Il culto dei monumenti
Patrimonio e patrimoni
Poco più di un secolo fa, il grande storico dell’arte Alois Riegl tracciò l’origine e lo sviluppo del «culto dei monumenti», individuando i valori più adatti alla sensibilità del Novecento nascente, soprattutto pensando ai nuovi ceti emergenti. Questa laica religione del passato ha subito nel passaggio al nuovo millennio un profondo, forse per ora poco avvertito, mutamento. Dato per scontato e ormai consolidato il ruolo che riveste la cultura di massa nella condivisione come nella distorsione dei valori del patrimonio monumentale, sono le stesse radici umanistiche poste a fondamento della conservazione e del restauro – termini non coincidenti, ma che qui si avvicinano in forza della comune storia culturale – a essere erose se non addirittura ignorate e superate.
Naturalmente, stando a quel che appare, l’interesse per il restauro e la conservazione delle opere d’arte e d’architettura non è mai stato forse così evidente nell’opinione pubblica. E la media degli interventi, pur certamente criticabile almeno in Italia, ha ormai raggiunto, tutto sommato, un livello ‘medio’, nel quale sono possibili confronti e scambi di esperienze; e molte operazioni sono ormai acquisite e condivise in diversi Paesi del mondo, come la pulitura della pietra negli edifici monumentali o il trattamento dei ruderi o il restauro degli affreschi. È innegabile, tuttavia, che la trasmissione al futuro del patrimonio culturale non sia più sentita come un atto fondante delle società attuali, pur fra mille distinzioni, che vanno dalla inalterabile tradizione italiana alla vivacità dei Paesi asiatici o all’insofferenza per l’eurocentrismo manifestata dai Paesi ex coloniali.
Il ruolo marginale che sembra oggi rivestire la conoscenza del mondo greco e romano a fronte di una conclamata esibizione di simulacri del classico è stato ampiamente analizzato in un saggio di Salvatore Settis (2004): molte sue considerazioni potrebbero valere anche per il settore del restauro, da sempre coinvolto nelle periodiche riemersioni del ‘classico’. Il rischio intravisto da Settis in tale congiuntura non è l’ignoranza delle grandi civiltà del passato, quanto il loro innalzamento a feticci disposti a coprire egemonie culturali o politiche, sempre più esibite nell’attuale periodo di incertezza identitaria. Se è vero che un uso strumentale del restauro è sempre esistito, la tendenza evidenziata da Settis appare oggi portata all’estremo, tanto da allontanare la concretezza dell’opera da conservare dal suo uso nel sistema mediatico.
Questo non significa che i primi anni del 21° sec. non abbiano prodotto opere significative nella difesa e nella trasmissione al futuro del patrimonio architettonico; ma tali realizzazioni sembrano iscriversi in un quadro culturale mutato, in cui giocano fattori come le nuove tecnologie o i Paesi emergenti. Occorre tuttavia anche guardarsi dalla retorica ipermodernista e tenere presente che l’attuale congiuntura si fonda pur sempre sulle esperienze condotte dalla cultura europea; piuttosto, la presa di coscienza di altri restauri può apparire come la nuova frontiera di un umanesimo sempre rinascente.
Le idee e il dibattito in Italia
Per le realizzazioni, ma soprattutto per il dibattito che ne scaturisce, l’Italia continua a offrire un punto di vista di estremo interesse per valutare le innovazioni nella sensibilità contemporanea. Una delle considerazioni ricorrenti è che i primi anni del 21° sec. vedono ridursi i margini di conflitto tra le varie posizioni sul restauro. Le forti contrapposizioni che avevano animato il dibattito, almeno fino agli anni Novanta del 20° sec., sembrerebbero oggi molto sfumate: non perché si registri una sostanziale convergenza su alcuni temi di fondo, ma piuttosto perché la situazione attuale vede più centri decisionali che operano, sia sul piano concettuale sia sul piano concreto, con un pragmatismo di fondo poco incline alle questioni teoriche.
Sono state, e sono ancora, numerose le proposte per riformare o addirittura accantonare le carte del restauro, da quella di Venezia (1964) alla Carta del restauro del 1972, e la stessa Teoria del restauro (1963) di Cesare Brandi, che ha identificato la via italiana al restauro assicurando una certa unità di metodo a interventi diversi, dalle opere d’arte mobili all’architettura. Questa riforma, tante volte invocata, non è mai giunta, forse perché superata nei fatti o a causa della mancanza di idee forti anche nel campo storico-artistico. Malgrado le spinte centrifughe, non si può negare che l’eredità brandiana appaia ancora, almeno a parole, un punto di riferimento evidente, soprattutto in ambito internazionale. La teoria proposta da Brandi ha avuto un notevole seguito in ambito architettonico, poiché postula, insieme al principio di conservazione della materia, la possibilità di restituire l’unità, ancora potenzialmente esistente, nell’edificio da restaurare attraverso un intervento del presente, quindi secondo un linguaggio certamente non prevaricante, ma contemporaneo. In questa prospettiva, il restauro deve seguire i quattro criteri posti a fondamento della Carta del restauro del 1972: distinguibilità, reversibilità, compatibilità e minimo intervento. Si tratta di una posizione rigorosa, ma anche flessibile, capace di accogliere sollecitazioni diverse, dalle scelte minimaliste che giocano sulla presentazione dell’opera, al progetto in cui la componente creativa è più libera, senza preclusioni verso i materiali e le tecnologie contemporanee: su questo fronte, si registra l’interesse crescente della ricerca scientifica a ridurre l’impatto del restauro, attraverso lo sviluppo della diagnostica e la messa a punto di materiali compatibili.
Su un’altra linea teorica l’accentuazione del ruolo della materia e dell’esclusivo valore documentario dell’opera architettonica, ridotto il suo portato estetico a inaffidabili oscillazioni di gusto, privilegia interventi in cui tutte le stratificazioni edilizie sono rispettate ed esibite nella loro autenticità e nelle loro contraddizioni: in questo caso, l’intervento moderno rifiuta ricostruzioni mimetiche e si avvale delle tecniche più aggiornate per la conservazione dei materiali e delle loro forme di deterioramento, viste come documenti di un processo storico. Né mancano architetti restauratori che consapevolmente concepiscono il proprio intervento come ultima stratificazione, quindi con un linguaggio moderno quando non apertamente dissonante, come nel restauro del Palazzo della ragione di Milano, concluso nel 2006 con la messa in opera di una scala esterna che per forma e materiali crea una decisa dissonanza con il paramento laterizio originario (Dal restauro alla conservazione, 2008). Su questa linea si muove anche il restauro, che da poco ha visto concludersi una importante fase di lavori, del Palazzo reale di Milano, profondamente alterato da demolizioni, modifiche e distruzioni: nella sala delle Cariatidi, semidistrutta da un bombardamento durante la Seconda guerra mondiale, è stato conservato l’aspetto di rovina grazie a un intervento di restauro ‘morbido’(2008), curato da Carla Di Francesco e Gisella Capponi, che ha consolidato i materiali senza ripristinare le complesse cadenze settecentesche.
Il primato del valore estetico dell’opera, sull’onda della revisione critica dei linguaggi artistici del Novecento e in sintonia con un mutato sentire dell’opinione pubblica, orienta altri interventi a ristabilire la continuità formale – ma anche strutturale o tipologica – perduta, quindi agendo attraverso integrazioni mimetiche e trascurando la questione della distinguibilità e della reversibilità. In questa tendenza, un ruolo determinante è giocato dalla ripresa di materiali e tecniche tradizionali, che può contare su un ormai affermato filone di ricerca, ma che si scontra con una realtà di cantiere mossa da altre esigenze. Gli interventi attuati di recente che rientrano in questa categoria hanno suscitato ampi dibattiti e richiamato l’attenzione del grande pubblico: la ricostruzione (2004) del teatro La fenice a Venezia, con notevoli differenze rispetto all’edificio distrutto; la cattedrale di Noto (2007); il teatro Petruzzelli di Bari (2008).
