conosciamo da numerose fonti le liste delle sedi episcopali, risultano tra le trenta e le trentasei diocesi74.
Al modello monarchico, che vede nella figura del kat῾ołikos il vertice indiscusso della gerarchia e il principio dell’identità e dell’unità nazionale (soprattutto nel momento in cui verrà meno il regno e l’unità politica), si affianca un interessante modello sinodale. La sola assemblea ecclesiastica anteriore al sinodo di Šahapivan del 444 sarebbe quella riunita da Nersēs I ad Aštišat nel 35475. Ma lo stesso P῾awstos attesta che la scelta del kat῾ołikos è affidata a un’assemblea di principi e di vescovi, riunita a corte dal re. Una prassi, quella del coinvolgimento del laicato nell’elezione del kat῾ołikos, che continua fino a oggi: la scelta avviene infatti da parte di un’assemblea rappresentativa di tutte le categorie e circoscrizioni ecclesiali, e non solo da parte del clero76. Nel 449/450 si riunisce ad Artašat un sinodo dalla composizione mista: diciotto vescovi, diciotto dinasti, preti, religiosi, corepiscopi77. Questo tipo di sinodo presenta forti analogie con un’antica istituzione della monarchia arsacide, vale a dire il consiglio del re. Questa assemblea, dal valore più che altro consultivo, raggruppava attorno al re la nobiltà. Dopo la scomparsa della monarchia, a partire dal V secolo, questa istituzione sarebbe confluita nel sinodo generale della Chiesa armena, con un valore, però, anche legislativo in ordine al governo della Chiesa.
Ai vescovi erano demandate anche alcune funzioni giudiziarie e civili, come è desumibile dalle fonti. P῾awstos Buzand (III 14), ad esempio, definisce il corepiscopo Daniēl giudice supremo di tutta la regione del Tarōn. L’origine di questa funzione è da ricercare probabilmente nel periodo precristiano, quando il potere giudiziario era nelle mani dei magi e del clero mazdeo. Lo stesso P῾awstos (III 4) attesta che il re Tiridate e il kat῾ołikos Vrt῾anēs nominarono il vescovo Ałbianos come mediatore, per tentare di mettere fine al conflitto che opponeva i casati dei Manawazeank῾ e degli Ordunik῾.
Tra le sedi episcopali citate dalle fonti è possibile trovare territori precedentemente occupati da santuari pagani e passati alla Chiesa dopo la conversione, e territori appartenenti alle principali famiglie principesche, allineatesi con la politica religiosa del re Tiridate. Non si tratta comunque mai di territori urbani, essendo l’urbanizzazione del territorio armeno praticamente assente in questo periodo, con alcune eccezioni, come Artašat, che, fino alla sua distruzione operata dai Sasanidi nel 363, pare fosse una città maestosa, con una cittadella fortificata, un sistema di strade e di canalizzazioni, di edifici pubblici e di terme78.
In virtù di una sorta di successione dinastica, i confini delle diocesi rispecchiano quelli dei principati dinastici. Come dicono spesso le fonti, i vescovi sono rappresentanti di una famiglia dinastica alla quale appartengono79, e non di una civitas, come accade nell’Occidente urbanizzato. Poiché i vescovi sono espressione di un casato, proprio per questo anche la loro sede varia in base ai possedimenti familiari. Questo spiega anche l’assenza in tutta l’Armenia di grandi cattedrali legate a centri urbani. I testi non conoscono pertanto nessun termine specifico per qualificare una circoscrizione episcopale, in modo differente dalla Chiesa che può definirsi imperiale. Così come il sistema diocesano non appare ben organizzato, non si ha nemmeno l’evidenza, per questo periodo, di un sistema parrocchiale.
Dal punto di vista giuridico, oltre a dirimere questioni di ordine pubblico, sappiamo con certezza che fin dal IV secolo i kat῾ołikos furono impegnati a dotare la Chiesa di una legislazione canonica80. Particolarmente intensa fu l’attività di Nersēs I in occasione del sinodo riunito ad Aštišat nel 35481. Nei corpora posteriori non ci è pervenuto nulla a suo nome; non esistendo ancora l’alfabeto, non è possibile che i canoni da lui promulgati siano stati scritti in armeno, ma avranno avuto una redazione siriaca o greca. Stupisce, anzi, che la tradizione canonica armena ci abbia tramandato una trentina di canoni attribuiti a Gregorio. Bisogna presumere che essi siano stati composti in greco, e tradotti solo in epoca successiva: ipotesi che pare confermata da un colofone del manoscritto M659 del 1368 (Yerevan-Matenadaran), dove, in corrispondenza del canone 36, è specificato che il traduttore fu Eznik, autore del V secolo, noto per aver composto la prima opera apologetica della letteratura armena.
