Il danno da omessa o.p.a. obbligatoria
Con le sentenze nn. 14392, 14399 e 14400 del 10.8.2012, la Cassazione ha affermato il diritto al risarcimento del danno in capo al socio di società quotata, cui non sia stata proposta un’offerta pubblica d’acquisto obbligatoria, ai sensi dell’art. 106 t.u.f.
Gli azionisti di minoranza avevano ottenuto, in primo grado1, la condanna del mancato offerente al risarcimento del danno ex art. 1218 c.c., pari alla differenza tra il prezzo al quale si sarebbero potute cedere le azioni in caso di opa e la quotazione di borsa delle azioni alla data di scadenza del termine per l’opa medesima. Si tratta dell’azione proposta in occasione dell’offerta pubblica, mai lanciata, relativa al controllo della Fondiaria Assicurazioni s.p.a. ad opera di Montedison s.p.a., controllata da Mediobanca. Operazione per la quale, in un primo tempo, l’Isvap aveva rifiutato l’autorizzazione, onde era stata configurata mediante l’intervento di acquirenti diversi, dalla Consob tuttavia considerati soggetti interposti, così che tale autorità aveva diffuso un comunicato, in cui affermava essersi verificato l’acquisto di una partecipazione superiore al 30%.
La sentenza era stata riformata in secondo grado2.
Ma la Cassazione ha respinto la tesi, tratteggiata dalla corte d’appello, secondo cui le disposizioni del testo unico della finanza, nel prevedere la sterilizzazione del voto e l’obbligo di rivendita entro l’anno delle azioni acquistate in violazione dell’obbligo di offerta pubblica d’acquisto, non lascerebbero spazio al risarcimento del danno in favore dell’azionista terzo, non avendo egli titolo per far valere la responsabilità contrattuale della controparte, per il mancato adempimento di un contratto, in realtà mai stipulato.
È stato, invece, affermato il principio secondo cui, allorché sia violato l’obbligo di opa, che scatta in conseguenza di acquisti azionari comportanti una partecipazione superiore al 30% del capitale, compete agli azionisti, cui l’offerta avrebbe dovuto essere rivolta, il diritto di ottenere il risarcimento del danno patrimoniale da essi sofferto a titolo di responsabilità contrattuale, o ex lege (ma la Corte mostra di preferire la prima qualificazione), qualora provino gli elementi in base ai quali si possa riconoscere un valore economico effettivo all’opzione di acquisto, che essi avrebbero dovuto ricevere.
La Corte ha rammentato che l’istituto si fonda sull’intento di far beneficiare almeno in parte del plusvalore, lucrato dal venditore del pacchetto azionario di maggioranza, anche gli altri soci, che, pur di minoranza, hanno comunque con il proprio investimento contribuito al valore della società. Ciò, peraltro, non perché (smentendo una tesi in tal senso3) l’istituto sia espressione del principio di parità di trattamento dei soci da parte della società ex art. 92 t.u.f., che attiene, invece, al rapporto tra portatori degli strumenti finanziari ed emittenti.
Il legislatore, nel convincimento della Corte, ha inteso preservare sia la contendibilità delle società e l’efficienza del mercato del controllo societario, sia il diritto delle minoranze di operare una scelta ponderata. L’istituto, sebbene avente finalità pubblicistiche, è destinato a realizzare nell’immediato proprio l’interesse dei soci di minoranza, che, se scelgono di monetizzare le loro azioni, beneficiano in qualche modo anch’essi del premio di maggioranza.
Dalla dimensione endosocietaria, si passa così a quella del mercato finanziario.
Sussiste, pertanto, l’obbligo a contrarre con gli azionisti di minoranza «a determinate condizioni, se lo vorranno», e, dunque, a fronte di esso si pone il diritto soggettivo dei destinatari, con la conseguenza che dall’inadempimento dell’obbligo deriva la responsabilità contrattuale4 a carico del soggetto inadempiente, derivante da un obbligo preesistente. Ne deriva che, secondo la Corte, sarà risarcibile l’interesse positivo.
