Il cristianesimo siriaco
Protagonisti, stagioni e nodi problematici dalla prima evangelizzazione all’esordio del V secolo
Con l’espressione ‘cristianesimo siriaco’ si vuole qui fare riferimento a quell’articolata cultura cresciuta lungo i secoli della tarda antichità e della successiva dominazione islamica sulla base della disseminazione del messaggio evangelico, a partire dall’età subapostolica (a cavaliere tra i primi due secoli d.C.), entro una vasta area geografica a maggioranza semitica, a est della greca città di Antiochia, comprendente l’entroterra della Siria, la Mesopotamia e le regioni prospicienti al Golfo Persico. Proprio a seguito di quelle prime generazioni, nell’ampio quadrante suddetto si sarebbe progressivamente imposta, sul sostrato delle molte varianti aramaiche preesistenti nella mezzaluna fertile, una koinè costituita da un particolare dialetto, il siriaco: un idioma il cui alfabeto venne codificato a livello prima epigrafico e poi letterario a Edessa, snodo commerciale fondato da Seleuco I Nicatore nel 303/302 a.C. e capitale del regno cuscinetto dell’Osroene, vassallo di Roma, governato dalla dinastia abgaride. Le prime attestazioni di carattere epigrafico e su mosaici funerari, unitamente a tre documenti legali su papiro giunti fino a oggi, mostrano che l’adozione di questo dialetto, e della scrittura alfabetica elaborata appositamente per trascriverlo, lo elevò a lingua regia e religiosa in un contesto culturale semitico e pagano, non ancora estensivamente ellenizzato. Di lì, il siriaco si sarebbe diffuso in prima battuta nella regione di Nisibi e nel vicino Adiabene, fino a coinvolgere le regioni meridionali dell’attuale Iraq; col tempo assunto a lingua delle Chiese cristiane sorte in Siria e Mesopotamia, nel VI secolo si diffonderà, in qualità di lingua liturgica e letteraria, tramite mercanti e missionari cristiani, nelle regioni dell’Asia centrale, fino ad approdare in Cina.
La civiltà siriaca sorge all’incrocio tra i continenti, a fianco di importanti aree linguistiche e culturali (l’ebraica, la greca, la copta, l’araba, l’iranica, la caucasica, l’armena), in uno degli snodi storici e geografici più densi di eventi, di vettori e di fermenti per la storia delle religioni euroasiatiche. Per dare un’idea della prosperità delle culture maturate in tali zone basti richiamare come nella tarda antichità queste terre videro la stesura del Talmud babilonese, il fiorire di varie scuole e tentativi di riforma entro lo zoroastrismo, la nascita, la diffusione e la persecuzione del manicheismo, fino, con l’imporsi del dominio arabo-islamico, alla costruzione del califfato abbaside e con esso alla massima fioritura dell’islam classico. Tale collocazione fin da subito contraddistinse questa cultura cristiana, oltre che per l’immensa produzione intellettuale e letteraria di matrice autoctona e per la profonda e conflittuale prossimità al mondo giudaico, per la sua vocazione a funzionare da camera di decompressione, rielaborazione e trasmissione di culture, in particolare qualificandosi come una delle civiltà ‘semitiche’ più fortemente inclini ad assorbire e a veicolare, per ondate successive, dosi massicce di ellenismo.
Il cristianesimo siriaco è comunque un fenomeno che, per i secoli qui esaminati, pur nella molteplicità delle sue forme manifesta alcuni tratti caratterizzanti che lo configurano come una civiltà, la cui dimensione unitaria è solo in parte minata dalle differenti declinazioni e sensibilità letterarie, teologiche, liturgiche e spirituali cresciute a seguito delle controversie cristologiche del V secolo (di cui non ci si occuperà in questa sede), e della divisione delle gerarchie ecclesiastiche in corpi distinti e in competizione spesso sui medesimi territori. La lingua dunque, come per altre Chiese orientali, fu il principale collante e il più efficace veicolo che consentì la formazione di una cultura comune tra i cristiani della Mezzaluna Fertile, in questo caso capace di trascendere i confini confessionali di natura teologica interni a quel mondo, consentendo sempre ai vari segmenti, separati per ragioni cristologiche, di comunicare e di contaminarsi in modo reciproco. L’importanza della dimensione linguistica nell’affermazione di una cultura siriaca si comprende anche grazie all’assenza di ulteriori elementi unificanti esterni: non solo quello confessionale, come detto, ma anche quello, non meno decisivo, geopolitico, dato che tale civiltà insisteva su una regione che, a partire dal III secolo, con l’instaurarsi della dinastia sasanide in Persia e fino all’imporsi, a metà del VII, del generale dominio arabo-islamico su tutto il Vicino Oriente, venne contesa tra i due imperi romano e persiano, il confine tra i quali avrebbe oscillato su quella piana alluvionale, spostandosi ora a Oriente ora a Occidente, ora inglobando il regno dell’Osroene in terra persiana, ora spingendo le truppe romano-bizantine oltre il fiume Tigri, con conseguenze militari, economiche e culturali di sicuro rilievo1.
Pensa quanto mi fa piacere udire che anche la parte più importante della Persia è ornata da questa categoria di uomini, ossia i cristiani (l’intero mio discorso infatti si riferisce a essi), proprio come è nei miei auspici. Dunque, che possa toccare la sorte migliore e ogni bene, tanto a te quanto a quelli, ché sono anch’essi tuoi sudditi. In questo modo il Signore dell’universo sarà per te propizio e benevolo. E pertanto, visto che sei un sovrano tanto grande, ti affido costoro, ponendoli nelle tue mani, poiché sei famoso anche per la tua pietà. Amali in modo consono alla tua filantropia. Con questa promessa renderai sia a te che a noi un beneficio incommensurabile2.
Con queste parole di congedo, in un periodo compreso tra il 324 e il 337 l’imperatore Costantino, preoccupato per le sorti dei cristiani di Persia, avrebbe concluso la lettera rivolta al sovrano sasanide Shabur II. Autentica o meno che sia questa missiva3, quel che certamente per noi conta è che Eusebio, integrandola nella sua Vita Constantini, dovette ritenerla efficace argomento, non solo per il disegno che andava confezionando in merito alla curva biografica dell’imperatore, ma anche per il suo progetto di conferire a tale biografia un profondo significato teologico-politico, in particolare circa una caratteristica irrinunciabile per il difensore della Chiesa4. Ma su quante realmente fossero quelle «moltissime [...] Chiese di Dio presso i Persiani», sul chi fossero quei «numerosissimi fedeli» in terra di Persia5, su quando fossero giunti lì e su quale scenario ecclesiale si presentasse in quei luoghi, le informazioni a disposizione dovevano essere tutto sommato limitate.
Ciò che Eusebio mostra di sapere in merito all’evangelizzazione del mondo siriaco è principalmente circoscritto a quella parte di esso che era già interna all’Impero romano, ovvero l’Osroene. Nella sua Storia Ecclesiastica6, il vescovo di Cesarea registra in effetti pedissequamente un mito edesseno, che circolava in una qualche forma scritta probabilmente già dalla seconda metà del III secolo e che lo stesso Eusebio afferma, assai inverosimilmente, di aver ottenuto e tradotto di persona dagli archivi della città. Di questo stesso mito si possiede in siriaco una redazione maggiormente estesa e più tarda, entro la Dottrina di Addai7, elaborata nella prima metà del V secolo su un testo comune a quello di Eusebio, in una stagione in cui la comunità ‘ortodossa’ si andava imponendo sulle varie sette presenti in città8.
Secondo la versione siriaca di questo celebre mito, il re Abgar Hukkama (‘il nero’)9 comunica per via epistolare con Gesù poco prima della crocifissione. In questa lettera il re sostiene di conoscere i prodigiosi poteri curativi di Gesù, affermando che tali capacità provano l’origine divina del loro portatore. Abgar invoca l’aiuto di Gesù in ordine alla malattia che lo tormenta. Gli offre protezione dalle trame dei giudei, invitandolo a Edessa; Gesù risponde (nella versione eusebiana per lettera, mentre nella Dottrina di Addai oralmente) benedicendolo, declinando l’invito perché tutto si compia secondo la volontà del Padre e inviando un proprio discepolo per curarlo. La persona scelta è Addai (Taddeo nella versione greca), che arriva a Edessa successivamente alla morte e resurrezione del Cristo compiendo guarigioni in mezzo al popolo e giungendo poi davanti al sovrano; questi, preda di una visione, si getta ai piedi dell’apostolo di fronte ai nobili riuniti alla sua corte. Addai cura re Abgar e il nobile ‘Abdu, che aveva portato al re la notizia dell’arrivo dell’inviato di Gesù in città; in compenso chiede al sovrano e ottiene, per il giorno seguente, di radunare tutta la cittadinanza al fine di poter predicare in merito «alla venuta del Cristo, del modo in cui avvenne, di chi lo inviò e in che modo, del suo potere e delle sue meravigliose azioni insieme ai gloriosi misteri della sua venuta».