Tra i documenti canonici ai quali solo recentemente è stata data la debita importanza82, troviamo una lettera del vescovo Macario di Gerusalemme, indirizzata intorno al 355 al kat῾ołikos Vrt῾anēs, figlio e secondo successore di Gregorio Illuminatore (327-342). La lettera è tramandata dal Girk῾ T῾łtoc῾ (Libro delle lettere), una raccolta di corrispondenza ecclesiastica compilata durante il pontificato di Komitas (615-628), e nel Kanonagirk῾ (Libro dei canoni), compilato durante il pontificato di Yovhannēs Ōjnec῾i (717-728). L’originale di questa epistola doveva essere in greco, e quella che possediamo è senza dubbio una traduzione. L’occasione della lettera sembra essere l’assemblea di vescovi del settembre 335 per la dedicazione del Santo Sepolcro83. Macario, che mostra di avere piena consapevolezza dell’importanza della sede che occupa, risponde ad alcuni quesiti posti dagli armeni in ordine alla disciplina sacramentale. Le varie indicazioni contenute nella lettera, che furono poi rielaborate in forma di canoni, ci forniscono interessanti informazioni sulla Chiesa armena del IV secolo. Veniamo così a sapere che i diaconi amministravano il battesimo e forse non vi erano battisteri nelle chiese, ma si continuava a battezzare nei fiumi, dal momento che Macario esorta a costruire battisteri nel lato nord delle chiese, sede che rimarrà stabile nelle architetture successive. Veniamo inoltre informati che nella regione di Bagrewand vi era un vescovo ariano. La forma dei riti di iniziazione raccomandata da Macario riflette la tradizione gerosolimitana dell’epoca di Cirillo di Gerusalemme e le pratiche armene stigmatizzate richiamano quelle della Chiesa siriaca della prima metà del IV secolo84. L’importanza di questo documento è dettata anche dal fatto che esso costituisce probabilmente la prima testimonianza articolata non armena sulla Chiesa armena, come già notato da Conybeare85. Più tardi pesò il giudizio di Akinian, che attribuisce la lettera a Macario II di Gerusalemme (563-575), e vede nel destinatario Vrt῾anēs vescovo di Siwnik῾; solo di recente questo documento ha suscitato nuovamente l’interesse degli studiosi.
Un dato certo è quello della partecipazione di una delegazione della Chiesa armena al concilio di Nicea del 325. Le più antiche liste di vescovi partecipanti al concilio attestano la presenza di due vescovi e di due corepiscopi, appartenenti alla provincia dell’Armenia minore, e di Aristakēs dell’Armenia maggiore, cioè il figlio e successore (325-333) di Gregorio. Altre versioni aggiungono un secondo nome dall’Armenia maggiore: Aristēs. Nella lista saranno probabilmente da considerare come armeni anche Eulalios di Sebaste ed Euēthios di Satala (sede della XV legione Apollinare, comandata dal dux Armeniae), Erythrios di Koloneia ed Elpidios di Komana, riconducibili a territori compresi nell’Armenia I e II. Fu proprio il figlio di Gregorio, Aristakēs, a portare in patria i canoni conciliari. Più avanti, in occasione dell’altro concilio ecumenico del IV secolo, il costantinopolitano I del 381, possiamo ricondurre alla Chiesa armena Otreios di Melitene, Otreios di Arabissos, Maras di Amida. Poco attendibile è l’informazione di Mosè di Corene (III 33) secondo la quale al concilio costantinopolitano sarebbe stato presente anche il kat῾ołikos Nersēs I, che invece risulta morto nel 37386.
Rimanendo sul piano della disciplina canonica, il celibato sembra non essere richiesto per tutto il IV secolo non solo per i presbiteri ma neppure per i vescovi: il titolo di kat῾ołikos, infatti, si trasmette di padre in figlio per sei generazioni tra i discendenti di Gregorio Illuminatore, i quali, fino al 373, furono tutti ordinati a Cesarea. La primazia ecclesiale apparteneva al casato dei Gregoridi, così come la corona agli Arsacidi e il comando dell’esercito ai Mamikonean. In mancanza di un discendente di Gregorio, il kat῾ołikos veniva scelto da un’altra famiglia sacerdotale, originaria di Manazkert, a sud. Mentre il casato dei Gregoridi era legato strettamente ai Mamikonean, sosteneva una politica filobizantina ed era orientato verso la cultura e la teologia cappadoce, quello rivale, venendo dalla zona meridionale, sosteneva i Sasanidi ed era orientato verso la tradizione siro-mesopotamica di Antiochia. Capostipite di questo secondo casato era il vescovo Ałbianos, il primo ordinato da Gregorio, al quale era stata data giurisdizione sulle terre lungo l’Eufrate e un incarico presso la corte di Tiridate87. P῾aṙēn o P῾aṙnerseh di Aštišat fu il primo kat῾ołikos non gregoride, così come il suo successore Sahak88, ed entrambi furono consacrati a Cesarea89.