La questione del restauro diventa quindi parte di una strategia di riconquista della bellezza del territorio nazionale, con il rischio tuttavia di idealizzare il passato consegnato a una dimensione senza storia e chiusa alla contemporaneità. Erroneamente assimilata al ripristino di origine ottocentesca, questa tendenza si alimenta piuttosto di una netta opposizione ai linguaggi e ai materiali propri dell’architettura contemporanea, secondo una linea sempre presente negli architetti-restauratori italiani: il restauro diventa quindi un altro modo di fare architettura, come postulato da Paolo Marconi, più che un ritorno allo stile originario del singolo edificio. Il restauro della Citroniera e delle Scuderie nella reggia sabauda della Venaria Reale (curato da Marconi, 2008) rappresenta l’esempio più recente di monumento riguadagnato innanzitutto nella sua efficienza estetica.
Il quadro teorico appare in sostanza dominato da una tripartizione di stampo ancora ottocentesco, che rivela una sostanziale stagnazione nel delineare prospettive inedite. Hanno arricchito il dibattito nuovi argomenti provenienti dall’estensione della tutela e del restauro a settori finora esclusi, come l’architettura del 20° sec., il patrimonio di ville e giardini storici, il paesaggio. Gli interventi su opere del ventennio fascista, le più rappresentative dello sforzo di rinnovamento dell’architettura italiana della prima metà del Novecento, hanno riportato l’attenzione su edifici negletti da lungo tempo per questioni ideologiche e adesso rivisitati nei loro valori architettonici e artistici. L’abbondanza di fonti documentarie, la prossimità cronologica e la difficoltà di applicare nozioni come quelle di ‘patina’ o di ‘lacuna’, hanno spinto molti interventi verso il ripristino; ma anche in questo settore, in analogia con quanto avviene nel campo delle arti figurative, si sta giungendo a un apprezzamento sempre maggiore del passato recente nella sua corretta prospettiva storica. Anche nel restauro dei giardini e delle ville, il conflitto fra il ritorno ai valori originari e il rispetto dei nuovi equilibri raggiunti va comunque pensato su organismi che vivono modificandosi continuamente: una situazione complicata dai rapporti con le architetture costruite e in molti casi risolta a favore di una ricreazione – per forza di cose nuova – degli assetti d’impianto.
Alcune esperienze innovative, gestite dal Ministero per i Beni e le Attività culturali o dagli organismi da esso dipendenti, hanno cercato di superare l’impostazione del restauro puntuale e circoscritto ai grandi episodi, per favorire invece un costante monitoraggio del patrimonio, rendendo possibile interventi mirati, continui e a basso impatto.
La Carta del rischio del patrimonio culturale, attivata nel 1996, è un sistema informativo messo a punto dall’Istituto centrale del restauro (ICR) per fornire uno strumento di supporto scientifico e amministrativo all’attività di tutela degli organismi statali e locali. Si riallaccia al concetto di restauro preventivo introdotto da Brandi e alle concrete esperienze guidate da Giovanni Urbani (1925-1994), per spostare l’attenzione sul tema della manutenzione: vera questione centrale del patrimonio storico-architettonico italiano. La mappa segnala, attraverso la sovrapposizione di cartografie informatizzate, il rapporto tra pericolo ambientale e situazioni di rischio per i monumenti: consente quindi di intervenire preventivamente per allontanare dall’opera le condizioni che ne minacciano la conservazione e, soprattutto, costituisce uno strumento per la programmazione a lunga scadenza di interventi di conservazione e manutenzione. Lo strumento fondamentale è un Sistema informativo territoriale (SIT) che integra rappresentazioni cartografiche tematiche a dati alfanumerici. Le evoluzioni più recenti (2002-2005) puntano alla carta della distribuzione dei beni tutelati e alla loro georeferenziazione.
Ma le maggiori novità sono state introdotte recentemente dal Codice dei beni culturali e del paesaggio (d. legisl. 22 genn. 2004 n. 42), che unifica e raccoglie tutte le leggi precedenti in materia. Uno dei punti più discussi riguarda la distinzione fra la tutela, orientata alla conservazione per la società civile e per i fini pubblici, e la valorizzazione che promuove la conoscenza e la migliore utilizzazione del patrimonio, ma anche la promozione e il sostegno agli interventi, con la partecipazione di soggetti privati il cui peso è inoltre rafforzato da fondazioni, associazioni e consorzi ai quali viene affidata la gestione dei beni. In questo orientamento è stata vista la rottura di una secolare impostazione in cui l’azione di tutela veniva demandata all’azione pubblica. Desta perplessità proprio la distinzione fra questi due momenti, la tutela e la valorizzazione, difficili da distinguere con precisione, sia sul piano concettuale sia su quello operativo.
Al centro dell’attività di tutela è posta la conservazione, intesa come finalità da perseguire attraverso atti di prevenzione, manutenzione e restauro. Quest’ultimo è inquadrato come «intervento diretto sul bene attraverso un complesso di operazioni finalizzate all’integrità materiale ed al recupero del bene medesimo, alla protezione ed alla trasmissione dei suoi valori culturali», comprendendo il «miglioramento strutturale» (art. 29, 4° co.) fra gli interventi su edifici in zone sismiche. Tuttavia, l’azione di tutela, che spetta alle Soprintendenze, risulta gravata da ulteriori passaggi burocratici e da norme che penalizzano il soggetto pubblico nel confronto con il privato. A ciò si aggiunga che viene modificato il principio, cardine della legislazione italiana in materia, di inalienabilità dei beni culturali pubblici, che sono ora tutti alienabili, salvo le eccezioni previste dalla legge. Un ulteriore indebolimento dell’azione pubblica si rileva nell’attribuzione alle Regioni di compiti fondamentali che la Costituzione non a caso attribuiva allo Stato e per esso al ministero e ai suoi organi periferici. Le Regioni rischiano così di sostituirsi allo Stato, ma senza un coordinamento preciso.
Il Codice affronta anche la questione del paesaggio, definito come «parte omogenea di territorio i cui caratteri derivano dalla natura, dalla storia umana o dalle reciproche interrelazioni» (art. 131, 1° co.), la cui tutela e valorizzazione è affidata alle Regioni: ma sotto questo aspetto il Codice si rivela debole in più punti, poiché oltre ad abrogare il decreto Galasso (d.m. 21 sett. 1984), che aveva avuto delle buone ripercussioni sulla difesa soprattutto delle coste, riduce il potere di controllo delle Soprintendenze e dello stesso ministero.
Il progetto contemporaneo in contesti storici
Senza appartenere in senso stretto all’ambito del restauro e della conservazione, gli interventi progettati all’interno di contesti storici svelano con immediatezza il ruolo che la cultura contemporanea attribuisce al patrimonio storico. Gli interventi di questo tipo, inoltre, attirano da sempre gli interessi dell’opinione pubblica, come testimoniano i dibattiti degli anni Sessanta egemonizzati dai grandi intellettuali e progettisti dell’epoca.
