Il cristianesimo
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il messaggio di Gesù era un appello all’interno del variegato panorama del giudaismo palestinese. Come ha potuto diventare una religione autonoma, contrapposta al giudaismo? La centralità di Gesù ha relativizzato la Legge, sulla quale invece si è fondata la ricostruzione del giudaismo dopo la distruzione del Tempio nel 70, e ha favorito la potente espansione nel mondo greco-romano. Seguiamo i primi, decisivi due secoli, nei quali si sono costituite le strutture di governo fondamentali – in particolare l’episcopato –, sono stati composti gli scritti che diventeranno canonici e, dalla molteplicità originaria di forme di cristianesimo, è emersa l’ “ortodossia” che ha definito e condannato le altre forme come “eretiche”.
Il periodo compreso tra la vita di Gesù di Nazaret e gli inizi del III secolo vede costituirsi progressivamente il cristianesimo come religione autonoma. Gesù è un ebreo palestinese il quale non intende fondare una nuova religione, ma portare a Israele il messaggio di Dio che invita a entrare nel “regno” che comincia a costituirsi già nell’attività di Gesù, in attesa dell’imminente intervento divino che avrebbe cambiato l’universo distruggendo il male. Né i discepoli diretti di Gesù, né Paolo di Tarso pensano di fondare una nuova religione: sono convinti che la morte e la resurrezione di Gesù segnino una svolta che apre a tutti i popoli la prospettiva riservata in passato a Israele. Il peso dei non ebrei nell’insieme dei credenti in Gesù e la convinzione, affermatasi anche sotto il forte impulso di Paolo, che non è loro necessaria l’osservanza della legge di Mosè, contribuisce a differenziare i gruppi di credenti in Gesù dal giudaismo che si ricostituisce, dopo le catastrofiche rivolte contro i Romani terminate nel 73 (il momento culminante è la distruzione del tempio di Gerusalemme nel 70) e nel 135, intorno alla Legge. I cristiani, e in molto minor misura gli ebrei non cristiani, definiscono la propria identità anche stabilendo frontiere di ideologia e di prassi destinate a distinguere gli uni dagli altri. Il II secolo vede compiersi processi decisivi che hanno segnato definitivamente le caratteristiche del cristianesimo: lo sviluppo di un sistema di poteri fondato in cui gruppi locali di comunità sono diretti da un vescovo unico; la redazione di testi scritti intesi a conservare la memoria delle origini e progressivamente soggetti a una selezione dalla quale sarebbe emerso il Nuovo Testamento; l’emarginazione dei gruppi di credenti in Gesù legati all’osservanza della Legge e a concezioni di Gesù come semplice uomo; il rifiuto di teologie cristiane che svalutano il mondo materiale e fanno risalire il messaggio di Gesù a un Dio diverso e più grande di quello che si è rivelato a Israele; gli sforzi di accreditare il cristianesimo come la miglior religione possibile e dunque quella che le autorità politiche dovranno accogliere perché la società corrisponda al volere di Dio.
Per quanto strano possa sembrare, non si è ancora stabilito quando è cominciato il cristianesimo. Gli storici sanno che Gesù di Nazaret è un ebreo il quale intende agire all’interno del sistema religioso del giudaismo e non ha alcuna intenzione di creare un’altra religione. Per un certo tempo hanno pensato che il vero fondatore del cristianesimo fosse Paolo, ma si sono poi resi conto che anch’egli si muove all’interno del giudaismo, certo attribuendo un ruolo fondamentale alla vicenda, e soprattutto alla morte, di Gesù di Nazaret. Ma considerare Gesù come un inviato di Dio con un ruolo unico e decisivo negli ultimi tempi del mondo non significa certo ancora uscire dal giudaismo. Ad attestare il cristianesimo come religione autonoma non basta nemmeno il nome “cristiani”, il quale, secondo il libro degli Atti degli apostoli (11, 26): – composto verosimilmente verso la fine del I secolo, secondo alcuni anche più tardi – comincia a essere attribuito ai seguaci di Gesù ad Antiochia, forse verso la metà degli anni Trenta, senza dubbio da persone esterne al gruppo; esso, infatti, può benissimo servire a identificare una specifica corrente percepita come interna al giudaismo. Verso il 115, il vescovo Ignazio di Antiochia oppone il khristianismos (è la prima attestazione a noi nota di questo sostantivo) allo ioudaismos: ma ioudaismos non ha qui il significato del nostro “giudaismo”, bensì quello di osservanza militante della legge giudaica (come nella Lettera ai Galati di Paolo, 1,13 e già nei libri dei Maccabei nel II secolo prima della nostra era), e khristianismos designa dunque probabilmente una pratica diversa, che Ignazio contrappone polemicamente a quella, ma non una religione come sistema.
Certamente un criterio importante per parlare di cristianesimo come religione separata è l’esistenza di gruppi che non solo si riferiscono all’autorità di Gesù, ma possiedono pratiche che li separano da gruppi identificati come giudaici e che, inoltre, si contrappongono consapevolmente ai “giudei”. Ma, appunto, è impossibile identificare un momento precoce nel quale una simile separazione si fosse universalmente compiuta, perché i credenti in Gesù continuarono per secoli ad avere relazioni con gli ebrei non credenti in lui e anche, in determinati casi, a osservare la Legge mosaica. In questi ultimi anni s’insiste a giusto titolo sulle intense e varie interazioni tra credenti in Gesù ed ebrei e si mette in luce non solo la comunità di tradizioni, ma anche il fatto che gli sforzi molteplici di definizione delle rispettive identità, anche in contrapposizione tra loro, implicano un rapporto con “l’altro” e una costruzione dell’identità dell’“altro” certamente polemica, ma inseparabile dalla propria. In determinati casi, ad esempio, la polemica cristiana contro il giudaismo è servita in realtà a bollare come “falsi cristiani” gruppi di credenti in Gesù, attribuendo loro idee e pratiche che i loro avversari considerano come proprie del giudaismo e non del cristianesimo e così squalificandoli. Un’operazione del genere non esige che cristianesimo e giudaismo siano già religioni separate: la loro qualità di religioni distinte e contrapposte è anche precisamente un prodotto del discorso inteso a squalificare ed escludere gruppi di credenti in Gesù. Se dei teologi cristiani stabiliscono ad esempio che l’osservanza della Legge caratterizzi i giudei, ma sia inammissibile per un cristiano, i credenti in Gesù che continuano a osservare la Legge appaiono di colpo come mostruosità, ibridi che riuniscono in sé due identità differenti e incompatibili: l’identificazione e l’esclusione dell’eresia passa anche da qui.
Questi processi si svolgono con ritmi e modalità molto diversi secondo i luoghi e le circostanze. Verso il 100, il Vangelo attribuito dalla tradizione a Giovanni contrappone Gesù ai “giudei”, che non lo riconoscono come il Rivelatore di Dio: un simile anacronismo si spiega ammettendo che l’opera proietti sulla vita di Gesù la situazione vissuta dalle comunità di suoi seguaci che si riconoscono nel suo ritratto fissato in quel Vangelo. Lo scritto stesso lascia del resto trasparire questa situazione, ad esempio quando afferma: “i giudei avevano già stabilito che se qualcuno lo confessava come messia fosse espulso dalla comunità” (9, 22). Una simile affermazione, difficilmente immaginabile al tempo della vita di Gesù, può riflettere l’ostilità di determinate comunità giudaiche nei confronti di ebrei che vedono in Gesù il messia, in un’epoca nella quale, dopo la catastrofe della repressione della rivolta giudaica del 66-73 e la distruzione del Tempio, i rabbi cercano di riconsolidare il giudaismo intorno alla Legge scritta e alla Legge orale (cioè la tradizione dei farisei) e possono scorgere pericolosi fattori di disgregazione nell’accettazione di un mediatore tra Dio e Israele diverso dalla Legge stessa. Un tale atteggiamento da parte delle autorità che stanno ridefinendo il giudaismo come religione della doppia Torah (scritta e orale) fondata sulla tradizione farisaico-rabbinica costituisce probabilmente anche una reazione alla concezione particolarmente “alta” che le comunità che si esprimono nel Vangelo di Giovanni hanno di Cristo, come Figlio e Parola preesistente presso Dio, collaboratore nella creazione dell’universo, unico a conoscere veramente Dio e a poterlo far conoscere agli umani, il che rende limitata e temporanea tutta la rivelazione contenuta nelle Scritture d’Israele.
In altre aree, i seguaci di Gesù hanno certamente elaborato immagini di lui che entrano meno direttamente in conflitto con l’autorità della Legge e sono dunque meno suscettibili di provocare rapide rotture con le comunità dei giudei non credenti in Gesù. Ma l’esigenza di definire e mantenere la propria identità di discepoli di Gesù porta a contrapporre la propria interpretazione della Legge (cioè quella che si attribuisce a Gesù) a quella dei maestri ebrei non credenti in Gesù e di quanti li seguono, come fa il Vangelo di Matteo. Insomma, i germi della separazione e della definizione della propria identità mediante la “costruzione” denigratoria dell’altro e dunque la presa di distanza da esso erano presenti già dal I secolo, soprattutto da parte dei seguaci di Gesù, ma maturarono in maniere e tempi molto diversi. Nelle pagine che seguono, abbozzeremo alcune linee di sviluppo tra la vita di Gesù e la fine del II secolo, cioè nel periodo in cui si precisano le opzioni fondamentali, che orienteranno tutta la storia ulteriore del cristianesimo.
Se torniamo dunque alla questione relativa agli inizi del cristianesimo, restiamo con la figura di un piccolo artigiano – secondo alcuni, piuttosto, un contadino – che, verso la fine degli anni 20 del I secolo della nostra era, svolge un’attività di carismatico itinerante percorrendo i villaggi della sua regione natale, la Galilea (la nascita di Gesù a Betlemme è certamente una leggenda), e forse qualche località delle regioni limitrofe esterne alla terra d’Israele; si tiene lontano dalle città vere e proprie, ma si reca – non sappiamo se una o più volte – in Giudea, a Gerusalemme, dove a quanto pare predice l’imminente distruzione del Tempio, una profezia avanzata anche da altri “profeti” ebrei negli stessi decenni, come un certo Gesù figlio di Anania al tempo del procuratore romano Albino (verso il 62) secondo lo storico ebreo Giuseppe Flavio, Guerra giudaica 6, 300-309. Arrestato dai Romani, che all’epoca governano direttamente la Giudea, probabilmente con l’approvazione o la collaborazione dell’élite sacerdotale legata al Tempio, condannato come pretendente messianico e dunque come ribelle all’autorità romana, Gesù è crocifisso probabilmente nell’aprile dell’anno 30, in prossimità della Pasqua. Il gruppo di discepoli che ha riunito intorno a sé, dapprima disperso, si ricompone presto, convinto che Dio, nonostante la sua fine infamante e anzi proprio attraverso di essa, lo abbia sostenuto e ancora sostenga la sua causa.