La particolarità di avere anche i vertici del clero uxorati si spiega forse con l’influenza in Armenia della mentalità persiana ostile al celibato, come testimoniato anche da Eliseo90, secondo il quale il governatore persiano Mihrnerseh rinfacciò ai cristiani di non volere nemmeno guardare le donne, pur affermando la liceità del matrimonio. È solo dopo la morte di Sahak il grande nel 438, in concomitanza con lo sviluppo e l’influenza del monachesimo, che le autorità ecclesiastiche cercano di rendere il celibato obbligatorio per i vescovi, come si può desumere dai canoni del sinodo di Šahapivan del 444, dove non si fa menzione di una distinzione fra vescovi celibatari e vescovi uxorati, come avviene invece per il resto della gerarchia.
Accanto ai vescovi e ai preti, sono attestati fin dall’inizio i diaconi91 e gli ordini minori con il termine generico di dpir (letteralmente ‘scriba’), all’interno dei quali si distinguono i lettori92. È interessante notare come il lessico ecclesiastico armeno rifletta la doppia origine, siriaca e greca, dell’evangelizzazione93: i termini k῾ahanay (‘sacerdote’) e abełay (‘monaco’), ad esempio, vengono dal siriaco, mentre kat῾ołikos ed episkopos dal greco. Dal siriaco viene anche l’espressione uxti mankunk῾ (‘figli del patto’) per indicare il clero, sul modello del siriaco bnai qyama.
In mancanza di una struttura ecclesiale ben organizzata e definita, il monachesimo armeno è senza dubbio il motore dell’evangelizzazione della primitiva Chiesa armena. Le due correnti di evangelizzazione dell’Armenia, quella siriaca anteriore e quella cappadoce posteriore, si riflettono anche sul fenomeno monastico. Da una parte affiora il modello rigorista eustaziano; dall’altra, a partire soprattutto dall’età del kat῾ołikos Nersēs, sembra far scuola il modello cappadoce di Basilio di Cesarea, di impronta egiziana94. L’importanza in Armenia della figura di Basilio, del quale vennero presto tradotte le Regole, è innegabile, ed è fondata sul precedente legame con la metropoli di Cesarea, ancorché le prime comunità propriamente cenobitiche basate sulla regola basiliana risalgano al IX secolo. Secondo P῾awstos (IV 4), alla consacrazione episcopale del kat῾ołikos Nersēs sarebbe stato presente Basilio, non ancora vescovo. La notizia è poco probabile, poiché all’epoca Basilio era ancora giovane studente ad Atene. Si è spesso ritenuto che l’intensa attività caritativa di Nersēs discendesse dall’esempio basiliano, ma in realtà sembra precedente di alcuni anni. Dall’epistolario di Basilio possiamo ricavare che le prime istituzioni caritative basiliane seguono la carestia del 368, e furono completate verso il 373, mentre le corrispettive istituzioni di Nersēs dovrebbero risalire all’inizio del suo pontificato (353), stando alla testimonianza di P‘awstos (IV 12; V 1).
Sappiamo da Agatangelo (§ 808) che Gregorio, di ritorno da Cesarea e da Sebaste, portò con sé monaci e preti. Ci si può chiedere se si trattasse di cenobiti o, più verosimilmente, di anacoreti. Certo è che, dopo la conversione ufficiale del regno al cristianesimo, i primi monaci menzionati dalle fonti sono degli eremiti di formazione siriaca. Secondo P῾awstos Buzand, i principali iniziatori del movimento monastico nell’Armenia arsacide sono il siro Šałitay, il greco Epifanio e l’armeno Gind, tutti e tre discepoli del santo monaco e corepiscopo Daniēl, figura esemplare alla quale Fausto dedica ampio spazio (III 14), specificando che a lui era stata affidata la sovrintendenza sulla regione meridionale del Tarōn. Questi monaci non hanno dei luoghi di residenza, errano per le montagne e non vivono in comunità.
