Vedi Il danno da nascita indesiderata dell'anno: 2014 - 2016
Il danno da nascita indesiderata
La responsabilità del medico nel caso di cd. nascita indesiderata, ed il risarcimento dei conseguenti danni, presenta ormai aspetti consolidati, e profili problematici. Mentre da un lato la giurisprudenza è unanime e costante in merito alla risarcibilità del danno ed all’accertamento della colpa, vari contrasti permangono in merito all’accertamento del nesso causale e alla individuazione dei soggetti titolati a domandare il risarcimento. Dopo che nel 2012 la giurisprudenza di legittimità ha fatto registrare un contrasto proprio su quest’ultimo punto, una decisione pronunciata nel 2013 ha segnato un ulteriore revirement in tema di onere della prova del nesso di causa, alleggerendo quello gravante sul medico e rafforzando quello gravante sul danneggiato.
Nell’arco di soli sei mesi, tra ottobre 2012 e marzo 2013, la Corte di cassazione ha pronunciato due importanti sentenze in materia di danno da nascita indesiderata (e cioè, per quanto si dirà meglio nel prossimo paragrafo, il danno patito dal genitore che vede leso il proprio diritto a decidere se avere o meno un figlio). Gli interventi della Corte in tema di danno da nascita indesiderata sono ormai numerosi, ma le due sentenze cui si è appena fatto cenno hanno imposto agli interpreti una riconsiderazione generale dell’intera materia. Ciascuna di esse, infatti, si è posta in meditato e motivato contrasto con l’orientamento sino ad allora prevalente.
Con la prima sentenza (Cass., 2.10.2012, n. 16754, sulla quale sia consentito il rinvio a Rossetti, M., La responsabilità del medico, in Libro dell’anno del diritto 2012, Roma, 2013) la Corte ha ritenuto che il medico il quale, non riferendo alla gestante dell’esistenza di malformazioni del feto, precluda a quest’ultima la possibilità di abortire, è tenuta a risarcire non solo il danno patito dalla gestante medesima, ma anche quello patito dal neonato, a nulla rilevando che le malformazioni di questi fossero congenite. Nella stessa sentenza, inoltre, si è stabilito che il risarcimento del danno da nascita indesiderata spetti ‒ oltre che, come detto, al neonato e ai suoi genitori ‒ anche ai fratelli della persona nata con malformazioni.
Si è trattato, dunque, di una sentenza che ha notevolmente slargato l’area del danno da nascita indesiderata risarcibile, includendo tra gli aventi diritto al ristoro il neonato ed i suoi fratelli, per l’avanti pacificamente esclusi dal novero dei soggetti legittimati a domandare il risarcimento.
Con la seconda sentenza (Cass., 22.3.2013, n. 7269) la Corte è invece intervenuta sul problema dell’onere della prova del danno, stabilendo che esso ricada su chi ne invoca il risarcimento, secondo i princìpi generali. L’affermazione non deve sembrare scontata o banale, perché in precedenza il giudice di legittimità, pur formalmente prestando ossequio al principio secondo cui la prova del danno ha da fornirla colui che ne pretende il risarcimento, l’aveva di fatto fortemente ridimensionato, attraverso un generoso ricorso alla prova presuntiva. Così, ad esempio, si era giunti ad affermare che dal fatto noto che le malformazioni del concepito fossero di una certa gravità, il giudice potesse risalire ex art. 2727 c.c. al fatto ignorato che, se la gestante le avesse tempestivamente conosciute, avrebbe interrotto la gravidanza; allo stesso modo, si era pure sostenuto che dal fatto noto che la gestante avesse scelto di sottoporsi ad un esame diagnostico prenatale finalizzato a conoscere eventuali malformazioni del feto, il giudice potesse risalire al fatto ignorato che quella gestante, nel caso di positività della diagnosi di malformazioni, non avrebbe condotto a termine la gestazione.
La sentenza 7269/2013, quindi, rende più rigoroso l’accertamento della responsabilità del medico per omessa diagnosi prenatale, e di conseguenza ne restringe l’area: un risultato quest’ultimo, di cui non si può non rilevare la tendenziale antiteticità rispetto alla sentenza n. 16754/2012, sopra ricordata. È vero che la prima di tali decisioni ha riguardato una questione processuale (il riparto dell’onere della prova) e l’altra una questione sostanziale (la titolarità del diritto al risarcimento del danno), ma è altresì vero che nei fatti la sentenza meno recente ha aumentato la platea dei potenziali danneggiati, e quella più recente l’ha indirettamente ristretta, esigendo una prova più rigorosa di quella pretesa in passato.
Con l’espressione “danno da nascita indesiderata” si designa nella prassi sia un tipo di danno, sia ‒ meno correttamente ‒ un tipo di condotta illecita.
Sul piano del danno, con l’espressione “danno da nascita indesiderata” si intende quello patito dal genitore che veda leso il proprio diritto di scegliere se e quando avere figli.
Sul piano della condotta illecita, l’espressione “danno da nascita indesiderata” indica l’operato del medico che, sia con una condotta tecnicamente imperita, sia omettendo di informare la gestante, viola il diritto di uno o di ambedue i genitori a non avere figli, ovvero a non portare a termine la gestazione di essi. Tale condotta può dunque assumere principalmente due forme: a) la prima ipotesi ricorre quando la nascita di un figlio avviene contro la volontà del genitore, come nell’ipotesi di insuccesso di un intervento abortivo, ovvero nel caso di insuccesso di un intervento di sterilizzazione; b) la seconda ipotesi ricorre quando la nascita avviene secondo la volontà del genitore, volontà che però si è formata in modo viziato come nell’ipotesi di omessa informazione circa le malformazioni del feto, con conseguente perdita della possibilità di interrompere la gravidanza.
Nel primo caso viene leso il diritto del genitore a non avere figli, nel secondo caso viene leso il diritto del genitore di interrompere la gravidanza.
Sia l’affermazione della responsabilità del medico per il caso di omessa informazione della gestante; sia la emersione del concetto di “danno da nascita indesiderata” sono stati il frutto di una elaborazione giurisprudenziale molto lenta, che ha dapprima negato la risarcibilità del danno in questione; quindi l’ha ammessa con varie restrizioni; infine l’ha consentita incondizionatamente.
Degli esiti di questa evoluzione occorre ora dare brevemente conto, per cogliere appieno l’importanza delle due decisioni sopra ricordate.
2.1 Nascita indesiderata e colpa del sanitario
Ovviamente un sanitario (medico, radiologo, genetista, infermiere), può essere chiamato a rispondere del danno da nascita indesiderata quando abbia tenuto una condotta colposa.