Quale sia quest’ultima, cioè quale sia l’annunzio di Gesù, è appunto questione discussa. Le diverse fonti antiche mostrano che al centro della sua predicazione vi è il regno di Dio. Che Dio sia re dell’universo è un principio riconosciuto; certi ambienti in Israele affermano però che egli permette nel presente che potenze spirituali malvage dominino il mondo, ma ben presto interverrà per sconfiggerle e imporre definitivamente la sua sovranità, nonché il dominio d’Israele sugli altri popoli. Gesù sembra aver condiviso questa attesa, ma sembra anche – e questa è la sua specificità – aver sostenuto che mediante la sua persona Dio cominci a realizzare il suo regno in contesti e circostanze concreti e malgrado le forze ostili che esercitano ancora il loro potere. Gesù compie guarigioni ed esorcismi e li mette in rapporto con la presenza dell’amore di Dio e con l’offerta, che questi fa gratuitamente a ognuno in Israele, di riconciliarsi con lui riponendo in lui tutta la propria fiducia. Gesù adotta uno stile di vita dimostrativo, quello di un carismatico itinerante che ha reciso i legami con la propria famiglia e vive dell’accoglienza che altri fanno alla sua persona e al suo messaggio, come pure al gruppo di discepoli che condividono questo ethos radicale; altri accolgono il messaggio di Gesù, ma rimangono nell’ambito dei loro rapporti familiari e sociali. Come ha sottolineato l’esegeta tedesco Gerd Theissen, una simile proposta non ha solo valore religioso, ma può costituire una risposta a una situazione di disintegrazione sociale e d’impoverimento, in quanto dei membri di categorie sociali non miserabili, ma minacciate dalla crisi, possono scegliere volontariamente un ethos di rinunzia ai beni, alle protezioni generate dai legami sociali, alla sedentarietà, compensandolo con la convinzione che tale status produca una particolare protezione da parte di Dio. L’orizzonte resta quello della catastrofe cosmica imminente con instaurazione finale del regno di Dio, ma il tempo presente, che precede di poco quella catastrofe, è così caratterizzato non come un’epoca di sciagure sempre più terribili, come nell’immaginario tradizionale, bensì come un tempo in cui il regno di Dio è già a portata di mano e si può entrarvi, benché in maniera misteriosa.
La persona di Gesù non è dunque solo quella di un profeta dell’irruzione prossima del regno, bensì quella del portatore di questa prima fase del regno stesso, e in tal senso ha una funzione unica e decisiva nella storia universale. È difficile dire se Gesù si sia attribuito qualcuno dei vari titoli e ruoli tradizionalmente ascritti agli inviati di Dio attesi per gli ultimi tempi, che gli sono stati conferiti dai suoi seguaci molto presto dopo la sua morte (messia, cioè “unto”, titolo regale e sacerdotale; Figlio di Dio, che non esprime di per sé una condizione divina, ma rinvia sia all’elezione di Israele, sia alla figura del servitore sofferente di Dio; certamente Gesù non si è presentato come “Signore” o “salvatore”). La “fonte delle parole di Gesù” (si veda oltre) attribuisce a Gesù il solo titolo di “Figlio dell’uomo”, che potrebbe essere stato l’unico da lui applicato a se stesso. Tale titolo sembra vivere della tensione tra una marginalizzazione sociale presente (secondo il suo uso corrente nel senso di “essere umano”) e un’esaltazione futura in occasione della realizzazione finale del regno di Dio (in conformità con l’uso del termine a partire dal libro di Daniele 7,13, poi nel Libro delle parabole di Enoch, per designare un personaggio determinato al quale spetterà un ruolo nel giudizio finale.
Gesù non è stato dunque in alcun modo un cristiano, ma la sua persona è inseparabile dalle origini del cristianesimo: da una parte perché il suo messaggio, sia pure profondamente modificato, prosegue nelle diverse forme dei messaggi dei suoi discepoli e la concezione di un ruolo centrale della sua persona nelle relazioni tra Dio e il suo popolo non è stata una creazione dei discepoli ma risale a Gesù stesso (sia pure in una forma che non include la sua resurrezione), dall’altra perché vi è stata continuità tra la sua azione e predicazione e quelle dei primi credenti in lui.
Per risalire cronologicamente il più possibile verso Gesù, ma anche per comprendere la formazione di una “sacra scrittura” cristiana, cioè del Nuovo Testamento, bisogna tener presenti i risultati della critica letteraria relativa ai primi scritti cristiani. Gli scritti cristiani più antichi che ci siano rimasti sono le lettere autentiche di Paolo, che si ritengono composte più o meno nella prima metà degli anni Cinquanta. Quanto ai Vangeli, la maggior parte degli studiosi considera il Vangelo di Marco come il più antico, composto intorno al 70 e utilizzato da Matteo e Luca. Se da questi ultimi si sottrae il materiale corrispondente a Marco (assai più breve di essi), rimangono elementi propri a ciascuno di loro, ma anche una quantità di materiale che hanno in comune e che è assente in Marco. Si tratta quasi esclusivamente di parole di Gesù: si ritiene dunque assai probabile che Matteo e Luca abbiano usato, indipendentemente l’uno dall’altro, un documento contenente quelle parole e privo di materiale narrativo, in particolare del racconto della Passione. Si designa tale documento la cui esistenza è verosimile ma non assolutamente certa, come “fonte delle parole di Gesù” o con la sigla Q: doveva esistere già negli anni Cinquanta. Come i Vangeli, anch’esso costituisce già un’interpretazione della figura di Gesù, ma permette di risalire a uno stadio molto antico della trasmissione delle sue parole. Quanto al Vangelo di Matteo, vi sono ragioni di credere che sia stato composto intorno all’80; una tradizione attestata già agli inizi del II secolo afferma che l’apostolo Matteo ha composto il suo libro in aramaico (la lingua di Gesù) e che il testo greco esistente sia una delle traduzioni che ne sono poi state fatte, ma si tratta con ogni probabilità di una leggenda. Quanto al Vangelo detto di Giovanni, senza dubbio non è stato composto dal discepolo di Gesù Giovanni figlio di Zebedeo, come la tradizione ecclesiastica ha poi unanimemente accettato: si tratta di un’opera risalente probabilmente alla fine del I secolo, la quale presuppone tra l’altro una lunga riflessione teologica sulla figura di Gesù come essere divino, unico rivelatore di Dio agli umani; per questo motivo gli vengono preferiti, come fonte su Gesù, gli altri Vangeli, anche se esso conserva certamente materiale molto antico. Nessuno dei quattro Vangeli entrati nel Nuovo Testamento include nel testo il nome dell’autore. I nomi di Marco e Luca circolano molto presto, e proprio perché non si tratta di discepoli di Gesù potrebbero essere quelli dei veri autori: se si fosse loro attribuito un nome fittizio, non si sarebbero scelti personaggi abbastanza oscuri. In ogni caso, per legittimare il loro contenuto, si racconta che Marco sia stato un collaboratore di Pietro, e Luca di Paolo, così che il contenuto dei rispettivi Vangeli può essere ricondotto all’insegnamento di quei due apostoli; ma si tratta molto probabilmente di connessioni leggendarie. Tra I e II secolo circolano comunque numerosi scritti su Gesù: di qualcuno abbiamo il testo (il caso più celebre è quello del Vangelo secondo Tommaso, una raccolta di detti di Gesù, la cui scoperta ha confermato tra l’altro che tale genere, attribuito a Q, esisteva effettivamente nel primo cristianesimo), di altri solo frammenti, come per il Vangelo di Pietro o i Vangeli degli ebrei, dei nazorei e degli ebioniti, ciascuno dei quali offre uno specifico ritratto di Gesù. In un primo tempo, i Vangeli scritti coesistono con la tradizione orale, che nei primi decenni ha dominato assolutamente. Con la scomparsa della prima generazione e poi anche della seconda, si avverte il bisogno di definire in quali tra gli scritti in circolazione si può considerare presente l’autentica tradizione su Gesù; alla selezione contribuisce anche il fatto che alcuni di tali testi riflettono la teologia di gruppi le cui idee e pratiche finiscono con l’essere considerate come incompatibili con l’“ortodossia” che si afferma progressivamente nel II secolo. Il processo, molto complesso, di costituzione di una raccolta di scritti cristiani normativi, il Nuovo Testamento (dove testamento significa “patto”) che i cristiani affiancano alla Bibbia degli ebrei, divenuta per loro “Antico Testamento”, si chiude formalmente solo nel IV secolo avanzato, ma la delimitazione degli scritti accettati è quasi interamente compiuta alla fine del II secolo, e questo vale in modo particolare per la collezione dei quattro Vangeli.
Dopo la morte di Gesù, si pone il problema della continuazione della sua opera in sua assenza: chi può diventare, per così dire, l’erede di questo personaggio il cui ruolo è considerato per definizione unico, e con quali modalità? Inizialmente, le soluzioni erano condizionate dalla convinzione che sarebbe tornato molto presto in questo mondo, nella vita glorificata che aveva allora presso Dio, per celebrare il giudizio universale, distruggere definitivamente il male e instaurare il Regno di Dio. Le soluzioni sembrano aver preso inizialmente due forme principali; quella che presenteremo come seconda si è rapidamente imposta – integrando peraltro elementi della prima – sia perché è la sola che può sopravvivere all’esperienza che il ritorno di Cristo tardi in maniera sempre più indefinita, sia perché si fonda su strutture sociologiche più solide.
La prima forma, che ha finito col soccombere, è quella dei predicatori carismatici itineranti che negli ambienti rurali di Siria e Palestina continuano a praticare lo stile di vita di Gesù diffondendo il suo stesso annunzio e legittimandosi con una formula che ci è stata conservata in fonti diverse: Q (ricostruibile dal confronto tra i Vangeli di Matteo 10, 40 e di Luca 10, 16), il Vangelo di Marco (9, 37) e quello di Giovanni (13, 20); ecco la forma di Matteo: “Chi accoglie voi accoglie me, e chi mi accoglie, accoglie colui che mi ha mandato”. In questo modo, i missionari chiedono che venga riconosciuta loro un’autorità quasi pari a quella di Gesù: la loro presenza rende presente Gesù stesso, la loro parola è una riattivazione della parola di Gesù in un contesto di azione di Dio (questi carismatici operano, come Gesù, guarigioni ed esorcismi). Tale soluzione del problema dell’assenza di Gesù è tipica di un contesto di oralità, in cui l’enunciazione e l’efficacia della parola sono inseparabili dalla presenza di chi la enuncia e dalla situazione concreta nella quale questi comunica con i suoi interlocutori. È con ogni probabilità che in tali ambienti sono state conservate inizialmente le istruzioni per i discepoli inviati in missione che troviamo in bocca a Gesù nei Vangeli di Marco (6, 7-11), Matteo (10, 1-16) e Luca (9, 1-5; 10, 1-12). Il documento Q può provenire da queste cerchie. Questa linea di continuazione dell’opera di Gesù non ignora certo la sua morte, e la fonte Q, pur non raccontando la Passione, contiene una parola sull’esigenza di prendere o portare la propria croce (Luca 14, 27), che certamente allude alla morte di Gesù. Ma questa tradizione sembra avere interpretato tale morte non come un evento salvifico, bensì come un destino che situa Gesù (e i suoi discepoli) nella linea dei profeti perseguitati e uccisi in Israele, o lo assimila al modello biblico del giusto perseguitato dai suoi nemici e messo a morte, ma riconosciuto da Dio. Tale riconoscimento sarebbe stato un’altra maniera di esprimere ciò che vuol esprimere l’annuncio della resurrezione, cioè la rivendicazione di Gesù da parte di Dio precisamente attraverso la sua morte; ma l’accento qui è posto sul destino tragico dell’inviato di Dio.