È evidente l’intento che soggiace alla stesura finale di questa narrazione: stabilire una connessione tra la Chiesa edessena del IV-V secolo e il potere politico dell’Osroene, vagheggiando una divina investitura della (oramai estinta) dinastia abgaride suggerendo una radicale identificazione di questo regno con la comunità ‘ortodossa’, presentata fin dalle sue origini come una, apostolica e politicamente legittima. Si tratta di un palinsesto teologico-politico rilevante, perché sviluppa uno stretto legame di interdipendenza tra il consolidarsi di una Chiesa e il fondamento su cui si basa un assetto politico locale10. Come vedremo, questo è l’assetto cui giunse uno dei due volti maggiori del cristianesimo siriaco, quello che gravitava entro la sfera di influenza romano-bizantina.
Di certo non così lineari appaiono, a uno sguardo storico-critico, le origini della vicenda cristiana della regione: un vasto dibattito interno alla comunità scientifica è ruotato e ruota tuttora attorno a questi sfuggenti esordi, segnatamente in merito a quale sia stato il primo centro di evangelizzazione di lingua siriaca per tutto questo quadrante geografico. Va da sé, infatti, che il luogo d’origine del siriaco può essere stato coincidente, come pure non esserlo stato, con il centro d’irradiazione del cristianesimo parlante questa lingua. D’altro canto, sia detto per inciso, non è implausibile postulare una poligenesi del cristianesimo siriaco piuttosto che restare bloccati a un modello monogenetico.
Ad esempio, importanti indizi che suggeriscono come verosimile una data assai alta per le origini di una presenza cristiana nell’area mesopotamica propriamente detta, si ricavano da testi posti in connessione con il viaggio apostolico di Mar Mari da Edessa verso l’Adiabene e il Bet Garmai: testi tardi, invero, ma che contengono, fossilizzati, segmenti di memoria apostolica di convincente affidabilità storica. Dal Liber turris11, testo arabo cristiano composto tra il XII e il XIV secolo, si ricava ad esempio che quando Mar Mari giunse nella città doppia di Seleucia-Ctesifonte, precisamente presso la località di Kokhe, quest’ultima era posta in relazione a Ctesifonte, e non a Seleucia. Mar Mari in effetti, viene narrato, dovette attraversare il Tigri da Seleucia per andare a Ctesifonte e Kokhe, dove stabilì una Chiesa: ora, questa rappresentazione topografica non corrisponde alla posizione attuale di Kokhe, che è collocata sulla stessa riva di Seleucia, ma è invece conforme alla situazione precedente al mutamento del corso del fiume, avvenuto in un periodo compreso tra il 79 e il 116 d.C., prima del quale il Tigri separava Seleucia da Kokhe e Ctesifonte12. Anche gli Atti di Mari, risalenti al tardo VI-VII secolo13, sembrano confermare questi rilievi geografici14. Ripetuti sondaggi archeologici e una complessiva valutazione dei dati a disposizione confermano un’antica presenza cristiana e siriaca nel sito15.
Questo dato, pur nella sua forte consistenza argomentativa, non consente però da solo di costruire una linea generativa della civiltà cristiana siriaca, né di affidarsi in toto alle tradizioni tarde relative a Addai, Aggai e Mari, celebrati come gli evangelizzatori di queste regioni. Va registrato come, nella ricerca del crogiolo iniziale di questa civiltà cristiana, le due maggiori ipotesi contrapposte hanno guardato l’una all’Osroene degli Abgaridi e alla sua capitale Edessa, l’altra all’Adiabene, ove a partire dal I secolo dell’era cristiana la dinastia regnante aveva adottato, a confessione ufficiale, il giudaismo. Indizi convincenti suggeriscono come plausibile ora l’una ora l’altra ipotesi16. Allo stato attuale il consenso scientifico, seppure in chiave ancora dubitativa, sembra orientato verso l’opzione edessena, e purtuttavia quella adiabenita mantiene una certa consistenza. Efrem e Afraate, vale a dire i due autori più significativi del cristianesimo siriaco del IV secolo, provengono entrambi dal contesto adiabenita-nisibeno; questo ambiente sembra aver avuto al principio, rispetto a Edessa, una Chiesa internamente più omogenea; infine la Cronaca di Arbela, che lega l’evangelizzazione di questa regione all’età subapostolica, ha riacquistato parziale credibilità, dopo svariati decenni di sospetti e polemiche accademiche che si erano spinte a vedere in essa un falso composto nel XX secolo17. Infine un importante indizio ci viene dalla celebre iscrizione funeraria di Abercio, datata 180 d.C., ove si dà notizia del viaggio che il medesimo Abercio condusse a Roma, in Siria, nelle terre al di là dell’Eufrate e a Nisibi: Abercio afferma che in tutti questi luoghi egli ha trovato confratelli18.
Nonostante gli elementi di forza della pista adiabenita, pare però abbastanza convincente la tesi secondo cui la lingua della Peshitta andrebbe effettivamente riconosciuta come siriaco edesseno, e ciò, per ora, invita a restare all’opzione secondo cui Edessa sarebbe il più probabile centro di irradiazione del cristianesimo siriaco. L’opera di traduzione delle Scritture di Israele, condotta per fasi successive tra la fine del I e il II secolo, potrebbe essere avvenuta per la mediazione di comunità giudaiche inclini a leggere in modo non rituale la memoria del culto del tempio gerosolimitano, preferendo indirizzarlo nel senso di una pratica orante19. Comunità dunque più facilmente disposte ad accogliere il cristianesimo, leggendolo come una variante del giudaismo che consentiva di valorizzare nella propria pratica religiosa gli elementi da esse percepiti come nodali. Per inciso, non sembra senza significato il fatto che nella Dottrina di Addai sia un ebreo di nome Tobia a ospitare la missione dell’apostolo di Gesù: tenuto conto della vivace polemica anti-giudaica che si sviluppa nelle Chiese siriache già nel IV e nel V secolo, riscontrabile anche nella Dottrina di Addai, tale dettaglio potrebbe da un lato trasmettere la memoria di una primitiva connessione tra movimento di evangelizzazione e sostrato giudaico, dall’altro alludere tramite questo espediente a più tardi motivi di tensione tra le due comunità, figurando con l’ospitalità ricevuta da Addai nella casa di Tobia l’ingresso della Chiesa nello spazio della sinagoga20.
L’intreccio con il vivace e poliedrico mondo ebraico è peraltro riscontrabile per più vie nella ricostruzione delle origini delle Chiese di Siria: un tratto niente affatto univoco, giudeo-cristiano, anche se, va precisato, non nei termini nei quali Jean Daniélou intendeva questo concetto; piuttosto un’arena religiosa ove elementi giudaizzanti e proto-gnostici si incrociavano e scontravano in occasione delle prime missioni cristiane, stratificandosi secondo differenti linee dottrinali. E così il paesaggio ecclesiale della Mesopotamia ‘siriaca’ tra fine II e inizio V secolo è costellato da figure e ambienti che richiamano ora la fedeltà alle osservanze giudaiche, ora la febbrile elaborazione di sofisticati sistemi cosmo-antropologici: un milieu complesso, i cui contorni e i cui margini di distinzione tra ambiente e ambiente restano comunque oggetto di minuziose ricostruzioni tuttora in fieri21.
Un dato imprescindibile va anzitutto segnalato: sappiamo che nel 172 era tornato da Roma in Siria Taziano. Pur nell’incertezza di dati stabili circa i luoghi in cui dimorò, o del profilo che diede alla sua pubblica presenza ecclesiale, si può registrare una convergenza certamente sospetta tra l’impostazione encratita riscontrabile in opere a lui ascritte e quella che emerge in molti autori e opere del primo cristianesimo siriaco. Pur non essendo del tutto certo che sia stata la Siria il luogo di stesura del suo Diatessaron, ossia della concordanza dei quattro Vangeli – forse originariamente composto in greco e poi tradotto in siriaco, o forse concepito direttamente in questa lingua –, il contesto siriaco è certamente quello che per primo e più intensamente lo recepì. Lo prova il fatto che quest’opera, in cui traspare la particolare sensibilità teologica di Taziano, restò fino al V secolo l’evangeliario di riferimento per tutte le comunità cristiane dell’area, influenzando in modo significativo il carattere del cristianesimo siriaco22.
Sappiamo come le regioni meridionali della Mesopotamia abbiano ospitato il fiorire dell’elchasaismo, un movimento di tipo battista di matrice giudeo-cristiana che pare vada individuato come bacino di coltura del mandeismo per un verso, e per un altro del manicheismo23. Nelle regioni settentrionali il quadro non era meno vivace. Il contesto che è emerso dallo studio critico della tradizione eresiologica, a partire dagli Inni contro le eresie di Efrem24, o dal suo Testamento25, o ancora dal Catalogo delle Eresie di Maruta di Maiferqat26, da alcune lettere di Giacomo di Edessa27, o dal Libro degli Scolii di Teodoro Bar Koni28, per dire solo di alcune fonti maggiori, è estremamente variegato.
Edessa in particolare, nel periodo in questione, si presenta come una città vivace, attraversata da un pullulare di gruppi cristiani, entro i quali quell’assetto ecclesiale che si imporrà come ‘cattolico’ non è che uno dei molti, e minoritario fino alla fine del IV secolo29. La Cronaca di Edessa, testo datato alla metà del VI secolo, particolarmente attendibile perché attinge a fonti dell’archivio cittadino, ci narra di un’alluvione che avrebbe colpito la città nel 201. Questa provocò danni anche al «tempio della chiesa dei cristiani»30: se ne può ricavare con ampio margine di verisimiglianza che a quest’altezza si desse già una stabile presenza ecclesiale. Ma che genere di cristiani erano quelli che abitavano in questa città? Le tessere che possediamo per ricomporre l’immagine di questo mosaico consentono di intravvedere per grandi linee le dimensioni e le forme di una presenza articolata, con improvvisi salti di scala, grazie a addensamenti di notizie che precisano felicemente singoli punti, lasciando tuttavia molte domande aperte.