Anche se è difficile pensare ad un’esecuzione in forma specifica di tale obbligo, ai sensi dell’art. 2932 c.c.5, nondimeno esso sorge verso soggetti determinati, ossia coloro che, in quel momento, detengono le azioni emesse dalla società quotata.
Inoltre, la decisione precisa come, al fine di riconoscere il risarcimento del danno agli azionisti di minoranza, non è l’«effettivo conseguimento del controllo della società» scalata «a costituire il presupposto dell’obbligo di opa e del correlativo diritto degli interessati a vedersela proporre» (come aveva ritenuto invece la sentenza di primo grado, in forza di successive operazioni), ma basta «il mero fatto che taluno abbia acquistato azioni in misura superiore all’anzidetta soglia del 30%, in presenza delle condizioni indicate nel citato art. 106, ed abbia pagato per tali azioni un prezzo superiore a quello corrente di mercato».
Peraltro, la mancata acquisizione del controllo nonostante l’acquisto superiore al 30% è prevista dal legislatore come possibile causa di esenzione: l’art. 106, co. 6, t.u.f. rimette alla discrezionalità della Consob il potere di stabilire, con provvedimento motivato e con riferimento a casi astrattamente riconducibili alle fattispecie di esenzione tipicamente previste, le ipotesi in cui il superamento della quota soglia non ingenera alcun obbligo di offerta. Al di fuori di tali casi, al superamento della quota-soglia il soggetto è tenuto ad attivare il procedimento previsto dalla legge (comunicazione alla Consob, che mira ad informare il mercato e la società bersaglio; promozione dell’offerta; presentazione all’autorità del documento destinato alla pubblicazione, in modo da permettere la scelta ponderata da parte dell’azionista di minoranza).
Posta di fronte all’esigenza di individuare il danno ed il nesso causale, la Corte afferma che la misura del risarcimento del danno non va automaticamente determinata nel prezzo cui l’azione sarebbe stata venduta all’offerente dell’opa, ove il relativo obbligo fosse stato assolto e l’offerta accettata: la lesione, invece, consiste proprio nell’avere perduto l’opzione di acquisto, ossia la possibilità di aumentare la propria quota azionaria. In sostanza, gli azionisti devono poter scegliere se scommettere su un futuro aumento di valore delle azioni, oppure monetizzarle subito come premio di maggioranza.
L’opzione corrisponde ad un interesse giuridicamente protetto avente ad oggetto un’entità patrimoniale a sé stante.
La qualificazione dell’obbligo di opa in termini di obbligazione in senso tecnico, avente ad oggetto la formulazione di una proposta di acquisto che abbia determinati requisiti ai singoli azionisti di minoranza, i quali così possano esprimere una scelta negoziale effettivamente libera e consapevole, è stata già operata da alcuni giudici di merito, che hanno individuato nella condotta dannosa del mancato offerente la violazione di un’opzione put, prevista direttamente dalla legge6. In questo modo, quindi, l’applicazione delle regole civilistiche procede di pari passo con l’apparato sanzionatorio di settore, evidenziando la coesistenza di interessi privati e pubblici nei mercati finanziari.
Si tratta, in sostanza, dell’occasione di disinvestimento di cui gli azionisti sono ingiustamente privati, assimilabile, sotto il profilo finanziario, ad un’opzione di put: è quindi il valore economico di questa il danno da risarcire7.
Ma grava sul danneggiato l’onere di provare di aver perduto, con quell’opzione non ricevuta, un valore economico effettivo: si terrà conto, perciò, dei fattori molteplici, che abbiano influenzato il valore di borsa dell’azione nel periodo considerato, avuto altresì riguardo al prezzo che essa avrebbe avuto in caso di opa.
In definitiva, in forza del principio enunciato, in presenza di scalate societarie gli azionisti di minoranza hanno diritto al risarcimento del danno, laddove si verifichino i presupposti del sorgere dell’obbligo di offerta pubblica d’acquisto obbligatoria, che non sia adempiuto, e sebbene non sia stato raggiunto l’effettivo controllo della società da parte del soggetto obbligato.