L’altra forma di prosecuzione dell’opera di Gesù assume come punto di partenza esperienze di suoi discepoli dopo la sua morte, che non possiamo ricostruire con precisione ma che li convinsero che Dio non aveva abbandonato Gesù alla morte ma lo aveva fatto entrare in una vita piena e definitiva in comunione con lui; quella che chiamiamo “resurrezione” è designata dai primi testi con termini che indicano il risveglio, il rialzarsi in piedi, l’ascesa verso Dio. Tale agire di Dio in Gesù è compreso come l’apertura del tempo della fine del mondo, tempo destinato a concludersi presto con il ritorno di Gesù e la salvezza di quanti hanno creduto in lui; l’esigenza di far accedere il maggior numero possibile d’israeliti a questa salvezza rilancia e intensifica la missione da parte dei suoi discepoli, mediante una predicazione di cui la resurrezione di Gesù costituisce sia il punto di partenza che il contenuto, con uno spostamento d’accento fondamentale rispetto al messaggio diffuso da Gesù stesso. I testimoni di manifestazioni del Risorto diventano i garanti e i primi portatori del messaggio, e in effetti i racconti di manifestazioni di Gesù ai discepoli alla fine dei Vangeli contengono l’ordine di andare ad annunziare il Vangelo: certamente tali racconti non rappresentano la forma più antica degli enunciati sulla resurrezione di Gesù (che va ricercata in antiche formule di fede contenute ad esempio nelle lettere di Paolo, come quella della Prima lettera ai Corinzi 15, 3-7), ma riflettono la comprensione che i suoi discepoli sviluppano del rapporto tra resurrezione di Gesù ed esigenza, per i testimoni di essa, di annunziarla agli altri. Nascono così piccoli gruppi di credenti in Gesù, che si riuniscono per ricordarne la morte e riaffermare la loro fede nel suo prossimo ritorno, intorno a un pasto rituale la cui istituzione si fa risalire all’ultima cena di Gesù con i suoi discepoli alla vigilia della sua morte: la storia della sua passione e morte può essersi sviluppata appunto come racconto fondatore (in tal senso “mito”) di queste comunità. È la situazione che troviamo nelle lettere dell’apostolo Paolo: piccoli gruppi in ambiente urbano, anche più d’uno nella stessa città (a Corinto, le lettere ne lasciano scorgere almeno sei) che si riuniscono verso sera in case private per consumare una cena comunitaria; come mostra soprattutto la Prima lettera ai Corinzi, nel contesto cultuale si producono fenomeni quali brevi discorsi ispirati, enunciati incomprensibili intesi come discorsi in lingue angeliche, guarigioni, che vengono interpretati come segni della presenza dello Spirito di Cristo nella comunità di quanti sono stati radunati dalla chiamata realizzatasi nella predicazione degli apostoli (in greco ekklêsia, termine che nelle lettere di Paolo indica sempre una comunità locale e non tutto l’insieme dei credenti in Gesù).
Il movimento suscitato da Gesù è dapprima un movimento di “risveglio” interno a Israele. Il libro degli Atti degli apostoli, accolto poi nel Nuovo Testamento, ne situa il punto di partenza e il centro a Gerusalemme e la direzione nel gruppo dei Dodici. Questi ultimi non sono identici né ai “discepoli” di Gesù, tra i quali sono stati scelti, né agli “apostoli” che sono i missionari. Benché alcuni studiosi vorrebbero situare l’origine del gruppo dei Dodici dopo la morte di Gesù, la narrazione dei Vangeli, che li presenta come istituiti da lui, è con ogni probabilità esatta: se fossero stati creati più tardi, difficilmente si sarebbe considerato Giuda come uno di loro. Secondo il Vangelo più antico, quello di Marco (3, 13-19), Gesù li avrebbe scelti per compiere le sue stesse attività: guarigioni, esorcismi e annunzio del Regno. Ma le fonti mostrano che tali compiti sono propri di un numero ben più grande di persone, e una parola di Gesù in Q afferma che i Dodici, seduti su dodici troni, avrebbero giudicato le tribù d’Israele nel giudizio finale (Matteo 19, 28 e Luca 22,30). È verisimile che Gesù veda nei Dodici un simbolo dell’Israele che Dio convoca per mezzo di lui. Le lettere di Paolo, scritte nella prima metà degli anni Cinquanta, non menzionano mai i Dodici, con la sola eccezione di una professione di fede che egli riproduce come l’ha ricevuta e dove essi appaiono come i beneficiari di una manifestazione di Gesù risorto (1 Corinzi 15,5). Una riunione svoltasi a Gerusalemme probabilmente nel 48/49, in cui vengono prese importanti decisioni, viene descritta sia negli Atti degli apostoli (15, 1-29) che nella lettera di Paolo ai Galati (2, 1-10): ma mentre i primi attribuiscono la massima autorità a “gli apostoli” – che per questo autore s’identificano con i Dodici – oltre che a Giacomo, il fratello di Gesù, Paolo l’attribuisce a una triade designata come “le colonne” – titolo che Paolo riporta con una certa ironia – e formata, oltre che da questo Giacomo (il quale è della famiglia di Gesù, ma non lo ha seguito nella sua attività), da Pietro e Giovanni figlio di Zebedeo, che sono stati compagni di Gesù. La presentazione di Paolo, benché polemica, è certamente da preferire su questo punto, in quanto scritta da un testimone oculare a pochissimi anni di distanza dai fatti, quando è ancora facilmente possibile verificare questi ultimi. Ciò significa probabilmente che a quest’epoca il gruppo dei Dodici si è disperso (uno dei suoi membri, Giacomo figlio di Zebedeo, è comunque già morto: Atti degli apostoli 12, 1), e in ogni caso non aveva, in quanto tale, funzioni di governo.
La presentazione offerta dal libro degli Atti, con Gerusalemme come punto di partenza e i Dodici come massime autorità della missione per Gesù, e una progressiva espansione attraverso la Samaria, Antiochia, l’Asia Minore, la Grecia e con Roma come punto di arrivo, contiene elementi preziosi ma costituisce da un lato una forte selezione degli eventi e dall’altro un’interpretazione fortemente ispirata dalla teologia dell’autore, interessato a illustrare il cammino del Vangelo da Israele ai pagani, itinerario simboleggiato dai due poli geografici situati all’inizio e alla fine dell’opera, Gerusalemme e Roma, e uniti soprattutto dai viaggi di Paolo. Di fatto, numerosi indizi lasciano scorgere che la diffusione del messaggio dopo la morte di Gesù ha luogo in numerose direzioni. Il fatto che in certe fonti le prime manifestazioni del Risorto siano localizzate in Galilea (Marco 15, 7) potrebbe essere legato al fatto che vi sono state molto presto piccole comunità di adepti di Gesù in quella regione; l’interesse mostrato da alcuni racconti per la Samaria (Giovanni 4, 1-42; Atti 8, 5-25) lascia intravedere tradizioni antiche sull’evangelizzazione di quel territorio. Antiochia di Siria è un centro importante sin dai primi anni dopo la morte di Gesù, come mostrano gli stessi Atti; a Roma esistono credenti in Gesù ben prima che Paolo scriva la sua lettera indirizzata a loro (verso il 56). Gerusalemme costituisce però certamente il centro più importante fino alla rivolta giudaica contro Roma del 66-70; lo attesta già il fatto che Paolo abbia considerato importante, sia pure a posteriori, l’approvazione della sua missione da parte delle autorità di quella comunità. È molto probabile che nei primissimi anni il ritorno di Cristo sia atteso a Gerusalemme.
La direzione da parte delle tre “colonne” di questa comunità menzionate, come abbiamo visto, da Paolo lascia intravedere un compromesso tra due criteri per la successione a Gesù: quello della famiglia, rappresentato da Giacomo, e quello del discepolato itinerante con lui, rappresentato da Pietro e Giovanni. Questi due non vi risiedono però stabilmente: al tempo della riunione, Pietro ha già svolto ampiamente attività missionaria (Lettera ai Galati 2,7-8) e riparte in seguito (Galati 2,11-14), e certamente lo stesso vale per Giovanni, la cui memoria è legata più tardi all’Asia Minore. Il vero capo della comunità di Gerusalemme è Giacomo, fino alla morte che ha luogo in quella città verso il 62 per una specie di regolamento di conti interno al giudaismo di Gerusalemme: come narra lo storico ebreo Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche 20,197-203, in un periodo di assenza del procuratore romano in Giudea, tra la morte di Festo e l’arrivo del suo successore Albino, il sommo sacerdote Anano (Anna II) riunisce a Gerusalemme il sinedrio e vi fa giudicare e condannare alla lapidazione Giacomo e alcuni altri, come trasgressori della Legge. Per quanto ne sappiamo, Giacomo è un ebreo molto osservante, ma la sua convinzione che Gesù sia il messia e che la comunità che Giacomo stesso dirige sia quella dei salvati nell’imminenza del giudizio può aver contribuito a montare l’accusa, anche se non si condanna certo a morte qualcuno perché identifica una data persona con il messia. In una forma molto più leggendaria, la morte di Giacomo è narrata in seguito dal cristiano Egesippo, verso il 170, in un frammento della sua opera Annotazioni conservato dallo storico e teologo cristiano di età costantiniana Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica 2, 23). Un altro frammento di Egesippo mostra del resto che ancora alla fine del I secolo, i membri della famiglia di Gesù godono di speciale considerazione presso i credenti in Gesù che mantengono l’osservanza della Legge (Eusebio, Storia ecclesiastica 3, 11, 19-20).
Il messaggio di Gesù, lo abbiamo ricordato, si rivolge a Israele. Alcuni dei primi credenti in lui, ebrei di lingua e cultura greca – gli “ellenisti” degli Atti degli apostoli 6 – annunziano il Vangelo anche a non ebrei, che lo accolgono. Ciò pone il problema se i non ebrei credenti in Gesù debbano entrare nel popolo d’Israele, facendosi circoncidere e osservando la Legge di Mosè. Molti, in particolare della cerchia intorno a Giacomo, sostengono che ciò è necessario, perché con Gesù non è cambiato il principio tradizionale secondo il quale il popolo di Dio è Israele, definito dall’osservanza delle regole del patto. Altri, probabilmente appunto tra gli ellenisti, ritengono che la resurrezione di Gesù abbia aperto un’epoca nuova in cui le istanze tradizionali della mediazione tra Dio e gli umani, il Tempio e la Legge, sono relativizzate e l’unico elemento decisivo è la fede in Gesù, aperta a tutti. Il libro degli Atti attribuisce una posizione del genere a Stefano, il leader degli ellenisti di Gerusalemme, e ne fa la causa della sua condanna a morte da parte del Sinedrio (Atti 6-7). Lo zelo per l’osservanza della Legge può condurre le autorità religiose a misure repressive nei confronti degli ebrei che antepongono Gesù alla Legge.