Per diritto vivente, la condotta colposa che può essere fonte di danno da nascita indesiderata presenta queste caratteristiche:
a) può consistere tanto nell’imperita esecuzione d’un atto medico, quanto nella negligente o inesatta informazione della paziente;
b) va accertata con riferimento alle guidelines (o leges artis) generalmente condivise all’epoca dell’intervento o dell’analisi;
c) è sempre presunta, di talché non è onere della gestante provare la colpa del medico, ma è onere di quest’ultimo provare di avere tenuto una condotta diligente.
Esaminiamo ora più in dettaglio questi tre aspetti.
2.2 Condotte commissive ed omissive
Il danno da nascita indesiderata può essere causato da un medico sia con una condotta commissiva, sia con una condotta omissiva.
Le condotte colpose di tipo commissivo possono essere rappresentate dalla imperita esecuzione di un intervento di sterilizzazione, oppure dall’insuccesso di un intervento di interruzione della gravidanza.
Ben più frequenti, però, sono i casi in cui il danno da nascita indesiderata è causato dal medico con una condotta omissiva, che può consistere:
a) nell’omesso rilevamento di una malformazione o di un difetto genetico oggettivamente rilevabile con l’uso dell’ordinaria diligenza attraverso gli opportuni esami diagnostici;
b) nell’omessa informazione della gestante circa l’esistenza di malformazioni del feto.
Le due condotte ovviamente possono essere cumulative, e non solo alternative: la colpa del medico dunque potrebbe consistere sia nel non avere rilevato una malformazione esistente e di conseguenza nel non avere informato la gestante; sia nell’avere rilevato una malformazione esistente, ma senza informarne la gestante.
A tali condotte può essere affiancata quella del medico che erroneamente rilevasse una malformazione in realtà inesistente, informandone la gestante, ed inducendola perciò ad interrompere la gravidanza: ma in questo caso ci troveremmo al di fuori dell’area del danno da nascita indesiderata, e si dovrebbe parlare piuttosto di danno da “aborto indesiderato”: nessun dubbio, che anche quest’ultimo sarebbe un danno risarcibile in capo alla gestante e al padre del concepito.
La distinzione tra condotta omissiva consistita nell’imperita diagnosi e condotta omissiva consistita nell’omessa informazione rileva sul piano giuridico ai fini dell’accertamento della colpa. La colpa per imperita diagnosi andrà infatti accertata confrontando la conformità dell’operato del medico con le leges artis elaborate dalla comunità scientifica; mentre la colpa per omessa informazione andrà accertata confrontando forma, contenuti e modalità dell’informazione fornita alla gestante con quelli prescritti dalla deontologia professionale e dalla giurisprudenza.
Analizziamo ora più in dettaglio questa differenza.
2.3 La colpa per imperizia
È noto che l’accertamento della colpa medica deve avvenire attraverso una comparazione, e cioè confrontando la condotta concretamente tenuta dal sanitario, con quella che nelle medesime circostanze sarebbe stato lecito attendersi da un professionista “diligente”, ai sensi dell’art. 1176, co. 2, c.c., e cioè dall’homo eiusdem generis et condicionis.
“Professionista diligente”, secondo il giudice di legittimità, è quegli che conosce ed applica con zelo e precisione le regole operative e le tecniche generalmente condivise dalla comunità scientifica contemporanea. Di conseguenza, per stabilire se sia in colpa il medico il quale non abbia rilevato l’esistenza d’una malformazione occorrerà verificare se l’immagine (radiografica, ecografica, genetica) consentiva o meno, con l’uso della exacta diligentia esigibile dal professionista bravo, di accertare l’esistenza della malformazione.
Deve tuttavia ricordarsi che le linee-guida elaborate dalla scienza medica non sono norme giuridiche, e costituiscono soltanto un parametro di valutazione dell’operato del medico. Se, quindi, sarà di norma in colpa il medico che non vi si attiene, ciò non è sempre vero: e non può quindi escludersi che, in considerazione di particolari circostanze concrete, possa essere ritenuto in colpa il medico che abbia rispettato le linee-guida, così come possa essere ritenuto esente da colpa il medico che non vi si sia attenuto. Così, ad esempio, non potrebbe non essere ritenuto in colpa il medico che, nell’eseguire una scansione ecografica endouterina, si attenga a linee-guida superate o minoritarie, trascurando di applicare più aggiornati e moderni criteri.
La colpa del medico consistita nell’omessa rilevazione di malformazioni oggettivamente esistenti può, a sua volta, consistere in due diverse condotte: interpretare in modo scorretto l’immagine diagnostica (ad esempio, non avvedersi della sindattilia o della agenesia di un arto, come pure della difettosa formazione degli atri e dei ventricoli); ovvero acquisire in modo non corretto l’immagine diagnostica, di talché quest’ultima non evidenzia alcuna malformazione.
Nel primo caso, l’accertamento della colpa deve avvenire stabilendo se quella immagine, acquisita con quello strumento, consentiva o meno ad un medico esperto di avvedersi della malformazione. Nel secondo caso, l’accertamento della colpa deve avvenire comparando la metodica di acquisizione del’immagine concretamente seguita dal medico, con quella prescritta dalle leges artis. In questa seconda ipotesi, pertanto, per andare esente da condanna al medico non sarà sufficiente dimostrare che ‒ ad esempio ‒ l’immagine ottenuta ecograficamente non consentiva di rilevare la malformazione, ma occorrerà dimostrare che quella immagine è stata acquisita con una corretta metodologia.
In applicazione di questo principio, ad esempio, è stata ritenuta sussistente la colpa del sanitario in un caso in cui la madre di un bimbo nato con una grave malformazione cardiaca aveva convenuto in giudizio un ecografista, ascrivendogli di non avere rilevato ‒ e di conseguenza di non averla informata ‒ d’una grave malformazione del feto. Il medico si era difeso sostenendo che l’immagine acquisita ecograficamente non consentiva l’accertamento della suddetta malformazione, il che effettivamente era vero. Nondimeno il tribunale, pur riconoscendo che dall’immagine ecografica non poteva essere rilevata la malformazione, ritenne comunque in colpa il medico, perché nell’eseguire la scansione non si era attenuto alle linee-guida elaborate dalla comunità scientifica, che prescrivevano non solo la scansione apicale (dall’alto in basso), ma anche quella trasversale (da destra a sinistra), nella specie del tutto omessa dal sanitario. Sicché, concluse il Tribunale, se l’ecografista avesse correttamente tentato di visualizzare il cuore del feto, delle due l’una: ove la malformazione fosse stata effettivamente rilevabile con l’uso dello strumento a lui in dotazione, egli l’avrebbe ovviamente visualizzata, ed avrebbe potuto segnalarlo alla gestante; ove, per contro, lo strumento non avesse consentito la visualizzazione corretta, proprio l’impossibilità di visualizzare la conformazione di un organo che a quell’età gestazionale sarebbe dovuto essere già visibile gravidanza, avrebbe dovuto indurre l’ecografista a segnalare la circostanza, e prescrivere esami più approfonditi, primo fra tutti l’ecocardiografia1.
