Vedi Il danno da nascita indesiderata dell'anno: 2014 - 2016
Il danno da nascita indesiderata
Nell’ambito del contenzioso relativo al cd. danno da nascita indesiderata, una recente ordinanza della terza sezione della Suprema Corte ha rilevato la sussistenza di contrasti giurisprudenziali con riguardo alla ripartizione degli oneri probatori tra danneggiante e danneggiato nonché alla legittimazione del nascituro ad agire iure proprio per il risarcimento del danno. In attesa della pronuncia delle Sezioni Unite, il contributo ricostruisce l’iter giurisprudenziale che ha portato all’emissione della suddetta ordinanza, individuando alcuni profili problematici, ai quali negli ultimi anni sono stati dedicati significativi contributi dottrinali.
Con una significativa sentenza del 2012, modificando il precedente orientamento giurisprudenziale, la Corte di cassazione ha riconosciuto al nato il diritto al risarcimento del danno iure proprio da nascita «malformata», originatosi nel momento del concepimento a causa dell’omessa o errata diagnosi prenatale1. Nell’occasione, oltre a provvedere a un ampliamento del novero dei soggetti legittimati a chiedere il risarcimento del danno (non solo il nato e la madre, ma anche il padre e i fratelli), sono stati altresì affermati importanti principi in materia di ripartizione dell’onere della prova, in particolare con riguardo alla prova del nesso di causalità tra l’omessa o errata diagnosi del medico (comportamento illecito) e la nascita, a seguito della mancata interruzione della gravidanza (evento lesivo).
Rispetto all’innovativo orientamento, la dottrina ha sollevato critiche2, e alcune successive decisioni dei Giudici di legittimità, relative alla ripartizione degli oneri probatori in caso di nascita indesiderata, si sono in parte discostate dalla sentenza del 2012.
Nel febbraio 2015, a fronte di un nuovo caso di nascita «indesiderata», la terza sezione ha rimesso gli atti al primo presidente della Corte di cassazione3, attesa la ricorrenza di un duplice contrasto giurisprudenziale: a) sul riparto degli oneri probatori (circa il fatto, costitutivo del diritto al risarcimento, che, in mancanza dell’inadempimento dei sanitari, la gestante, correttamente informata della malformazione, avrebbe potuto e voluto interrompere la gravidanza); b) sulla «legittimazione» del nato a chiedere per sé il risarcimento. Sulle due questioni sono ora chiamate a pronunciarsi le Sezioni Unite.
Al fine di inquadrare le problematiche sottese alle questioni rimesse alle Sezioni Unite, è necessario esaminare le principali sentenze della Suprema Corte dalle quali sono scaturiti i contrasti giurisprudenziali, mettendo in risalto – per ciò che qui interessa – le diverse soluzioni accolte.
2.1 L’onere probatorio
La suddetta ordinanza della Suprema Corte precisa che la questione del riparto degli oneri probatori si pone sotto due profili, in quanto la prova della sussistenza degli elementi che integrano la fattispecie illecita attiene non soltanto alla correlazione causale fra l’inadempimento dei sanitari (che consiste nell’omissione di approfondimenti diagnostici) e il mancato ricorso all’aborto, ma anche alla sussistenza delle condizioni necessarie per procedere all’interruzione della gravidanza dopo il novantesimo giorno di gestazione (in relazione all’art. 6, lett. b, l. 22.5.1978, n. 194), che, nell’ipotesi, subordina la possibilità di aborto all’accertamento di «processi patologici tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna».
Al riguardo, in linea generale, l’ordinanza ha registrato due orientamenti contrastanti che, pur movendo entrambi dalla premessa secondo cui, trattandosi di fatti costitutivi, spetta alla donna l’onere di dimostrare che l’accertamento dell’esistenza di anomalie o malformazioni l’avrebbe indotta ad interrompere la gravidanza e, altresì, che la conoscenza di tali elementi avrebbe cusato nella gestante uno stato patologico tale da mettere in pericolo la sua salute fisica o psichica (con ciò rendendosi praticabile il ricorso all’interruzione della gravidanza oltre il novantesimo giorno), divergono con riguardo all’individuazione del «tipo e, più specificamente, [de]l contenuto della prova richiesta alla madre»4.