Si distingue in questa repressione un ebreo ellenizzato di Tarso in Cilicia, che porta un doppio nome, semitico e greco, Saul e Paolo. Nelle sue lettere, anni dopo, egli ricorda di avere avuto una rivelazione del Cristo resuscitato, da lui compresa nel senso che il Dio d’Israele non chiede più, per riconciliarsi con lui, che la fede in Cristo, e lo invia ad annunziarlo ai non ebrei (Lettera ai Galati 1,15-16); questa fede definisce ormai un nuovo popolo di Dio, formato di ebrei e non ebrei, del quale l’osservanza della Legge non costituisce più un tratto identitario. Egli si persuade che lo scopo della Legge di Dio è sempre stato solo quello di rendere evidenti le trasgressioni della volontà di Dio, e che non vi è mai stato alcun rapporto diretto tra osservanza della Legge e giustificazione del peccatore: questa è diventata possibile, e reale, solo grazie allo Spirito del Cristo risorto che Dio dona a quanti credono in Gesù. Tali convinzioni, espresse in lettere scritte a numerosi anni di distanza dalla rivelazione, possono essere state sviluppate progressivamente, ma egli le riconduce in ultima analisi a quella rivelazione, da lui compresa contemporaneamente come l’ordine di annunziare questa buona notizia a ebrei e non ebrei. Paolo lo fa da subito, in un’infaticabile attività missionaria di numerosi anni, dapprima forse da solo, poi certamente su incarico della comunità di Antiochia e in collaborazione con un eminente missionario, Barnaba: nella già menzionata riunione di Gerusalemme del 48/49 poté ottenere dalle autorità di Gerusalemme il riconoscimento della validità dell’opera missionaria da lui svolta con successo presso i non ebrei senza esigere da loro l’osservanza della Legge (Galati 2,1-10). Staccatosi poi dalla chiesa d’Antiochia, Paolo sviluppa un’impresa missionaria su grande scala in Asia Minore e in Grecia, attirandosi però largamente l’ostilità di ambienti giudeocristiani fedeli all’osservanza della legge, che si richiamano – non sappiamo quanto a ragione – all’autorità di Giacomo. Arrestato dai Romani a Gerusalemme (su denuncia di giudeocristiani?) mentre si prepara a spostare la sua attività missionaria nel Mediterraneo occidentale facendo di Roma la sua base (come egli stesso spiega nella lettera ai Romani 15,22-24), viene trasferito a Roma, dove giunge probabilmente verso il 58 e – malgrado leggende posteriori che lo fanno liberare e partire effettivamente per la Spagna – resta con ogni probabilità sino alla sua morte, che avrà luogo al più tardi nella breve, ma violenta persecuzione dei cristiani di Roma scatenata da Nerone dopo l’incendio della città nel 64. Paolo realizza un’impresa missionaria complessa, pianificata e ben organizzata, per la quale si serve di collaboratori capaci e che è resa possibile anche dalla relativa facilità delle comunicazioni e dei viaggi. Le sue lettere alle chiese che ha fondate e a quella di Roma (solo sette, tra le 14 incluse nel Nuovo Testamento sotto il suo nome, sono unanimemente riconosciute come autentiche) rappresentano i più antichi documenti cristiani che ci siano stati conservati e permettono di conoscere questo personaggio eccezionale e la sua riflessione teologica profonda e radicale, imperniata sul rovesciamento dei valori che il Dio d’Israele ha realizzato nella morte e resurrezione del suo figlio Gesù. Senza presentare un vero sistema teologico, questa riflessione, largamente legata alle esigenze, anche polemiche, create dalle vicende delle comunità cui scrive, contiene alcune intuizioni fondamentali per tutta la storia e la dottrina successive del cristianesimo. Le lettere ci fanno inoltre conoscere elementi preziosissimi della vita sociale e cultuale dei credenti in Gesù in contesto urbano, nonché della missione dei primi decenni.
Paolo svolge la sua missione nelle città. Secondo gli Atti degli apostoli, giungendo in una città, si rivolge dapprima agli ebrei, poi, dopo un successo modesto e molte resistenze, si orienta verso i “gentili” incontrando ben maggiore disponibilità (anche se la fredda reazione al discorso di Paolo sull’Areopago di Atene mostra che l’autore di questo episodio emblematico narrato in Atti 17 è consapevole dell’estraneità della predicazione della resurrezione a un pubblico greco colto); ma questo schema, o almeno la sua regolarità, può essere una creazione dell’autore degli Atti, il quale insiste molto sull’idea che il messaggio di Gesù, rivolto dapprima a Israele, è destinato da Dio a diffondersi tra i gentili e in effetti viene accettato soprattutto da questi. I nomi di membri delle comunità paoline che conosciamo non sono ebrei e l’apostolo non si è certo rivolto ai gentili solo come ripiego. Paolo interpreta il battesimo, rito d’ingresso nella comunità certo precedente a lui, come partecipazione mistica alla morte di Gesù e pegno di quella, futura, alla sua resurrezione; e avvia la comunità a un itinerario di crescita spirituale che s’inizia sotto la sua guida, subito dopo la fondazione della comunità stessa, e prosegue dopo la sua partenza, quando egli continua a seguire la comunità mediante le sue lettere, i suoi collaboratori e incontri con membri della comunità che, viaggiando, lo visitano là dove si trova.
Le lettere ai Corinzi sono particolarmente interessanti sotto questi aspetti. In particolare, esse illustrano come dei non ebrei che abbracciano il culto di Gesù possano interpretarlo in maniera analoga ai culti misterici: a Corinto, il battesimo deve essere stato assimilato da alcuni all’iniziazione ai misteri, e la “sapienza” che per Paolo significa capacità di comprendere, anche nelle Scritture ebraiche, le profondità del mistero dell’azione di Dio in Cristo, pare a una parte dei credenti di Corinto dover comportare una scienza delle cose divine capace di procurare a chi la detiene poteri ben visibili. Alcuni, probabilmente, si considerano già associati alla resurrezione di Cristo e quindi già misticamente trasferiti al di là della morte e incapaci di peccare.
Le principali città dell’epoca, immerse nella tradizione culturale ellenistica e romana, diventano i centri principali del cristianesimo già prima della fine del I secolo. Abbiamo detto di Roma; in Oriente, abbiamo menzionato Antiochia; le origini del cristianesimo ad Alessandria sono oscure, ma vi è una prima evangelizzazione proveniente dalla Siria-Palestina nel I secolo, probabilmente cancellata dalla sanguinosa repressione della rivolta degli ebrei della città nel 115-117, dopo di che vi è certamente una seconda e definitiva evangelizzazione, proveniente forse da Roma. La città di Efeso, in cui la fede in Gesù non è stata portata da Paolo, è però una base importante dell’attività missionaria dell’apostolo e conserva una “scuola” legata alla sua memoria, dove si è forse prodotta una parte delle lettere tramandate sotto il suo nome. Da Gerusalemme invece, un gruppo di credenti in Gesù fedeli all’osservanza della Legge, che qui hanno un centro importante, si trasferisce a Pella, a est del Giordano, allo scoppio della rivolta giudaica contro Roma del 66 (Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, 3,5: l’autenticità storica della notizia è stata messa in dubbio, ma probabilmente senza sufficienti motivi); dopo la fine della guerra, una parte di loro può essere rientrata, ma la comunità giudeocristiana della città ha ormai perduto la sua importanza. L’ortodossia che si affermerà nel II secolo finirà addirittura con il considerare eretica la posizione dei credenti in Gesù che osservano la Legge, anche se ciò è dovuto probabilmente più alla loro comprensione di Gesù come un uomo “adottato” da Dio e non come un essere divino.
Prima della fine del I secolo, comunità cristiane sono attestate – oltre che in terra d’Israele – in Fenicia, Siria occidentale (in particolare ad Antiochia), Siria orientale (territorio dell’Osroene, occupato dai Romani dall’inizio del II secolo, e in particolare il suo capoluogo Edessa), in Egitto ad Alessandria, in Asia Minore meridionale (Pisidia, Panfilia, Licaonia), centrale (Galazia) e soprattutto occidentale (Frigia e provincia romana d’Asia, in particolare a Efeso, ma anche a Mileto, Magnesia, Tralle, Colossi, Laodicea, Hierapolis, Filadelfia, Smirne, Sardi, Tiatira, Pergamo), in Macedonia (Filippi, Tessalonica), in Acaia (in particolare Corinto) e in Italia (in ogni caso a Roma). È praticamente impossibile azzardare sia cifre assolute che percentuali per la diffusione del cristianesimo nei primi secoli, senza contare il fatto che esse devono essere state molto diverse per la parte orientale e quella occidentale dell’Impero, la seconda essendo stata cristianizzata (a parte Roma) molto più tardi e molto meno intensamente della prima; ma anche all’interno di ciascuna di queste parti bisognerebbe distinguere i diversi territori. Le testimonianze disponibili sin verso il 1920 si trovano raccolte nella grande opera di Adolf von Harnack (La missione e propagazione del cristianesimo nei primi tre secoli, 4a e definitiva edizione Leipzig, Hinrichs 1924, p. 529-958), che andrebbe integrata con i risultati ulteriori dell’archeologia: ma Harnack stesso non osa quantificare quanti siano stati effettivamente i cristiani. Recentemente, un sociologo della religione, Rodney Stark, ha proposto di applicare un modello che prevede una crescita dei cristiani del 40 percento ogni 10 anni, analogamente a quanto Stark stesso ha constatato studiando le sette religiose moderne (The Rise of Christianity, HarperOne, 1997). Partendo da una stima di 1000 credenti in Gesù nell’anno 40 (corrispondenti allo 0,0017 percento della popolazione dell’Impero, stimata a 60 milioni) si arriverebbe così a 7530 nel 100 (0,0126 percento), a 217.795 nel 200 (0,36 percento), a 6.299.832 nel 300 (10,5 percento); ciò permette di calcolare 8.819.765 per il 310, cioè alla vigilia della libertà di culto concessa ai cristiani da Costantino e Licinio nel 313. Ma naturalmente si tratta d’ipotesi.
Già dalla seconda metà del I secolo, comunque, il messaggio cristiano troverà accoglienza essenzialmente tra i gentili, in particolare tra quelli che sono attirati dal giudaismo ma che non si risolvono ad aderirvi a causa della separazione sociale resa necessaria dal rispetto delle norme giudaiche di purità alimentare e rituale; tutt’al più, essi divengono “timorati di Dio”, cioè simpatizzanti e sostenitori esterni delle comunità giudaiche, ma si ritrovano marginali rispetto sia alla sfera “pagana” di provenienza sia a quella giudaica. A persone di questo genere, l’adesione alla fede in Gesù consente invece una vita religiosa intensa ed elevata permettendo al tempo stesso di conservare le proprie relazioni sociali. Una prospettiva del genere può naturalmente attirare soprattutto persone più o meno agiate e coinvolte nella vita pubblica. Una parte di queste può poi trovare nella comunità cristiana un’integrazione e una gratificazione che sono loro negate nella società a causa della loro “incoerenza di status”. Così, una donna può avere uno status sociale elevato da un certo punto di vista, per esempio essendo ricca, ma inferiore da un altro punto di vista, perché la sua condizione di donna non le consente di esercitare cariche; in una comunità cristiana, ella può vedersi riconoscere un’importanza e assumere un ruolo che non sarebbe stato possibile al di fuori. Nella lettera ai Romani (16,1-2), Paolo ringrazia una donna, Febe, designandola come sua “protettrice” (prostatis), cioè come patrona nel quadro del rapporto patrono/cliente che struttura le relazioni sociali nel mondo romano: ella ha certamente contribuito a finanziare la missione di Paolo e può averlo protetto in circostanze difficili.