Sappiamo di un’antica e radicata attività marcionita in Siria31, come pure della presenza di ariani, e infine di manichei. Ma a quest’epoca erano attivi in città anche i sabbatiani, cristiani giudaizzanti di tendenza quartodecimana, le cui origini potrebbero risalire all’età subapostolica, e che vanno distinti dai novazianisti, con i quali a un certo punto le fonti tendono a sovrapporli. La loro attività potrebbe recare indizio di una primitiva missione gerosolimitana in Osroene32. A fianco di questo gruppo, e ben distinta da esso, vi era la setta dei quqiti, ovvero i seguaci di Quq, una corrente sincretista che fondeva elementi di diversa estrazione culturale: oltre a un’accoglienza – pare – piena delle Scritture di Israele e di quelle cristiane, costoro avrebbero dato particolare enfasi alle norme di purità giudaiche, tanto da indurre la tradizione eresiografica successiva a riconoscere in loro una matrice samaritana; a questi elementi si sarebbe sovrapposta però una riflessione cosmologica che risentiva dell’influsso dell’astrologia caldea, e che si articolava secondo un complesso mito protologico, che tradirebbe forse un retroterra iranico e che presenterebbe parziali risonanze con la galassia gnostica33.
Certamente però la frangia cristiana più influente nell’Edessa tra III e V secolo consisteva nella cosiddetta scuola bardesanitica. Bardesane34 (154-222), il cui nome significa ‘figlio del Dayṣan’ – vale a dire del fiume che attraversa la città di Edessa –, sarebbe stato, secondo alcune fonti, di famiglia persiana, ma vi è il ragionevole sospetto che in realtà egli fosse etnicamente siriaco. Ricordato come ‘filosofo degli aramei’, restano di suo pugno solo lacerti, trasmessi per via indiretta. Educato alla cultura persiana, conoscitore dell’astrologia caldea, di elementi di fisica e di filosofia greca, e giunto al cristianesimo con questo cospicuo bagaglio culturale, fu il capofila di una corrente religioso-speculativa che travalicò i confini della città di Edessa, a quanto pare finendo per fornire elementi dottrinali al nascente manicheismo. Entro un passaggio ritenuto attendibile della peraltro spuria Vita di Abercio, Bardesane viene rappresentato come un cristiano ortodosso, figura di spicco della corte abgaride, impegnato ad accompagnare Abercio nel suo viaggio (forse una visita ufficiale) insieme a una nutrita schiera di altri cristiani35. Giulio Africano nei suoi Kestoi (I 20) racconta, a una data anteriore al 21636, di quando nel 195 egli stesso aveva fatto parte di una delegazione che accompagnava l’imperatore Settimio Severo a Edessa, e di come in quell’occasione avesse avuto modo di incontrare Bardesane e di apprezzarne le doti di tiratore con l’arco, una disciplina particolarmente apprezzata dalla nobiltà persiana. Dei vari dettagli che questa o quella fonte forniscono circa la sua vita, vale la pena ricordare l’incontro che egli ebbe, negli ultimi anni, con una delegazione indiana inviata presso l’imperatore, e che fu all’origine di alcuni appunti che servirono a Porfirio.
La ricostruzione del sistema teologico di Bardesane è oggetto di un dibattito inesausto entro la comunità scientifica, fondato sulla tradizione letteraria che ne ha riassunto le dottrine e ha trasmesso brani delle sue opere. Conviene tuttavia tentare una veloce ricapitolazione degli assi fondamentali del suo insegnamento, almeno per come emergono dall’analisi della memoria eresiologica, al fine di illustrare tramite questo caso esemplare la vivacità dei fermenti religiosi e speculativi dei cristianesimi che convivevano in queste regioni. Dagli studi svolti sembra di poter convenire sul fatto che Bardesane sostenesse la preesistenza dall’eternità di sei esseri, corrispondenti alle sei direzioni spaziali, e al cui centro si ponevano cinque elementi (vento/spirito, fuoco, acqua, luce, oscurità). Al di sopra di questi vi era Dio. Il caso, o un’intrinseca inquietudine, avrebbe generato lo scontro tra questi elementi, attivando un caos drammatico che avrebbe incendiato la realtà. Gli enti allora avrebbero elevato un’invocazione a Dio perché portasse pace, ed Egli avrebbe risposto emettendo la parola del Pensiero, dando via così a una dinamica creativa e cosmica, generatrice delle varie dimensioni del reale. Non è chiaro come questo mito protologico si connettesse a quel che conosciamo dell’antropologia di Bardesane: il ‘filosofo degli Aramei’, o quantomeno la ricezione scolastica del suo insegnamento quale è testimoniata dal Libro delle leggi dei paesi37, di più tarda cerchia bardesanitica, sembra abbia chiaramente posto al suo centro una profonda riflessione relativa alla libertà umana: una libertà certo condizionata dalle leggi astrali così come da quelle umane, ma comunque tale da consentire ai cristiani di scegliere altrimenti rispetto alle condizioni in cui natura e cultura li stabiliscono al momento della nascita. Nonostante i seguaci di Bardesane fossero il gruppo cristiano più influente e diffuso in Edessa, questo insegnamento non fu però recepito in modo stabile e dogmatico e da un gruppo coeso. Dibattiti e divisioni caratterizzarono la vita di questa comunità già dalla prima generazione: sembra in particolare che alcuni bardesaniti abbiano progressivamente enfatizzato la dottrina dell’influsso degli astri nella definizione e nella limitazione della libertà umana38.
In mezzo a questo coacervo di idee e movimenti andava faticosamente distinguendosi e organizzandosi, forse a partire dalla seconda metà del II secolo, e più chiaramente dagli inizi del III, quella comunità che esprimeva una stretta relazione con la Chiesa occidentale, la sua struttura, la sua teologia, la sua disciplina. Qualche lacerto di informazione, incrociato con dati apparentemente leggendari, può essere utile al fine di delineare le origini della ‘grande Chiesa’ in Edessa. La già citata Dottrina di Addai sostiene che come successore dell’apostolo Addai, inviato da Gesù ad Abgar, venne scelto Aggai. Costui, a sua volta, avrebbe avuto come discepolo un certo Palut, il quale sarebbe stato ordinato sacerdote nientemeno che da papa Zefirino di Roma. Al momento della successione, Aggai ordinò a Palut di andare ad Antiochia, ove si sarebbe dovuto far consacrare (vescovo?) dal patriarca Serapione. L’anonimo redattore edesseno del V secolo che si cela dietro la Dottrina di Addai, pertanto, connette molto strettamente l’emersione e la strutturazione della Chiesa edessena a una matrice petrina e antiochena. Spogliando tali dati dal velo di leggenda che li ricopre, è facile riconoscere come questo legame generativo debba essere stato fondamentale nell’imporsi di una Chiesa ‘ortodossa’ entro la capitale dell’Osroene. E, d’altro canto, la memoria stessa di Palut trova riscontro anche nel nisibeno Efrem che, nei suoi Inni contro le eresie (22,1-10), mostra sconcerto nel constatare che i suoi fratelli nella fede, a Edessa, chiamino sé stessi palutiani, ossia seguaci di Palut, secondo il costume degli eretici, che assumono il nome del fondatore della setta come principio di auto-identificazione39. Una notizia, invero un po’ sospetta, trasmessa da Eusebio40, relativa alla partecipazione di alcuni vescovi dell’Osroene, nel 197, a un sinodo finalizzato a determinare la data della Pasqua, nel quale costoro si sarebbero schierati unanimemente con la scelta della celebrazione domenicale, suggerirebbe che a quest’epoca vi fosse già nella regione una struttura ecclesiastica che faceva riferimento alla ‘grande Chiesa’; purtuttavia questa componente cristiana doveva essere ancora minoritaria. Nonostante per il III secolo non si abbiano informazioni rilevanti in merito allo sviluppo di una comunità ‘ortodossa’ edessena, va ricordato che, una volta integrata nell’ecumene romana, essa pure venne coinvolta nel processo di persecuzione che travagliò tutte le Chiese dell’Impero, soprattutto nella stagione di Diocleziano. Questo clima rende ragione del martirio a cui furono sottoposti il diacono Ḥabib e i due laici Shmona e Gurya. La loro uccisione, per la quale le informazioni di cui si dispone sono ritenute attendibili, avrebbe avuto luogo fra il 309 e il 31041.
La notizia relativa all’erezione di una cattedrale nell’anno 312, per opera di un vescovo di nome Qona, di lì a poco ampliata dal suo successore (Sa‘ad), potrebbe venir letta allora come il segno di un processo di articolazione ecclesiale a singhiozzo, avvenuto con strappi, ripartenze, nuove missioni e, soprattutto, una lenta conquista degli spazi urbani in un contesto che alternava stagioni più insidiose a fasi più serene, in cui questa Chiesa poteva ridestarsi. In effetti, nel corso del IV secolo la ‘comunità ortodossa’ edessena ricorda nella sua Cronaca una serie di interventi di natura architettonica e urbanistica che conferiscono via via carattere ‘cattolico’ alla città: dalla fondazione di un cimitero, all’ampliamento della chiesa, alla costruzione di edifici di servizio della chiesa42. Il vescovo più importante di questa stagione è per certo Aitalaha (324/325-345/346), uno dei padri siriaci presenti al concilio di Nicea43.