Secondo Mardirossian e Garsoian95 l’unico modello antico, in Armenia, sarebbe quello eremitico, come attestato in Agatangelo (§§ 846; 861), P῾awstos Buzand (III 14; V 27-28) e Koriwn (§§ 4; 22); forme di cenobitismo non comparirebbero che dopo il VI secolo. Non ci sentiamo di condividere questa opinione: vi sono infatti testimonianze abbastanza attendibili sull’esistenza di qualche esperienza cenobitica. Secondo Mosè di Corene, il kat῾ołikos Sahak (†377) aveva raccolto sessanta discepoli sul modello degli spudaioi costantinopolitani, cioè delle congregazioni di laici che si riunivano attorno a un santuario per l’ufficiatura (III 49): sono forme embrionali di monachesimo di tipo cenobitico armeno. Questo modello intermedio, che unisce la vita eremitica con la liturgia comune, avrà una storia duratura in Armenia, sopravvivendo non di rado anche nel secondo millennio. P῾awstos Buzand (VI 16) afferma che il successore di Daniēl, Gind, aveva stabilito non solo eremiti nel deserto, ma anche case di religiosi. Lo stesso P῾awstos (V 31) ricorda che il kat῾ołikos Nersēs (†373) fece edificare in varie parti del paese alcune residenze per vergini, circondate da mura, affinché potessero vivere secondo i loro voti.
Le immotivate pregiudiziali cronologiche su Eliseo, autore collocato dalla tradizione nel V secolo e postdatato da Garsoian e da altri storici, hanno portato a escludere alcune importanti testimonianze. Nella Storia, tra i numerosi accenni al monachesimo, Eliseo fa riferimento inequivocabilmente a monasteri costruiti nel deserto96. Il più o meno coevo Lazzaro di P῾arpi (I 18) fa cenno a un monastero presso Aštišat, nel quale sarebbe stato impegnato un gran numero di ministri che, secondo Garsoian, sarebbero stati solo membri di una confraternita al servizio dei pellegrini97. Al termine dell’omelia Sulla trasfigurazione, Eliseo dedica alcune pagine a descrivere una comunità monastica del monte Tabor, di chiaro impianto cenobitico; nell’omelia Sui monaci, invece, ci presenta la vita e l’organizzazione di una misteriosa e non ben identificata comunità monastica che rivela analogie e tratti in comune con i terapeuti, descritti da Filone nel De vita contemplativa. Si tratta per lo più di testimonianze relative al V secolo, ma non bisogna dimenticare che la presenza di monaci armeni in Palestina e nella laura di San Saba è attestata fin dall’epoca più remota, ed Eliseo mostra che queste forme di vita suscitavano l’interesse degli armeni. Infine vi sono i canoni 15 e 16 del concilio di Šahapivan del 444, che presentano inequivocabili riferimenti al monachesimo cenobitico, benché possano esserci state delle interpolazioni successive. Certamente quelle che le fonti ci presentano per il IV secolo sono forme ancora embrionali e sperimentali, ma la continuità fra queste esperienze di vita comune e il monachesimo cenobitico organizzato, che trova un impulso nell’attività di Basilio, pare difficilmente negabile98.
Accanto alla figura del monaco, bisogna isolare quella del dottore impegnato nell’evangelizzazione. Benché le due figure non di rado coincidano nella stessa persona, esse vanno opportunamente distinte. Il dottore di teologia, detto in armeno vardapet, è una delle istituzioni più autorevoli della cristianità armena, e la sua autorevolezza non conosce soluzione di continuità nei secoli. Il titolo di vardapet, che probabilmente deriva da una carica accademica mazdea99, e nel Vangelo traduce il termine didaskalos, è attribuito ai primi teologi e missionari impegnati nell’evangelizzazione. La categoria potrebbe essere assimilata a quella descritta dalla Didachè, che parla di apostoli, profeti e dottori. Si tratta di istituzioni che non rientrano in un modello ecclesiale territoriale, ma itinerante. Certamente nel IV/V secolo i vardapet non costituiscono un rango specifico, ma il titolo è attribuito per lo più a monaci, nonché a chierici di alto rango, come ad esempio il kat῾ołikos. Attorno a essi si radunano gruppi di discepoli (si pensi al già citato caso di Epifanio e di Gind, descritto da P῾awstos), ma non sono comunque paragonabili ai dottori medievali, e non hanno quelle caratteristiche accademiche che in Armenia assumeranno solo nel secondo millennio.