Naturalmente, il Vangelo ha trovato larga diffusione tra gli strati sociali inferiori con il suo messaggio di uguaglianza di fronte a Dio e di speranza per i poveri e i socialmente deboli, anche se non predica affatto una rivoluzione sociale (Paolo rimanda al suo padrone Filemone lo schiavo fuggiasco Onesimo, come mostra la lettera a Filemone); ma più ancora di tali prospettive ha certamente svolto un ruolo decisivo l’attività delle comunità cristiane, grazie ai doni dei membri non solo ricchi e all’attività volontaria di molti, in favore dei loro membri deboli e bisognosi, in primo luogo delle vedove e degli orfani. In un’epoca in cui non vi sono ammortizzatori sociali né forme di previdenza e assistenza, ciò rappresenta un forte fattore di attrazione, come pure il soccorso che i credenti in Gesù si prestano a vicenda in caso di carestie o epidemie, o che prestano a prigionieri, condannati ai lavori forzati in miniera, schiavi, provvedendo inoltre alla sepoltura dei poveri. La chiesa di Roma, divenuta presto ricca, diviene celebre per tali attività, tanto che anche i pagani la designano come un modello. A metà del III secolo, il vescovo di Roma Cornelio, in una lettera al suo collega di Antiochia, Fabio, sottolinea che la Chiesa romana sostenta oltre 1500 vedove e indigenti (citato in Eusebio, Storia ecclesiastica 6,43,11); negli stessi anni, la medesima comunità soccorre le Chiese di Siria e d’Arabia durante la persecuzione di Decio (ivi 7,5,2). L’influenza crescente della Chiesa romana è stata certamente favorita anche da circostanze del genere. Negli anni 361-363, l’imperatore Giuliano, tentando di restaurare la religione romana tradizionale, sarà ben consapevole di questa forza dei cristiani, quando scriverà: “Gli empi Galilei oltre ai loro poveri nutrono anche i nostri, ma i nostri mancano del nostro sostegno” (lettera ad Arsacio, citata da Sozomeno, Storia ecclesiastica 5,16).
Come mostrano già le lettere di Paolo, i credenti in Gesù concretamente riuniti si comprendono come “chiese”, termine proveniente dal latino ecclesia, trascrizione del greco ekklêsia, dal verbo ek-kaleô, “chiamare fuori, chiamare a uscire”: ekklêsia, che in greco classico designa l’assemblea dei cittadini di pieno diritto della polis e, salvo rarissime eccezioni, non designa una riunione religiosa, compare un centinaio di volte nella traduzione greca della Bibbia realizzata dagli ebrei di Alessandria in epoca ellenistica (detta dei Settanta), dove traduce sempre l’ebraico qâhâl, sostantivo dalla radice verbale qhl, “riunire”. Qâhâl/ekklêsia può designare un’assemblea profana, ma anche più specialmente il popolo d’Israele in quanto assemblea convocata da Dio; i primi credenti in Gesù riprendono il termine per designare la comunità di quanti credono in Cristo, che succede, per loro, al popolo d’Israele. Inizialmente, usano la parola per un gruppo riunito concretamente in un luogo, così che l’insieme ideale di tutti i credenti viene indicato come “tutte le chiese”.
Nei primi tempi, vi sono diverse strutture di ministeri e dell’autorità nelle diverse chiese. Paolo insiste sulla presenza e l’azione dello Spirito di Cristo, che conferisce ai credenti doni (carismi) diversificati (Prima lettera ai Corinzi 12,4-11); ciò non toglie che Paolo affermi l’esistenza di una gerarchia dei carismi (ivi 12,28-31), elencando ai primi tre posti, nell’ordine, apostoli, profeti e insegnanti (didaskaloi), triade ancora attestata nella prima metà del II secolo in Siria occidentale in un documento contenente disposizioni etiche, liturgiche e di disciplina ecclesiastica che ha ricevuto il titolo di Insegnamento (in greco: didakhè) dei dodici apostoli. La più antica lettera conservata di Paolo, la Prima ai Tessalonicesi, raccomanda (5,12) il rispetto per i proistamenoi nella comunità, che si può tradurre “coloro che stanno davanti (a voi)” o “che stanno là in (vostro) favore”. La lettera ai Filippesi (1,1) menziona episkopoi e diakonoi, titoli che in greco corrente designano rispettivamente dei “sorveglianti/amministratori” e dei “servitori/collaboratori”. Altri tipi di comunità hanno ripreso dalle comunità giudaiche l’istituzione del consiglio degli anziani, presbyteroi: istruzioni per loro si trovano nella Prima lettera di Pietro 5,1-4 e nella lettera di Giacomo 5,14; il libro degli Atti degli Apostoli menziona anziani per Gerusalemme (15; 16,4) e Mileto (20,17) e attribuisce a Paolo l’istituzione di anziani nelle comunità da lui fondate, anche se di quest’istituzione non c’è traccia nelle lettere dell’apostolo. Le due strutture tendono a fondersi. Nelle comunità presupposte dalle cosidette lettere Pastorali (le due a Timoteo e quella a Tito, messe sotto il nome di Paolo), episcopi e presbiteri sembrano essere equivalenti (Tt 1,5-9), e i titolari di queste funzioni acquistano importanza come garanti e custodi del “deposito della fede” (1 Tm 6,20; 2 Tm 1,12.14). Il ministero è conferito mediante imposizione delle mani da parte del gruppo dei presbiteri (1 Tm 4,14; 2 Tm 1,6; At 13,3; 14,23): si tratta dunque di un atto collegiale, cui la comunità è chiamata a dare il suo consenso. Una lettera scritta verso il 95 dal gruppo dirigente della chiesa di Roma a quello della chiesa di Corinto, e ricordata sin dal II secolo sotto il nome di Clemente, probabilmente il membro del collegio presbiterale di Roma che la compila e invia, presuppone anch’essa questa struttura e la giustifica come espressione dell’ordine voluto da Dio. Essa prevede presbiteri/episcopi e diaconi, presentati come successori degli apostoli (42,1-5); vi s’incontra anche, per la prima volta, il termine “uomo laico”, laikos anthrôpos (40,5), letteralmente “persona del popolo”, distinta da quanti rivestono un ministero.
Durante il II secolo, la direzione collegiale delle comunità locali scomparirà, certo progressivamente e a velocità diverse secondo i luoghi. Verso la metà del II secolo, Roma ha ancora una direzione collegiale di presbiteri, come attesta il Pastore di Erma, una rivelazione composta a Roma probabilmente verso il 140 (ma secondo altri alla fine del I secolo); il vescovo unico emergerà solo dopo la metà del secolo, e la Chiesa romana ricostruirà a posteriori una lista di vescovi risalente al periodo apostolico (attestata verso il 190 da Ireneo di Lione, Contro le eresie, 3, 3, 3); secondo alcuni l’affermazione del vescovo unico si realizzerebbe solo dopo il 220, ma questo pare poco probabile. D’altra parte, nelle lettere d’Ignazio, vescovo di Antiochia in Siria, scritte verso il 115, il vescovo appare unico e i presbiteri e diaconi gli sono subordinati (Lettera agli Smirnesi 8,1; Ai Magnesii 6,1; 13,1; Ai Filadelfiesi, indirizzo e 7,1; Ai Trallesi 2,1-3); di fatto, Ignazio si sta ancora battendo per il riconoscimento dell’autorità del vescovo, alla quale certi gruppi evidentemente rifiutano di piegarsi, ma è verisimile che ad Antiochia il processo che conduce al “monepiscopato” sia stato più rapido che a Roma.
Ciò che ha reso possibile gli sviluppi decisivi del II secolo è lo sviluppo di una rete sempre più stretta e solida di relazioni tra le comunità locali, a tutti i livelli. Nel I secolo, le comunità sono legate tra di loro dall’appartenenza ad aree comuni di missione (come nel caso delle chiese fondate o influenzate da Paolo, o in quello delle chiese menzionate in Apocalisse 2-3), dall’attività di missionari che le visitano e da viaggi e contatti individuali, ma sono largamente autonome le une rispetto alle altre e, in linea di principio, dipendono dai missionari che le hanno fondate o dai loro rappresentanti. Nel III secolo, grandi chiese locali estendono il loro controllo su territori vasti, prendendo decisioni in sinodi regionali che pongono le basi di quella che sarà dal IV secolo la pratica conciliare della Chiesa legata all’Impero. Tra queste due situazioni si colloca, come fase decisiva di transizione, il II secolo, in cui in generale i vescovi “unici” affermano saldamente il loro controllo sulle comunità urbane e sulle piccole comunità rurali intorno alle città, e cominciano a tessere rapporti di collaborazione, rivalità, talora interferenza tra le chiese rispettive, affermando così, progressivamente, che la Chiesa universale non significa solo comunione nella fede e nell’amore, ma anche interdipendenza al livello della gestione dei poteri e omogeneizzazione delle dottrine.
Anche se, ripetiamo, bisogna molto differenziare i processi secondo le zone, uno sviluppo decisivo si compie tra la fine del I e la fine del II secolo. Quasi emblematico è il confronto tra due episodi che vedono Roma protagonista: verso il 95, la già menzionata lettera della Chiesa di Roma a quella di Corinto interviene in affari interni alla Chiesa di Corinto (per noi oscuri: Roma chiede comunque di ritirare la destituzione dei presbiteri in carica da parte di quella che sembra ben essere una maggioranza della comunità), visibilmente senza averne nessun titolo giuridico, ma fortemente intenzionata a farsi ascoltare. Verso la fine del II secolo, il vescovo di Roma Vittore (in carica dal 189 al 199 ca.) pretende con intransigenza, minacciando la scomunica, d’imporre la pratica pasquale romana alle venerande Chiese d’Asia Minore che, secondo l’uso detto quartodecimano, celebrano Pasqua il 14 del mese ebreo di Nisan (data della morte di Gesù): il loro uso è sicuramente il più antico, Roma vuole dunque imporre una innovazione facendola passare per la prassi autenticamente apostolica, il che alla fine le riesce, probabilmente dopo l’uscita di scena del più autorevole rappresentante degli asiani, il vescovo di Efeso Policrate. Il già menzionato consolidamento del monepiscopato a Roma, nella seconda metà del II secolo, permette alla Chiesa dell’Urbe d’imporre la sua forza. Il processo di affermazione del monepiscopato condurrà alla situazione rivendicata dal vescovo di Cartagine Cipriano, il “papa d’Africa”, in una sua lettera della metà del III secolo: “Il vescovo è nella chiesa e la chiesa è nel vescovo; se qualcuno non è con il vescovo, non è nemmeno nella chiesa” (Lettera 66,8): all’inizio del II secolo, Ignazio aveva avanzato la stessa idea, ma egli scriveva ancora in mezzo agli sforzi per imporre il monepiscopato, mentre Cipriano descrive una situazione ormai acquisita.