Un primo e più risalente orientamento ritiene «corrispondente a regolarità causale che la gestante interrompa la gravidanza se informata di gravi malformazioni del feto»5. Una delle pronunce più rilevanti ha affermato che «è sufficiente che la donna alleghi che si sarebbe avvalsa di quella facoltà se fosse stata informata della grave malformazione del feto, essendo in ciò implicita la ricorrenza delle condizioni di legge per farvi ricorso», compresa quella del «pericolo per la salute fisica o psichica derivante dal trauma connesso all’acquisizione della notizia», precisando che «l’esigenza di prova al riguardo sorge solo quando il fatto sia contestato dalla controparte, nel qual caso si deve stabilire – in base al criterio (integrabile da dati di comune esperienza evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali) del ‘più probabile che non’ e con valutazione correlata all’epoca della gravidanza – se, a seguito dell’informazione che il medico omise di dare per fatto ad esso imputabile, sarebbe insorto uno stato depressivo suscettibile di essere qualificato come grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna»6.
A partire dalla già evocata sentenza del 20127 il descritto orientamento giurisprudenziale è stato superato, osservandosi come – in mancanza di una preventiva «espressa ed inequivoca dichiarazione della volontà di interrompere la gravidanza in caso di malattia genetica» – la mera richiesta di un accertamento diagnostico costituisca un «indizio isolato ... del fatto da provare (l’interruzione di gravidanza)», dal quale «il giudice di merito è chiamato a desumere, caso per caso, senza il ricorso a generalizzazioni di tipo statistico», se «tale presunzione semplice possa essere sufficiente a provare quel fatto», non potendo pertanto riconoscersi una «automatica significazione ‘richiesta di diagnosi = interruzione di gravidanza’ in caso di diagnosi di malformazioni»; con la conseguenza che, «in mancanza di qualsivoglia elemento che colori processualmente la presunzione de qua, il principio di vicinanza alla prova e quello della estrema difficoltà (ai confini con la materiale impossibilità) di fornire la prova negativa di un fatto induce a ritenere che sia onere di parte attrice integrare il contenuto di quella presunzione con elementi ulteriori (di qualsiasi genere) da sottoporre all’esame del giudice per una valutazione finale circa la corrispondenza della presunzione stessa all’asserto illustrato in citazione».
Alcune sentenze successive hanno seguito una linea ancora più rigorosa. È stato affermato che la richiesta di accertamenti diagnostici non specificamente finalizzati alla ricerca di eventuali anomalie fetali ha un mero valore indiziante, in quanto potrebbe anche soltanto indicare la volontà della donna di gestire nel migliore dei modi la propria gravidanza. Inoltre, si è precisato che il rischio della mancanza o dell’insufficienza del quadro probatorio acquisito andrà a carico della donna e che l’accertamento relativo al nesso di causalità «va condotto con giudizio ex ante, di talché ciò che si è effettivamente verificato successivamente può avere solo valore indiziario o corroborativo, ma non decisivo»8. Sulla scia di tali pronunce si sono poste altre decisioni, le quali hanno sottolineato la limitata rilevanza della non contestazione delle allegazioni attoree da parte del convenuto (discostandosi, sul punto, dal precedente del 2012, che proprio dall’esistenza di tale contestazione aveva fatto dipendere l’insorgenza del «problema della prova»)9.
2.2 La legittimazione ad agire del nato
Risulta più accentuato il contrasto sulla questione della legittimazione del nato a chiedere il risarcimento del danno a carico del medico (e/o della struttura sanitaria), che con il suo inadempimento abbia privato la gestante della possibilità di accedere all’interruzione della gravidanza.
Secondo l’indirizzo giurisprudenziale antecedente al 2012, «l’ordinamento positivo tutela il concepito e l’evoluzione della gravidanza esclusivamente verso la nascita, essendo pertanto (al più) configurabile un diritto a nascere e a nascere sano, suscettibile di essere inteso esclusivamente nella sua positiva accezione ... nel senso che nessuno può procurare al nascituro lesioni o malattie». Non sarebbe dunque configurabile un «diritto a non nascere» o a «non nascere se non sano» (che sarebbe, precisa la giurisprudenza, un «diritto adespota» in quanto «non avrebbe alcun titolare appunto fino al momento della nascita, in costanza della quale proprio esso risulterebbe peraltro non esistere più»), con la conseguenza che, «verificatasi la nascita, non può dal minore essere fatto valere come proprio danno da inadempimento contrattuale l’essere egli affetto da malformazioni congenite per non essere stata la madre, per difetto di informazione, messa nella condizione di tutelare il di lei diritto alla salute facendo ricorso all’aborto»10.