Decisivi per l’imporsi di un cristianesimo ‘cattolico’ in Edessa furono infine la conquista di Nisibi da parte dei persiani, a seguito della disfatta militare dell’imperatore Gioviano (363), e il conseguente riversamento di molti cristiani nisibeni nella vecchia capitale dell’Osroene. La figura di Efrem testimonia in modo emblematico questa svolta geopolitica e religiosa. Il suo arrivo a Edessa in quel momento condizionò radicalmente la Chiesa cittadina. Una tappa imprescindibile del processo di omologazione del cristianesimo edesseno alla ‘grande Chiesa’ fu la lotta condotta dallo stesso Efrem contro le forme ‘non ortodosse’ di cristianesimo presenti in città, contro le persistenze pagane, contro il giudaismo e contro le tendenze giudaizzanti ancora vive nella Chiesa cittadina44. A fianco di questa forma di disciplinamento teologico ed ecclesiologico va rilevato l’impegno che Efrem profuse per le parti più deboli della società e che culminò, in occasione della carestia che colpì Edessa nella primavera del 373, lo stesso anno della morte di Efrem, nell’organizzazione improvvisata di un celebre ospedale/ricovero45.
L’accoglienza, infine, che questo ecclesiastico siriaco accordò a spezzoni rilevanti del mondo concettuale greco può essere letta come una mutazione di paradigma nella quale fiorì appieno la nuova cultura cristiana siriaca a partire dal V secolo: la speculazione teologico-filosofica, e più in generale l’influsso ellenico, così vivace tra i ristretti circoli intellettuali edesseni già dal II secolo, migrava da un ambito più o meno settario come quello bardesanita per trovare uno spazio di legittimazione e controllo entro la ‘grande Chiesa’46. Certo, le categorie filosofiche elleniche usate da Efrem vengono innestate sul tronco della sua teologia simbolica, fondamentalmente alternativa ai coevi modelli espositivi della riflessione teologica greca47: tale riuscito amalgama esprime nella produzione di Efrem una peculiare sensibilità cristiana, che affianca le acquisizioni maggiori della teologia nicena alla carsica riemersione di tradizioni ebraiche, ad esempio a livello cosmologico, come testimoniano gli Inni sul Paradiso48.
La storia del cristianesimo siriaco al di là del confine persiano, tra II e IV secolo, è solo parzialmente sovrapponibile a quella sviluppatasi in Osroene, e ciò dà ragione delle peculiarità di quella presenza ecclesiale. Si è detto di come le comunità giudaiche in Adiabene, tra I e II secolo, abbiano conosciuto una condizione particolarmente favorevole, grazie alla conversione della casa regnante all’ebraismo. Nisibi stessa ospitò per un certo periodo una scuola ebraica. Lo stretto legame che questo giudaismo diasporico tenne con la Palestina ci suggerisce come questo foyer ebraico dovette possedere una profilatura identitaria più lineare e disciplinata rispetto all’Osroene, dove, come si è visto, varie sensibilità giudaizzanti convivevano fungendo in molti casi da ingredienti nella confezione di nuove dottrine sincretistiche. Al contrario di quanto avvenne in Edessa, il cristianesimo adiabenita si innestò su questo più solido tronco, accogliendo molti elementi ebraici entro la propria riflessione teologica ed esegetica, e ponendosi in dialogo e in dialettica con quella radice, come testimoniano da una parte, lo si è già accennato, la produzione nisibena di Efrem, dall’altra le Esposizioni di Afraate, su cui avremo modo di ritornare49.
Ma il cristianesimo si deve essere presto diffuso anche nelle regioni più meridionali, maggiormente a contatto con la cultura iranica. In questo senso, il mutamento della situazione geopolitica nella regione, con l’instaurazione del dominio sasanide a partire dal 224, ebbe conseguenze rilevanti e di lungo periodo per tutte le comunità cristiane sul suolo persiano50. Il nuovo assetto dinastico, a differenza del più tollerante regime arsacide che lo aveva preceduto, enfatizzava l’elemento iranico nella costruzione dello Stato, ponendo al centro della propria identità politica lo zoroastrismo, e palesando da subito, fin dal regno di Ardashir I, mire espansionistiche e imperialistiche che rendevano questa compagine statale una pericolosa rivale per Roma. Le fortunate campagne militari contro l’Impero romano, condotte sotto Shabur I e Varham II a partire dai decenni centrali del III secolo, con le conseguenti immense deportazioni di prigionieri ‘romani’ in territorio persiano, ebbero come effetto l’immissione di molti cristiani di origine greca, spesso provenienti da Antiochia, entro questi territori, e ciò, oltre ad alterare il tessuto etnico della regione complicandolo notevolmente, comportò per molto tempo la convivenza di culti cristiani in diverse lingue e la sovrapposizione di diverse gerarchie ecclesiastiche negli stessi spazi urbani51. D’altro canto il cristianesimo cominciava a reclutare proseliti anche tra i persiani. Questo in particolare diveniva un serio problema nella gestione di una comunità politica che si basava sul rapporto inscindibile tra sangue e religione. Il tormentato scenario confessionale sasanide del III secolo, dominato dalla figura del profeta Mani e dalla sua fortunata predicazione, ereticale e pericolosa anzitutto per la classe sacerdotale zoroastriana, non si confaceva all’esigenza di compattezza culturale che richiedeva il processo incoativo di strutturazione dello Stato. Se la persecuzione del manicheismo, che culminò nell’esecuzione di Mani a Bet Laphat (276), fu per certo la principale preoccupazione del regime, anche la crescita delle Chiese cristiane si profilava come una minaccia concreta. Una prima reazione tangibile, di cui danno notizia le iscrizioni del mobad Kirdir, consistette in una persecuzione dei culti stranieri presenti nel territorio sasanide, che sarebbe stata perpetrata negli ultimi decenni del III secolo. Le iscrizioni ricordano la lotta contro i manichei, contro gruppi battisti giudeo-cristiani (elchasaiti? Proto-mandei?) e contro kristione e naṣraye (cioè i cristiani), oltre che, pare in maniera minore, contro ebrei e monaci itineranti buddisti e induisti. La doppia nomenclatura con cui viene registrata la presenza cristiana entro queste iscrizioni celebrative è particolarmente interessante, oltre che oggetto di un ampio dibattito e di approfondite analisi. I due termini non sembrano indicare tanto due distinti gruppi etnici entro le Chiese, bensì un diverso modo di definire i cristiani in rapporto alla loro provenienza geopolitica: kristione sarebbero i cristiani provenienti dai territori romani, mentre con naṣraye si indicherebbero spregiativamente quei segmenti di popolazione sasanide che si erano convertiti al nuovo culto52. Come dunque emerge da queste importanti fonti epigrafiche, e come registra pure il Martirio di Candida, composto nel V secolo ma rimandante a eventi dell’epoca di Vahram II, cioè al medesimo contesto storico dell’iscrizione, i cristiani, ben prima che la stagione costantiniana li rendesse irrimediabilmente sospetti di complicità con il nemico, venivano già percepiti come un elemento negativo della cultura occidentale che minacciava la purezza dello Stato iranico53. Candida, che il suo Martirio descrive come una bellissima giovane cristiana proveniente da una famiglia deportata dai territori romani, sarebbe stata ammessa tra le spose del re. Nonostante, o forse a causa di questa particolare collocazione, ella fu coinvolta nel clima di crescente sospetto che il clero zoroastriano andava sviluppando nei confronti dei cristiani; in seguito al suo rifiuto di abiurare, Candida sarebbe stata torturata e uccisa.
Malgrado questo martirio venga considerato autentico e sebbene si riconosca verisimiglianza storica a tali eventi, gli studiosi tendono oggi ad attribuire a questa prima stagione persecutoria una assai modesta entità; al contempo essa va riconosciuta quale prodromo a un secolo, quello costantiniano, in cui la violenza contro i cristiani si diffuse e si inasprì pesantemente. L’ostilità del clero zoroastriano testimonia indirettamente lo sviluppo della presenza cristiana in questi territori lungo la seconda metà del III secolo e per tutto il IV, come pure la permeabilità della società sasanide all’annuncio cristiano: la rapida propagazione della Chiesa in Mesopotamia, fino a lambire il Golfo Persico, non sembra ad ogni modo aver trovato nella lotta dei sasanidi verso i culti stranieri un ostacolo insormontabile54.