1 Trib. Milano, 9.6.2005, fra l’altro in Foro it., 2005, I, 3210. Sulla vicenda Fondiaria-Sai, v. pure Trib. Milano, 15.3.2010, in Giur. it., 2010, 1308; id., 29.5.2008, in Banca borsa, 2008, II, 635; id., 21.5.2007, in Soc., 2008, 205; id., 8.5.2006, in Corr. giur., 2006, 983.
Prima di tale operazione societaria, la violazione dell’obbligo di promuovere l’opa totalitaria era stata considerata nelle vicende Ferfin ed Olcese. Nel primo caso, i giudici di merito avevano negato la configurabilità del diritto al risarcimento in capo ai soci di minoranza, qualificando il dovere di lanciare l’opa come un onere correlato al conseguimento effettivo del controllo della società bersaglio (Trib. Milano, 23.6.1997, in Soc., 1998, 303 e App. Milano, 27.11.1998, in Foro it., 1999, 2712). Nel secondo, entrambi i giudici di merito avevano, viceversa, ravvisato il diritto soggettivo del socio di minoranza di aderire all’offerta, ma ciò solo dopo che l’offerta venga realmente pubblicata, divenendo irrevocabile e vincolante per lo scalatore, riscontrando il danno nella violazione del principio generale del neminem laedere ex art. 2043 c.c., per avere confidato nel conseguimento del premio di maggioranza (Trib. Milano, 20.3.2000, in Soc., 2000, 1361).
2 App. Milano, 15.1.2007, fra l’altro in Banca, borsa, 2007, 572. Nello stesso senso, anche App. Milano, 20.12.2007, in Giur. it., 2008, 1952.
3 Mangiaracina, L., Violazione dell’obbligo di Opa e rimedi: diritto italiano e diritto tedesco, in Eur. e dir. priv., 2010, 749; Morello, U., Mancata promozione di opa totalitaria e risarcimento del danno, in Soc., 2006, 410; Stella Richter, M., «Trasferimento del controllo» e rapporti tra soci, Milano, 1996, 145. In giurisprudenza, cfr.: Trib. Milano, 9.6.2005 e 8.5.2006, citt.
Nel senso della Cassazione ora in commento: Tucci, A., La violazione dell’obbligo di offerta pubblica d’acquisto, Milano, 2008, 1; Gatti M., Mancata promozione di Opa obbligatoria e risarcimento del danno, in Giur. comm., 2005, II, 774, 783.
4 In tal senso, fra gli altri, cfr. Castronovo, C., Vaga culpa in contrahendo: invalidità responsabilità e la ricerca della chance perduta, in Europa e dir. priv., 2010, 1, a 35 s.; Cacchi Pessani, S., Violazione dell’obbligo di Opa e risarcimento del danno, in Giur. comm., 2008, II, 496, secondo cui il rapporto che intercorre tra chi è obbligato a promuovere un’opa obbligatoria ai sensi dell’art. 106 t.u.f. e gli azionisti che ne sono destinatari non è diverso da quello che s’instaura tra i soci di una società nel cui statuto sia prevista una clausola di prelazione; Enriquez, L., Mercato del controllo societario e tutela degli investitori, Bologna, 2002, 237. Per la responsabilità aquiliana, invece, cfr. Guizzi, G., Noterelle in tema di opa obbligatoria, violazione dell’obbligo di offerta e interessi protetti, in Riv. dir. comm., 2005, II, 251.
5 Ed invece, in tal senso, cfr. Weigmann, R., Offerte pubbliche di acquisto (opa), in Enc. giur. Treccani, Roma, 2001, 15.
6 Trib. Milano, 29.5.2008 e 21.5.2007, citt. Ciò, sulle orme di Gatti, M., Mancata promozione di Opa obbligatoria, cit., 785.
7 In dottrina, si reputa corretto che la determinazione del valore dell’opzione di put di cui gli azionisti sono ingiustamente privati, e quindi del danno risarcibile ex art. 1218 c.c., debba essere fatta, anziché sulla base di una presunzione di equivalenza tra valore della put e differenza tra prezzo d’opa e valore di mercato delle azioni, utilizzando i metodi di valutazione delle opzioni elaborati dalla moderna scienza delle finanze: Cacchi Pessani, S., op. cit.