In Italia il confronto con il passato costituisce una specie di tema obbligato per i progettisti, che oggi manifestano una sempre maggiore insofferenza nei confronti del restauro specialistico di cui si criticano gli esiti deludenti sul piano della qualità architettonica e la scarsa rilevanza nel reale tessuto delle città. Tuttavia, l’inserimento di una nuova costruzione appare generalmente accettabile se avviene in una condizione subordinata al primato dell’opera da conservare: minore consenso riscuotono i casi in cui la preesistenza appare solo come uno spunto progettuale o addirittura viene prevaricata dall’inserto moderno; e le critiche aumentano nel caso di un contesto coerente e vissuto dalla collettività, come i centri storici.
La continuità con le esperienze degli anni Sessanta-Settanta è stata al centro della ricerca progettuale di Giancarlo De Carlo (1919-2005), soprattutto nella sistemazione del convento di San Nicolò a Catania a polo universitario (laboratori, aule per la didattica e auditorium, 1991-2004) qualificata da elementi innovativi come la centrale termica chiusa da pareti a specchio. La tendenza a concepire l’intervento come l’ultima stratificazione nella storia dell’edificio attraversa tutta la carriera di Andrea Bruno (n. 1931), il quale ha curato alcuni importanti allestimenti museali, come, per es., quelli del Museo nazionale del Risorgimento italiano in Palazzo Carignano (iniziato nel 2006 e in corso di completamento) e del Museo d’arte orientale (2008), entrambi a Torino.
Nel panorama contemporaneo va rilevata l’attenzione per interventi che, insistendo su edifici a rudere, lasciano un margine più ampio al nuovo progetto. Rovine, discontinuità, tracce dello scorrere del tempo sono esibite e presentate con un chiaro intento didascalico, in cui gioca un ruolo fondamentale il percorso, svolto con un linguaggio moderno e distinguibile rispetto all’antico. È una modalità frequente nei contesti archeologici, come, per es., nella sistemazione (ultima fase 2005-2007) del complesso dei Mercati di Traiano a Roma, di Riccardo d’Aquino (n. 1957) e Luigi Franciosini (n. 1957). Sembra ridursi al solo percorso la sistemazione del grande palinsesto urbano dell’Ospedale di Santa Maria della Scala a Siena, destinato a museo archeologico, su progetto di Guido Canali (n. 1934) e completato nel 2000: i percorsi sono stati realizzati utilizzando materiali leggeri, passerelle, espositori di legno e impianti a vista, mentre le varie stratificazioni sono state lasciate nella loro presenza anche lacerante: pozzi, cisterne, riprese murarie, aperture in breccia di porte e finestre, squarci, si dispongono così lungo il percorso come in una mappa delle tormentate vicende edilizie del complesso. Seguendo la modalità definita da Canali di «restauro leggero», l’intervento moderno non tenta di ricucire le contraddizioni e le lacerazioni della storia, ma ne favorisce la lettura e la comprensione.
Un posto a parte spetta al percorso progettuale di Giorgio Grassi (n. 1935) che non accetta il resto architettonico come un prodotto del naturale scorrere del tempo, ma come il risultato di una precisa intenzione storicamente determinata, e quindi destinata a essere superata da altri interventi. Grassi sostiene che i monumenti antichi devono essere considerati parti integranti della composizione e come tali completati o ricostruiti, certamente non imbalsamati o lasciati all’intervento specialistico. Nel sito archeologico di Sagunto nei pressi di Valencia, Grassi e Manuel Portaceli Roig (n. 1942) avevano progettato (1985-1993) la ricostruzione in cemento e mattoni del teatro romano nella sua integrità tipologica sui resti antichi per correggerne l’errata interpretazione: nell’aprile 2008, il Tribunal superior de justicia ha richiesto la demolizione dell’inserto moderno, in applicazione della vigente normativa, a testimonianza dell’insoddisfazione che ha accolto il più discusso, forse, degli interventi contemporanei in area archeologica. Le accuse di indifferenza al contesto e di egemonia del nuovo a Sagunto hanno forse influito sulla maggiore flessibilità che mostra invece il progetto per il teatro di Brescia (2000), risultante da una campagna di demolizioni e scavi che ha provocato una lacuna nel tessuto urbano; Grassi propone infatti la ricostruzione solo di una parte dell’edificio di scena, in armonia con il contesto, e la parziale restituzione della cavea in legno, puntando quindi sulla reversibilità, almeno in parte, e sul carattere didattico dell’intervento.
Sulla questione della lacuna verte l’intervento di ricostruzione nelle Scuderie medicee della villa di Poggio a Caiano, vicino Firenze, dove le scelte progettuali sono state affidate a Franco Purini (n. 1941), con Francesco Barbagli e Piero Baroni, mentre la parte strutturale è stata affidata a Carlo Blasi (primo lotto di lavori, 2000; secondo lotto, 2005). Nello squarcio della lacuna creata dall’incendio del 1978, è stato inserito un telaio in cemento armato con funzione di corpo scalare e di grande spazio luminoso, destinato a interrompere la regolarità del partito cinquecentesco originario. Il nuovo inserto non punta al contrasto, ma alla creazione di un nuovo ritmo derivante dalla variazione di quello originario; il trattamento della lacuna è ottenuto rileggendo al di fuori degli schemi il principio della distinguibilità. Emerge in questo modo l’apprezzamento di Purini per l’inattualità degli edifici antichi, considerata come un valore da preservare anche con l’abbandono piuttosto che con l’asettica prassi della conservazione.
La continuità tipologica è perseguita da numerosi operatori, pur nell’ambito dei linguaggi contemporanei, a differenza della linea seguita da Marconi. L’attività di Massimo Carmassi (n. 1943) è fondata sullo studio delle tipologie e delle tecniche tradizionali e sulla ricerca di qualità adatta a rendere abitabili le case dei centri storici italiani. La necessità di richiudere le lacerazioni del tessuto urbano, come nelle case di San Michele in Borgo a Pisa, ridotte a rudere dalla Seconda guerra mondiale e dalle successive demolizioni, ha portato alla ricostruzione (1985-2002) di forti masse murarie segnate dall’uso del mattone e dall’impiego di tecnologie costruttive evolute insieme alla revisione delle tipologie tradizionali. Nei progetti di Carmassi, architetto nei cui lavori è molto sottile il confine tra approccio specialistico al restauro e libertà creativa, l’adattamento agli usi moderni e le addizioni che si rendono necessarie avvengono nell’ottica della trasformazione, ma sempre nel rispetto dell’autenticità del palinsesto: il nuovo è così l’ultimo strato nella successione che costituisce la storia dell’edificio.
Nel 2000 nell’ex oratorio dei Filippini di Bologna, Pier Luigi Cervellati (n. 1936; con Giorgio Volpe e Carlo Dazzi) si è confrontato con una fabbrica dove si intersecano l’originaria architettura settecentesca, i gravi danni causati dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale – che distrussero il tetto, la cupola e gran parte della volta – e le ricostruzioni in cemento armato realizzate, ma non completate, dalla Soprintendenza nel 1955. Con l’evidente obiettivo di conservare l’ultimo documento delle pesanti distruzioni causate dalla guerra, Cervellati ha optato così per un restauro declinato come restituzione dello spazio, ma ha variato l’intervento in funzione delle varie stratificazioni. Di qui la scelta, spiazzante, di conservare la chiesa settecentesca insieme alla struttura incompiuta del 1955, inserendo, per ridisegnare la geometria delle volte perdute, doghe di legno lamellare che lasciano visibili le linee frastagliate del crollo.