La figura che per eccellenza assomma in sé i due modelli di monaco e dottore alla fine del IV secolo è certamente Mesrop Maštoc῾. Originario del villaggio meridionale di Hac῾ekac῾, nel Tarōn, era erede della tradizione armena rivolta verso il mondo siriaco, ma non ignora nemmeno il greco. Monaco itinerante, si rese conto di quanto osservato anche da P῾awstos (V 43), cioè che la gran parte dei connazionali versava in una situazione di ignoranza spirituale e dottrinale, poiché il culto si svolgeva in siriaco o in greco, lingue inintelligibili ai più. Avvertì come improcrastinabile la necessità di una versione armena della Bibbia, per realizzare la quale era necessario anzitutto un alfabeto adeguato. Cercò invano tra gli alfabeti in uso nelle altre lingue, inviò discepoli nei principali centri culturali di area greca e siriaca, finché una rivelazione divina gli fece conoscere le lettere dell’alfabeto armeno. Il possesso dell’alfabeto innescò una sorprendente operazione culturale, antropologica e teologica, che ha dato origine alla civiltà letteraria armena. La prima traduzione fu ovviamente quella della Sacra Scrittura, ma seguirono immediatamente altre opere: il numeroso gruppo di discepoli inviato da Maštoc῾ nelle capitali della cultura iniziò a tradurre i principali testi classici della letteratura teologica, filosofica e scientifica.
Come osservato dagli studiosi100, la gran parte degli allievi di Maštoc῾ doveva essere più familiare con la lingua e la cultura siriaca che con quella greca. I primi discepoli, infatti, inviati dal maestro a Edessa, Amida e Samosata, si mettono subito al lavoro senza aver bisogno di studiare il siriaco, cosa che non avviene invece nel caso del greco, dovendo essi trattenersi a lungo a Costantinopoli per impararlo101. Del resto sappiamo che i primi tentativi di traduzione della Bibbia si basarono sul siriaco, così come alcune opere, originariamente composte in greco, furono tradotte in armeno non direttamente, ma attraverso il tramite siriaco: è il caso ad esempio della Storia Ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, delle Lettere di Ignazio di Antiochia e, ancor più eclatante, dell’Esamerone di Basilio. Come si può notare, alla fine del IV secolo e all’inizio del V l’influenza del mondo siriaco su quello armeno è ancora determinante, molto più di quanto facciano intendere le fonti posteriori, tra le quali Agatangelo, il quale tuttavia non può non ammettere che lo stesso Gregorio aveva fondato scuole non solo di greco, ma anche di siriaco, per i figli dei sacerdoti pagani convertitisi al cristianesimo (§ 840).
Le ricostruzioni cronologiche più attendibili collocano la conversione ufficiale dell’Armenia al cristianesimo in piena età costantiniana, e una tradizione non accertata narra che vi sarebbe stato un incontro ufficiale tra i protagonisti della conversione (il re Tiridate e Gregorio Illuminatore) e l’imperatore romano. Tuttavia, da un’analisi critica delle principali fonti l’evangelizzazione dell’Armenia non appare quel processo repentino che Agatangelo indurrebbe a pensare, e soprattutto non è il frutto del solo apporto culturale greco. Certamente la predicazione di Gregorio fu determinante per accelerare il processo di ricezione del Vangelo, che tuttavia era già iniziato da tempo e aveva raggiunto soprattutto alcune zone confinali con il mondo siriaco. L’apporto della tradizione siriaca deve essere stato molto più incisivo di quanto le fonti successive vogliano far credere, a eccezione di P῾awstos Buzand, che mostra di esserne perfettamente consapevole. Le tracce di questo apporto sono evidenti nel lessico, in alcune formule liturgiche, in antiche professioni di fede e nelle primitive traduzioni. Fu soprattutto sotto l’impulso del kat῾ołikos Sahak (387-436) e del concilio di Efeso del 431 che la Chiesa armena aderì decisamente alla teologia di Cirillo di Alessandria, abbandonando in parte, soprattutto a livello cristologico, il modello antiocheno.
La Chiesa armena nasce dall’incontro tra culture e spiritualità diverse che si coniugano in una sintesi originale. Alcune di queste peculiarità emergono già nel IV secolo: la convivenza fra un modello ecclesiale monarchico, che ha il suo vertice indiscusso nella figura del kat῾ołikos, e un modello sinodale che lascia ampio spazio anche all’intervento del laicato; la centralità della parola scritta, sia come testo sacro, sia come testimonianza della tradizione; la preminenza del monachesimo (eremitico prima, cenobitico in seguito, ma anche in forme intermedie) rispetto alla struttura territoriale e cattedrale; una spiritualità incentrata sulla croce e sul martirio. Questi aspetti, presenti fin dall’inizio, rimarranno costanti nel tempo, caratterizzando per molti secoli, fino a oggi, la Chiesa armena.
