Il Dante di Croce e Gentile
Il rapporto fra il trentenne Croce e Gentile ancora studente, di nove anni più giovane, inizia con uno scambio epistolare nel 1896, al quale seguirà un incontro a Napoli nel luglio dell’anno successivo, fino a consolidarsi in una sincera amicizia e un sodalizio intellettuale destinato a durare quasi trent’anni. Nel giugno 1896 Croce ringrazia il normalista Gentile per l’estratto della tesina di licenza del primo biennio, presentata in quel di Pisa ad Alessandro D’Ancona, dedicata alle commedie di Antonfrancesco Grazzini detto il Lasca, e gli invia in contraccambio la seconda edizione del saggio La critica letteraria. Questioni teoriche pubblicato nel 1894, sul carattere teoretico dell’arte come rappresentazione individuale, primo frutto della riflessione su arte e storia che segna l’avviamento verso la filosofia dell’autodidatta Croce. L’argomento affrontato da Croce impegnerà i due studiosi in una discussione durata fino al 1899, perché il saggio, com’è noto, prelude al testo fondativo dell’estetica crociana, le Tesi di un’estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale: memoria letta all’Accademia pontaniana nella primavera del 1900, nucleo dell’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale del 1902, recensita, con dichiarato consenso, da Gentile sul «Giornale storico della letteratura italiana» (1903, 41, pp. 89-99), anche se non può fare a meno di segnalare «due difficoltà […] capitali» dal punto di vista filosofico: «Se [lo spirito] è una realtà, può esser altro che una forma metafisica?» e ancora:
se lo spirito è un’attività unica, e l’attività estetica e la logica sono momenti e gradi di essa, come ammettere tra fatto estetico e fatto logico, tra intuizione e concetto, quell’abisso con cui Croce intende tenerli assolutamente divisi? (La prima edizione dell’“Estetica”, in G. Gentile, Frammenti di estetica e di teoria della storia, 1° vol., 1992, p. 84).
Interrogativi che, sviluppati nel corso degli anni, con l’elaborazione dell’idealismo «attuale», confluiranno nell’aspra negazione della dignità filosofica dell’estetica crociana e più in generale della «filosofia delle quattro parole» fin dalla prima pagina della Filosofia dell’arte del 1931.
In breve, se queste sono le circostanze iniziali dell’incontro Croce-Gentile – prevedibile riconoscimento del magistero di Croce da parte del più giovane nell’ambito della comune battaglia per la rifondazione idealistica della cultura italiana –, il rapporto così istituito e l’amicizia che li legò, nonostante le posizioni di partenza non collimanti, appaiono destinati a esaurirsi progressivamente negli anni, con lo sviluppo dei rispettivi sistemi filosofici, per entrare irreparabilmente in rotta di collisione con le scelte morali e politiche che ne conseguirono, dopo il tracollo dell’Italia liberale e l’avvento del regime fascista. Ma segnali non dubbi di un divario metodologico destinato ad allargarsi negli anni tra i due contraenti di questa union sacrée contro i ritardi e le illusioni della filosofia positiva, delle poetiche del decadentismo e delle avanguardie, si possono già ravvisare nelle pagine dedicate da Gentile alla personalità e all’opera di Dante nei primi anni del secolo nuovo.
Molte pagine di elevata tensione filosofico-concettuale sulla filosofia e la teologia dantesche, pur senza concludere con una complessiva proposta d’interpretazione, aveva lasciato nelle sue opere maggiori Vincenzo Gioberti negli anni centrali del Risorgimento. Non sarà quindi per caso che quel modello di ricerca essenzialmente rivolto al pensiero dantesco abbia indotto Gentile, da tempo impegnato nella revisione critica e nel restauro storiografico della filosofia italiana dell’Ottocento di cui Gioberti è gran parte (G. Gentile, Rosmini e Gioberti, 1898, 1958), ad approfondire il tema del Dante filosofo-teologo nel più ampio quadro della filosofia medievale, al di là della celebrazione in chiave risorgimentale consustanziale al discorso giobertiano. Mentre Croce, quasi vent’anni dopo, intervenendo in occasione dell’anno giubilare intenderà dirigersi a un pubblico più vasto della setta ‘dantisti-dantomani’ da tempo al centro della sua polemica, allo scopo di riscattare la Commedia alla poesia portando a compimento il disegno interpretativo di Francesco De Sanctis.