Diversamente, nella più volte ricordata sentenza del 201211 è stata esclusa l’esigenza di ravvisare la soggettività giuridica del concepito per affermare la titolarità di un diritto al risarcimento del danno in capo al nato. La Corte di cassazione ha affermato che il danneggiato non deve considerarsi un «soggetto di diritto», bensì mero «oggetto di tutela» e, da un punto di vista giuridico, non è un centro di imputazione di situazioni giuridiche soggettive nel momento in cui il medico pone in essere la condotta lesiva. Il problema della soggettività giuridica è risolto ascrivendo la fattispecie risarcitoria alla cd. categoria dei danni futuri, definiti, in modo difforme rispetto alla nozione diffusamente accolta12, come i danni «che al tempo della consumazione della condotta illecita non si sono ancora (o non si sono del tutto) prodotti pur in presenza di elementi presuntivi idonei a ritenere che il pregiudizio si produrrà». Il danno si verificherà soltanto al momento della nascita, anche se la condotta lesiva, consistente nell’omessa diagnosi, è avvenuta in un momento precedente. In questo modo, la sentenza supera sul punto il precedente giurisprudenziale che aveva riconosciuto la soggettività giuridica del nascituro13: la scelta dei giudici, in contrasto con il noto dettato normativo della l. 19.2.2004, n. 40, non è peraltro andata esente da vivaci critiche14.
Secondo la più recente ricostruzione della vicenda, dovrebbe pertanto ammettersi – in caso di omessa diagnosi di malformazioni congenite – che «il diritto al risarcimento possa essere fatto valere dopo la nascita anche dal figlio, il quale, per la violazione del diritto all’autodeterminazione della madre, si duole in realtà non della nascita ma del proprio stato di infermità (che sarebbe mancato se egli non fosse nato)». In particolare, ad avviso della Suprema Corte, il danno subito dal nato, risarcibile ex art. 2043 c.c., è costituito «dalla individuazione di sintesi della “nascita malformata”, intesa come condizione dinamica dell’esistenza riferita ad un soggetto di diritto attualmente esistente». L’evento di danno è descritto in modo analitico e presentato come un pregiudizio diverso sia dalla nascita sia dall’handicap in sé considerati. Tuttavia, tenuto conto che l’evento di danno nell’immaginario comune costituisce un accadimento che avviene in un momento conseguente alla condotta illecita (nella specie, come si è detto, il difetto di informazione e l’omessa diagnosi), si ha l’impressione che nel caso di specie l’«evento di danno» possa soltanto essere rinvenuto nella nascita15. Come si vedrà (infra, § 3.2), sulla questione sono intervenuti diversi contributi dottrinali, offrendo letture della vicenda non coincidenti.
Gli orientamenti giurisprudenziali accreditatisi negli ultimi anni non hanno mancato di sollevare argomentati rilievi critici, che interessano entrambe le questioni sulle quali sussiste un contrasto giurisprudenziale in seno alla Suprema Corte.
3.1 La ripartizione degli oneri probatori
Il faticoso percorso della giurisprudenza, brevemente esaminato, testimonia come nei casi di nascita indesiderata la soluzione della questione concernente la prova del nesso di causalità e della volontà di interrompere la gravidanza implichi un bilanciamento tra l’interesse della donna, a non essere sottoposta a un onere probatorio eccessivamente gravoso, e quello dei medici e delle strutture sanitarie, a non veder trasformata una fattispecie di responsabilità professionale in una «vicenda para-assicurativa»16.