2.4 La colpa per negligenza
Come accennato, il medico può provocare un danno da nascita indesiderata sia eseguendo in modo imperito gli esami diagnostici prenatali, sia omettendo di riferirne l’esatto significato alla gestante. Mentre il primo tipo di condotta costituisce una colpa per imperizia, il secondo tipo di condotta costituisce un’ipotesi di colpa per negligenza: distinzione che, come noto, rileva in quanto soltanto nella prima ipotesi il medico potrà invocare l’esimente di cui all’art. 2236 c.c. (e cioè l’essere incorso in colpa lieve nell’eseguire una prestazione di speciale difficoltà).
Sulle fonti, sul contenuto e sulla forma dell’obbligo di informazione gravante sul medico esiste una formidabile letteratura ed una sterminata produzione giurisprudenziale, impossibile a riassumersi in questa sede: ci limiteremo perciò a ricordare alcuni princìpi generali al riguardo, focalizzando poi la nostra attenzione sulle particolarità che l’obbligo di informazione assume con riguardo alle diagnosi prenatali.
Il consenso libero e consapevole del paziente all’atto medico è considerato oggi un corollario dell’esercizio del fondamentale diritto alla salute, e non più ‒ come avveniva un tempo ‒ presupposto di legittimità dell’operato del medico, in virtù del principio volenti non fit iniuria2.
Il diritto del paziente di essere informato, ed il correlativo dovere del medico di informare, vengono fondati su un fitto reticolo di norme, sia di rango costituzionale, sia di rango ordinario: al primo livello si collocano gli artt. 2, 13 e 32 Cost.; al secondo livello vanno ricordati (principalmente, ma non esclusivamente):
l’art. 33, co. 1 e 5, l. 23.12.1978, n. 833 (Istituzione del servizio sanitario nazionale), in base al quale «gli accertamenti ed i trattamenti sanitari ... devono essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato»;
l’art. 14 l. 22.5.1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza), in base al quale «in presenza di processi patologici, fra cui quelli relativi ad anomalie o malformazioni del nascituro, il medico che esegue l'interruzione della gravidanza deve fornire alla donna i ragguagli necessari per la prevenzione di tali processi».
Il quadro delle fonti sull’obbligo di informare va poi integrato con l’art. 5 della Convenzione sui diritti umani e la biomedicina, adottata dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa il 19.11.1996, ed aperta alla firma il 4.4.1997 (non ancora ratificata dall’Italia), il quale stabilisce che «un intervento nel campo della salute può essere effettuato dopo che la persona interessata ha dato un consenso libero ed informato. La persona interessata può liberamente revocare il consenso in qualsiasi momento», e col principio 3 della Dichiarazione europea sulla promozione dei diritti del paziente, adottata ad Amsterdam il 30.3.1994 dalla Consulta europea per i diritti dei pazienti, sotto gli auspici dell’Organizzazione mondiale della sanità, il quale stabilisce che «il consenso informato del paziente costituisce prerequisito per qualsiasi intervento medico. Il paziente ha il diritto di rifiutare o fermare un intervento medico. Le conseguenze del rifiuto o dell’interruzione debbono essere attentamente spiegate al paziente».
Né si dimentichi che la necessità del consenso del paziente per i trattamenti cui dev’essere sottoposto è infine prevista dal “Codice di deontologia medica”, approvato dalla Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi ed odontoiatri il 16.12.2006, il quale dedica al tema in esame gli artt. 16 e 33-39.
Dal combinato disposto di tali norme risultano una serie di articolati princìpi così riassumibili:
a) il medico ha l’obbligo di informare sempre e comunque il paziente, tenendo conto delle sue capacità di comprensione ed adottando forme adeguate quando l’informazione ha ad oggetto una prognosi infausta; tale obbligo viene meno nel solo caso in cui il paziente chieda espressamente di non essere informato (art. 33 Cod. deont. med.);
b) l’informazione sub a) deve risultare per iscritto (art. 35, co. 2, Cod. deont. med.).
Da questo blocco normativo la giurisprudenza ha tratto la conclusione che la volontà del paziente di consentire l’intervento medico può dirsi liberamente formatasi solo se questi abbia ricevuto una informazione completa e dettagliata. L’informazione fornita deve comprendere, in particolare: a) la natura dell’intervento o dell’esame (se sia cioè distruttivo, invasivo, doloroso, farmacologico strumentale, manuale, ecc.); b) la portata e l’estensione dell’intervento o dell’esame (quali distretti corporei interessi); c) i rischi che comporta, anche se ridotti (come effetti collaterali, indebolimento di altri sensi od organi, ecc.); d) la percentuale verosimile di successo; e) le eventuali inadeguatezze della struttura ove l'intervento dovrà essere eseguito3.
In altri termini, il paziente deve essere messo concretamente in condizione di valutare ogni rischio ed ogni alternativa. Il giudice di legittimità ha dunque posto limiti rigorosi all’obbligo di informazione: esso comprende tutti i rischi prevedibili, anche se la loro probabilità è minima; mentre non comprende i rischi anomali, cioè quelli che possono essere ascritti solo al caso fortuito.
I princìpi sin qui riassunti trovano applicazione ovviamente anche nel campo del danno da nascita indesiderata, ma in questo settore la giurisprudenza ha ritenuto che il medico chiamato ad eseguire una diagnosi prenatale debba non solo informare la gestante sui risultati obiettivi dell’esame, ma abbia anche obblighi informativi aggiuntivi.
Innanzitutto, qualunque medico che visiti la gestante (sebbene non gli siano richieste indagini diagnostiche sul feto), se riscontri l'esistenza di patologie della donna tali da nuocere alla salute del nascituro, è tenuto ad informarla della possibilità di sottoporsi ad indagini prenatali, quantunque rischiose per la sopravvivenza del feto (Cass., 2.2.2010, n. 2354, in Danno e resp., 2011, 384).
In secondo luogo, il medico ha l’obbligo di informare la gestante dell’utilità concreta del test prescelto per la diagnosi prenatale: così, se la gestante sceglie di eseguire un esame ecografico, il medico ha l’obbligo di informarla dell'esistenza di esami più efficaci, che consentano anche l’accertamento dell'esistenza di malformazioni congenite (Cass., 2.10.2012, n. 16754, cit.).