Comune e dichiarato il punto di partenza rappresentato da De Sanctis e, per Croce, a monte, Giambattista Vico, ma assai diverse le intenzioni e le modalità di approccio all’opera dantesca. Mentre Gentile studia e celebra il pensatore-poeta che compendia nella Commedia spiritualità e dottrina, tradizione religiosa e sapere laico al tramonto del Medioevo, conclude un’epoca e ne preannuncia una nuova di italiana rinascita, Croce si propone di stabilire, sulla base della nuova estetica idealistica, come si debba leggere la Commedia per intenderne l’«altissimo canto», fino allora sepolto sotto la «grave mora» dell’esegesi filologico-erudita.
Gentile e Croce sono accomunati dal rifiuto del dilettantesco e affliggente sciame erudito in cui sembrava essersi disperso ed esaurito l’impegno filologico della scuola storico-positiva. Ma Gentile appare soprattutto attento alla verifica teoretica dell’approccio alla Commedia, in particolare del nodo fondamentale contenuto-forma, nodo insoluto della lettura desanctisiana del poema, al punto da imputare al critico la continua violazione dei due «canoni fondamentali» della critica, nella prospettiva di una «critica estetica, libera e indipendente dalla indagine storica che essa presuppone»: «non c’è propriamente una storia delle forme artistiche, e cioè dell’arte, ma solo dell’astratto contenuto dell’arte; [...] non c’è un contenuto per sé estetico o inestetico» (Studi su Dante, a cura di V.A. Bellezza, 1965, p. 113). Mentre Croce – premesso che i saggi danteschi di De Sanctis «sono da considerare nella storia degli studi su Dante vera pietra miliare» – attribuisce il contrasto, irrisolto nelle pagine desanctisiane, fra il poeta e il teologo-filosofo Dante, tra allegorismo e poesia, all’influenza della critica idealistica di stampo hegeliano e al tributo pagato alla lettura drammatico-passionale dell’estetica romantica, che spiega il primato assegnato, anche dal critico irpino, all’Inferno: «i romantici […] confondevano sovente la passione come ‘materia’ con la passione come ‘forma’, deprimendo l’idealità dell’arte» (La poesia di Dante, 1921, p. 189). Così che la proposta di interpretazione «storico-estetica» e di metodo della Poesia di Dante si configura come il perfezionamento dell’interpretazione desanctisiana secondo un
criterio che è da sostituire a quello dell’estetica idealistica e romantica e che ne è, per certi rispetti, correzione e inveramento: il concetto dell’arte come lirica o intuizione lirica (p. 33).
Proprio su questo punto Gentile attaccherà Croce, dopo l’insanabile frattura del rapporto con il sodale di un tempo, nelle pagine di La filosofia dell’arte – che vuole essere anche, se non soprattutto, una confutazione complessiva di quello che il filosofo siciliano considerava lo «pseudoidealismo» della «pseudofilosofia» crociana fondata su un’estetica contaminata di empirismo –, contendendogli l’eredità ‘filosofica’ di De Sanctis che della Poesia di Dante (mai citata) costituisce il punto di riferimento. Croce, che ha creduto di portare a compimento l’estetica desanctisiana, si sarebbe lasciato sfuggire «tutta la filosofia che era nel pensiero di De Sanctis» per inventarsi una «filosofia a pezzi e bocconi», la filosofia delle «quattro parole». Anche se riconoscerà il successo dell’estetica crociana, «opera di decadentismo e dilettantismo letterario» che «andò attorno pel mondo» incontrando
il favore del pubblico per la sua facilità di esposizione, per la nettezza delle poche idee elementari che propugna e per la stessa polemica antifilosofica che l’accompagna (G. Gentile, La filosofia dell’arte, 1931, pp. 368-72).
La reazione al dantismo accademico è un generalizzato e assai significativo fenomeno che riguarda la cultura letteraria italiana del primo Novecento. Atteggiamento critico al quale non sono in verità estranei neppure i più avvertiti fra gli stessi adepti del metodo storico predominante nell’insegnamento accademico, tanto che nel campo degli studi danteschi
molto più che in altri, alla moderna esigenza della specializzazione si era accompagnata in Italia la salutare e ben giustificata preoccupazione di evitare che gli specialisti risultassero tali specialmente per la loro cieca devozione e per la loro inabilità a far altro (Dionisotti 1967, p. 230).
Come conferma Michele Barbi ventiseienne, ma già avviato a diventare il più autorevole dei filologi danteschi della prima metà del Novecento, quando nel 1893, in apertura del primo numero del «Giornale dantesco» denunciava:
quanto nel nostro campo vigoreggi, accanto al poco grano, il loglio e l’erbaccia! Si lasci in pace per qualche tempo il piè fermo, la seconda morte, e la questione se Paolo parla o sta zitto (Barbi 1934, 19652, p. 17).