In questo quadro, appare condivisibile la critica rivolta all’indirizzo giurisprudenziale che (automaticamente, in mancanza di contestazioni sul punto) connetteva al difetto di informazione del medico il mancato esercizio della facoltà di interrompere la gravidanza17. Le sentenze più risalenti ritenevano corrispondente alla normale regolarità causale che la gestante interrompesse la gravidanza se informata delle malformazioni del feto. In definitiva, si finiva per valorizzare la lesione del diritto di autodeterminazione senza accertare quale sarebbe stata la condotta della gestante, nel caso in cui avesse conosciuto la presenza della patologia. In questo modo, com’è stato illustrato18, sulla base della richiesta di accertamenti diagnostici rivolta dalla donna al sanitario nonché della malformazione, la giurisprudenza presumeva tre diversi fatti: la sussistenza dei presupposti che legittimano l’interruzione della gravidanza, la scelta di ricorrervi e la ricorrenza del nesso di causa tra inadempimento e danno.Dall’altro lato, in capo al sanitario era posto l’onere di dimostrare la ricorrenza di fattori ambientali, culturali, di storia personale, idonei a provare in modo certo che, pur informata, la donna avrebbe accettato la continuazione della gravidanza. Ciò spesso si risolveva in una probatio diabolica in contrasto con il canone della vicinanza della prova.
Le decisioni più recenti, che hanno creato il contrasto giurisprudenziale, si segnalano per una maggiore prudenza nell’uso del ragionamento presuntivo e per una distribuzione dell’onere della prova più equilibrato. Come si è visto, la mera richiesta della donna di accertamenti diagnostici non è più ritenuta sufficiente al fine di presumere la sussistenza del nesso di causalità. Sono necessari elementi ulteriori idonei a dimostrare, mediante un giudizio condotto ex ante, che la gestante avrebbe interrotto la gravidanza.
La problematica relativa all’orientamento più rigoroso è quella di rendere eccessivamente difficile per la donna la soddisfazione dell’onere della prova nell’ambito di una ricostruzione postuma di elevata complessità. Tuttavia, da una lettura delle sentenze, in particolare della n. 7269/2013, ritenuta la più severa relativamente alla soluzione della questione in esame, la prova del nesso di causa non sembra proibitiva. L’obiettivo perseguito da quest’ultima decisione è quello di agganciare l’indizio presuntivo della richiesta di accertamenti diagnostici a circostanze che «colorino processualmente la presunzione», in modo da chiarire se le circostanze concrete e specifiche che caratterizzano la vicenda processuale consentano di presumere che la donna avrebbe interrotto la gravidanza19. Peraltro, riprendendo orientamenti giurisprudenziali precedenti, i Giudici di legittimità precisano che nella prova per presunzioni, ai sensi degli artt. 2727 e 2729 c.c., «non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame d’assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo per contro sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità e di probabilità»20.
In questo senso, ai fini del ragionamento presuntivo, la stessa sentenza del 2013 nel caso di specie individua un elemento di primaria importanza nella gravità delle patologie del nascituro, «che interagendo con la propensione a una procreazione fortemente desiderata, ma cosciente e responsabile, bene avrebbero potuto scatenare conflitti e scompensi psicopomportamentali severi»21. L’esempio dimostra che se il futuro percorso giurisprudenziale dovesse seguire la linea tracciata dall’indirizzo giurisprudenziale più rigoroso, sarà possibile, facendo riferimento alla casistica, stilare un catalogo di elementi probatori idonei a «colorire» la suddetta presunzione, da utilizzare per risolvere il caso concreto.
3.2 L’individuazione del «danno ingiusto»
A molti commentatori non è sembrata condivisibile la scelta di trattare la nascita alla stregua di un evento di danno. Affinché vi sia un danno è necessaria una «diminuzione» o «una perdita», ossia un fatto che determini un peggioramento nella condizione del soggetto. Nel caso deciso dalla sentenza del 2012, pur senza ricorrere alla controversa figura del diritto «a non nascere se non sani», salvo considerare la condizione della persona mai nata migliore di quella nata malformata, la condotta omissiva del medico non ha determinato nocumento al bambino, purtroppo già portatore della sindrome di Down. La situazione è molto diversa rispetto a quella decisa dalla nota sentenza del 200922, poiché in quel caso la gestante non era stata informata sui probabili rischi connessi all’assunzione di farmaci per facilitare il concepimento, ed effettivamente le sostanze assunte, a seguito della condotta negligente dei sanitari, hanno determinato l’insorgenza di gravi malformazioni del nascituro, o l’ulteriore ipotizzabile evenienza che la patologia del nascituro, correttamente diagnosticata, possa essere alleviata o guarita. Al di là della scelta di considerare il nascituro «soggetto di diritti» od «oggetto di tutela», nel caso deciso dalla sentenza del 2012, anche se la madre fosse stata correttamente informata sul ventaglio di diagnosi prenatali disponibili, la condizione cromosomica del nascituro non sarebbe stata modificata. In definitiva, pur volendo ascrivere la fattispecie alla categoria dei danni futuri (con il significato individuato nella sentenza del 2012), ammettendo la possibilità che l’evento dannoso si manifesti in un momento successivo alla condotta, allorché il danneggiato diviene «soggetto di diritti», non è sembrato che la condotta del medico abbia causato al bambino un danno ingiusto23.