In terzo luogo, il medico ha l’obbligo di informare la gestante della possibilità di ricorrere ad un centro di più elevato livello di specializzazione, se l’esame diagnostico compiuto non abbia consentito, senza colpa del medico, una completa ed esaustiva visualizzazione del feto (Cass., 13.7.2011, n. 15386, in Nuova giur. civ. comm., 2011, I, 1252).
In quarto luogo, qualunque medico che prescriva alla gestante farmaci potenzialmente dannosi per il concepito è tenuto ad informarla dei rischi derivanti dal loro uso; ed è notevole rilevare che, in un caso in cui il medico aveva omesso di fornire tale informazione, la S.C. l’ha condannato al risarcimento del danno da nascita indesiderata in un caso in cui il concepito venne al mondo con malformazioni congenite, delle quali non era possibile stabilire se fossero state causate o meno dai farmaci assunti dalla gestante (Cass., 11.5.2009, n. 10741, in Danno e resp., 2010, 144).
In quinto luogo, il medico il quale sia chiamato ad interpretare un’immagine diagnostica prenatale incerta o ambigua, ha l’obbligo di segnalare alla gestante, nelle dovute forme richieste dall’equilibrio psicologico di quest’ultima, l’esistenza d’una incertezza o ambiguità diagnostica. È stato, di conseguenza, ritenuto in colpa il medico che, di fronte ad indici diagnostici dei quali non era agevole intuire il significato, aveva taciuto al paziente i possibili significati di essi, acquietandosi in una sorta di negligente sospensione del giudizio4.
Vero punctum pruriens del danno da nascita indesiderata è l’accertamento del nesso di causa tra l’omessa informazione alla madre circa eventuali malformazioni o patologie del feto, ed il danno da mancato esercizio del diritto di interrompere la gravidanza.
Su questo delicato problema è intervenuta l’importante sentenza n. 7269/2013, sopra ricordata, segnando un mutamento nella giurisprudenza della Corte, per effetto del quale si è alleggerito l’onere probatorio gravante sul medico, e per converso appesantito quello gravante sull’attore.
Vediamo perché.
In tema di danno da nascita indesiderata, l’accertamento sulla causalità demandato al giudice è duplice; occorre infatti stabilire: a) se nel singolo caso l’aborto sarebbe stato consentito dalla legge; b) se, pur sussistendo i presupposti di legge per l’interruzione della gravidanza, la gestante una volta informata delle malformazioni del feto avrebbe verosimilmente compiuto tale scelta.
In merito al primo di questi due nessi di causalità va ricordato che l’esercizio del diritto di abortire non è incondizionato, ma è subordinato alla sussistenza di diversi presupposti, a seconda che venga esercitato prima o dopo del 90° giorno dell’inizio della gravidanza.
Prima di tale data, l'interruzione volontaria della gravidanza è sempre possibile a condizione che la gestante «accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un “serio pericolo” per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito».
In questo caso pertanto l'interruzione della gravidanza costituisce un intervento profilattico nei confronti di un danno temuto per la salute della gestante, intesa in senso molto lato come benessere anche psicologico. Da ciò consegue che quando la malformazione era oggettivamente rilevabile già nei primi 90 giorni di gestazione, il nesso causale tra omessa informazione alla madre e perdita del diritto di abortire (a prescindere dal diverso problema se tal diritto sarebbe stato concretamente esercitato nel caso di specie) è pressoché sempre sussistente.
Dopo il 90° giorno dall’inizio della gravidanza, l’art. 6, l. 22.5.1978, n. 194 stabilisce che «l'interruzione volontaria della gravidanza … può essere praticata: a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna». A tale regola si fa eccezione ove sussista la possibilità di vita autonoma del feto, nel qual caso l'interruzione della gravidanza può essere praticata solo quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna (art. 7 l. n. 194/1978, cit.).
Pertanto, mentre prima del 90° giorno dall’inizio della gravidanza l’aborto è consentito se vi è un pericolo “serio” per la salute fisica o psichica della gestante, dopo il 90° giorno l’aborto è consentito se il pericolo per la vita della madre è “grave”, ovvero se vi è già in atto una malattia del concepito che esponga la salute della madre a pericolo anch’esso “grave”.
L’accertamento della condizione sub a) in genere non dà luogo a difficoltà; più complesso è invece stabilire quando sussistano le condizioni sub b). La norma sopra trascritta richiede infatti, affinché sia consentito l’aborto, due condizioni: la prima è l’esistenza di un processo patologico del concepito; la seconda è la pericolosità “grave” di tale processo per la salute fisica o psichica della donna.
Il processo patologico deve essere già in atto: occorre, cioè, che al momento in cui si sarebbe dovuta praticare l’interruzione della gravidanza, la malformazione del feto fosse già esistente. Ora, secondo la lettera della legge presupposto immediato del diritto di abortire è il pericolo per la salute della madre, non le malformazioni del feto. Pertanto nel giudizio di responsabilità a carico del medico, per ottenerne la condanna, in teoria non basterebbe provare l’esistenza della malformazione: occorre invece dimostrare che, se la gestante ne fosse stata informata, avrebbe corso il “grave pericolo” di ammalarsi, anche a livello psichico.
Tale rigoroso onere della prova tuttavia, solennemente affermato in teoria, nella pratica viene notevolmente attenuato dalla facilità con la quale la giurisprudenza in subiecta materia ricorre alla prova presuntiva. In virtù di essa, partendo dal fatto noto della sola gravità delle malformazioni del feto, si ritiene possibile risalire ex art. 2727 c.c. al fatto ignorato che, se la madre ne fosse stata informata, avrebbe corso il rischio (“serio” o “grave”, a seconda che la malformazione fosse emersa prima o dopo il 90° giorno dall’inizio della gestazione) di una malattia psichica, e ciò in quanto ‒ si afferma ‒ ben pochi genitori sono disposti a dare alla luce un figlio che corra il rischio di essere gravemente ritardato o costretto a vivere una vita di dolore ed infelicità. Tale orientamento è avallato dalla S.C., secondo cui è «legittimo per il giudice assumere come normale e corrispondente a regolarità causale che la gestante interrompa la gravidanza se informata di gravi malformazioni del feto», e di conseguenza è «legittimo ... ricondurre al difetto di informazione, come alla sua causa, il mancato esercizio di quella facoltà»5.
Quanto alla pericolosità del processo patologico, richiesto dall’art. 6 l. n. 194/1978, per la salute fisica o psichica della gestante, anche in questo caso si registra un certo rigore nelle affermazioni di principio, attenuato dalla larghezza con cui nella pratica si ricorre alla prova presuntiva. Secondo la S.C., infatti, per i fini qui in esame «non ogni pericolo per la salute fisica o psichica della donna è rilevante, tanto da assimilarlo ad ogni forma di danno biologico (tra cui lo stress o l'affaticamento o lo stesso danno alla vita di relazione compromessa), ma solo quello che abbia carattere patologico grave per la salute fisica o psichica della donna stessa», in quanto «l'art. 6 [l. n. 194/1978 fa] riferimento ad un concetto di salute ristretto, espresso in termini negativi, come assenza di malattia»6.