1 Per un quadro generale sull’evangelizzazione dell’Armenia e sulla Chiesa armena in età costantiniana si indicano di seguito alcuni riferimenti bibliografici più recenti: R.H. Hewsen, Armenia. A Historical Atlas, Chicago-London 2001; Die Christianisierung des Kaukasus, hrsg. von W. Seibt, Wien 2002; H.M. Ayvazyan et al., K῾ristonya Hayastan. Hanragitaran (Armenia cristiana. Enciclopedia), Yerevan 2002; A. Mardirossian, Le livre des canons arméniens (Kanonagirk῾ Hayoc῾) de Yovhannēs Awjnec῾i. Église, droit et société en Arménie du IVe au VIIIe siècle, Louvain 2004; M.K. Yevadian, Christianisation de l’Arménie. Retour aux sources, 2 voll., Lyon 2007-2008; N. Garibian de Vartavan, La Jérusalem nouvelle et les premiers sanctuaires chrétiens de l’Arménie, Yerevan 2009; G. Uluhogian, Gli armeni, Bologna 2009; Storia religiosa dell’Armenia, a cura di L. Vaccaro, B.L. Zekiyan, Milano 2010; N.G. Garsoian, Studies on the Formation of Christian Armenia, Farnham-Burlington (VT) 2010; Les Apôtres Thaddée et Barthélemy. Aux origines du christianisme arménien, éd. par V. Calzolari, Turnhout 2011; Armenia. Impronte di una civiltà, a cura di G. Uluhogian, B.L. Zekiyan, V. Karapetian, catal., Ginevra-Milano 2011.
2 Cfr. R.H. Hewsen, Armenia. A Historical Atlas, cit.
3 Cfr. Tac., ann. XVI 23-24.
4 N.G. Garsoian, ’Aρμενία Μεγάλη καὶ ἐπαρχία Μεσοποταμίας, in Id., Church and Culture in Early Medieval Armenia, Aldershot-Brookfield 1999, pp. 239-264.
5 Procop., Aed. III 1-23.
6 Amm. XXV 7,9.
7 G. Garitte, Documents pour l’étude du livre d’Agathange, Città del Vaticano 1946.
8 L’edizione critica della versione armena fu pubblicata per la prima volta a Tbilisi nel 1909. Il testo critico è stato ripubblicato nel 1976 da R.W. Thomson, senza apparato, ma con traduzione inglese a fronte (Agathangelos, History of the Armenians, Albany [NY] 1976).
9 In mancanza di un testo critico, si fa ancora riferimento all’edizione mechitarista veneziana del 1832. Lo studio più articolato è quello dell’edizione inglese dell’opera curata da N.G. Garsoian (The Epic Histories, Cambridge [MA] 1989). Una traduzione italiana è stata curata da G. Uluhogian, M. Bais, L.D. Nocetti (P῾awstos Buzand, Storia degli armeni, Milano 1997).
10 Cfr. P῾awstos, IV 3; V 24; VI 5.
11 L’edizione critica è stata pubblicata a Tbilisi nel 1913, ristampata e aggiornata a Yerevan nel 1991 a cura di A.B. Sargsyan. Una traduzione inglese è stata curata da R.W. Thomson (Moses Khorenats῾i, History of the Armenians, Cambridge [MA] 1978) e una francese da A. e J.-P. Mahé (Moïse de Khorène, Histoire de l’Arménie, Paris 1993).
12 Mosè di Corene, hist. III 62.
13 Edizione critica a cura di M. Abełyan (Yerevan 1941); traduzione tedesca e studio storico a cura di G. Winkler (Koriwns Biographie des Mesrop Maštoc῾, Roma 1994); traduzione italiana a cura di Y. Ashrafian (Koriun, Vita di Maštoc῾, Venezia 1998).
14 Cfr. Les Apôtres Thaddée et Barthélemy, cit.; M.K. Yevadian, Christianisation de l’Arménie, cit.; P. Ananian, K῾ristonēowt῾ean hetk῾er Hayastani mēǰ S. Grigori Lowsaworč῾i k῾arozowt῾enē aṙaǰ (Tracce del cristianesimo in Armenia prima della predicazione di S. Gregorio Illuminatore), Venezia 1979.
15 III 19; IV 4.
16 Mosè di Corene, hist. II 16,19.
17 III 12; III 14; IV 4.
18 BHO 1145.
19 BHO 1146.
20 BHO 26.
21 BHO 9.
22 Eus., h.e. I 13.
23 Mosè di Corene, hist. II 30-34.
24 Mosè di Corene, hist. II 74.
25 BHO 156.
26 BHL 652.
27 Cfr. M. Van Esbroeck, The Rise of Saint Bartholomew’s Cult from the Seventh to the Thirteen Centuries, in Medieval Armenian Culture, ed. by Th. J. Samuelian, M.E. Stone, Chico (CA) 1984, pp. 161-178.