Secondo una diversa lettura, la difficoltà di misurare il danno discendente dall’impossibilità di «comparare una vita colpita da malattia con una non vita», integrerebbe un ostacolo «solo apparente»24. In questa prospettiva, sarebbe da accogliere la soluzione della sentenza del 2012, la quale ha superato il suddetto problema affermando l’‘‘inqualificazione’’ tout court della non vita e ponendo l’accento esclusivamente sulla circostanza che il soggetto, una volta venuto a nascita, è portatore di handicap.
Sulla stessa linea, si è sostenuto che il danno risarcibile «non è costituito dalla differenza che in ipotesi passa tra il nascere malato ed il non nascere affatto», ma soltanto dalla «malattia» del nato25. Posto che la «malattia» da un punto di vista naturalistico non è stata causata dalla condotta del medico, si ritiene che «ciò che conta in questi giudizi di causalità» sarebbe «il nesso giuridico che lega, a prescindere dal dato biologico, la condotta colpevole del medico al pregiudizio risentito dal minore, ossia l’omessa diagnosi con la malattia del bambino»26. Ammettendo che il danno da prendere in considerazione è la mera malattia e accogliendo l’idea dell’esistenza di una dimensione giuridica della causalità27, il giudizio controfattuale potrebbe essere compiuto in questi termini: il medico è causa della malattia poiché un suo diligente operato avrebbe evitato il danno (la malattia), sia pure attraverso l’aborto28.
3.3 L’esigenza di tutelare il nato
Alla luce del significativo numero dei soggetti coinvolti nella vicenda risarcitoria può porsi l’interrogativo se sia davvero necessario creare, con l’ausilio delle ricordate argomentazioni, una fattispecie di illecito extracontrattuale ad hoc per il nato, riconoscendo ad esso il risarcimento del danno non patrimoniale. Sul punto, nel 2012 la Suprema Corte in modo esplicito ha rilevato come non sia «del tutto appagante … l’evocazione di quella sensazione di sotterfugio cui ricorrerebbe la giurisprudenza per riconoscere il risarcimento in via indiretta all’handicappato, né la pur suggestiva considerazione volta a rilevare la contraddizione logica del riconoscere il risarcimento del danno ai genitori e non riconoscerlo al minore nato con la malattia», senza tuttavia negare che il risarcimento del danno da «nascita malformata» mira ad attribuire «direttamente al soggetto che di tale condizione di disagio è personalmente portatore il dovuto importo risarcitorio, senza mediazioni di terzi, quand’anche fossero i genitori, ipoteticamente liberi di utilizzare il risarcimento a loro riconosciuto ai più disparati fini». In definitiva, il risarcimento del danno liquidato direttamente in favore del nato costituisce la strada più sicura per garantire l’utilizzo del denaro a miglioramento della «qualità» di vita del soggetto portatore di handicap; tuttavia anche in tale ipotesi in realtà nulla esclude che i genitori, rappresentanti legali del minore incapace, adoperino le risorse per fini che esulano da quanto strettamente necessario al mantenimento del soggetto disabile. Inoltre, con riguardo al risarcimento del danno subito dal nato, si segnala il rischio che la soluzione «inneschi duplicazioni risarcitorie rispetto a quanto è già stato risarcito a favore dei genitori al fine di compensare le spese necessarie per l’assistenza del figlio»29.