Nello stesso tempo tuttavia si aggiunge che, trattandosi di valutazione prognostica, essa va effettuata in termini di alta probabilità, secondo le nozioni della scienza medica, ma non di certezza. L’accertamento del grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna va quindi compiuto con giudizio ex ante, con la conseguenza che «ciò che si è effettivamente verificato successivamente può avere solo valore indiziario o corroborativo, ma non decisivo» 7.
Detto altrimenti, per stabilire se la donna avrebbe potuto esercitare il suo diritto di interrompere la gravidanza, ove fosse stata convenientemente informata sulle condizioni del nascituro, non si deve accertare se in lei si sia instaurato un processo patologico capace di evolvere in grave pericolo per la sua salute psichica, ma bisogna soltanto stabilire se la dovuta informazione sulle condizioni del feto avrebbe potuto determinare durante la gravidanza l’insorgere di un tale processo patologico8.
In termini meno dogmatici ciò vuol dire che al medico convenuto in un giudizio di risarcimento del danno da nascita indesiderata, per andare esente da condanna, non basta articolare il seguente sillogismo:
a) la madre dopo la nascita del bimbo malformato, non si è affatto ammalata;
b) quindi è ragionevole ritenere che nemmeno durante la gravidanza si sarebbe ammalata, se fosse stata informata delle malformazioni;
c) ergo, non sussistendo la patologia in atto, non avrebbe potuto interrompere legalmente la gravidanza ex art. 6 l. n. 194/1978.
Questo tipo di difesa è stato giudicato insufficiente dalla giurisprudenza, in base ai princìpi sopra riassunti, in quanto l’esistenza della patologia e la pericolosità di essa (cioè le condizioni legittimanti l’aborto dopo il 90° giorno) devono essere valutati con “prognosi postuma”: il giudice di merito, cioè, deve trascurare quel che è effettivamente accaduto, e deve immaginare “cosa sarebbe accaduto se” (e cioè se l’informazione fosse stata fornita). E, come accennato, è ben raro che il giudice, una volta accertata la colpa del medico, neghi il risarcimento sul presupposto che la madre, se informata, non si sarebbe ammalata.
Da un lato, infatti, la prova del “grave pericolo” che la madre avrebbe corso se fosse stata informata «non può che essere presuntiva» (lo afferma esplicitamente Cass., 13.7.2011, n. 15386, in Nuova giur. civ. comm., 2011, I, 1252), con quanto ne consegue in termini di alleggerimento dell’onere istruttorio (la prova presuntiva non deve essere dedotta, non deve essere raccolta, può essere invocata anche in comparsa conclusionale, a condizione che il fatto noto su cui fondare la deduzione logica sia stato debitamente allegato e provato).
Dall’altro lato si soggiunge che la prova della possibilità legale di ricorrere all’aborto deve ritenersi sussistente quando, sulla base di «dati di comune esperienza evincibili dall'osservazione dei fenomeni sociali» possa affermarsi che se la madre fosse stata informata delle malformazioni del feto sarebbe insorto uno stato depressivo suscettibile di essere qualificato come grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, anche solo sulla base del criterio del «più probabile che non» (Cass., 10.11.2010, n. 22837; Cass., 2.2.2010, n. 2354).
In tutti i casi in cui l’esercizio dell’aborto sarebbe stato consentito dalla legge, v’è poi ancora da stabilire se il feto avesse comunque possibilità di vita extrauterina. A tal riguardo v’è da ricordare che alla donna spetta provare i fatti costitutivi del diritto, al medico i fatti idonei ad escluderlo: pertanto non spetta alla donna provare che quando è maturato l’inadempimento del medico il feto non era ancora pervenuto alla condizione della possibilità di vita autonoma, ma spetta al medico provare il contrario9.
In tutte le ipotesi sopra esaminate (e cioè sia prima che dopo il 90° giorno di gravidanza) il nesso causale tra l’omessa informazione da parte del medico e la lesione del diritto di interrompere la gravidanza va comunque escluso in due casi.
La prima ipotesi ricorre allorché sia accertata la sussistenza di fattori ambientali, culturali, di storia personale, religiosi, idonei a dimostrare in modo certo che, pur informata delle malformazioni, la donna avrebbe accettato la continuazione della gravidanza. Il relativo onere ovviamente grava sul convenuto10.
La seconda ipotesi ricorre allorché le malformazioni erroneamente non rilevate o non comunicate alla madre da parte del medico non siano gravi. L’assenza di gravità delle lesioni infatti fa venir meno tutto il meccanismo di fatto adottato dai giudici di merito e sopra riassunto, secondo cui dal fatto noto che le malformazioni del feto erano gravi si può risalire al fatto ignorato che, se le madre le avesse conosciute, si sarebbe ammalata e quindi avrebbe potuto abortire.
Così, ad esempio, l’omessa diagnosi o l’omessa informazione ai genitori che il concepito è privo ‒ poniamo ‒ del dito mignolo della mano destra, ovvero ha sei dita per mano, non potrebbe mai legittimare una domanda di risarcimento del danno da nascita indesiderata, perché tali lesioni mai e poi mai potrebbero da sole giustificare l’aborto terapeutico ex art. 6 l. n. 194/1978. Diversamente, si perverrebbe all’aberrante risultato di ammettere non l’aborto terapeutico, ma l’aborto eugenetico.
Il vero problema che ha il giudice di merito in questi casi è stabilire quando la malformazione del feto sia così grave, da consentire di presumere che se fosse stata comunicata alla madre questa avrebbe avuto una malattia psichica pericolosa per la sua salute, ed avrebbe quindi potuto legittimamente abortire. Se non vi sono dubbi che malformazione “grave” è ‒ ad esempio ‒ la mancanza di tutti e quattro gli arti, o l’anencefalia, più problematico è stabilire se tale possa ritenersi ‒ ad esempio ‒ la mancanza di una mano o di un piede. A me pare che, in caso di dubbio, per stabilire se una malformazione fosse tale da provocare nella madre una patologia psichica, ove appresa nel corso della gestazione, occorre avere riguardo alla sensibilità media, e non a quella ‒ eventualmente maggiore ‒ della singola persona coinvolta.