28 BHO 159.
29 Cfr. A. Tchouhadjian, Pèlerins d’Arménie, Saints d’Occident, Lyon 2011.
30 Tert., adv. Iud. VII 4.
31 Riportate da M.K. Yevadian, Christianisation de l’Arménie, cit., pp. 169-190.
32 Eus., h.e. VI 46,2.
33 Cfr. J. Mécérian, Histoire et institutions de l’Église Arménienne, Beyrouth 19982, pp. 22-31.
34 M.K. Yevadian, Christianisation de l’Arménie, cit., II, p. 386.
35 Soz., h.e. II 12,4.
36 N. Garsoian, L’Église arménienne et le grande schisme d’Orient, Louvain 1999, pp. 28-29.
37 Cfr. J.M. Thierry, L’histoire des saintes hṙip῾simiennes, in Movsēs Xorenac῾i et l’historiographie arménienne des origines, éd. par D. Kouymjian, Antélias 2000, pp. 113-116.
38 Cfr. M. Van Esbroeck, Die Stellung der Märtyrerin Rhipsime in der Geschichte der Bekehrung des Kaukasus, in Die Christianisierung, cit., pp. 171-179.
39 Cfr. Agatangelo, § 872.
40 Soz., h.e. II 8.
41 Cfr. J.-P. Mahé, Il primo secolo dell’Armenia cristiana (298-387): dalla letteratura alla storia, in Roma-Armenia (catal.), a cura di C. Mutafian, Roma 1999, pp. 64-72; Id., Die Bekehrung Transkaukasiens: eine Historiographie mit doppeltem Boden, in Die Christianisierung, cit., pp. 107-124.
42 La datazione più remota è quella del 219 proposta da N. Akinian, S. Grigor Lusavorič῾, in Handēs Amsorya, 53 (1949), pp. 3-58; quella più avanzata e verisimile è il 314/315, condivisa da numerosi studiosi contemporanei. Una soluzione intermedia (288) è proposta da N. Adontz, Les vestiges d’un ancien culte en Arménie, in Annuaire de l’Institut de philologie et d’histoire orientales et slaves, 4 (1936), pp. 501-516.
43 Ath., inc. LI 2.
44 Tra i numerosi studi sulla cronologia della conversione ci limitiamo a segnalare i seguenti: P. Ananian, La data e le circostanze della consacrazione di S. Gregorio Illuminatore, in Le Muséon, 71 (1961), pp. 43-73, 317-360, nel quale è presentata anche una puntuale sintesi di tutti gli studi precedenti; M.-L. Chaumont, Recherches sur l’histoire d’Arménie. De l’avènement des Sasanides à la conversion du royaume, Paris 1969; R. Manaseryan, Hayastanə Artavazdic῾ minč῾ev Trdat Mec (L’Armenia da Artawazd a Tiridate il Grande), Yerevan 1997; W. Seibt, Der historische Hintergrund und die Chronologie der Christianisierung Armeniens bzw. der Taufe König Trdats (ca. 315), in Die Christianisierung, cit., pp. 125-133; A. Mardirossian, Le synode de Vałaršapat (491) et la date de la conversion au christianisme du royaume de Grande Arménie (311), in Revue des Études arméniennes, 28 (2001-2002), pp. 249-260.
45 Mosè di Corene, hist. II 82,91.
46 Mosè di Corene, hist. II 91.
47 G. Garitte, Documents, cit., pp. 83-98.
48 P. Ananian, La data e le circostanze della consacrazione, cit. La traslazione delle reliquie di Atenogene da parte di Gregorio è stata recentemente messa in discussione da M.K. Yevadian, Christianisation de l’Arménie, II, cit.
49 Ibidem.
50 J. Lebon, Sur un concile de Césarée, in Le Muséon, 51 (1938), pp. 89-132.
51 Cfr. M.K. Krikorian, The Formation of Canon Law of the Armenian Church in the IVth Century, in Die Christianisierung, cit., pp. 99-106.
52 J.-P. Mahé, Il primo secolo dell’Armenia cristiana, cit.
53 Eus., h.e. IX 8.
54 A. Mardirossian, Le synode de Vałaršapat (491), cit.
55 R. Manaseryan, Hayastan Artavazdic῾ minč῾ev Trdat Mec, cit.
56 Eus., h.e. IX 8.
57 Storia del paese degli albani, II 47, ed. Aṙak῾elyan.
58 R. Manaseryan, Il re d’Armenia e l’imperatore di Roma: gli aspetti ideologici dei loro rapporti e la conversione al cristianesimo, in Roma-Armenia, cit., pp. 59-61.