Del tormentato processo di strutturazione ecclesiastica secondo il modello episcopale che seguì al primo sviluppo delle comunità cristiane in terra di Persia reca traccia la vicenda del conflitto che vide protagonisti, probabilmente attorno al 325, da una parte Miles, vescovo di Susa, capofila di una fronda di vescovi scontenti, e dall’altra il primate di Seleucia-Ctesifonte, Papa Bar Aggai, vescovo nei primi decenni del IV secolo. Evitando qui un riesame approfondito del caso55, che trascende gli scopi della presente esposizione, basterà richiamarne gli elementi che paiono più sicuri. Papa si sarebbe contraddistinto per la strenua volontà di centralizzare e subordinare alla propria sede vescovile le varie diocesi dell’area mesopotamica, suscitando però reazioni di rigetto, che sarebbero sfociate in un tentativo di deposizione da parte di un segmento consistente del collegio episcopale, riunitosi in una sorta di sinodo non ufficiale probabilmente proprio a Seleucia-Ctesifonte. La reazione attribuita a Papa in risposta alle proteste dei vescovi è registrata dagli Atti di Miles56, favorevoli alla fazione del vescovo di Susa, e dal resoconto di Agapio – che al contrario si presenta come un sostenitore di Papa –, che è contenuto nel sinodo di Dadisho‘ (424)57: Papa, esasperato dalle accuse e dalla sfiducia manifestatagli, avrebbe irosamente percosso un evangeliario chiamandolo a testimone contro i vescovi ribelli. Tralasciando qui la trattazione dell’immediata paralisi che, stando a tutte le fonti, avrebbe colpito l’infuriato vescovo, quel che preme rilevare in margine a questa notizia è come tale episodio riassuma plasticamente la centralità nella quale in questa Chiesa erano tenute le Scritture e il libro nel processo di costruzione comunitaria.
Tornando a Papa, l’atto di colpire l’evangeliario, ritenuto blasfemo dagli astanti, gli avrebbe alienato la simpatia della maggior parte del collegio episcopale, che avrebbe in seguito imposto un successore, scelto tra gli oppositori di Papa stesso: il suo arcidiacono Simone Bar Ṣabba‘e. Ripudiato dalla gran parte dei suoi omologhi mesopotamici, oggetto di una propaganda ostile e di delegittimazione per mezzo di scritti diffusi nelle chiese della regione, tra i quali potrebbe forse essere annoverata la Dimostrazione XIV di Afraate58, Papa avrebbe però ottenuto il non marginale sostegno di alcuni ‘padri occidentali’, la cui autorità doveva essere estesamente riconosciuta, e che avrebbero pesantemente sanzionato la fazione ribelle, facendo, nel tempo, prevalere la linea e le prerogative del vescovo di Seleucia-Ctesifonte.
Questa dinamica interna va letta sullo sfondo dell’esplosione di una persecuzione, questa volta realmente estesa e violenta, che colpì i cristiani all’epoca di Shabur II (intorno al 340). Durante questa stagione sanguinosa per laici e chierici della Chiesa di Persia, che si spinse a toccare oltre alle città anche i villaggi, trovò il suo martirio anche il già citato successore di Papa, Simone Bar Ṣabba‘e, reo di aver rifiutato di riscuotere una tassa doppia presso la comunità cristiana su richiesta della corona: questo almeno è il ricordo trasmesso da due documenti di natura agiografica, il Martirio di Simone e la Storia di Simone, il primo probabilmente risalente ai primi decenni del V secolo, la seconda invece del V secolo inoltrato59. L’episodio, quantunque sia narrato da fonti molto distanti dagli eventi, esprime in modo chiaro come l’ostilità nei confronti dei cristiani sia divenuta sistematica in territorio persiano nei decenni successivi al cosiddetto editto di tolleranza (313). Un atto di insubordinazione fiscale come quello attribuito a Simone doveva avvalorare il crescente convincimento che la Chiesa di Persia fosse una componente sleale nei confronti dello Stato sasanide, e che collaborasse con il nemico in ragione della comunanza di fede con quelle Chiese occidentali che andavano acquisendo centralità e prestigio nell’organizzazione dell’Impero romano. Questa difficile collocazione politica e religiosa apriva a un dilemma che avrebbe travagliato nei secoli seguenti questa cristianità: risalire la china della fiducia delle élite dominanti non cristiane, enfatizzando la propria differenza teologica dal cristianesimo occidentale da una parte, e al contempo, dall’altra, mantenere uno spazio di autonomia dall’intrusione di un potere politico estraneo e ostile60.
La tensione sorta all’epoca di Papa e il martirio di Simone Bar Ṣabba‘e hanno dunque come sfondo ‘occidentale’ la stagione del concilio di Nicea e il conseguente difficile processo di stabilizzazione del cristianesimo entro l’ecumene romana, secondo una precisa architettura istituzionale e dottrinaria. Ciò solleva il tema della partecipazione al concilio da parte dei vescovi siriaci, e soprattutto della ricezione dello stesso nelle loro Chiese. Tra coloro che furono presenti, oltre al già citato Aitalaha di Edessa, varie liste antiche siriache, greche e latine riportano i nomi di Giacomo di Nisibi, Antioco di Resh‘ayna, Mara di Birta, e di un oscuro Giovanni il Persiano, forse da identificare con Giovanni di Arbela61. È chiaro dunque che i vescovi ‘persiani’ ebbero più difficoltà a partecipare alla riunione, rispetto a quelli dei territori posti sotto il controllo romano. Di per certo in questo gruppo di padri conciliari la personalità che nel tempo ebbe il maggior impatto nella cultura siriaca fu Giacomo di Nisibi, assurto a modello nella diffusione della forma episcopale come struttura portante della comunità entro le Chiese siriache62. Il suo culto travalicò i confini del mondo mesopotamico divenendo assai diffuso nell’Oriente cristiano. È probabile che Giacomo avesse iniziato un ‘aggiornamento’ teologico ed ecclesiologico nella Chiesa nisibena, all’epoca ancora libera dall’influenza persiana, ma questo non ebbe immediati riscontri nel resto del cristianesimo siriaco. In effetti, se possiamo facilmente notare come la ricezione di Nicea si dimostri piena in Efrem, cresciuto nella Nisibi di Giacomo e da lì fuoriuscito con l’annessione della città all’impero sasanide (363), non si può dire altrettanto per altri segmenti del cristianesimo siriaco del IV secolo, soprattutto di area persiana. Il credo di Afraate, che troviamo espresso nella prima Dimostrazione, così come quello del suo anonimo interlocutore, che dichiara i termini della propria fede nella lettera di domanda che precede il testo, esprimono, in un periodo compreso tra il 336 e il 345, due formulazioni che non risentono ancora del linguaggio di matrice filosofica proprio del simbolo niceno63. Le Dimostrazioni di Afraate incarnano una cultura cristiana radicata nelle Scritture, e una metodologia di lavoro sulle stesse che corre parallela e competitiva rispetto a coevi modelli di lettura giudaici.
La stessa ecclesiologia siriaca, quale ci è testimoniata principalmente in Afraate e in Efrem, presenta aspetti di profonda originalità sui quali avrebbe di lì a breve impattato l’opera di omologazione attivata con la stagione conciliare. Fino al V secolo è l’istituto autoctono dei ‘figli e figlie del patto’, infatti, a fianco e forse più della struttura gerarchica sacerdotale, il cuore pulsante dell’organizzazione delle Chiese siriache, latore di precise opzioni ascetiche ed esegetiche in linea con quel retaggio encratita che aveva originariamente influenzato la sensibilità ecclesiale di queste comunità. Dedito alla cura del canto liturgico, alla custodia dei luoghi di culto, ad attività caritative e assistenziali rivolte alle parti più deboli della comunità, il ‘patto’ può essere convenientemente descritto come una Chiesa nella Chiesa, una sorta di avanguardia escatologica formata da uomini e donne celibi, spesso vergini, che leggevano la propria integrità come segno di una resurrezione anticipata (la radice qom, da cui deriva il termine qeyama = «patto», ma anche «resurrezione», indica lo ‘stare’, lo ‘stazionare in piedi’): una condizione in cui la dimensione antropologica si rivestiva di quella escatologica, e per la quale si rinunciava alle nozze con il mondo in ragione delle nozze con lo Sposo64. In questa prospettiva il cristiano compiuto e reso perfetto dalla pratica ascetica, orante, umile e misericorde, segno dei tempi nuovi, della vigilanza a cui si sentiva chiamato chi si poneva in sequela del Cristo e del patto nuovo da egli schiuso, recuperava quell’interna unità che sopiva incrinata e fratta nel mondo in ragione della condizione dell’Adamo caduto. L’Unigenito trovava dunque nel ‘solitario’ (in siriaco per entrambi i concetti vale il medesimo termine: ihidaya) la sua immagine e il suo segno65.