In conclusione, indipendentemente dalle descritte problematiche e dalla nota questione relativa alla cd. medicina difensiva, in virtù delle argomentazioni presenti nella sentenza e dei commenti a essa dedicati, il riconoscimento del risarcimento del danno al nascituro effettuato con la sentenza del 2012 sembra costituire una vera e propria scelta «politica» dei giudici di legittimità, destinata a favorire il soggetto portatore di handicap. In questo senso, potrebbe risultare superfluo analizzare in maniera analitica la «tenuta argomentativa» dei passaggi salienti della motivazione poiché il risultato da raggiungere, innegabilmente, ha determinato alcune forzature nella ricostruzione sistematica della fattispecie. Sotto questo profilo, per individuare la questione di fondo sottesa alla pronuncia, una volta ricordati alcuni dei problemi principali della sentenza sotto il profilo dogmatico, possono richiamarsi le parole di un commentatore, il quale, rilevato che il principio di solidarietà «è il grande assente nella motivazione della decisione» del 2012, pone l’interrogativo se l’esigenza di assicurare una condizione di vita meno disagevole debba essere riconosciuta dal diritto «soltanto per i nati “malformati” sopravvissuti alla mancata interruzione della gravidanza, o anche per tutti quelli che tali comunque entrano nel mondo con gli stessi problemi»30. Emerge allora – ancora, nella prospettiva del contributo ricordato – il problema di garantire il rispetto del principio di eguaglianza sostanziale venendo incontro a tutti i portatori di handicap e, sullo sfondo, l’impressione che la soluzione a detto problema non possa essere offerta dall’istituto della responsabilità civile, ma richieda un intervento pubblico di solidarietà sociale31.
1 Cass., 2.10.2012, n. 16754, in Foro it., 2013, I, 181 ss.
2 Cfr. Busnelli, F.D., Verso una giurisprudenza che si fa dottrina. Considerazioni in margine al revirement della cassazione sul danno da c.d. «nascita malformata», in Riv. dir. civ., 2013, 1519 ss., spec. 1528.
3 Cass., ord. 23.2.2015, n. 3569, in Foro it., 2015, I, 1572 ss.
4 Cass. n. 3569/2015, cit.
5 Cass., 13.7.2011, n. 15386, in Foro it. Rep., 2011, voce Professioni intellettuali, n. 144; Cass., 4.1.2010, n. 13, ivi, 2010, voce cit., n. 157; Cass., 29.7.2004, n. 14488, in Foro it., 2004, I, 3327; Cass., 10.5.2002, n. 6735, ivi, 2002, I, 3115.
6 Cass., 10.11.2010, n. 22837, Foro it. Rep., 2011, voce Professioni intellettuali, n. 131.
7 Cass. n. 16754/2012, cit.
8 Cass., 22.3.2013, n. 7269, in Rep. Foro it., 2013, voce Sanità pubblica e sanitari, n. 309.
9 Cass., 10.12.2013, n. 27528; Cass., 30.5.2014, n. 12264, in Danno e resp., 2014, 1143 ss.
10 Cass., 11.5.2009, n. 10741, in Foro it., 2010, I, 141 ss.; Cass., 14.7.2006, n. 16123, in Foro it. Rep., 2006, voce Responsabilità civile, n. 277; Cass. n. 14488/2004, cit.
11 Cass. n. 16754/2012, cit.
12 Per danni futuri si intendono generalmente «quei danni di cui si prevede con ragionevole certezza il verificarsi in un tempo successivo alla domanda di risarcimento»: così Bianca, C.M., Diritto civile, V, La responsabilità, II ed., Milano, 2012, 178. Nello stesso senso, già Scognamiglio, R., Risarcimento del danno, in Nss. D.I., XVI, Torino, 1969, 17.
13 Cfr. Cass. n. 10741/2009, cit., secondo cui, stanti la soggettività giuridica – entro determinati limiti – del concepito e il suo diritto a nascere, nei confronti di questo e dei suoi genitori rispondono per i danni, patrimoniali e non, connessi a rilevanti patologie del feto, i sanitari che abbiano mancato di informare la madre (il cui rapporto con i medici produce effetti protettivi nei confronti del nascituro) dei probabili rischi connessi all’assunzione di farmaci per facilitare il concepimento, quando tali sostanze abbiano determinato l’insorgenza di gravi malformazioni del nascituro.
14 Cfr. Busnelli, F.D., op. cit., 1524: «la trasformazione di quello che il legislatore ha qualificato come “soggetto” in quello che la giurisprudenza definisce espressamente “oggetto” assume aspetti davvero inquietanti di “creatività” giurisprudenziale».