Una grande capacità di inserirsi nei vuoti e nelle discontinuità del testo antico è espressa da Werner Tscholl (n. 1955) in molti dei suoi interventi in Alto Adige. A Tubre, vicino a Bolzano, è stata adattata a casa per vacanze (progetto e realizzazione 1998-2000) la torre superstite del castello di Reichenberg, costruito nel 12° sec. a presidio della zona di collegamento tra la Val Venosta e l’Engadina: nei cinque metri di diametro è stata inserita una struttura in acciaio indipendente dalle pareti, articolata così da contenere i gusci di legno dei singoli vani, portare gli impianti e sostenere solai, scale, copertura. L’accento posto sulla reversibilità dell’operazione è forte, sebbene il risultato finale sia tale da celare i principi sottesi. Lo stesso Tscholl ha adeguato il castello di Fürstenberg (1997-1999 e 2003-2009) a Burgusio alle diverse esigenze della scuola agraria, accostando volumi nuovi alle murature esistenti, realizzati impiegando materiali nuovi come acciaio zincato e cemento grezzo.
Criteri e materiali nuovi nel consolidamento
Dopo decenni in cui il restauro delle strutture veniva effettuato per mezzo di reticoli cementati, pareti armate o cappe estradossali, sulla scorta del modello delle strutture a telaio in cemento armato, il consolidamento ha assunto una maggiore autonomia scientifica e progettuale, tanto da configurarsi come una disciplina autonoma. La difficoltà di intervenire sull’edilizia storica con gli strumenti della scienza delle costruzioni venne sancita già nel 1986 dall’introduzione della categoria degli ‘interventi di miglioramento’, con l’esplicita richiesta di mantenere inalterato lo schema statico originale. Successivamente, e fino a oggi, le Norme tecniche per le costruzioni in zone sismiche (d.m. 16 genn. 1996) e le Istruzioni generali per la redazione dei progetti di restauro nei beni architettonici di valore storico-artistico in zona sismica (circolare ministeriale 28 nov. 1997 n. 564) hanno orientato gli interventi in analogia con lo schema strutturale e con il sistema costruttivo originario: opportuni «codici di pratica» calati nelle differenti realtà locali richiamano l’importanza della «regola d’arte», stabilita dalla manualistica ottocentesca, anche nel definire i parametri di resistenza delle strutture murarie antiche. Un ulteriore passo in avanti verso una maggiore sensibilità nei confronti delle strutture appare nelle Linee guida per la valutazione e riduzione del rischio sismico del patrimonio culturale, pubblicate come direttiva del presidente del Consiglio dei ministri (12 ott. 2007), mirate alla valutazione finale sulla sicurezza e la conservazione dei beni architettonici a seguito dell’intervento di miglioramento sismico, evitando una dannosa estensione dei metodi previsti per gli edifici non tutelati.
Tuttavia il livello generale degli interventi è ancora molto basso. Le ricerche di Antonino Giuffrè, di Salvatore Di Pasquale, di Edoardo Benvenuto, orientate a intervenire sull’edificio secondo la logica strutturale che gli è propria, faticano a essere sviluppate e applicate; e la qualità dei consolidamenti è ancora molto discutibile, come nell’applicazione a tutt’oggi frequente in alcune regioni di cordoli sommitali in cemento armato, che in molti casi gravano sulla struttura fino a renderla più vulnerabile alle sollecitazioni e ai sismi, invece di rafforzarla.
Con grande entusiasmo, e forse con troppo rapida accettazione, nel rinforzo delle strutture murarie è stata accolta l’applicazione di materiali compositi, come le fibre rinforzate a matrice polimerica (fiber reinforced polymer), fra cui quelle di carbonio e quelle aramidiche. Si tratta di fibre, cioè di tessuti, che vengono resi aderenti alla compagine muraria con resine apposite e consentono l’aumento della resistenza meccanica con un ridotto impatto visivo: possono infatti essere nascoste sotto l’intonaco o possono essere applicate in zone, come gli estradossi delle volte, normalmente non visibili. La tenuta delle fibre dipende comunque in gran parte dalla modalità e dall’accuratezza dell’esecuzione; esse sono comunque di difficile reversibilità. Nella basilica superiore di San Francesco ad Assisi, nel corso del restauro, iniziato a seguito del terremoto del 1997 e conclusosi nel 2006, sono state adoperate le fibre rinforzate per ridurre il pericolo di crollo nelle volte trecentesche: dopo aver rimosso il peso dei rinfianchi, pari a circa 1000 t per l’intera basilica, si è passati alla chiusura delle lesioni e alla creazione di un’ossatura all’estradosso con tessuti di fibra di carbonio, in grado di prevenire nuove lesioni in occasione di futuri terremoti. Le fibre rinforzate sono state usate anche su murature in elevazione, in molti casi, come nel timpano della biblioteca di Sant’Antonio a Padova (2001), nel restauro delle Mura augustee a Fano (2000-2003), nel consolidamento dell’Albergo dei poveri a Napoli (iniziato nel 2002), in particolare nello snodo tra volte e muri. Nel restauro delle Scuderie della villa medicea di Poggio a Caiano, oltre alla struttura in cemento armato introdotta nella lacuna dell’organismo architettonico, si è reso necessario il consolidamento, realizzato da Blasi, delle crociere del piano terra, per la destinazione della struttura a un uso pubblico, con nastri in fibra di carbonio, che hanno permesso di potenziare fino a tre volte la resistenza delle murature.
Un passo avanti nella riduzione dell’invasività dell’intervento statico si ha con la protezione passiva delle strutture, cioè con quei dispositivi che hanno lo scopo di ridurre o addirittura eliminare le deformazioni indotte sulle strutture dai terremoti. Le tecniche principali riguardano l’isolamento sismico degli edifici e la dissipazione. Nel primo caso si tratta di creare delle discontinuità, generalmente in corrispondenza delle fondazioni, con isolatori costituiti da un cuscino in gomma o neoprene tra due piastre di acciaio, per ridurre la rigidezza dell’edificio. I dissipatori sfruttano invece le proprietà plastiche o viscose di un materiale posizionato in un punto della struttura dove si verifica uno spostamento relativo fra le parti. Nella basilica di San Francesco di Assisi, in corrispondenza dei timpani dei transetti, sono stati posti in opera dispositivi fabbricati con leghe ‘a memoria di forma’ (memory shape alloys) dotate di particolari proprietà pseudoelastiche che permettono uno spostamento fra le parti, durante un terremoto, senza che si verifichino crolli.
Un valido risultato è stato conseguito nell’intervento sulla stabilità della Torre di Pisa, diretto da un comitato di esperti presieduto da Michele Jamiolkowski (n. 1932). Si tratta di uno degli interventi più significativi di una rinnovata via italiana al restauro, per la soglia minima di invasività e per il rispetto sia della storia strutturale dell’edificio sia del contesto in cui è inserito. Inizialmente, la pendenza della torre, che aveva conosciuto un sensibile e allarmante incremento, è stata ridotta tramite l’applicazione temporanea di tiranti di acciaio e contrappesi di piombo (fino a 900 t). Anche a seguito delle importanti esperienze condotte sul patrimonio architettonico di Città di Messico, colpito da estesi fenomeni di subsidenza del suolo, si è deciso di procedere a mirate sottrazioni di terreno mediante sottoescavazioni capaci di arrestare l’incremento del fuori piombo dell’edificio. La base è stata inoltre consolidata per mantenere in sicurezza la torre per almeno altri tre secoli, permettendo così l’accesso ai numerosi visitatori. Riaperta nel dicembre 2001, nel marzo 2008 la torre ha raggiunto il livello definitivo di consolidamento sotto il profilo dell’inclinazione, tornato a essere di 3,99 m.