Le caratteristiche del ‘patto’ che le fonti letterarie di questo periodo restituiscono hanno fatto supporre in passato che nel primitivo cristianesimo siriaco la verginità fosse intesa come un requisito imprescindibile per accedere al battesimo66. In realtà il doppio statuto del cristiano, quale emerge in un testo come il Liber graduum, se da un lato privilegia la via della ‘perfezione’, caratterizzata da una scelta celibataria centrata sul primato dell’umiltà e della preghiera, dall’altro contempla come pienamente legittima entro la Chiesa la via della giustizia, accordata a coloro che contraggono nozze, ponendosi dentro l’economia della Legge67. È evidente tuttavia che questo importante segmento del cristianesimo siriaco, enfatizzando il ruolo dell’astinenza sessuale, della preghiera, del digiuno e di forme ascetiche anche radicali nell’accedere a un rapporto privilegiato e diretto con Dio, si poneva in forte competizione con le strutture gerarchiche che andavano crescendo in questo quadrante geografico. Da questo punto di vista lo sviluppo di un imponente movimento monastico in queste regioni, a partire dalla seconda metà del IV secolo e poi più intensamente con il V, se da un lato sottraeva il registro semantico e teologico proprio del ‘patto’ allo spazio della Chiesa cittadina trasferendolo nel ‘deserto’, e con ciò spalancando la porta delle Chiese locali a una riorganizzazione in senso occidentale, dall’altro rendeva l’impatto carismatico dei monaci sulle Chiese più difficilmente governabile68. La scelta di vita monastica si candidava allora a essere vissuta, di quando in quando, non solo come un’altra via all’interno della Chiesa, ma come un modello di Chiesa in se stesso alternativo, ove l’impegno ascetico e orante poteva schiudere a una parziale – e a volte più netta – relativizzazione della dimensione sacramentale. Del deflagrare di queste tensioni e della progressiva individuazione e denuncia di un movimento monastico ‘messaliano’ è diretta testimone la reazione sinodale che la Chiesa gerarchica mise in campo a partire dalla fine del V secolo, esordendo con il can. 2 del sinodo di Acacio (486)69.
Se all’inizio del V secolo, vale a dire nel punto in cui si arresta questa presentazione, tali problemi non erano ancora emersi nella loro drammaticità, essi stavano però trovando compiuta occasione in ragione dell’incontro tra la forma occidentale della Chiesa, a cui ora si andava conformando il cristianesimo persiano, e le consuetudini e le sensibilità fin lì egemoni in quella cristianità. L’articolazione e la riorganizzazione ecclesiastica in Persia in senso episcopale e metropolitano, anche su suggestione della corona sasanide, che ambiva ad avere referenti ufficiali della Chiesa con i quali tenere i rapporti sul territorio, fu oggetto del Sinodo di Mar Isacco (410)70, i cui atti sono un documento chiave per comprendere l’impatto che la stagione costantiniana ebbe sulle Chiese siriache e sul loro retaggio culturale. Da questo apprendiamo anzitutto che fu la collaborazione tra il vescovo Isacco di Seleucia-Ctesifonte e il vescovo Marutha di Maipherkat, lì giunto come messo imperiale, a ottenere il beneplacito a riunire il sinodo dei vescovi della Chiesa di Persia da parte del sovrano sasanide, Yazdgard I (399-420), rabbonito forse anche dalle cure mediche ricevute dallo stesso Marutha.
In questo sinodo la Chiesa di Persia recepisce esplicitamente i canoni del concilio di Nicea, più ulteriori materiali pseudo-niceni attribuiti a Marutha71. Le preoccupazioni del sinodo riguardano molti aspetti concreti della vita della Chiesa. Per quanto concerne i laici si sottolinea la condotta a cui essi sono tenuti in merito ad alcune pratiche diffuse: si condanna l’eunuchia scelta, e il ricorso a magia e superstizione. Vi sono poi diverse risoluzioni relative alla vita clericale: si innalza a trent’anni l’età minima per divenire sacerdoti, e insieme a essa anche i criteri minimi di competenza sulle Scritture per poter accedere al ministero, circoscrivendo l’atto di ordinazione ai soli luoghi (chiese o monasteri) ove si desse la consacrazione eucaristica; si vietano la convivenza con subintroductae, l’usura e la partecipazione a banchetti funerari mescolati ai laici, si introduce obbligatoriamente la lettura del Vangelo nella celebrazione domenicale, si istituisce per ogni chiesa un edificio di servizio atto all’ospitalità e all’assistenza di stranieri e poveri. Per quel che riguarda l’ordine episcopale, si definiscono gli scopi e le scadenze per l’assemblea dei vescovi; si stabilisce la procedura di elezione di un vescovo (uno solo per città); la necessaria compresenza di tre vescovi per la sua consacrazione; le condizioni per la sua sostituzione per mano del cattolico o per l’intervento di un metropolita; si afferma che ogni vescovo deve avere un solo corepiscopo per i territori di sua pertinenza; si precisano il ruolo e le caratteristiche dell’arcidiacono come braccio operativo del vescovo, come mediatore tra lui e i fedeli, come figura fondamentale di organizzazione ecclesiastica, di gestione dello spazio liturgico, ed esempio per tutta la comunità. Si definiscono il ruolo dei metropoliti, la loro dignità superiore a quella dei vescovi loro suffraganei, ma anche il rispetto reciproco e la non interferenza indebita tra i due ordini; si stabilisce il compito assegnato ai metropoliti di produrre e custodire un esemplare dei canoni, per regolare con quelli i casi e i conflitti che possono sorgere nella loro provincia di competenza; si stabilisce la procedura di ordinazione episcopale per conto di un metropolita. Si precisano poi l’insieme delle regioni metropolitane e la struttura diocesana a esso subordinata. Ancora, emerge con nettezza il ruolo del cattolico di Seleucia-Ctesifonte: la sua primazia si inquadra in un preciso modello teologico-politico che richiama, con le dovute proporzioni, l’eco occidentale della stagione costantiniana. Infatti, ciò che costituirebbe l’autorità del cattolico è il legame tra l’esplicita volontà del sovrano Yazdgard I, per la quale tutti i vescovi dovevano sottostare al cattolico fino alla venuta del Cristo, e l’obbedienza accordata al sovrano dai vescovi su questo punto. È il sovrano a essere mediatore di questa pace della Chiesa72. Ma è soprattutto il canone tredicesimo che ci esplicita la natura di questo sinodo. In esso, oltre a regolare nel dettaglio le feste e i misteri della Chiesa, si fa esplicita dichiarazione di voler conformare quest’ultima «secondo il ministero occidentale che i vescovi Isacco e Marutha ci hanno insegnato». Colui che si fosse discostato da questa riforma ponendosi in disaccordo «con la Chiesa d’Occidente e d’Oriente» sarebbe stato espulso dalla comunità senza misericordia.
Con la stagione costantiniana, dunque, un forte principio d’ordine entrava nelle Chiese siriache, interne ed esterne all’Impero romano. Con esso emergeva la necessità di ripensare la propria comunità e il proprio passato in chiave di coerenza e di ortodossia. Così avveniva, come si è visto all’inizio, nell’Edessa del ciclo di Addai, che trovava proprio nei primi decenni del V secolo la sua stesura definitiva73. Così avveniva anche a Seleucia, con la stagione normativa di Isacco e la rilettura della crisi della Chiesa di Persia nel IV secolo data dal sinodo di Dadisho‘ del 420.
1 Come introduzione alle origini del cristianesimo siriaco si vedano R. Murray, Symbols of Church and Kingdom. A Study in Early Syriac Tradition, Cambridge 19772; P. Bettiolo, «E l’assemblea divina passò in Edessa». Sulle origini e le prime fattezze del cristianesimo siriaco, in Le ricchezze spirituali delle Chiese sire, Atti del 1o Incontro sull’Oriente Cristiano di tradizione siriaca (Milano, Biblioteca Ambrosiana, 1° marzo 2002), a cura di E. Vergani, S. Chialà, Milano 2003, pp. 37-50; Id., Lineamenti di patrologia siriaca, in Complementi interdisciplinari di patrologia, a cura di A. Quacquarelli, Roma 1989, pp. 503-603; oltre che l’agile lavoro a quattro mani Die Apostolische Kirche des Ostens: Geschichte der sogennanten Nestorianer, hrsg. von W. Baum, D.W. Winkler, Klagenfurt 2000. A questi lavori vanno affiancati almeno A. Baumstark, Geschichte der syrischen Literatur, mit Ausschluss der christlich-palästinensischen Texte, Bonn 1922; P. Bettiolo, Letteratura siriaca, in Patrologia, V, I Padri orientali (sec. V-VIII), a cura di A. Di Berardino, Genova 2000, pp. 413-493. Per una valutazione ponderata delle origini del siriaco e del relativo contesto formativo si veda J.F. Healey, The Edessan Milieu and the Birth of Syriac, in Hugoye: Journal of Syriac Studies, 10 (2011), pp. 115-127.
2 Eus., v.C. IV 13 (trad. L. Franco, Milano 2009).
3 Sul problema dell’autenticità di questa lettera ci limitiamo a rimandare ad alcuni saggi: D. De Decker, Sur le destinataire de la lettre au Roi des Perses (Eusèbe de Césarée, Vit. Const., IV, 9-13) et la conversion de l’Arménie à la religion chrétienne, in Persica, 8 (1979), pp. 99-116; T.D. Barnes, Constantine and the Christians of Persia, in Journal of Roman Studies, 75 (1985), pp. 126-136; M.R. Vivian, Eusebius and Constantine’s Letter to Shapur: Its Place in the Vita Constantini, in Studia Patristica, 29 (1997), pp. 164-169; D. Frendo, Constantine’s Letter to Shapur II: Its Authenticity, Occasion, and Attendant Circumstances, in Bulletin of the Asia Institute, 15 (2001), pp. 57-69.
4 Vale a dire la dimensione del Cesare come protettore (e negoziatore) della sorte dei cristiani ovunque essi si trovassero, in ciò accorto della problematica politica e religiosa connessa alla presenza di cristiani al di là dell’ecumene romana, vale a dire al di fuori del recinto entro il quale si stavano più strettamente intrecciando i destini del ‘trono’ con quelli dell’altare.