Il medesimo sviluppo contribuisce anche all’affermazione di una “ortodossia”. Abbiamo menzionato la pluralità di forme di cristianesimo nei primi decenni. Scritti diversi propongono interpretazioni differenti della figura di Gesù e del modo in cui egli dà la salvezza. La ricostruzione della “fonte delle parole” (Q) mostra un Gesù interpretato come l’ultimo profeta inviato da Dio a Israele e messo a morte come tanti profeti del passato (secondo le leggende allora correnti nel giudaismo): gli studiosi sono però divisi sul messaggio della forma più antica di questo documento. Per alcuni, esso propone un Gesù maestro di sapienza per la vita presente, per altri invece un Gesù profeta dell’imminente fine del mondo presente e del giudizio di Dio che sta per abbattersi su quella parte d’Israele che non accetti la predicazione di Gesù. Il Vangelo più antico che ci sia rimasto, quello di Marco sottolinea che la messianità di Gesù si manifesta – contrariamente a tutte le attese relative al messia – nella sua Passione e morte, che sfociano nella sua glorificazione da parte di Dio mediante la resurrezione. Il Vangelo di Matteo propone un Gesù fedele alla Legge, ma in polemica contro l’interpretazione dei farisei, e a favore di una sua radicalizzazione (si pensi alle “antitesi” del “discorso della montagna” in Mt 5,21-48: per esempio, il comandamento “non uccidere” non dev’essere precisato da una casistica, ma dev’essere inteso in maniera radicale, come divieto di adirarsi e di offendere in qualunque modo). Il Vangelo di Luca (probabilmente della fine del I secolo) indica in Gesù il portatore della misericordia di Dio che si apre ora a tutte le genti: non a caso questo autore prolunga il Vangelo con gli Atti degli Apostoli, nei quali narra come il Vangelo, annunziato dapprima a Israele, sia poi stato portato ai gentili che lo hanno accolto più degli ebrei: tale passaggio è simboleggiato dal fatto che il racconto s’inizia a Gerusalemme e termina a Roma.
Abbiamo accennato al Gesù del Vangelo di Giovanni. Ma c’è anche quello del Vangelo secondo Tommaso, che indica la via della salvezza nel processo di scoperta di Dio nell’intimo di ciascuno, mediante un’ascesi che allontana lo spirito dai valori di questo mondo; quello del Vangelo degli Ebrei, conservato solo per frammenti, che indica in Gesù la dimora definitiva della Sapienza/Spirito di Dio, la quale non ha potuto trovare stabile abitazione in nessuno dei profeti ma si può ora incontrare in lui come “Figlio primogenito che regna in eterno”; quello del Vangelo di Pietro, in cui si racconta minuziosamente la Passione di Gesù come adempimento puntuale delle Scritture; quello dell’Ascensione di Isaia, essere divino disceso di nascosto attraverso i cieli e divenuto uomo in apparenza, ucciso per istigazione delle potenze demoniache e poi uscito dagli inferi e asceso attraverso i cieli in tutto il suo potere e la sua gloria, realizzando la salvezza degli umani con l’assoggettarsi le potenze angeliche che devono governare questo mondo e si sono invece ribellate a Dio; e numerosi altri ancora. Ignazio di Antiochia e altri testi lasciano scorgere gruppi che, come l’Ascensione di Isaia, considerano l’umanità di Gesù una mera apparenza (è quello che si chiamerà poi “docetismo”) perché una reale incarnazione non è né degna di Dio né necessaria per la salvezza. Si sviluppano, insomma, ricezioni della figura e del messaggio di Gesù non solo diverse, ma anche incompatibili tra di loro.
A ciò si aggiungono i sistemi teologici di alcuni maestri cristiani che tentano una lettura del cristianesimo capace di rispondere ai grandi problemi della filosofia del tempo, fortemente religiosa. Tra questi rientrano le dottrine che i loro avversari definiscono “gnostiche”, un termine che è poi adottato dagli storici ma il cui uso onnicomprensivo è oggi contestato, non senza ragione. Tale termine si lega alla pretesa che la salvezza venga da una “conoscenza” (in greco: gnôsis) proveniente da Dio e comunicata da Gesù. Di fatto, tutta la religiosità dell’epoca connette salvezza religiosa e conoscenza, ma il modo in cui ciò avviene nei gruppi designati come gnostici (un nome che solo alcuni di essi si attribuiscono) è particolare. Essi muovono da un’esigenza comune sia alla filosofia (in particolare al platonismo) che alla religiosità politeista (quale si esprime per esempio nella letteratura detta ermetica o negli Oracoli caldaici), quella di assicurare l’esistenza di un Dio sommo assolutamente trascendente e di riflettere poi sul suo rapporto con il nostro mondo. Ma mentre in quei sistemi l’universo materiale, benché ontologicamente inferiore al divino, è organicamente connesso con quest’ultimo pur occupando l’altro estremo nella scala dell’essere, e la sua esistenza corrisponde alla volontà divina, i vari sistemi detti gnostici postulano una frattura radicale tra la sfera divina e il mondo materiale, facendo di quest’ultimo un’entità non voluta da Dio, ma connotata in maniera negativa. Essi ne descrivono l’origine e il carattere usando un linguaggio mitico. Basterà qui ricordare che nella forma più filosofica, quella dei sistemi detti valentiniani, il Dio supremo e assolutamente inconoscibile, contemplando se stesso, genera un insieme di entità spirituali o “eternità” (eoni) che esprimono altrettante perfezioni divine. L’ultima di queste entità, la Sapienza, cede però al proprio impulso di conoscere il Dio inconoscibile prima che questo si riveli, cosa impossibile, e cade così preda di “passioni” (per definizione incompatibili con il divino) le quali si concretizzano formando una divinità inferiore e una serie di sostanze materiali, che questa divinità limitata, ignorante ed egoista organizza in un mondo nel quale vengono però a trovarsi imprigionate anche delle particelle della sostanza spirituale divina che sono “fuoriuscite” al momento in cui la Sapienza si è trovata espulsa dal mondo divino a causa delle sue passioni. Tali particelle finiscono in una parte degli esseri umani creati dal dio inferiore e dagli accoliti che egli stesso si è prodotti: quegli umani sono appunto gli gnostici, e il processo della redenzione consiste nel risvegliare in essi la conoscenza della loro condizione divina permettendo così che siano infine reintegrati nel Dio di cui, di fatto, sono parte (gli gnostici furono i primi a fare un uso teologico, in questo senso, del termine “consustanziale” che tanta fortuna doveva conoscere nella teologia trinitaria ortodossa dal IV secolo in poi). Il dio inferiore, creatore di questo mondo, è il Dio della rivelazione a Israele e della Legge: nei sistemi valentiniani, a differenza che in altri sistemi gnostici, non è connotato in maniera decisamente negativa, ma contraddistinto dalla “giustizia” (che si contrappone alla “bontà” del Dio sommo), orientata a permettere agli umani che non hanno in sé lo spirito divino, ma sono “psichici”, di ottenere una salvezza di tipo inferiore grazie all’osservanza dei comandamenti (una terza categoria di umani, quelli “materiali”, resta esclusa da ogni salvezza). Gesù è il rivelatore inviato dal Dio sommo per “risvegliare” negli umani portatori di spirito divino la conoscenza della loro condizione.
È impossibile qui apportare spiegazioni più dettagliate di questo sistema estremamente complesso: basterà attirare l’attenzione sul fatto che il nostro mondo, e soprattutto il Dio che lo governa, sono compresi come il risultato dell’errore di una saggezza che ha voluto rappresentarsi Dio con le proprie forze e ne ha prodotto un’immagine falsa e oppressiva: questo Dio, l’universo materiale, il corpo, la logica che governa le relazioni di questo mondo (il livello della “psiche”, appunto) costituiscono una specie di incubo nel quale quella componente dell’essere umano che è veramente divina si ritrova imprigionata e dal quale dev’essere liberata. L’illusione di poter conoscere Dio con la “sapienza di questo mondo” (un’espressione paolina con la quale il gruppo gnostico dei valentiniani designa la Sapienza nella fase del suo errore) ha prodotto passione, ignoranza, tenebre, disordine, terrore e disperazione. È una teologia inquietante: il processo nel quale Dio si manifesta conduce necessariamente a una crisi, in cui il divino rischia di perdersi. Inevitabilmente si salva (la Sapienza, pentita del suo atto, è reintegrata nel mondo divino), ma non senza produrre una sorta di scia imbevuta di sofferenza, nella quale il divino si troverà impigliato e da cui farà fatica a liberarsi. Tutta la storia del nostro universo è questa scia, e il solo senso possibile della storia è la soppressione della storia stessa al fine di permettere al divino di ritrovarsi, al di là e fuori di essa; solo là si trova la vera libertà, impossibile nel mondo di quaggiù. La religione ebraica diviene il luogo dell’espressione di questo dio fabbricato con le passioni umane, mentre il Vangelo di Gesù è il luogo della rivelazione del Dio vero, inconoscibile al di fuori di tale rivelazione. Si è lungamente discusso e ancora si discute sulle origini cristiane o meno dello gnosticismo: qui basti dire che lo gnosticismo cristiano è un tentativo di soluzione radicale al problema della specificità dell’identità cristiana nei confronti del giudaismo e delle altre religioni antiche.
Una soluzione solo per certi versi simile viene data da un altro teologo, Marcione, attivo intorno al 140, il quale ha in comune con i sistemi sopra descritti l’idea che al di sopra del Dio creatore, il quale si è rivelato a Israele e che è limitato e meschino, esiste un altro Dio, perfetto, autore di un mondo trascendente e spirituale e la cui natura s’identifica con l’amore; ma si distingue nettamente da quei sistemi in quanto considera gli umani interamente creature del Dio inferiore, cioè creature che non hanno in sé assolutamente nulla che appartenga al Dio perfetto. Mosso a compassione dalla condizione degli umani, spietatamente tiranneggiati dal loro creatore, il Dio buono ha inviato Gesù per liberarli da una pretesa salvezza legata all’obbligo di osservare una Legge che, come il Dio suo autore, rende male per male ed è orientata all’affermazione di sé sull’altro. Marcione è persuaso che i discepoli di Gesù, essendo ebrei, non hanno capito che egli annunziava loro un Dio diverso da quello che conoscevano e di conseguenza hanno trasmesso il suo messaggio in una forma corrotta, che mescola le due logiche incompatibili del Vangelo (fondato sull’amore incondizionato dell’altro, soprattutto dell’estraneo, di cui ha dato l’esempio il Dio Padre di Gesù intervenendo per gli umani) e della Legge, il che finiva inevitabilmente per annientare il primo. Paolo è il solo che ha compreso Gesù: le sue lettere, con il Vangelo di Luca che Marcione considera ispirato da Paolo, rappresentavano dunque il solo luogo dove si potesse incontrare l’autentico Vangelo (Marcione deve però procedere a produrne una forma riveduta, liberata dai riferimenti positivi alle Scritture degli ebrei, che egli crede interpolati da quei credenti in Gesù i quali, sbagliando, pensavano che quest’ultimo fosse stato inviato dal Creatore di questo mondo e non da un altro Dio). Abbiamo qui per la prima volta l’idea della costituzione di una raccolta chiusa e normativa di scritti cristiani: essa mette all’ordine del giorno la questione dell’affidabilità delle diverse tradizioni che circolano nelle Chiese. La progressiva costituzione di un Nuovo Testamento (di cui si discute quanto rappresenti una reazione a Marcione e quanto il risultato di un processo che sarebbe stato comunque inevitabile), come selezione che esclude una serie di scritti rappresentanti posizioni giudicate inaccettabili e/o non risalenti ai discepoli di Gesù, costituisce poi la risposta “ortodossa” a questo problema. Già durante la sua vita, e poi in maniera intensiva nel II e III secolo, Marcione diviene il bersaglio di una serie di confutazioni da parte di teologi “ortodossi”, che ben comprendono la posta in gioco in una concezione che, come quella di Marcione, separa radicalmente e definitivamente la religione d’Israele dal cristianesimo e rifiuta di ammettere che la bontà di Dio sia compatibile con una giustizia retributiva.