La diagnostica e le tecnologie digitali
La riduzione dell’impatto e la ricerca del minimo intervento hanno determinato un ulteriore raffinamento degli strumenti diagnostici, già da tempo a disposizione degli operatori. Se è difficile rendere un quadro sia pure generale della situazione, va almeno ricordato il ruolo degli strumenti informatici che dalla fase diagnostica e conoscitiva allargano la loro influenza sull’intero processo conservativo e sulla stessa ricezione del passato. I mezzi informatici stanno, infatti, ormai da tempo offrendo un nuovo approccio alla conservazione: sia come prefigurazione di un’ipotesi di intervento condotta su una riproduzione digitale sia come strumento d’accesso a dati altrimenti illeggibili.
Gli sviluppi più recenti si spingono, oltre alla catalogazione e alla determinazione dello stato di conservazione, alla reintegrazione pittorica e alla simulazione di quella architettonica messa a disposizione del fruitore. Grazie all’evoluzione delle tecnologie di acquisizione ed elaborazione digitale di immagini, la ricerca giunge oggi a risultati molto vicini al dato assoluto (rilievo condotto per mezzo di laser scanner tridimensionali, con la recente e decisiva semplificazione delle operazioni di postprocessamento dei dati) e può contare sul sostegno di software che consentono il completo controllo di qualsiasi analisi e trasformazione dell’immagine acquisita. Questa diventa riproduzione dell’originale in relazione allo stato del documento e può accogliere un programma d’intervento che giunga all’ottimizzazione qualitativa e quantitativa delle informazioni presenti nel documento, per proseguire in una fase successiva verso la simulazione di una o più soluzioni possibili.
Metodi di analisi fondati sull’elaborazione numerica (image processing) consentono di desumere dall’immagine informazioni cromatiche, bordi e contorni degli elementi strutturali, fino alle alterazioni (lacune, crepe, lesioni). Diventano possibili per via digitale operazioni di pulitura, di risarcimento delle lesioni, di trattamento delle lacune, di recupero dei valori cromatici, di rimozione di aggiunte fino alla reintegrazione dell’immagine; operazioni che si fanno guida e premessa a un possibile intervento reale sulla materia.
Dopo le applicazioni nella ricomposizione degli affreschi della basilica superiore di San Francesco ad Assisi, crollati in seguito al sisma del 1997, una convincente applicazione della via digitale al restauro, condotta dal dipartimento di Fisica dell’Università di Padova (2001-2006), ha avuto per oggetto la ricomposizione dei frammenti degli affreschi di Andrea Mantegna della cappella Ovetari nella chiesa degli Eremitani a Padova, distrutti dalla Seconda guerra mondiale e mai ricomposti. Data l’impossibilità di procedere a un intervento di tipo tradizionale, a causa della perdita della maggior parte del dipinto e dell’eccessiva frantumazione degli oltre settantamila frammenti (le cui dimensioni erano tali da non permettere l’individuazione di orientamento e posizione), la digitalizzazione delle foto anteriori alla distruzione è diventata guida per la messa a punto di un algoritmo finalizzato a localizzare i singoli elementi sulla base delle caratteristiche cromatiche, morfologiche e perfino di orientamento, individuando un’area circoscritta di possibili collocazioni sulla parete. Alla successiva valutazione del restauratore è spettata l’individuazione della posizione giusta tra quelle proposte al fine di controllarne la congruenza, e il frammento è stato virtualmente ricollocato al proprio posto. Fra i meriti dell’operazione vanno segnalati la valutazione preventiva dei risultati, la contrazione dei tempi di lavoro, la salvaguardia dei frammenti cui si è evitata una ulteriore manipolazione.
Oltre l’eurocentrismo
Il graduale superamento della visione eurocentrica è iniziato molto tempo fa, ma ha avuto in questo inizio di secolo un’accelerazione. La crescita economica e culturale in molti Paesi ha fatto sì che si sia passati dall’accettazione di criteri e tecniche provenienti dall’Europa alla ricerca di principi, legati ad altre posizioni culturali, con l’effetto non di superare o smentire il portato europeo, ma di confinarlo in un dato ambito geografico. Un documento innovativo, aperto alla pluralità culturale e contemporaneamente al ruolo del significato del patrimonio per i gruppi di riferimento, è la Burra charter (1999, nuova ed. 2004), messa a punto per il patrimonio anche indigeno dell’Australia. La consapevolezza di tale situazione sembra ormai affermarsi nella stessa Europa, come nella Carta di Cracovia (2000), proposta esplicitamente come un aggiornamento e una proiezione verso il futuro della Carta di Atene (1931) e di quella di Venezia (1964). Il testo, che concentra il dibattito fra vari studiosi e organizzazioni internazionali, pone l’accento sul carattere «dinamico» del patrimonio culturale, propiziando la formazione di strumenti e criteri adatti alle diverse situazioni, soggetti a continui processi di mutamento: il riferimento è esteso anche alla variabile identificazione del patrimonio stesso, ammettendo una pluralità di criteri di valutazione. Altra novità del documento è l’importanza assegnata al concetto di memoria, in cui si radicano le ragioni della conservazione. La memoria, qualità del soggetto che fruisce e non parametro di misurazione degli eventi, è vista come attività costitutiva dell’essere umano e valore applicabile in una dimensione ormai multietnica.
Analoghi mutamenti sono riscontrabili nell’atteggiamento dei Paesi di cultura araba, concretizzatosi nei documenti dell’ALECSO (Arab League Educational, Cultural and Scientific Organization), un’organizzazione nata nel 1970. Lo sforzo in atto punta a conservare l’eredità culturale dei Paesi arabi in quanto parte di una continua mutazione, in equilibrio tra apertura al cambiamento e conservazione della specificità. Anche in questo caso si giunge a una visione dinamica del patrimonio che viene considerato non un complesso di oggetti chiuso in una dimensione statica, ma un’espressione viva, da cui attingere anche per creare nuove forme, con l’obiettivo di proiettare il passato nella vita contemporanea.
Su questa linea si muove anche la Convention on the protection and promotion of the diversity of cultur-al expressions (2005) dell’UNESCO (United Nations Educational Scientific and Cultural Organization), che riconosce la diversità culturale come un patrimonio, analogamente a quanto affermano le scienze naturali sulla biodiversità; fatto ancor più importante, la convenzione riconosce la necessità di conservare attività, beni ed espressioni culturali in quanto portatori di identità, di valori e di senso, attribuendo agli Stati sovrani il diritto di promuovere e proteggere le diversità culturali, in un’ottica di sviluppo allargato a tutte le classi e compatibile con le risorse naturali.
Distruzioni e ricostruzioni
La sfida dell’identità, molto forte in questi ultimi anni, ha portato spesso il patrimonio monumentale sulle prime pagine dei giornali e all’attenzione del grande pubblico. Fin dal 19° sec., il restauro è stato uno strumento di nation building per la sua attitudine a forgiare l’immagine artistica, e quindi culturale e anche politica, di diverse nazioni d’Europa. A fronte della crisi del concetto di Stato-nazione, si pensava che tale ruolo potesse affievolirsi, ma ha preso nuovo vigore dai temi identitari. Il patrimonio storico-architettonico ha infatti un forte valore aggregante, dato che costituisce il panorama costruito e quindi anche immaginario e visivo – si pensi, per es., al ruolo di cinema e televisione – delle tante patrie, piccole e grandi. Molti monumenti sono stati quindi vittime di tali conflitti e il loro restauro è stato visto come una potente azione di compensazione di tali ferite. Va ricordato che il secolo si è aperto con le luttuose immagini del crollo del World Trade Center di New York (2001), mostrando in maniera drammatica la vastità di significati che un’opera architettonica può veicolare. Proprio il dibattito che ha preceduto la scelta di ricostruire sulla base di un nuovo progetto dedicando un memoriale alle vittime (Daniel Libeskind, Memory Foundations, 2003), evidenzia le difficoltà di giungere a una soluzione che renda testimonianza dell’orrore ancora leggibile nel grande vuoto di Ground Zero.