3.1. Il nesso di causa tra omessa informazione e diritto di abortire: b) il giudizio di verosimiglianza
Come accennato, l’accertamento del nesso di causa tra l’omessa informazione da parte del medico e la perdita del diritto di abortire richiede al giudice un duplice accertamento: a) se sussistevano le condizioni di legge per abortire, b) se, sussistendo tali condizioni, sia ragionevole ritenere che la gestante, ove informata delle malformazioni, avrebbe esercitato quel diritto.
Detto del primo aspetto, resta ora da esaminare il secondo. Come accennato, è proprio su questo aspetto dell’accertamento del nesso di causa che la giurisprudenza di legittimità ha fatto registrare nel 2013 un revirement.
Era affermazione pacifica, sino al 2013, che stabilire se la gestante, una volta informata, si sarebbe o meno avvalsa della facoltà di abortire, legalmente spettantele, fosse possibile anche in base ad un solo elemento: la gravità delle malformazioni del feto. Ciò in quanto «deve ritenersi rispondente ad un criterio di regolarità causale che la donna, ove adeguatamente e tempestivamente informata della presenza di una malformazione atta ad incidere sulla estrinsecazione della personalità del nascituro, preferisca non portare a termine la gravidanza» (così, testualmente, Cass., 4.1.2010, n. 13, in Danno e resp., 2010, 697; parlano al riguardo di “regolarità causale” tra malformazioni e pericolo per la salute psichica della donna anche Cass., 29.7.2004, n. 14488, in Foro it., 2004, I, 3327; Cass., 21.6.2004, n. 11488, ibidem, I, 3328, e Cass., 10.5.2002, n. 6735, in Giust. civ., 2002, I, 1490).
Questo orientamento è stato, se non abbandonato, almeno ridimensionato da Cass. n. 7269/2013, la quale viene in rilievo al riguardo, più che per il decisum, per la motivazione che lo sottende.
In essa la Corte in primo luogo esordisce affermando che il problema del nesso di causa in tema di danno da nascita indesiderata va affrontato e risolto «all'infuori degli schematismi e degli stereotipi di soluzioni fortemente condizionate da implicazioni emotive e da opzioni ideologiche»: monito non superfluo, se è vero quanto scriveva Piero Calamandrei sulla inconscia propensione del giudice a correre in soccorso del soggetto ritenuto più debole, quand’anche abbia torto.
Nel merito della questione, la sentenza del 2013 censura piuttosto aspramente l’orientamento consolidato sopra riassunto: esso, si afferma, presta ossequio solo formale al principio secondo cui il nesso causale deve essere provato dall’attore. Quell’orientamento infatti, stabilendo che “corrisponde a regolarità causale” che una donna la quale concepisca un figlio malformato desideri abortire, finisce di fatto per introdurre una presunzione iuris tantum di sussistenza delle condizioni che avrebbero legittimato l’aborto, ovvero il grave pericolo di danno psichico per la madre.
La realtà, invece ‒ prosegue la sentenza del 2013 ‒ è molto più “variegata e complessa”, con la conseguenza che:
a) l’onere di provare che, in caso di corretta informazione, sussistevano le condizioni per l’esercizio dell’aborto, grava sulla gestante o comunque sulla parte attrice;
b) tale prova non può essere fornita semplicemente dimostrando che la donna aveva chiesto di sottoporsi ad un esame diagnostico prenatale. Questa richiesta non è, per la Corte, un “indice univoco” della volontà della gestante di abortire in caso di malformazioni del feto, ma è un solo indizio in tal senso, irrilevante se privo dei requisiti di cui all’art. 2729 c.c.: a meno che, ovviamente, al momento della richiesta dell’esame diagnostico prenatale la gestante non avesse espressamente dichiarato che l’esame era funzionale alla volontà di abortire.
La relativa valutazione, da parte del giudice di merito, per la S.C. deve avvenire senza generalizzanti apriorismi o semplificazioni, ma deve avvenire tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto: tra le quali non potranno non venire in rilievo, in primo luogo, la condotta della madre prima, durante e dopo il parto; le sue credenze religiose; le sue convinzioni etiche; il suo livello culturale.
Sulla base di questi rilievi, la sentenza di cui si discorre ha cassato la decisione di merito la quale aveva rigettato la domanda di risarcimento proposta nei confronti del medico, in base al (solo e semplice) rilievo secondo cui, non essendosi la madre ammalata a parto avvenuto, e dunque quando seppe delle malformazioni, verosimilmente non si sarebbe ammalata nemmeno durante la gestazione, qualora il medico le avesse riferito di quelle.
3.2 Il danno risarcibile
La nascita di un bambino non desiderato può essere considerata un danno risarcibile? Per la giurisprudenza sì. Si perviene a tale conclusione sul presupposto che “danno risarcibile” è il vulnus arrecato ad una qualsivoglia situazione giuridica soggettiva attiva (diritto soggettivo assoluto, diritto soggettivo relativo, interesse legittimo), a condizione che:
a) tale situazione giuridica sia “presa in considerazione” dall’ordinamento: sia, cioè, direttamente od indirettamente tutelata da una o più norme di legge;
b) dalla lesione del diritto o dell’interesse sia derivata, per consequenzialità diretta, «la lesione dell'interesse al bene della vita al quale l'interesse [o il diritto], secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega» (così Cass., S.U., 22.7.1999, n. 500, dalla quale sono stati tratti i due passi che precedono).
Nel caso di omessa diagnosi prenatale di malformazioni del feto, ricorrono ambedue i requisiti appena indicati, in quanto: a) il diritto ad interrompere la gravidanza costituisce una situazione giuridica soggettiva attiva espressamente riconosciuta e regolata dall’ordinamento; b) la soppressione del suddetto diritto (derivante, in tesi, da una incompleta informazione) lede il bene della vita rappresentato dall’interesse dell’individuo a pianificare le proprie scelte familiari e godere di un ménage domestico conforme ai propri desiderata.
Quello di non avere figli, così come quello di non avere figli costretti ad una vita breve o sventurata, perché affetti da malattie incurabili e devastanti, costituiscono diritti essenziali dell’individuo, che trovano il proprio fondamento negli artt. 2 e 29 Cost., e la cui violazione costituisce pertanto “danno ingiusto”, ai sensi degli artt. 1218 e 2059 c.c., a seconda che tale pregiudizio derivi da inadempimento o illecito aquiliano11.
Dalla nascita di un bimbo malformato, senza che la madre ne fosse stata preventivamente informata, può derivare innanzitutto un danno alla salute della madre: normalmente sotto questo profilo viene dedotta in giudizio l’esistenza di una sindrome depressiva, e quindi di un danno biologico di natura psichica.
Anche quando la madre tuttavia non patisca un vero e proprio danno alla salute, è comunque risarcibile a ciascuno dei genitori il danno non patrimoniale scaturito dalla violazione del diritto costituzionalmente garantito (ex artt. 2 e 29 Cost.) a pianificare la propria vita familiare, e quindi a decidere se portare a termine o meno la gravidanza.
