Il crocevia di Damasco
Il conflitto interno della Siria nasconde interessi molto più ampi che s’intrecciano sul piano internazionale: l’espansionismo di Cina e Russia trova appoggi in Iraq, Iran, Siria e Libano, mentre Turchia, Israele e Arabia Saudita si trovano allineati nella comune alleanza con gli Stati Uniti.
Com’è avvenuto nell’ultimo secolo, la Siria continua e continuerà a essere al centro degli equilibri internazionali, influenzati fortemente dagli esiti nel medio e nel lungo periodo del logorante e sanguinoso conflitto in corso nel paese. Quella siriana è però solo una delle carte disposte su un tavolo assai più ampio, dove i principali attori regionali (Israele, Iran, Arabia Saudita, Turchia) fanno il loro gioco all’ombra di una partita tra Cina, Stati Uniti e Russia.
L’espansionismo economico e politico di Pechino verso Ovest e l’intenzione di Mosca di non perdere l’influenza sui territori stretti tra i 3 mari (il Caspio, il Mediterraneo e il Golfo) hanno da tempo promosso l’Iran a rappresentante degli interessi cinesi e russi fin verso Cipro, passando per le province arabe dell’Iraq centro-meridionale, per la Siria della famiglia Assad e per il Libano dominato da Hezbollah.
A questa croce, che da Nord scende verso Sud (Caucaso-Golfo) e che da Est si spinge verso Ovest (Iran-Libano), si contrappone la convergenza di interessi tra Turchia, Israele e Arabia Saudita, divisi su numerose e cruciali questioni ma uniti dalla comune alleanza con gli Stati Uniti in funzione anti-iraniana, anti-russa e anti-cinese.
Come l’Iraq, il Libano e la Giordania, la Siria è così parte di una ‘Terra di mezzo’ araba solo formalmente organizzata in Stati nazionali e da decenni dilaniata da guerre intestine, spesso a sfondo confessionale, non sempre guerreggiate ma che contribuiscono a impoverire il patrimonio socio-culturale, demografico ed economico di territori per 4 secoli e fino ad appena 100 anni fa dominati dalla Pax ottomana.
Sin dalla metà degli anni Novanta, ma in particolare con il passaggio di consegne del potere, nel 2000 a Damasco, tra il padre Hafez al-Assad e il figlio Bashar al-Assad, l’Iran ha consolidato e ampliato in Siria la sua presenza economica, militare, diplomatica, politica e religiosa. Lo stesso potere del giovane raìs di Damasco, gradualmente indebolito al suo interno e sul piano regionale, è stato puntellato in modo sempre più robusto da interventi della Repubblica islamica, i cui organi paramilitari e di intelligence sono oggi ai vertici, dietro le quinte, del sistema di sicurezza di quel che rimane del regime siriano. L’obiettivo iraniano è mantenere intatto il braccio est-ovest della croce russo-cinese e continuare così a proporsi come agente di Mosca e Pechino nel Mediterraneo. Il destino politico e militare del presidente siriano Bashar al-Assad – il più potente dei signori della guerra attualmente operativi nel conflitto – è legato indissolubilmente alla salvaguardia degli interessi iraniani e dei suoi alleati. Se Damasco dovesse cadere sotto i colpi di un’avanzata del variegato fronte dei ribelli dalla regione meridionale di Dar’a, confinante con la Giordania e dove gli agenti sauditi e americani sono più attivi, è di fatto già pronta l’opzione che prevede la creazione, sulla costa siriana, di un
‘Assadstan’ a maggioranza alawita – branca dello sciismo a cui appartengono gli Assad e i clan alleati al potere da mezzo secolo – collegato con la Biqaa libanese dominata da Hezbollah e protetta dalla flotta russa nei porti di Latakia e Tartus. La successione, negli ultimi 2 anni di guerra, di numerosi e drammatici eventi di cronaca conferma l’intenzione del regime e dei suoi sponsor di volersi ritagliare un’area sicura tra la costa e il nodo di Homs.
Se lo scenario dovesse realizzarsi in modo concreto, per il fronte rappresentato dall’Iran sarebbe però una vittoria a metà: l’accesso al mare e ai terminali energetici del Mediterraneo sarebbe assicurato, mentre il passaggio attraverso la Siria centrale – e in particolare attorno all’oasi di Palmira/Tadmur – dei gasdotti e oleodotti regionali potrebbe finire sotto il controllo del fronte sostenuto dagli Stati Uniti.
In questo quadro, gli interessi di Israele continuano a essere dominati dalla duplice esigenza di difendere il proprio fortino in un territorio considerato ostile e di rafforzare la propria influenza economica, militare e politica in tutta la regione. Nella partita siriana, lo Stato ebraico vede prima di tutto i pericoli insiti in una caduta del regime di Damasco: gli Assad sono da decenni il ‘miglior nemico’ di Israele, avendo assicurato sicurezza e stabilità lungo il confine nord-orientale delle Alture del Golan, avendo usato la ‘carta’ libanese solo a intermittenza e senza mai tentare di affondare colpi mortali, avendo contribuito a frammentare e indebolire il fronte della resistenza palestinese. Nel corso degli oltre 2 anni e mezzo di rivolta popolare siriana – repressa nel sangue e poi organizzatasi in resistenza armata, gradualmente degenerata in guerra intestina col coinvolgimento di un numero sempre maggiore di attori regionali e internazionali – Israele ha mantenuto un atteggiamento più che prudente. Si è limitato a rafforzare le difese lungo la linea armistiziale sul Golan e a mettere in guardia le cancellerie occidentali dal pericolo che i gruppi di ribelli anti Assad, operativi a ridosso delle Alture e forti di una retorica esplicitamente anti-israeliana, possano esser lasciati liberi di agire.