La distruzione deliberata delle statue di Buddha di Bāmiyān in Afghānistān fu attuata da parte dei Ṭālibān nel 2001, nell’ambito della loro campagna contro l’idolatria che ha coinvolto moltissimi monumenti del Paese. Le due statue, risalenti al 3° e al 5° sec. d.C., posizionate in nicchie alte circa 90 m, sono state distrutte non solo per motivi religiosi, ma anche politici, poiché la regione in cui si trovavano era ostile al regime ṭālibān. Un progetto, commissionato dal governo afghano all’artista giapponese Hiro Yamagata (n. 1948), prevede di restituire la presenza dei simulacri usando quattordici raggi laser che dovrebbero proiettare le immagini delle statue nelle nicchie.
Malgrado questi esempi, l’assimilazione del patrimonio architettonico e artistico con l’identità di un popolo o di una etnia richiede spesso il ritorno alla situazione originaria, pena il senso di perdita di tale identità. È questo l’obiettivo della ricostruzione in copia del ponte di Mostar in Bosnia ed Erzegovina (distrutto nel 1993) completata nel 2004, anche qui con molte critiche dal punto di vista scientifico e teorico. Un prodromo di tale situazione va visto nel crollo delle dittature comuniste nell’Est europeo, che ha avuto come corollario la ricostruzione in stile – ma il termine non ha significato in questo contesto – di molti monumenti danneggiati o chiusi da tali regimi. Il vertice di tale tendenza, che non ha più il forte carattere libertario della ricostruzione postguerra di Varsavia, è stato raggiunto con la Frauenkirche a Dresda: distrutta durante il bombardamento del 14 febbraio 1945, la sua ricostruzione fu impedita dal regime filosovietico della DDR (Deutsche Demokratische Republik), in modo che le macerie accumulate nel cuore della capitale sassone fossero di monito alla popolazione ricordando al contempo le atrocità commesse. La decisione di ricostruire la chiesa (consacrata il 30 ottobre 2005 e aperta al pubblico nel 2006) nacque quasi spontaneamente al momento della caduta della DDR; ma è sintomatico notare che altri monumenti della stessa città, come la vicina Kreuzkirche, ugualmente sfigurati dalla guerra, non furono ricostruiti nello stato originario. Dal cumulo di macerie lasciato dalla guerra sono stati salvati conci lapidei e frammenti decorativi, poi catalogati in un apposito archivio. Da questi e dalle vedute settecentesche di Bernardo Bellotto, nonché dalle foto e dai rilievi della chiesa prima della guerra, sono stati tratti i progetti di ricostruzione, fino alla cupola in pietra da taglio, alla lanterna e alla ricostruzione dell’imponente organo, uno dei più importanti della Germania. Anche in questo caso, si è manifestata una certa insoddisfazione per la resa finale soprattutto per gli aspetti decorativi, le pitture e le sculture, ma tutto appare superato dall’impatto emotivo causato dal ritorno della chiesa nel ricomposto skyline della Dresda settecentesca.
Ancora più problematica, sia per gli aspetti tecnici sia per le implicazioni politiche, la ricostruzione del Berliner Stadtschloss, reggia settecentesca degli Hohenzollern a Berlino, demolito nel 1950 e sostituito dalla sede del parlamento della DDR. L’eliminazione di questo edificio, per ragioni di vario tipo, ha portato alla proposta di una ricostruzione, prima solo grafica e virtuale, dell’edificio reale, fino al concorso (vinto nel 2008 da Franco Stella, n. 1943) per il progetto di un’ala di cui è difficile la ricostruzione. Il tema della ripresa di edifici distrutti è molto sentito in Germania e nella stessa Berlino: oltre alle riproduzioni analogiche – fra le quali va ricordata quella della Bauakademie progettata nell’Ottocento da Karl Friedrich Schinkel, sostenuta da un architetto contemporaneo come Hans Koll-hoff – vanno considerate ‘ricostruzioni’, anche se riferite a edifici moderni, il quartiere di Potsdamer Platz e la vicina Leipziger Platz, oltre naturalmente al noto intervento di Norman Foster nel completamento del Reich-stag (1999) e al raffinato minimalismo proposto da David Chipperfield (con Julian Harrap) per il Neues Museum (2009) dopo un discusso concorso.
Di fronte a questi fenomeni, le categorie del restauro elaborate negli anni Sessanta e Settanta sono state travolte da motivazioni di altra natura. La ricostruzione di un edificio distrutto, si è ribadito, non può presentarsi come restauro perché si restaura solo ciò che ancora esiste, non ciò che non c’è più. Ma questo non basta per opporsi alle istanze contemporanee, che non leggono più nella ricostruzione in pristino un affronto alla contemporaneità. Il ruolo che l’edificio ricostruito si trova ad assolvere catalizza interessi e valori che prima erano rigorosamente esclusi dal restauro. Brandi, per es., poneva al centro della propria teoria la materia dell’opera d’arte, escludendo un intervento che restituisse il senso di un’opera perduta. Naturalmente si tratta di fenomeni ambivalenti, perché il recupero del valore simbolico può unirsi alla ripresa di tendenze anche irrazionali che leggono il passato in modo strumentale ai fini del presente.
Si segnala, per es., la distruzione di edifici storici e moschee collegati alla figura del profeta Muḥammad. Il movimento religioso wahhabita, che predica il ritorno al rigore e alla purezza del Corano e che è strettamente legato alla casa regnante saudita, da sempre teme che questi edifici possano diventare meta di pellegrinaggi soprattutto da parte di fedeli provenienti da aree dove la devozione, in particolar modo dei sepolcri di personaggi famosi, è legata al sufismo, con il rischio di cadere nel politeismo. Per questo, per es., l’aiuto offerto dai sauditi nelle ricostruzioni delle moschee distrutte durante il conflitto nei Balcani ha avuto come risultato la demolizione dei resti originali per costruire al loro posto edifici religiosi in linea con l’ortodossia wahhabita.
Il fenomeno della ricostruzione è molto forte nei Paesi che hanno visto crollare recentemente i regimi oppressivi: va quindi inquadrato in un storia recente che ha visto bruscamente interrompersi una continuità d’uso – soprattutto religiosa – e di significato che durava da secoli. Già dagli anni Novanta del 20° sec., l’Armenia ha avviato una grande campagna di restauro del proprio grande patrimonio architettonico, anche grazie alla collaborazione internazionale, entro la quale si inserisce il contributo italiano. Nel monastero di Amaghu Noravank, danneggiato dalle invasioni e dai terremoti e già più volte restaurato (2000-2002), sono stati ricostruiti un nuovo muro di cinta, il terzo piano della chiesa mausoleo e un nuovo edificio di accoglienza per i religiosi, in un intervento che ha utilizzato materiali e tecniche tradizionali. Altro restauro importante curato dall’Agency for the pres-ervation and fruition of Armenian monuments è quello della fortezza di Bedenis nella provincia di Kotayk, che ha ripreso la sua funzione di caposaldo della memoria nazionale.