15 Quanto alla descrizione dell’evento di danno, se posti a confronto con l’articolata formulazione di Cass. n. 16754/2012, cit. sorprendono per semplicità gli esempi addotti da Gorla, G., Sulla cosiddetta causalità giuridica: «fatto dannoso e conseguenze», in Riv. dir. comm., 1951, I, 413, il quale menziona eventi naturalistici agevolmente identificabili, come la ferita, la morte, ecc.
16 Così Cass. n. 7269/2013, cit.
17 Cfr. Gorgoni, M., La responsabilità sanitaria per nascita indesiderata: in attesa delle sezioni unite, in Resp. civ. prev., 2015, 704 ss., la quale discorre in proposito della «creazione di un orientamento giurisprudenziale creativo contra legem che ha esasperato in senso unilaterale la distribuzione dell’onere della prova».
18 Gorgoni, M., op. cit., 706.
19 Sul punto, v. Pucella, R., Legittimazione all’interruzione della gravidanza, nascita «indesiderata» e prova del danno (alcune considerazioni in merito a Cass. 22 marzo 2013, n. 7269), in Nuova giur. civ. comm., 2013, II, 653 ss.; Fontana Vita della Corte, M., Nascita indesiderata per omessa diagnosi: onere probatorio, interesse leso e danno risarcibile, in Resp. civ. prev., 2013, 1506; Mussi, C.A., Nascita indesiderata per omessa diagnosi di malformazioni del feto e risarcimento del danno iure proprio del nascituro, in Contratti, 2014, 293; Garibotti, A., Dal paternalismo medico al paternalismo giudiziale, in Riv. it. med. leg., 2014, 1345 ss.; Vapino, A., La prova della volontà abortiva ai fini del risarcimento danni da nascita indesiderata, in Giur. it., 2015, 50 ss.
20 Cass. n. 7269/2013, cit.
21 Cass. n. 7269/2013, cit.
22 Cass. n. 10741/2009, cit.
23 Cfr. Carusi, D., Revirement in alto mare: il «danno da procreazione» si «propaga» al procreato?, in Giur. it., 2013, 809, secondo cui l’illecito del medico «non ha mutato le prospettive del concepito dal nascer sano al nascer “malformato”». Nel senso che il predicato del «danno ingiusto» costituisce il punctum dolens della motivazione, v. anche Palmerini, E., Nascite indesiderate e responsabilità civile: il ripensamento della cassazione, in Nuova giur. civ. comm., 2013, I, 202 ss.
24 Gorgoni, M., op. cit., 710, la quale segnala che nel dibattito etico e giuridico guadagna spazio il convincimento che la condanna ad una vita malata costituisca un danno che una scelta procreativa responsabile avrebbe evitato.
25 Così Cricenti, G., Il concepito ed il diritto di non nascere, in Giur. it., 2013, 818, secondo cui «l’azione del minore non è la richiesta di una risposta ad una questione di ontologia radicale: è meglio nascere malato che non nascere affatto. È un’azione di responsabilità civile che mira al risarcimento dell’unico danno possibile, quello consistente nel fatto diessere nato malato, e dunque della malattia. È un’azione di risarcimento del danno alla salute, piuttosto che una recriminazione per il fatto di essere nati».
26 Cricenti, G., op. cit., 819.
27 Cfr. Travaglino, G., La questione dei nessi di causa, Milano, 2012, 87, 127, il quale discorre di una «dimensione politica» della causalità «che potrebbe più utilmente attivare i circuiti mentali della consapevolezza, piuttosto che alimentare assai ingenue inquietudini delle tante tricoteuses domestiche dell’interpretazione» (72 s.).
28 Cricenti, G., op. cit., 819. Sembra proprio questa la strada percorsa da un obiter dictum di Cass., 3.5.2011, n. 9700, in Danno e resp., 2011, 1168 ss., secondo cui il figlio «si duole in realtà non della nascita ma del proprio stato di infermità (che sarebbe mancato se egli non fosse nato)».
29 Palmerini, E., op. cit., 204.
30 Cfr. Busnelli, F.D., op. cit., 1525.
31 Così, in termini interrogativi, ancora Busnelli, F.D., op. cit., 1525 s.