59 Cfr. D.C., LXIII 5,2.
60 P῾awstos, IV 5.
61 Cfr. N.G. Garsoian, Taron as an Early Christian Armenian Center, in Studies on the Formation of Christian Armenia, cit., pp. 59-69.
62 P῾awstos, III 3,14; IV 4,14.
63 Cfr. N. Garibian de Vartavan, La Jérusalem nouvelle et les premiers sanctuaires chrétiens de l’Arménie, Yerevan 2009.
64 Sul pantheon armeno e sulle divinità precristiane si veda in particolare M.-L. Chaumont, Recherches sur l’histoire d’Arménie, cit.
65 Agatangelo, §§ 757-776.
66 Agatangelo, §§ 810-813.
67 Cfr. P῾awstos, III 14; V 26.
68 P῾awstos, V 27.
69 Sulle istituzioni della primitiva Chiesa armena si veda in particolare A. Mardirossian, Le livre des canons arméniens, cit.
70 P῾awstos, V 44.
71 P῾awstos, IV 4; V 31; Mosè di Corene, III 20.
72 Cfr. P῾awstos, V 31.
73 Il termine, che designa il patriarca supremo della Chiesa armena, assume un significato tecnico ed esclusivo solo a partire dal VI secolo.
74 Cfr. B. Harutyunyan, Die Diözesan-Gliederung der Armenischen Kirche im Zeitalter Gregors des Erleuchters, in Die Christianisierung, cit., pp. 81-98; M.K. Krikorian, Addendum zur Diözesan-Gliederung Armeniens im IV Jh., in Die Christianisierung, cit., pp. 95-98.
75 P῾awstos, IV 4; Mosè di Corene, III 29.
76 Cfr. K. Maksoudian, Chosen of God. The Election of the Catholicos of All Armenians from the Fourth Century to the Present, New York 1995.
77 Cfr. Eliseo, hist., pp. 26-27, ed. Tēr-Minasyan.
78 Cfr. N.G. Garsoian, The Early-Medieval Armenian City: an Alien Element?, in Id., Church and Culture in Early Medieval Armenia, Aldershot-Brookfield 1999, pp. 67-83.
79 Si parla ad esempio di vescovo dei Mamikonean o di vescovo dei Xoṙxoṙunik.
80 M.K. Krikorian, The Formation of Canon Law of the Armenian Church in the IVth Century, in Die Christianisierung, cit., pp. 99-106.
81 Cfr. P῾awstos, IV 4.
82 A. Terian, Macarius of Jerusalem: Letter to the Armenians, A.D. 335, Crestwood (NY) 2008.
83 Cfr. Eus., v.C. IV 43.
84 Sui legami rituali e dogmatici fra la Chiesa armena e la tradizione siriaca si vedano: G. Winkler, Das armenische Initiationsrituale, Roma 1982; Id., Über die Entwicklunsgeschichte des armenischen Symbolums, Roma 2000.
85 F.C. Conybeare, The Key of Truth: A Manual of the Paulician Church of Armenia, Oxford 1898, p. 178.
86 N.G. Garsoian, Some Preliminary Precisions on the Separation of the Armenian and Imperial Churches, in Church and Culture, cit., pp. 249-285.
87 Cfr. Agatangelo, §§ 845-846.
88 Cfr. P῾awstos, III 13-17.
89 Cfr. N.G. Garsoian, The Enigmatic Figure of Bishop Šahak of Manazkert, in Church and Culture, cit., pp. 883-895.
90 Eliseo, hist., ed. Tēr Minasyan, p. 26.
91 Cfr. P῾awstos, V 24; Mosè di Corene, III 20.
92 Cfr. Agatangelo, § 856.
93 Cfr. R.W. Thomson, Syrian Christianity and the Conversion of Armenia, in Die Christianisierung, cit., pp. 159-169.
94 Cfr. J. Mécérian, Histoire et institutions de l’Église Arménienne, cit.
95 A. Mardirossian, Le livre des canons arméniens, cit., p. 133; N.G. Garsoian, Introduction to the Problem of Early Armenian Monasticism, in Studies on the Formation of Christian Armenia, cit., pp. 177-236.
96 Eliseo, hist., ed. Tēr-Minasyan, p. 60.
97 N.G. Garsoian, Introduction, cit.
98 Si veda a tal proposito A. Granian, Il monachesimo armeno nell’Armenia storica e nel Medio Oriente, in Storia religiosa dell’Armenia, cit., pp. 121-148.
99 A. Mardirossian, Le livre des canons arméniens, cit., pp. 134-135.
100 Cfr. N.G. Garsoian, Taron as an Early Christian Armenian Center, cit.; R.W. Thomson, Syrian Christianity and the Conversion of Armenia, cit.
101 Cfr. Koriwn, XIX.