5 Cfr. Eus., v.C. IV 8.
6 Eus., h.e. I 13.
7 Per questo testo cfr. The Teaching of Addai, ed. by G. Howard, Chico (CA) 1981, oltre che la più recente traduzione francese: Histoire du roi Abgar et Jésus, éd. par A. Desreumaux, Turnhout 1993.
8 Su questo mito edesseno e sui suoi rapporti con quanto conosciuto da Eusebio cfr. S.P. Brock, Eusebius and Syriac Christianity, in Eusebius, Christianity and Judaism, ed. by H.W. Attridge, G. Hata, Detroit (MI) 1992, pp. 212-234.
9 Sulla figura di Abgar si vedano A. Desreumaux, Abgar, le roi converti à nouveau. Les chrétiens d’Édesse selon la Doctrine d’Addaï, in De la conversion, éd. par J.-C. Attias, Paris 1997, pp. 217-227; I. Ramelli, Edessa e i Romani tra Augusto e i Severi: aspetti del regno di Abgar V e di Abgar IX, in Aevum 73 (1999), pp. 107-143; I. Ramelli, Abgar Ukkamâ e Abgar il Grande alla luce di recenti apporti storiografici, in Aevum 78 (2004), pp. 103-108; A. Desreumaux, La figure du roi Abgar d’Édesse, in Edessa in hellenistisch-römischer Zeit: Religion, Kultur und Politik zwischen Ost und West, Beiträge des internationalen Edessa-Symposiums (Halle an der Saale 14.-17. Juli 2005), hrsg. von L. Greisiger, C. Rammelt, J. Tubach, Würzburg-Beirut 2009, pp. 31-45.
10 Su questi temi cfr. P. Wood, «We Have no King but Christ»: Christian Political Thought in Greater Syria on the Eve of the Arab Conquest (c. 400-585), Oxford 2010.
11 Maris Amri et Slibae De Patriarchis Nestorianorum Commentaria, II, ed. E. Gismondi, Mari ibn Sulayman, Saliba ibn Yuhanna et al., Roma 1896-1899, p. 4 (traduzione latina), p. 5 (testo arabo).
12 Su questa ricostruzione e sulle fonti connesse rimando alla lettura di J.M. Fiey, Topographie chrétienne de Mahoze, in L’Orient Syrien, 12 (1967), pp. 397-420; Id., Topography of al Mada’in, in Sumer, 23 (1967), pp. 3-38; Id., Jalons pour une histoire de l’église en Iraq, Louvain 1970, pp. 41-44.
13 Su questi atti cfr. Aux origines de l’église de Perse: les «Actes de Mar Mari», éd. par C. Jullien, F. Jullien, Leuven 2003.
14 The Acts of Mār Mārī the Apostle, ed. by A. Harrak, Atlanta (GA) 2005, pp. XXVI-XXVII.
15 Cfr. M. Cassis, Kokhe, Cradle of the Church of the East: An Archaeological and Comparative Study, in Journal of Canadian Society of the Syriac Studies, 2 (2002), pp. 62-78.
16 Una buona sintesi di questo dibattito si trova in R. Murray, Symbols, cit., pp. 4-23.
17 L’accusa di falso, rivolta ad Alois Mingana, venne lanciata da J.-M. Fiey, Auteur et date de la Chronique d’Arbèles, in L’Orient Syrien, 12 (1967), pp. 265-302. Una revisione di termini di questa bagarre si diede a seguito della nuova edizione del testo a cura di Kawerau: Die Chronik von Arbela, hrsg. von P. Kawerau, Lovanii 1985. Molti studiosi hanno partecipato a questa discussione. Non è questa la sede per citare l’ampia letteratura espressa attorno al caso. Una buona sintesi di quanto avvenuto e un tentativo di recuperare parzialmente la Cronaca di Arbela all’ambito delle fonti utilizzabili si può leggere in C. Jullien, F. Jullien, La «Chronique d’Arbèles»: propositions pour la fin d’une controverse, in Oriens Christianus, 85 (2001), pp. 41-83, oltre che in un contributo di I. Ramelli, Il Chronicon di Arbela: una messa a punto storiografica, in Aevum, 80 (2006), pp. 145-164.
18 Per una buona presentazione di questo fondamentale documento e dei suoi problemi si veda I. Ramelli, L’epitafio di Abercio: uno «status quaestionis» ed alcune osservazioni, in Aevum, 74 (2000), pp. 191-205.
19 Questa è probabilmente l’acquisizione maggiore degli studi di Weitzman, in particolare: M.P. Weitzman, From Judaism to Christianity: The Syriac Version of the Hebrew Bible, in The Jews among Pagans and Christians in the Roman Empire, ed. by J. Lieu, J. North, T. Rajak, London-New York 1992, pp. 147-173; M.P. Weitzman, The Origin of the Peshitta Psalter, in Interpreting the Hebrew Bible: Essays in Honour of Erwin I.J. Rosenthal, ed. by J.A. Emerton, S.C. Reif, Cambridge 1982, pp. 277-298; e soprattutto M.P. Weitzman, The Syriac Version of the Old Testament: An Introduction, Cambridge-New York 1999.
20 Secondo Drijvers questo tono rifletterebbe un conflitto tra cristiani ed ebrei durante l’episcopato di Rabbula († 435/436), legato alla trasformazione di una sinagoga nella cattedrale di Santo Stefano, cfr. H.J.W. Drijvers, Jews and Christians in Edessa, in Journal of Jewish Studies, 36 (1985), pp. 88-102.
21 Sulle complesse linee che compongono questo scenario cfr. J.C. Reeves, Heralds of That Good Realm: Syro-Mesopotamian Gnosis and Jewish Traditions, Leiden 1996.
22 Sul Diatessaron di Taziano si vedano L. Leloir, Le Diatessaron de Tatien, in L’Orient Syrien, 1 (1956), pp. 208-231, 313-334; W.L. Petersen, Tatian’s Diatessaron. Its Creation, Dissemination, Significance, and History in Scholarship, Leiden-Köln-New York 1994. Sul rapporto fra Taziano e il cristianesimo siriaco ci limitiamo a rinviare a E.J. Hunt, Christianity in the Second Century. The Case of Tatian, London 2003, pp. 144-175.
23 L. Cirillo, Elchasaï e la sua Rivelazione, in Rivista di Storia e Letteratura Religiosa, 24 (1988), pp. 311-330.
24 Des heiligen Ephraem des Syrers Hymnen contra Haereses, hrsg. von E. Beck, Louvain 1957.
25 R.M. Duval, Le Testament de saint Éphrem, in Journal asiatique, 9 (1901), pp. 234-319.
26 A. Harnack, Der Ketzer-Katalog des Bischofs Maruta von Maipherkat, Leipzig 1899.
27 F. Nau, Traduction des lettres XII et XIII de Jacques d’Édesse: Exégèse biblique, in Revue de l’Orient chrétien, 5 (1905), pp. 197-208, 258-282.
28 Theodorus bar Kōnī. Liber Scholiorum, éd. par A. Scher, Paris 1910-1912; Théodore bar Koni. Livre des Scolies (recension de Séert), éd. par R. Hespel, R. Draguet, 2 voll., Lovanii 1981-1982.
29 Su Edessa il rimando obbligato è a J.B. Segal, Edessa, ‘The Blessed City’, Oxford 1970, a cui va affiancato il più recente S.K. Ross, Roman Edessa. Politics and Culture on the Eastern Fringe of the Roman Empire, 114-224 CE, London-New York 2001.
30 Chronica minora, éd. par I. Guidi, I, 2 tomi, Louvain 1960, p. 2 (tomo 1), p. 3 (tomo 2).
31 Sul tema ci limitiamo a rinviare a J.-M. Fiey, Les Marcionites dans les textes historiques de l’Église de Perse, in Le Muséon, 83 (1970), pp. 183-188; D.D. Bundy, Marcion and the Marcionites in Early Syriac Apologetics, in Le Muséon, 101 (1988), pp. 21-32; H.J.W. Drijvers, Marcionism in Syria: Principles, Problem, Polemics, in The Second Century, 6 (1987-1988), pp. 153-172.
32 C. Jullien, F. Jullien, «Aux temps des disciples des apôtres». Les sabbatiens d’Édesse, in Revue de l’histoire des religions, 218 (2001), pp. 153-170.
33 H.J.W. Drijvers, Quq and the Quqites: An Unknown Sect in Edessa in the Second Century A.D., in Numen, 14 (1967), pp. 104-129.
34 Su Bardesane e la sua cerchia si vedano H.J.W. Drijvers, Bardaiṣan of Edessa, Assen 1966; A. Camplani, Rivisitando Bardesane. Note sulle fonti siriache del bardesanismo e sulla sua collocazione storico-religiosa, in Cristianesimo nella storia 19 (1998), pp. 519-596; Id., Bardesane et les Bardesanites, in Annuaire de l’École Pratique des Hautes Études. Section des Sciences Religieuses, 112 (2003-2004), pp. 29-50.
35 D.D. Bundy, The Life of Abercius: Its Significance for Early Syriac Christianity, in The Second Century, 7 (1989-1990), pp. 163-176. Cfr. anche I. Ramelli, L’epitafio di Abercio, cit., p. 200.