Questo tipo di fenomeno è riscontrabile anche in Paesi che emergono da una condizione di isolamento politico, come nel caso della Repubblica Sudafricana. L’isolamento in cui è vissuto il Paese fino all’avvento della democrazia ha fatto sì che non si seguissero i principi del restauro moderno: attualmente la situazione è migliorata, ma il restauro è ancora un’attività di nicchia. L’ICOMOS (International Council On MOnuments and Sites) locale ha cercato anche di mettere a punto un documento, la Declaration of the Kimberley workshop on the intangible heritage of monuments and sites (2004). L’emancipazione dalla condizione di emarginazione su base razziale è all’origine di alcuni interventi a Città del Capo. In Heritage square, si è dato vita a un intervento di conservazione a scala urbana di un blocco di edifici nel centro, alcuni dei quali risalenti al 18° sec., come alcune case di coloni olandesi, con magazzini e botteghe. A Robben Island, il ritrovamento nel 2003 dei resti di 2500 schiavi, avvenuto durante i lavori della città vecchia, è stato celebrato con un memoriale carico di significati politici.
Trasformazione e conservazione delle città
Il rapido accrescimento, la scarsa considerazione per i valori estetici e storici della città, soprattutto i condizionamenti del mercato immobiliare, che rendono più redditizio il dislocamento in nuovi edifici piuttosto che l’oneroso restauro, hanno provocato ampi fenomeni di obsolescenza nelle grandi città dei Paesi emergenti. È quanto accade, per es., a San Paolo del Brasile, dove il vecchio centro degli affari della città risalente agli anni Trenta del Novecento è stato soppiantato dall’Avenida Paulista, che a sua volta si vede oggi minacciata dai nuovi centri direzionali. Già Claude Lévi-Strauss in Tristes tropiques (1955) rilevava come le città dell’America Latina, per la maggior parte risalenti a una storia coloniale tutto sommato recente, siano passate dallo stato di giovinezza a quello attuale di decadenza e abbandono, senza mai aver raggiunto una piena maturità. Di qui una difficoltà a inquadrare i ‘centri storici’ di tali Paesi secondo le categorie tradizionali. Sotto tale aspetto, alcune novità nell’elaborazione teorica e nell’applicazione pratica giungono dal Canada, in cui la Deschambault declaration (1982), curata dalla locale sezione dell’ICOMOS, punta a coinvolgere la cittadinanza nelle opere di protezione e di garanzia dell’autenticità del patrimonio monumentale.
Un esempio del processo di recupero innescato dall’immissione nella World heritage list nel 2002 è la città storica di Akko, l’antica San Giovanni d’Acri in Israele, segnata dalla conquista dei Crociati e dalla fase ottomana, e decimata dal degrado e da massicce demolizioni e ricostruzioni. Nel 1998, il coinvolgimento dell’Israel antiquity authority aveva iniziato un cambiamento nelle strategie urbane. Il recupero in corso si fonda sulla catalogazione del patrimonio archeologico e storico posto alla base di ogni intervento nella città. I restauri degli edifici sono guidati da Amidar, compagnia di governo per l’edilizia residenziale, e sono stati avviati anche progetti pilota per la conservazione delle facciate.
Il tema del recupero della città è ormai allargato all’Africa subsahariana. La città vecchia di Porto-Novo, in Benin, si estende su circa 600 ha ed è divisa in tre zone, corrispondenti al nucleo originario, alla città costruita durante il dominio francese e al quartiere edificato dalla popolazione tornata in Africa dal Brasile, dopo la fine della schiavitù. All’inizio i lavori di recupero sono stati programmati solo nell’area ex coloniale, dove la presenza di edifici concepiti da europei facilitava le operazioni da parte di tecnici formati nel vecchio continente. Nel 2003, per affrontare il tema del recupero della zona più antica della città, è stato costituito un gruppo di ricerca formato da vari specialisti dell’École du patrimoine africain (EPA), coinvolgendo la popolazione locale, per comprendere nella nozione di patrimonio storico l’insieme dei beni materiali e immateriali ereditati da tutte le culture e le tradizioni che hanno influenzato lo sviluppo della città. Il costruito storico è stato quindi classificato secondo le diverse componenti culturali di riferimento, distinguendo le proprietà già della famiglia reale e dei suoi funzionari, gli edifici dei singoli gruppi etnici originari, gli apporti afrobrasiliani, il patrimonio coloniale e quello delle varie religioni, fino al patrimonio paesaggistico, che conta alberi secolari, alcuni dei quali sono considerati sacri e intoccabili. Secondo la proposta di recupero, l’alto numero dei siti catalogati non saranno gestiti individualmente, ma da una commissione di esperti super partes, con il compito di vagliare e approvare le proposte di recupero.
Esemplare per l’intera America Latina è il progetto pilota per la salvaguardia dell’area di calle Contumaza nel centro di Lima (dal 1988 inserito nella World heritage list), avviato nel 2003, volto a migliorare le condizioni di vita dei residenti attraverso la valorizzazione del patrimonio culturale, operazione alla quale si chiama a partecipare la popolazione residente: il restauro architettonico e urbano ambisce a divenire motore di riscatto e di crescita sociale. Il nucleo originario è dato dal Convento de la Encarnación (16° sec.), che ha subito, tra la fine del 18° e gli inizi del 20° sec., forti modifiche, a seguito delle quali resta la sola chiesa circondata da nuovi edifici che seguono mode europeizzanti, utilizzando sempre le tecniche costruttive tradizionali. Conseguentemente alla migrazione del baricentro cittadino, i residenti attuali hanno pesantemente modificato gli edifici, introducendo alterazioni tipologiche, usi impropri, modifiche alle coperture, alle finiture e alle bucature; una situazione aggravata dal traffico veicolare e da problemi di nettezza urbana e di polizia. Nel 2005 è stato restaurato un primo edificio in calle Contumaza, per mostrare un modello di intervento ai cittadini orientato a un accentuato ripristino, con relativa regolamentazione del traffico, creazione di spazi pedonali, ritinteggiature delle facciate, ed è stato organizzato un seminario per insegnare ai proprietari i basilari procedimenti per la manutenzione e la riparazione degli alloggi.
L’ambiguità delle operazioni di recupero emerge, in maniera clamorosa, nella distruzione del centro di Lhasa, in Tibet, perpetrata dalle autorità cinesi con l’obiettivo di stroncare l’identità nazionale tibetana. I nuclei storici di Norbulingka e di Jokhang furono inseriti tra il 2000 e il 2001 nella World heritage list, come «Historic ensemble of the Potala Palace», prescrivendo mediante appositi accordi il rispetto di una fascia attorno ai monumenti della città. Durante i lavori del sedicente piano di risanamento igienico e viario della città nel 2002 sono drasticamente aumentate le demolizioni degli edifici originali, previa espulsione dell’osservatore del Tibet heritage fund: con il risultato di una città falsamente ricondotta a criteri di ordine e regolarità, nonostante le preoccupazioni espresse in più riprese da parte del World heritage committee dell’UNESCO.