Tale danno è risarcibile anche in assenza di reato, in virtù della lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. adottata negli ultimi anni dalla Corte di legittimità12.
Ma in cosa consiste il danno non patrimoniale patito da chi ha avuto un figlio che non voleva? Ovvero, di cosa deve tenere conto il giudice nella stima di tale pregiudizio?
Dall’analisi della giurisprudenza di merito si ricava che sono molteplici i fattori presi in considerazione dai giudici per monetizzare il danno in esame, e tra questi:
a) la sofferenza morale causata dalla perduta possibilità di optare per l’interruzione della gravidanza;
b) l’ansia e l’angoscia causate dalla preoccupazione per la sorte del proprio figlio;
c) il forzoso mutamento delle abitudini di vita, prodotto dalla necessità di assistere un prossimo congiunto gravemente invalido;
d) la circostanza di essersi i genitori trovati senza alcuna preparazione psicologica di fronte alla realtà di un figlio menomato;
e) la circostanza che il bimbo nato con menomazioni sia sopravvissuto o meno;
f) l’età dei genitori, e la conseguente possibilità di avere altri figli13.
Naturalmente, come è ineludibile in tutti i casi in cui la liquidazione del danno non patrimoniale avviene in via equitativa ai sensi dell’art. 1226 c.c., anche il danno da nascita indesiderata fa registrare dissonanze tra i vari uffici giudiziari in punto di quantum. La liquidazione più alta che mi è avvenuto di rintracciare è quella effettuata dalla Corte d’appello di Perugia, che nel 2004 liquidò 300.000 euro a ciascuno dei genitori di una bimba nata senza le gambe per una malformazione congenita; la più bassa quella effettuata dal Tribunale di Roma, che nel 2006 liquidò 50.000 euro pro capite ai genitori di un bambino nato con una gravissima malformazione cardiaca; in quest’ultimo caso, però, giocò un ruolo decisivo la circostanza che il piccolo sopravvisse solo poche settimane.
Vi è invece contrasto in giurisprudenza in merito alla configurabilità in termini di danno risarcibile delle spese di mantenimento ed educazione del bimbo la cui nascita era indesiderata.
Secondo un primo orientamento tale danno non sarebbe risarcibile. Ciò in quanto la l. n. 194/1978 è preordinata a tutelare la salute, e non il patrimonio, della donna, e pertanto gli unici danni risarcibili nel caso di lesione del diritto all’aborto sono quelli scaturenti dalla violazione del bene protetto dalla norma. Pertanto gli unici danni patrimoniali risarcibili nel caso di nascita indesiderata sono rappresentati dai «costi necessari a rimuovere le difficoltà economiche idonee ad incidere negativamente sulla salute della donna»14.
Per un diverso orientamento, invece, nel caso di omessa informazione sulle malformazioni del feto è risarcibile anche il danno patrimoniale, poiché si versa in tema di inadempimento contrattuale e dunque il creditore ha diritto al ristoro dell’intero pregiudizio subito (art. 1223 c.c.)15.
Quest’ultimo orientamento è quello non solo assolutamente maggioritario, ma a parere di chi scrive l’unico condivisibile: il primo orientamento, infatti, si fonda sull’assioma secondo cui il danno risarcibile è solo quello scaturente dalla lesione dell’interesse tutelato dalla norma violata dal responsabile: tesi inaccettabile in tema di violazione di diritti costituzionalmente protetti, perché condurrebbe ad una inammissibile riduzione dell’area di tutela16.
Seri problemi ed irrisolti contrasti riguardano anche la titolarità del diritto al risarcimento del danno da nascita indesiderata.
È pacifico che il risarcimento in questione spetti ad ambedue i genitori: non solo, quindi, la madre, che sola può invocare la lesione del diritto ad abortire, ma anche il padre: non già perché questi sia titolare del diritto all’interruzione della gravidanza, ma perché l’omessa informazione alla madre, incidendo sul diritto del padre alla pianificazione familiare (diritto riconosciuto dagli artt. 29 Cost. e 144 c.c.) genera un danno non patrimoniale che, in quanto lesivo di una situazione di rango costituzionale, è risarcibile anche al di fuori delle ipotesi di cui all’art. 2059 c.c., secondo la lettura costituzionalmente orientata che di tale norma ha dato la Corte di cassazione. Il padre del bambino nato con malformazioni è stato ammesso a risarcimento anche se non legato da matrimonio alla madre, purché stabilmente convivente more uxorio con essa17.
È invece controverso se la legittimazione a domandare il risarcimento spetti: a) alla persona nata con malformazioni congenite; b) ai fratelli della persona nata con malformazioni congenite.
Ad ambedue tali quesiti la giurisprudenza aveva dato in passato risposta negativa: al primo quesito, in quanto l’ordinamento non contemplerebbe un diritto “a non nascere se non sano”; al secondo quesito, in quanto i fratelli della persona nata con malformazioni non vantano alcun diritto alla pianificazione familiare (e dunque a decidere se interrompere o meno la gravidanza), e di conseguenza il mancato esercizio del diritto ad abortire, da parte della madre, non costituirebbe per essi lesione di diritto, e quindi danno.
Con tale tradizionale orientamento si è posta invece in contrasto Cass. 2.10.2012, n. 16754, della quale si è dato ampiamente conto nel Libro dell’Anno del Diritto 2012, al quale su tali questioni sia consentito per brevità rinviare.
3.3 Altri problemi
Sebbene non (ancor) portati all’esame della giurisprudenza, la ricostruzione del danno da nascita indesiderata da quest’ultima compiuta ha lasciato irrisolti alcuni delicati problemi.
Il primo problema riguarda la legittimazione del padre a domandare il danno da nascita indesiderata, nell’ipotesi in cui la madre scelga di non abortire, ovvero manchi la prova che, se fosse stata informata, avrebbe scelto di abortire. In tal caso è giocoforza concludere che alcun risarcimento al padre del concepito, in quanto il suo diritto alla pianificazione familiare è recessivo rispetto al diritto di (non) abortire, di cui è titolare la gestante. Conseguentemente, ove sia possibile affermare che quest’ultima avrebbe ugualmente portato a termine la gravidanza anche se fosse stata informata delle malformazioni del feto, viene a mancare il nesso di causalità tra l’omessa informazione da parte del medico e la lesione del diritto vantato dal padre del concepito.