36 J.-R. Viellefond, Les Cestes de Julius Africanus. Étude sur l’ensemble des fragments avec édition, traduction et commentaires, Firenze-Paris 1970, p. 18.
37 Se ne veda il testo in H.J.W. Drijvers, The Book of the Laws of Countries: Dialogue on Fate of Bardaisan of Edessa, Assen 1965. Per una traduzione italiana si può consultare Bardesane. Il Dialogo delle leggi dei paesi, a cura di G. Levi Della Vida, Roma 1921.
38 Efrem si scaglierà proprio su questo punto contro il bardesanismo, legandolo a tutte quelle dottrine che a suo avviso minacciavano la libertà umana: cfr. T. Bou Mansour, La défense éphrémienne de la liberté contre les doctrines marcionite, bardesanite et manichéenne, in Orientalia Christiana Periodica, 50 (1984), pp. 331-346.
39 Ephraem, Adversus Haereses, 22,1-10.
40 Eus., h.e. V 23,1-3. Su questo tema si veda D. Dainese, Συνέρχομαι – συγκρότησις – σύνοδος. Tre diversi usi della denominazione, in Cristianesimo nella Storia, 31 (2011), pp. 873-943.
41 Euphemia and the Goth. With the Acts of Martyrdom of Confessors of Edessa, ed. by F.C. Burkitt, London 1913.
42 Chronica minora, cit., p. 4 (tomo 1), p. 5 (tomo 2).
43 A questo vescovo la tradizione attribuisce una lettera «ai cristiani nella regione della Persia, sulla fede», conservata in armeno, probabilmente una traduzione dal siriaco. Difficilmente però questo testo risale a un’epoca precedente al V secolo, cfr. D.D. Bundy, The Letter of Aithallah (CPG 3340): Theology, Purpose and Date, in Les contacts du monde syriaque avec les autres cultures, III Symposium Syriacum (Goslar 7-11 septembre 1980), a cura di R. Lavenant, Roma 1983, pp. 135-142.
44 C.C. Shepardson, Anti-Judaism and Christian Orthodoxy: Ephrem’s Hymns in Fourth-Century Syria, Washington DC 2008.
45 Soz., h.e. III 16,12-15.
46 U. Possekel, Evidence of Greek Philosophical Concepts in the Writings of Ephrem the Syrian, Lovanii 1999.
47 Per questo aspetto della teologia efremiana ci si basa in particolare su R. Murray, The Theory of Symbolism in St. Ephrem’s Theology, in Parole de l’Orient, 6-7 (1975-1976), pp. 1-20; T. Bou Mansour, La pensée symbolique de Saint Ephrem le Syrien, Kaslik 1988; K. Den Biesen, Simple and Bold: Ephrem’s Art of Symbolic Thought, Piscataway (NJ) 2006.
48 Des heiligen Ephraem des Syrers Hymnen de Paradiso und contra Julianum, hrsg. von E. Beck, 2 voll., Louvain 1957. Per una traduzione italiana cfr. Efrem il Siro, Inni sul Paradiso, a cura di I. De Francesco, Milano 2006. Sui legami tra questi inni e le tradizioni ebraiche cfr. N. Séd, Les hymnes sur le Paradis de saint Éphrem et les traditions juives, in Le Muséon, 81 (1968), pp. 455-501.
49 Le Esposizioni sono edite in Aphraatis Sapientis Persae Demonstrationes, éd. par J. Parisot, Paris 1894; la più importante traduzione, preceduta da un ampio studio introduttivo, è quella francese in Aphraate le Sage Persan, Les Exposés, 2 voll., éd. par M.-J. Pierre, Paris 1988-1989; in italiano oggi è disponibile una traduzione a più mani: Afraate, Le esposizioni, 2 voll., a cura di G. Lenzi, Brescia 2012. Sui rapporti tra giudaismo e cristianesimo in Afraate, oltre alla bibliografia settoriale che si può trovare anche nello studio di M.-J. Pierre, cfr. in particolare J. Neusner, Aphrahat and Judaism: The Christian-Jewish Argument in Fourth-Century Iran, Leiden 1971.
50 Sull’irradiazione del cristianesimo in territorio persiano si vedano in particolare: M.-L. Chaumont, La christianisation de l’empir iranien, des origines aux grandes persécutions du IVème siècle, Lovanii 1988; C. Jullien, F. Jullien, Apôtres des confins. Processus missionnaires chrétiens dans l’empire iranien, Bures-sur-Yvette-Leuven 2002.
51 C. Jullien, La minorité chrétienne “grecque” en terre d’Iran à l’époque sassanide, in Chrétiens en terre d’Iran: Implantation et acculturation, éd. par R. Gyselen, Paris 2006, pp. 105-142.
52 C. Jullien, F. Jullien, Aux frontières de l’iranitè: “nâsrâyê” et “krîstyonê” des inscriptions du mobad Kirdîr: enquête littéraire et historique, in Numen, 49 (2002), pp. 282-335.
53 S.P. Brock, A Martyr at the Sasanid Court under Vahran II: Candida, in Analecta Bollandiana, 96 (1978), pp. 167-181.
54 Oltre ai già citati lavori delle Jullien e di Chaumont, fondamentali per disegnare la geografia ecclesiastica della Mesopotamia tardoantica restano i molti contributi di Fiey.
55 Su questo scontro cfr. W. Schwaigert, Miles und Papa: Der Kampf um den Primat. Ein Beitrag zur Diskussion um die Chronik von Arbela, in V Symposium Syriacum, 1988 (Katholieke Universiteit, Leuven, 29-31 août 1988), a cura di R. Lavenant, Roma 1990, pp. 393-402.
56 Acta martyrum et sanctorum, ed. P. Bedjan, Paris-Leipzig 1890-1897, pp. 266-267.
57 Synodicon orientale ou recueil de synodes nestoriens, éd. par J.-B. Chabot, Paris 1902, pp. 48-48 (t), 289-292 (v).
58 J.-M. Fiey, Notule de littérature syriaque. La Démonstration XIV d’Aphraate, in Le Muséon, 81 (1968), pp. 449-454.
59 Cfr. L. Van Rompay, Shem‘on Bar Ṣabba‘e, in S.P. Brock, A.M. Butts, G.A. Kiraz et al., Gorgias Encyclopedic Dictionary of the Syriac Heritage, Piscataway (NJ) 2011, pp. 373-374.
60 Su questo cfr. S.P. Brock, Christians in the Sasanian Empire: A Case of Divided Loyalties, in Studies in Church History, 18 (1982), pp. 1-19.
61 M.-L. Chaumont, La christianisation, cit., pp. 147-157.
62 D.D. Bundy, Jacob of Nisibis as a Model for the Episcopacy, in Le Muséon, 104 (1991), pp. 235-249.
63 Sul credo di Afraate e quello del suo interlocutore cfr. il capitolo che M.-J. Pierre dedica all’argomento nella sua introduzione ad Aphraate le sage Persan, Les Exposés, I, cit., pp. 144-156.
64 Su questo tema cfr. S.P. Brock, The Bridal Chamber of Light: A Distinctive Feature of the Syriac Liturgical Tradition, in The Harp, 18 (2005), pp. 179-191.
65 Sulla meditazione intorno a Adamo cfr. P. Bettiolo, Adamo in Eden e la liturgia celeste: temi della meditazione cristiana nella Siria del IV secolo, tra Afraate e il Liber graduum, in Rivista di storia e letteratura religiosa, 37 (2001), pp. 3-28. Sulla figura del solitario nella cultura siriaca cfr. S. Abou Zayd, Ihidayutha: A Study of the Life of Singleness in the Syrian Orient. From Ignatius of Antioch to Chalcedon 451 A.D., Oxford 1993.
66 Così ad esempio A. Vööbus, Celibacy: A Requirement for Admission to Baptism in the Early Syrian Church, Stockholm 1951.
67 Su questo cfr. in particolare R. Murray, The Exhortation to Candidates for Ascetical Vows at Baptism in the Ancient Syrian Church, in New Testament Studies, 21 (1974), pp. 59-80. Si veda anche P. Bettiolo, Confessare Dio in perfetta spogliazione. La via del discernimento dei comandamenti nel Liber Graduum, in Cristianesimo nella storia, 19 (1998), pp. 631-651.
68 Sul monachesimo siriaco e il suo impatto sulla Chiesa siriaca cfr. in particolare P. Escolan, Monachisme et Église. Le monachisme syrien du IVe au VIIe siècle: un monachisme charismatique, Paris 1999.
69 Il can. 2 del sinodo di Acacio si può leggere, con traduzione francese, in Synodicon orientale, cit., pp. 55-56 e 302-203.
70 Synodicon orientale, cit., pp. 18-36, e 254-275.
71 Circa la letteratura canonica attribuita dalla tradizione siriaca a Marutha cfr. The Canons Ascribed to Mārūtā of Maipherqaṭ and Related Sources, ed. by A. Vööbus, Lovanii 1982.
72 S. McDonough, A Second Constantine? The Sasanian King Yazdgard in Christian History and Historiography, in Journal of Late Antiquity, 1 (2008), pp. 127-140.
73 Su questo cfr. S.H. Griffith, The Doctrina Addai as a Paradigm of Christian Thought in Edessa in the Fifth Century, in Hugoye: Journal of Syriac Studies, 6 (2003), pp. 269-292.