Un altro fenomeno, di segno molto diverso ma che ben illustra la pluralità di comprensioni e pratiche del cristianesimo nel II secolo, è il montanismo, che si sviluppa dalla seconda metà del secolo (la data d’inizio è controversa: verso il 155/160 o verso il 170) nella Frigia in Asia Minore. Un certo Montano, alcune donne e qualche altro personaggio cadono in trance e pronunziano profezie, affermando che Dio stesso, o il suo Spirito (che chiamano il Paraclito, ispirandosi al Vangelo di Giovanni) si esprime per bocca loro. Questo movimento, che si definisce “nuova profezia”, non rifiuta né le dottrine né le scritture tradizionali, ma afferma che la rivelazione è ancora aperta; gli oracoli dei nuovi profeti vengono raccolti per iscritto ed elevati al rango di sacre scritture. Al tempo stesso, il movimento pone una questione cruciale di autorità, perché se i profeti sono veramente ispirati dal Paraclito, bisogna accettare i loro enunciati come parola divina e riconoscere loro la leadership nelle comunità. Si tratta dunque di una tendenza opposta a quella della formazione di un canone chiuso di testi cristiani, cui abbiamo accennato qui sopra, nonché opposta all’affermazione, alla direzione delle comunità cristiane, di ministeri non carismatici, cioè non fondati su qualità profetiche o capacità taumaturgiche che venivano considerate come doni dello Spirito santo: sotto entrambi gli aspetti, era dunque conservatrice, prolungava modelli delle origini cristiane che lo sviluppo delle istituzioni ecclesiastiche e le esigenze dei tempi avevano fatto diventare obsoleti. Di fatto, i montanisti furono vivacemente combattuti da vescovi (la cui autorità si trovava da loro minacciata), in contesti di vivaci lacerazioni delle comunità: peraltro, esso si esaurì in un tempo relativamente breve, anche se uno dei grandi teologi del cristianesimo latino, Tertulliano di Cartagine, si fece montanista, salvo poi fondare una propria setta perché convinto che la morale dei montanisti, che era assai rigorosa, non lo fosse abbastanza.
Questa compresenza e concorrenza di modelli di cristianesimo generò una reazione intesa a definire lo spazio di ciò che era accettabile come realmente fedele alla predicazione di Gesù e dei suoi discepoli e a elaborare un modello capace di risolvere i grandi problemi che si erano presentati ai cristiani dei primi due secoli: la natura di Dio, il suo rapporto con il mondo creato e con l’umanità, il suo rapporto più specifico con Israele e il valore della rivelazione accordata a quest’ultimo, la persona e l’opera di Gesù, i criteri di validità della tradizione su Gesù e il vangelo, il rapporto tra la fede in Gesù e le filosofie e religioni che l’avevano preceduta. Un impulso di grande importanza fu dato dal vescovo di Lione, Ireneo, che scrisse negli anni 180-190 un’opera in cinque libri intitolata Smascheramento e confutazione di quella che falsamente è chiamata conoscenza (spesso citata come Contro le eresieSotto l’etichetta di “conoscenza” (gnôsis) Ireneo raggruppa e combatte tendenze assai diverse, dai valentiniani e altri gruppi di tipo gnostico ai marcioniti, dai cristiani fedeli alla Legge a quanti non riconoscevano il vangelo di Giovanni. E’ per lui centrale quella che chiama “regola della verità”, cioè un complesso di enunciati fondamentali, corrispondenti all’insegnamento degli apostoli, che definiscono i discorsi accettabili entro il cristianesimo: per esempio, il primo principio è che vi è un solo Dio, creatore, autore della Legge e padre di Gesù. Ogni enunciato che ammetta due dèi si situa pertanto fuori dal cristianesimo. Questa “regola” serve anche come criterio per l’interpretazione delle Scritture: qualunque interpretazione che voglia ad esempio leggere in Paolo la distinzione di due dèi è dunque falsa a priori.
Inoltre, Ireneo afferma che non possono esservi né più né meno di quattro vangeli, quelli di Matteo, Marco, Luca e Giovanni, i soli che risalgano autenticamente ad apostoli: ciò testimonia che esisteva già una tendenza a riunire e riconoscere solo quei quattro vangeli, non però ancora abbastanza consolidata perché Ireneo non debba riaffermarla con vari argomenti. Di fatto, benché egli non rifiuti la tradizione orale, per l’insegnamento di Gesù e degli apostoli si fonda unicamente sugli scritti che costituiranno poi il Nuovo Testamento. L’opera di Ireneo attesta dunque uno stato avanzato di formazione di quest’ultimo, anche se la sua chiusura vera e propria avrà luogo solo nel IV secolo inoltrato. Il ricorso alla regola della verità è però reso necessario dal fatto, di cui Ireneo è ben cosciente, che i gruppi da lui combattuti usano sì anche altri scritti, ma affermano di poter fondare le proprie dottrine su quelli generalmente accettati. Ma come si è trasmessa la regola della verità? Secondo Ireneo, depositaria e garante ne è la successione dei vescovi nelle varie chiese; svolge qui un ruolo determinante non solo l’affermazione del monepiscopato, ma anche la pretesa, da parte di quest’ultimo, di poter costituire liste di successione dei vescovi che risalgano al tempo degli apostoli, fondatori delle comunità, i quali avrebbero affidato quella regola – sintesi del loro insegnamento – ai responsabili da loro istituiti nelle chiese.
L’importanza di una simile costruzione si misura meglio tenendo presente che ancora all’inizio del II secolo il vescovo di Hierapolis, Papia, in un’opera in cinque libri intitolata Esposizione degli oracoli del Signore, faceva dipendere la garanzia di autenticità della tradizione su Gesù a lui nota dalla sua trasmissione orale da maestro a discepolo, a partire dagli apostoli, trasmissione che Papia preferiva alla testimonianza di vangeli scritti che pure conosceva. Ireneo vive in un tempo in cui il modello di Papia non può più funzionare non solo per la distanza cronologica dagli apostoli, ma anche e soprattutto perché i gruppi che Ireneo combatte (tranne i marcioniti) si legittimano con tradizioni orali, più o meno esoteriche, che avrebbero ricevuto da discepoli di Gesù. Nel sistema di Ireneo, i contenuti dell’insegnamento di e su Gesù sono assicurati da testi scritti (che, in quanto apostolici, permettono l’accesso diretto all’insegnamento degli apostoli, senza la mediazione di una tradizione orale), mentre la successione – non più di maestri come nel caso di Papia, ma di vescovi – trasmette e garantisce la regola della verità, cioè i criteri interpretativi di quella tradizione.
Quanto alla sua teologia, Ireneo difende la creazione materiale e risponde all’accusa, rivolta come abbiamo visto al Dio rivelato nell’Antico Testamento, di mostrarsi limitato e imperfetto, affermando che il mondo creato è in sé buono, ma che il peccato originale ha fatto decadere gli umani dalla condizione alla quale Dio li aveva destinati. Questi però, subito dopo l’espulsione dal paradiso terrestre, ha iniziato a guidarli verso la redenzione. Ciò che appare imperfetto nell’Antico Testamento è dunque non Dio, ma l’espressione della pedagogia mediante la quale Dio guida Israele e poi tutto il genere umano verso la redenzione effettuata da Cristo e in seguito verso il Regno futuro, che non comporterà la scomparsa del mondo materiale bensì la sua glorificazione; la materia è infatti, per Ireneo, costitutiva della creazione buona voluta da Dio e da lui realizzata con la collaborazione del Figlio e dello Spirito. In tal modo, Ireneo connette organicamente la rivelazione contenuta nelle Scritture d’Israele e quella portata da Gesù, legando l’identità del cristianesimo alla dinamica che attraverso la prima conduce alla seconda e poi al compimento del destino glorioso dell’umanità e della creazione tutta, contro i progetti di gnostici e marcioniti che legano l’identità cristiana all’opposizione tra le due rivelazioni e tra le divinità delle quali quelle sono espressione.
Il giudaismo godeva dell’esenzione dal culto imperiale: gli ebrei offrivano ogni giorno nel Tempio un sacrificio al loro Dio per l’imperatore, ma non offrivano sacrifici ad altre entità divine, come la dea Roma o il genio dell’imperatore. Anche la rivolta in terra d’Israele contro Roma, che condusse a una repressione spaventosa e alla distruzione definitiva del Tempio nel 70, non provocò la soppressione dei privilegi degli ebrei della Diaspora. Ora, a mano a mano che le comunità dei credenti in Gesù agli occhi esterni non si confondevano più semplicemente con il giudaismo, diventavano sospette a chi ne conosceva l’origine, dato che il fondatore era stato condannato a morte e giustiziato in una provincia romana, la Giudea, come pretendente messianico, cioè come ribelle all’autorità romana, ciò che Gesù senza dubbio non aveva voluto essere ma che faceva considerare lui e i suoi seguaci come colpevoli di uno tra i crimini più aborriti dai Romani. Di fatto, per quanto ne sappiamo, i seguaci di Gesù, pur coltivando, come ora accenneremo, atteggiamenti molto diversi nei confronti del potere romano, non aderirono a progetti di ribellione politica; anzi, come abbiamo detto, il gruppo di Gerusalemme si dissociò dalla rivolta del 66 trasferendosi a Pella, e il leader della seconda rivolta del 132-135, Simone bar Kokhba, sembra aver perseguitato gli ebrei credenti in Gesù che non volevano, ovviamente, riconoscere le sue pretese messianiche.
Paolo, persuaso che il ritorno di Cristo fosse prossimo, riteneva che non si dovesse cercar di mutare la situazione in cui ciascuno si trovava al momento dell’adesione alla fede in Cristo, per esempio non cercare di liberarsi se si era schiavi (1 Corinzi 7,20-22). In un passo famoso della lettera ai Romani (13,1-7), Paolo esorta a sottomettersi alle autorità civili, perché esse hanno ricevuto da Dio il loro potere per ricompensare le buone azioni e punire le cattive. Per lui, la città dei cristiani è nei cieli (Lettera ai Filippesi 3,20-21), il che implica una distanziazione interiore rispetto alla comunità politica. L’ordine politico esistente non è visto da lui come in sé cattivo, ma come provvisorio e comunque praticamente indifferente per i credenti, i quali compiono il bene grazie all’azione dello Spirito di Dio in loro e non perché vi sono obbligati dalla legge dello stato. Questa posizione si sarebbe prolungata negli autori di “apologie” cristiane del II secolo, quali Aristide di Atene (verso il 125), Giustino Martire (verso il 160), Taziano (verso il 170), Atenagora di Atene (probabilmente nel 177), Teofilo d’Antiochia (verso il 180), Tertulliano (in latino, verso il 200), l’autore anonimo dello scritto A Diogneto (verso il 200?), che si sarebbero sforzati di convincere – in maniera esplicita o meno – le autorità romane e le classi dirigenti che i precetti di Dio rappresentano il modo migliore di garantirsi sudditi leali e ligi alla morale voluta da Dio, cioè a quella che dovrebbe governare ogni società umana e che il buon sovrano dovrebbe cercar di far rispettare dai suoi sudditi. La lealtà nei confronti dell’imperatore compare in numerosi testi cristiani delle origini e si esprime – come già nel giudaismo – nell’esortazione a pregare per le autorità (Prima lettera di Pietro 2,13-17; Prima lettera a Timoteo 2,1-2; Lettera a Tito 3,1; Lettera di Clemente di Roma ai Corinzi 61).