Il secondo problema riguarda l’ipotesi di una informazione non omessa, ma erronea, la quale riveli alla gestante di malformazioni in realtà inesistenti, inducendola così ad abortire sebbene non ve ne fossero la necessità né i presupposti. In tal caso ci troviamo evidentemente al di fuori della fattispecie del danno da nascita indesiderata, ma non vi è dubbio che anche quello in esame costituisce un danno risarcibile, consistente nella perdita del frutto del concepimento. Danno il cui risarcimento, ovviamente, spetterà alla madre ed al padre del concepito, ma non a quest’ultimo, in quanto non essendo mai avvenuto ad esistenza non può avere acquistato, e di conseguenza trasmesso, alcun diritto al risarcimento nei confronti dei genitori suoi eredi.
Il terzo ed irrisolto problema del danno da nascita indesiderata consiste nella estrema variabilità del quantum debeatur. Come accennato poco innanzi, infatti, l’esame delle liquidazioni compiute dalla giurisprudenza di merito fa registrare una forbice assai ampia da tribunale a tribunale, dell’ordine di diverse centinaia di migliaia di euro. Sarebbe pertanto auspicabile che, anche su tale questione, il giudice di legittimità fornisse non appena possibile delle indicazioni di massima, analogamente a quanto fatto per il ristoro del danno alla salute con la sentenza pronunciata da Cass., 7.6.2011, n. 12408, in Foro it., 2011, I, 2274.
1 Trib. Roma, 11.8.2006, n. 17442, inedita.
2 Rilievi di questo tipo si rinvengono già in Cass., 25.11.1994, n. 10014, in Foro it., 1995, I, 2913, con nota di Scoditti, E., Chirurgia estetica e responsabilità contrattuale, nonché in Nuova giur. civ. comm, 1995, I, 937, con nota di Ferrando, G., Chirurgia estetica, «consenso informato» del paziente e responsabilità del medico.
3 Cass., 21.7.2003, n. 11316, in Foro it., 2003, I, 2970.
4 In questo senso Trib. Roma 23.11.2005, L. c. Università Cattolica, in www.dejure.it.
5 Cass., 10.5.2002, n. 6735, in Dir. e giust., 2002, fasc. 26, 24.
6 Cass., 1.12.1998, n. 12195, in Foro it., 1999, I, 77.
7 Cass., 1.12.1998, n. 12195, in Foro it., 1999, I, 77.
8 Cass., 10.5.2002, n. 6735, in Foro it. 2002, I, 3115; Cass., 1.12.1998, n. 12195, in Danno e resp., 1999, 525; si veda anche, in argomento, Cass., 24.3.1999, n. 2793, ibidem, 766.
9 Cass., 10.5.2002, n. 6735, in Foro it. 2002, I, 3115, § 4.1.5 dei “Motivi della decisione”.
10 Trib. Roma 16.11.2005, inedita.
11 Cass., 20.10.2005, n. 20320, in Guida dir, 2005, fasc. 44, 54; Cass. 29.7.2004 n. 14488, in Dir. giust.., 2004, fasc. 33, 12; Cass., 24.3.1999, n. 2793, in Giust. civ., 1999, I, 1598; Cass., 1.12.1998, n. 12195, in Danno e resp., 1999, 522.
Per la giurisprudenza di merito, nello stesso senso, Trib. Pesaro 26.5 2008, in Giust. civ., 2008, I, 2273; App. Roma, 12.7.2005, in Guida dir., 2005, fasc. 35, 75; Trib. Roma 3.4.2005, inedita; Trib. Camerino, 23.2.2005, in Corti march., 2/3, 2005, 515; App. Perugia, 15.12.2004, in Dir. giust., 2005, fasc. 13, 24; Trib. Napoli, 14.7.2004, in Danno e resp., 2005, 1015; Trib. Roma, 9.3.2004, in Danno e resp., 2005, 197; Trib. Palermo, 3.3.2003, in Gius, 2003, 16-17, 1911; Trib. Genova, 10.10.2002, in Giur. it., 2003, 1825; Trib. Locri, 6.10.2000, in Corr. giur., 6, 2001, 786; Trib. Milano 20.10.1997, in Danno e resp., 1999, 82.
Contra, però, si veda Trib. Trapani, 9.7.2003, in Giur. mer., 2004, 10, secondo cui la l. n. 194 del 1978 non avrebbe introdotto nel nostro ordinamento un diritto all’interruzione della gravidanza, quale interesse in sé e per sé giuridicamente tutelato, ma si è limitata ad ammetterne il ricorso in funzione della tutela della salute e della vita della madre. Da ciò il tribunale siciliano ha tratto la conseguenza che ove il medico, sulla base di un errore diagnostico, abbia impedito alla gestante l’interruzione della gravidanza, egli è tenuto a risarcire il danno «solo quando ciò abbia determinato una lesione all’integrità fisica e psichica della madre che un tempestivo intervento avrebbe consentito di prevenire efficacemente».
12 Dapprima con le sentenze Cass., 31.5.2003, n. 8827 e Cass., 31.5.2003, n. 8828, ambedue in Foro it., 2003, I, 2272 e ss., e quindi con Cass., S.U., 11.11.2008, n. 26972. Nessuna di tali decisioni, beninteso, si occupa di danno da nascita indesiderata, ma i princìpi ivi affermati in tema di danno non patrimoniale sono suscettibili di applicazione generale.
13 Per questi rilievi, ex multis, Trib. Roma 31.5.2006, inedita; Trib. Nocera Inferiore 21.11.2005 in Giur. mer., 2006, 1694, ove il danno in esame viene definito «danno non patrimoniale da diminuita vita di relazione».Si tratta comunque di princìpi largamente ricevuti tra i giudici di merito.
14 Cass., 8.7.1994, n. 6464, in Corr. giur., 1995, 91.
15 Cass., 29.7.2004, n. 14488, in Foro it., 2004, I, 3327; Cass., 1.12.1998, n. 12195, in Foro it., 1999, I, 77. Per la giurisprudenza di merito, nello stesso senso, Trib. Padova, 24.10.2005, in Nuova giur. civ. comm., 2006, I, 1330; App. Perugia, 25.1.2005, in Merito, 2005, fasc. 4, 6.
16 Non sarà inutile ricordare che, secondo Cass. pen., 4.11.2004, n. 7259 (dep. 24.2.2005), imp. Caprini, in Foro it., Rep. 2005, Parte civile, n. 10 (inedita nella motivazione qui trascritta), il diritto al risarcimento del danno da reato spetta «non soltanto in relazione all'offesa del bene oggetto della specifica tutela penale, ma anche in relazione ad ogni altro interesse patrimoniale o non patrimoniale riconducibile nell'ambito della condotta delittuosa in virtù di un nesso di derivazione eziologico». e se tale principio vale per gli illeciti costituenti reato, a fortiori dovrà valere per la lesione di diritti costituzionalmente garantiti.
17 Trib. Roma 6.6.2005 n. 14378, inedita.