Autenticità e immaterialità dei beni
L’ormai storica conferenza di Nara (Giappone) nel 1994 ebbe il merito di porre a confronto il principio di autenticità, cardine della cultura europea del restauro, con l’approccio presente nei Paesi di altri continenti, soprattutto del Giappone, dove il concetto di arte fa riferimento all’esperienza del vuoto, nell’ambito di un pensiero che non punta all’esaltazione della creazione soggettiva. In questo senso l’opera d’arte rimanda sempre a qualcosa di immateriale e di impermanente e punta a trasformare interiormente sia il creatore sia il fruitore. Affinché tale trasformazione si verifichi è necessario il silenzio: tutta l’arte giapponese, compresi i giardini zen, la calligrafia, l’arte del vasaio, è tesa a esaltare il vuoto, nella concretezza del cavo di un vaso o dello spazio fra le parole stilate da un calligrafo, in linea con la filosofia buddista. Questa impostazione si riflette nella considerazione per gli aspetti immateriali e impermanenti del patrimonio. La tutela, in Giappone, si esercita anche sugli artisti, intesi come maestri e capiscuola, capaci di tramandare un mestiere al grado più alto di compiutezza esecutiva, siano essi ceramisti, attori teatrali, calligrafi. Nel 1950 una legge introdusse concetti importanti, come la tutela della cultura popolare e le proprietà culturali intangibili, come le abilità usate nel dramma, nella musica e nell’arte applicata, cui hanno fatto seguito designazioni di artisti come «tesoro nazionale vivente», dall’artigiano provetto nella tintura delle stoffe al suonatore del teatro bunraku. È chiaro che una simile concezione del patrimonio sottende una particolare attenzione al saper fare da tramandare al futuro: più che conservare la materialità dell’opera, è importante preservare la possibilità di riprodurre e perpetuare il fatto artistico, la manualità di artisti e artigiani fedeli alla tradizione che ne possa garantire la ripetizione, al di fuori dell’impostazione mimetica o stilistica diffusa in Europa su altri presupposti culturali. Sulla base di un generale interesse nei confronti dei beni immateriali, risvegliato in Occidente soprattutto dagli antropologi, nel 1997 l’UNESCO decise di istituire una sezione dedicata ai beni immateriali (Intangible cultural heritage): pratiche rituali, rappresentazioni teatrali, espressioni, abilità manuali, conoscenze impiegate nell’esecuzione di opere artigianali.
Con il direttore generale dell’UNESCO Koichiro Matsuura, nel 2003 fu istituita la Convention for the safeguarding of the intangible cultural heritage, entrata in vigore nel 2006. Nel documento si dichiara che il patrimonio così identificato «fornisce alle comunità e ai gruppi interessati un senso di identità e continuità, promuovendo così il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana» (art. 2.1). La scelta dei primi novanta beni da proteggere ha posto l’accento sull’identità e sulla continuità dei gruppi che tali beni rappresentano. Ma le riflessioni successive hanno posto in luce la continuità esistente tra i beni immateriali e il patrimonio materiale. Su questa linea, l’ICOMOS ha elaborato la tesi secondo la quale tutti i monumenti, tradizionalmente intesi, altro non sono che manifestazioni dei valori di una data cultura, quindi vere e proprie eredità intangibili: ne discende che quando si opera per la conservazione, non si preserva solo il bene fisico in sé, ma si mantengono anche il significato, la memoria e le informazioni. Quindi la conservazione agisce anche sulla rivalutazione del senso e del ruolo dell’opera da tramandare, delineando nuove strategie anche per i beni cosiddetti materiali.
Oltre alla protezione del folclore, si è posta attenzione anche alla tutela dei mestieri tradizionali, dando seguito all’iniziativa Living human treasures, un progetto del 1996 mirante alla costituzione di una lista dei «tesori umani viventi», e sollecitando gli Stati a proteggere maestri e artigiani capaci di trasmettere il proprio mestiere agli allievi. Fra i primi ad aderire vi è stato, naturalmente, il Giappone, ma l’iniziativa ha riscosso grande successo anche in numerosi Paesi emergenti, fra i quali il Brasile, interessati a valorizzare patrimoni come la musica e la danza.
Fra i Paesi che denotano una maggiore vivacità vi è l’Indonesia, il cui patrimonio nazionale comprende beni tangibili – naturali e culturali – e beni intangibili o immateriali, protetti sulla base di una Indonesia charter for heritage conservation (2003). La diversità del patrimonio (più di cinquecento gruppi etnici) è riconosciuta come fonte della vitalità e della creatività del Paese. La protezione della sua ricchezza culturale è vista come motore per uno sviluppo anche economico, secondo un modello ormai ricorrente, e si aggancia ai temi della democrazia e della partecipazione responsabile delle diverse comunità, anche quelle emarginate. Il 2004 ha visto la conclusione del complesso restauro del castello di Tamansari, vicino al Palazzo reale di Yogyakarta, costruito nel 1758 come giardino di svaghi e meditazioni per il sultano e abbandonato nell’Ottocento. Il lento processo di restauro e liberazione anche da edifici più recenti, iniziato nel 1970, è stato concluso con la collaborazione di professionisti portoghesi, facendo largo impiego di materiali tradizionali, soprattutto di malte, dotate di caratteristiche prestazionali non comuni.
Altro Paese asiatico particolarmente attivo è la Corea del Sud, dove l’attenzione ai caratteri immateriali del patrimonio nazionale ha portato al restauro (2002) del santuario di Jongmyo per l’importanza delle cerimonie religiose che vi si svolgono, costituite anche da danza e musica, nonché per la forte suggestione e la straordinaria bellezza dell’ambiente circostante. L’iscrizione nella World heritage list di alcuni templi buddisti ha portato all’adozione di evolute tecniche di monitoraggio, che nelle grotte di Seokguram e nel tempio di Bulguksa (inseriti nel 1995) è volto alla conservazione della bellezza della forma originaria, ed è esteso al controllo dei modi di fruizione e anche al mantenimento delle autentiche cerimonie rituali. Un caso tecnicamente molto interessante è quello dei resti della pagoda di pietra del tempio Mireuksa, risalente al 602 d.C., che nel 1914 fu consolidata con una invadente struttura di cemento armato addossata alle strutture archeologiche. A seguito di nuove campagne di scavo, nel 1999 si decise di smontare quanto rimaneva della monumentale pagoda eliminando il supporto moderno, dando vita a un complesso cantiere di anastilosi.
Riflessioni
Il novero dei temi affrontati non è tale da consentire conclusioni, né il primo decennio di un secolo può essere visto, con ingenuo storicismo, quale indicatore di sviluppi futuri per la sua sola collocazione cronologica. Gran parte dei temi esposti nascono infatti dagli esiti della condizione postmoderna che affonda largamente le sue radici nei decenni conclusivi del 20° sec., intersecata con i temi della complessità e del confronto tra culture. In questa evoluzione il posto assegnato alla conservazione del patrimonio storico-artistico del passato – di cui quello architettonico, è bene ricordarlo, è solo una parte – ha assunto nuovi connotati. La conservazione dei monumenti/documenti è nata sulla scorta dello sviluppo della storiografia ottocentesca, che ha conosciuto a sua volta profonde, recenti mutazioni. Analogamente, se la conservazione ha avuto una funzione precisa nella formazione e nella crescita degli Stati nazionali del 19° e 20° sec., oggi si trova in una posizione sempre più marginale, confinata ad attività inessenziali di abbellimento o di svago, più che di tutela di valori su cui costruire una società. Al valore dell’antico di A. Riegl, destinato a motivare le masse del secolo nuovo alle ragioni della conservazione, sembra subentrare la visione sottintesa dai valori immateriali, in cui le tecnologie digitali, la disponibilità alla ricostruzione, la dipendenza da significati politici e simbolici prevale sull’oggettività – non solo in senso materiale – del bene da conservare. E nuove sfide si delineano all’orizzonte: la gestione dell’immenso patrimonio costruito nel Novecento, in cui rientrano abusivismi e periferie di ogni genere e in ogni Paese, difficili da trattare con i consueti strumenti metodologici; l’aggancio con i temi ecologici, nella prospettiva di un’etica del reimpiego, orientata a uno sviluppo non illimitato ma sostenibile; l’effettivo interesse del pubblico per il restauro, in un momento di contaminazione fra popoli e diverse visioni del mondo che rende anche il passato difficilmente e univocamente condivisibile; e gli stessi costi sociali e politici della conservazione, che rischiano di farsi incisivi soprattutto nella protezione del paesaggio. Anziché prefigurare strategie, è forse più proficuo mantenere la lucidità e continuare ad affilare le armi della critica, ricordando che la conservazione del passato resta il modo migliore per mantenere vivo il desiderio di futuro.
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