La lettera di Paolo ai Romani risale ai primi anni del regno di Nerone (imperatore dal 54 al 68), quando questi sembrava ancora illuminato. Nel luglio 64 circolò la voce che l’incendio che aveva distrutto buona parte di Roma fosse stato voluto da Nerone al servizio dei suoi progetti urbanistici; l’imperatore sviò allora da lui i sospetti facendoli ricadere sui cristiani (Tacito, Annales 3, 44, 2-5; Svetonio, De vita Caesarum, Nero 16, menziona il supplizio dei cristiani, ma non in rapporto con l’incendio di Roma, da lui trattato al c. 38). Il delitto imputato ai cristiani era, sembra, quello d’incendio e non quello di cristianesimo, allora probabilmente non ancora definito malgrado il parere di alcuni storici moderni. Ma i cristiani erano un buon bersaglio per l’odio: ce n’erano di agiati, ma la maggior parte di loro proveniva da strati sociali modesti e il proselitismo in tali ambienti poteva destare sospetti nelle autorità e negli amanti dell’ordine sociale. Secondo Tacito, erano detestati per i loro abominii, il che rinvia a un’ostilità diffusa tanto presso le classi superiori che nel popolo. Li si accusava di “odio per il genere umano”, accusa già tradizionale nei confronti degli ebrei e che colpiva persone o gruppi che si segnalavano per tratti particolari del loro comportamento. I cristiani non divulgavano le forme e i contenuti del loro culto (Giustino lo farà nella sua Prima Apologia verso il 160, descrivendo battesimo e celebrazione eucaristica, anche per controbattere i sospetti). Questo faceva nascere calunnie fondate su voci che deformavano i pochi elementi che si credeva di conoscere. I cristiani celebravano pasti in comune: ciò era tipico di tutte le associazioni, le quali però destavano sempre preoccupazioni presso gli imperatori quali potenziali focolai di resistenza politica, come documenta per esempio il decimo libro della corrispondenza di Plinio il Giovane con l’imperatore Traiano che lo aveva inviato come proprio rappresentante in Bitinia intorno al 115. Ma poiché risultava che i cristiani si nutrissero in tali circostanze del corpo e del sangue di Gesù, li si accusò progressivamente, nel II secolo, di commettere l’antropofagia e persino l’infanticidio (crimini di cui si accusavano tradizionalmente i nemici dell’ordine pubblico); poiché si chiamavano tra di loro fratelli e sorelle, li si accusò di praticare l’incesto. Ma le testimonianze disponibili al riguardo non sono anteriori al II secolo.
Nerone non scatenò dunque una vera persecuzione contro i cristiani considerandoli criminali in quanto tali, ma contro i cristiani di Roma in quanto incendiari. Questo contribuì però ad aumentare la visibilità dei cristiani e a segnalarli all’odio pubblico. D’altra parte, agli occhi dei cristiani la figura di Nerone assunse tratti particolarmente negativi e finì col divenire, già prima della fine del I secolo, l’emblema del nemico di Dio che già l’immaginario del giudaismo attendeva per gli ultimi tempi del mondo (e per il quale anche gli ebrei ricorsero, tra l’altro, alla figura di Nerone, che vedevano come incarnazione del male per il suo matricidio, per il tentativo di tagliare l’istmo di Corinto che apparve come un’affermazione di smisurato potere e una sfida a Dio e anche perché sotto il suo regno si era iniziata la repressione della rivolta giudaica). Certi ambienti cristiani videro nel regno di Nerone l’inizio dell’epoca di sciagure attesa prima del giudizio finale: Nerone apparve come l’ultimo e sommo strumento della potenza diabolica. Dopo la sua morte nel 68, si sparsero voci secondo le quali non era morto ma era fuggito tra i Parti – i nemici tradizionali di Roma sulla frontiera orientale – donde sarebbe tornato alla testa di un esercito per saccheggiare Roma e riconquistare il potere. Ebrei e cristiani ripresero questa idea e l’ampliarono in una dimensione mitica quando, dalla fine del I secolo, l’attesa di un ritorno di Nerone ancora vivo non fu più realistica. Cerchie ebraiche e cristiane immaginarono che Nerone sarebbe tornato in vita, eventualmente come incarnazione del diavolo che avrebbe cercato di scatenare l’ultimo attacco contro i fedeli del vero Dio prima di essere definitivamente liquidato alla venuta del Regno di Dio). Nel cristianesimo, i primi testi che alludono al ritorno di Nerone sono l’Apocalisse di Giovanni 17,11 e l’Ascensione di Isaia 4,2-12, dove l’attività di Nerone ritornato è descritta in termini fortemente mitologici.
Per l’epoca dell’imperatore Domiziano (81-96), alcuni storici romani menzionano la condanna a morte del cugino dell’imperatore, il console Flavio Clemente, con l’accusa di “mancanza d’iniziativa” (inertia: così Svetonio, De vita Caesarum, Domitianus 15,1) ovvero di “ateismo” (atheotês: così Cassio Dione, Storia romana 67,14,1-2), accusa che avrebbe colpito anche dei simpatizzanti per il giudaismo. Ai primi del IV secolo, lo storico cristiano Eusebio di Cesarea interpretò queste notizie nel senso di una condanna per cristianesimo (Storia ecclesiastica 3,18,4) e studiosi moderni accettano questa idea, ma le testimonianze non sono chiare e in ogni modo sembra difficile parlare di una persecuzione dei cristiani sotto Domiziano, benché ci siano stati certamente episodi locali d’intolleranza, attestati anche dall’Apocalisse di Giovanni (per esempio 2,13, a Pergamo).
Un altro caso divenuto celebre è quello documentato dall’intellettuale romano Plinio il Giovane, nella lettera, a cui abbiamo già accennato prima, inviata all’imperatore Traiano mentre era suo legato in Bitinia (10,96), verso il 112-11. Gli vengono denunziati dei cristiani ed egli, non sapendo su quali criteri giudicarli, decide di chiedere loro di sacrificare davanti alla statua dell’imperatore, perché ha sentito dire che i cristiani non lo farebbero mai. Quanti rifiutano vengono condannati a morte per ostinata disobbedienza all’autorità, dunque non per il fatto stesso di essere cristiani, anche se proprio da questo dipende il loro rifiuto. In seguito a tali provvedimenti, aggiunge Plinio, l’adesione al cristianesimo sembra essersi ridotta, e il mercato della carne proveniente dai sacrifici agli dèi tornato a fiorire. Traiano gli risponde (lettera 10, 97 dell’epistolario di Plinio) approvando la sua scelta, ma disponendo che non si dia seguito alle denunce anonime. Poiché Plinio menziona cristiani che avrebbero lasciato il cristianesimo vent’anni prima nella stessa regione, tale notizia è stata messa in rapporto con una persecuzione di età domizianea. Altre testimonianze cristiane sono state addotte per appoggiare tale tesi (un frammento dell’Apologia di Melitone di Sardi, scritta verso il 170, conservato da Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica 4,26,9; un passo dell’Apologetico di Tertulliano di Cartagine 5, 4, della fine del II secolo), ma nessuna di esse prova una persecuzione generale. Tale situazione provocò peraltro presso i cristiani reazioni diverse. La lettera di Clemente di Roma ai Corinzi, composta probabilmente verso la fine del regno di Domiziano, contiene una preghiera per le autorità politiche (60-61), mentre, negli stessi anni, l’Apocalisse di Giovanni vede nell’impero romano la manifestazione della potenza di Satana (c. 13, dove le due bestie rappresentano con ogni probabilità l’impero e il sacerdozio del culto imperiale; c. 17-18, che predicono il crollo dell’impero), proibendo ai cristiani ogni compromesso con la società imperiale e in particolare il consumo di carne proveniente dai sacrifici, un tema su cui la posizione di Paolo era stata diversa (Prima lettera ai Corinzi 10). Nell’impero e in particolare nella divinizzazione dell’imperatore, Giovanni scorge un potere totalitario emanante direttamente dal diavolo, il luogo stesso della concentrazione dell’opposizione satanica a Dio; fino al ritorno di Cristo, il destino dei credenti in Cristo è per lui l’emarginazione, la persecuzione e il martirio.
Alcuni episodi di martirio sono menzionati dalle fonti per i regni successivi: sotto Traiano (98-117), oltre ai processi di Plinio in Bitinia, vi sono l’esecuzione di Simeone, leader della comunità giudeocristiana di Gerusalemme (Eusebio, Storia ecclesiastica 3, 32, 6, sulla base di Egesippo che scrive verso il 170) e l’esecuzione di Ignazio di Antiochia e alcuni altri cristiani (Ireneo, Contro le eresie 5, 28, 4). Sotto Adriano (117-138) e Antonino Pio (138-161) si situano il martirio di Policarpo di Smirne (probabilmente nel 155), di cui resta un resoconto dettagliato, e l’esecuzione di quattro cristiani a Roma narrata da Giustino Martire, Seconda Apologia 2. L’imperatore Marco Aurelio (161-180), filosofo stoico, non ebbe alcuna simpatia per i cristiani: nei suoi Pensieri (11, 3) li evoca per stigmatizzare quella che egli considera la loro stupida testardaggine. Il suo maestro di retorica, Frontone, scrisse contro i cristiani, prestando fede alle dicerie popolari, un’opera di cui un’apologia cristiana in latino, l’Ottavio di Minucio Felice, ci ha conservato il contenuto. E’ sotto Marco Aurelio, verso il 178, che il filosofo Celso ha pubblicato il suo Discorso vero, aspra ma informata critica di Gesù e dei cristiani in due libri. Giustino fu martirizzato con altri a Roma tra il 163 e il 167. Non ci furono però iniziative dirette dell’imperatore contro i cristiani; ma un editto del 176/177, che proibiva l’introduzione di nuovi culti, può aver servito a dei magistrati locali per prendere misure contro i cristiani. Gli attacchi contro questi ultimi furono favoriti dall’insicurezza crescente nell’impero: le invasioni barbariche sul Danubio, un’epidemia e la carestia misero fine a un periodo di pace e prosperità, le folle cercavano capri espiatori e i cristiani apparivano particolarmente indicati, perché li si considerava come persone che si separavano dalla società e ne erano dunque nemici. A Lione e Vienne, probabilmente nel 177, scoppiò un violento pogrom contro i cristiani, tollerato e poi sostenuto dalle autorità; Eusebio di Cesarea (Storia ecclesiastica 5, 1) ha conservato la lunga lettere inviata da quelle due comunità alle chiese d’Asia con il racconto degli avvenimenti. Abbiamo anche il verbale, in latino, dell’interrogatorio di un gruppo di cristiani di Scili, in Africa del Nord, che furono condannati e giustiziati il 17 luglio 180. La prima persecuzione generale contro i cristiani, quella di Decio, è ancora lontana, ma gli episodi locali proseguiranno. Né questi, né le persecuzioni estese a tutto l’impero riusciranno tuttavia a frenare l’espansione della nuova religione.