Croce nel primo fascicolo della «Critica» (1903) deplora, in uno scambio epistolare con Corrado Ricci, il «monoteismo dantesco»; Rodolfo Renier, fondatore e direttore del «Giornale storico della letteratura italiana», roccaforte del metodo storico, con lo scritto dal titolo inequivocabile Dantofilia, dantologia, dantomania («Fanfulla della Domenica», 12 aprile 1903) richiama severamente all’ordine di un approccio scientificamente filologico i dantisti maniacalmente esagitati nelle risoluzioni delle cosiddette questioni dantesche.
Ancor più senza pietà la letteratura militante del secolo esordiente. Per tacer d’altri, i ‘vociani’ Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini e l’archimandrita del futurismo Filippo Tommaso Marinetti, il quale nel 1915 pubblicherà, in Guerra sola igiene del mondo, un compendio del credo futurista intitolato La “Divina Commedia” è un verminaio di glossatori.
Meglio si può comprendere la polemica dei dioscuri dell’idealismo ove si tenga presente che l’egemonia della scuola storico-positiva era destinata a protrarsi nell’area degli studi danteschi dell’accademia italiana per tutto il primo quindicennio del secolo, pur con qualche oscillazione tra indagine filologico-erudita e cauti approcci ermeneutici. Caso esemplare di questa persistenza è rappresentato dal Dante di Nicola Zingarelli pubblicato a Milano nel 1895, rifatto e ripubblicato in due volumi per complessive 1388 pagine con il titolo La vita, il tempo e le opere di Dante nel 1931, dieci anni dopo la crociana Poesia di Dante. In questa seconda edizione Zingarelli, professore ordinario nell’Università di Milano, polemizzava nella prefazione sia con la «scuola allegorica» inaugurata da Giovanni Pascoli con la trilogia dantesca (1898-1902), sia con Karl Vossler e soprattutto con Croce (Gentile non è neppur menzionato) il quale
ha sgombrato il campo di tutta la materia di storia, di politica, di morale e di scienza, per raccogliersi unicamente nell’opera d’arte, nell’artista e nel poeta, come la sola cosa viva e perenne, originale e grande perdendo di vista l’unità della personalità dell’autore e dell’opera (1° vol., 19312, p. IX).
È in questa atmosfera dunque che si sviluppa la reazione della nuova cultura neoidealistica. Nel 1921, la solenne occasione del sesto centenario della morte di Dante registra la pubblicazione di una profluvie di scritti di diverso genere, metodo, impegno e importanza, ma l’attenzione degli intendenti era destinata a fermarsi sui due contributi di più autentica rilevanza: l’edizione di tutte le opere di Dante sotto gli auspici della Società dantesca italiana (prima italiana in un solo volume, in risposta a consimili edizioni straniere da tempo in circolazione) e La poesia di Dante di Croce. Il testo della Società dantesca si presentava all’appuntamento giubilare quale editio minor, affidata soprattutto alle cure di Barbi, di un’edizione critica di là da venire, ancora provvisoria quanto all’offerta di testi, considerata l’assenza di apparato critico, come lo stesso Barbi riconosceva nella prefazione al volume.
Con il saggio di Croce appariva evidente, al di là di ogni ragionevole dubbio, il contrasto tra la tradizione del dantismo ottocentesco di orientamento storico-filologico-erudito e la novità liberatoria, in nome della nuova critica estetica del libro che finalmente restituiva la Commedia allo spazio e al tempo della poesia, mettendo fine al predominio della scuola storica presso un assai più vasto pubblico.
Merita in proposito ricordare, dall’appendice del libro, intitolata Intorno alla storia della critica dantesca, sia il sarcastico giudizio sull’interpretazione allegorica e decadentistica della Commedia sostenuta da un Pascoli vaticinante, convinto che Dante parlasse «per sua bocca», sia quello, risolutamente liquidatorio, sulle interpretazioni «allotrie» proliferate all’ombra della scuola storica dove «la premessa e la “chiave” per intendere Dante sia la conoscenza della sua teologia e filosofia, della sua politica, della sua biografia» (La poesia di Dante, cit., p. 193).
La poesia di Dante coniuga dunque radicali istanze di riforma critico-metodologica con una serrata polemica nei confronti della «dantologia» storico-filologica come di quella erudita rigogliosamente sviluppatasi, in margine alla prima, grazie anche, se non soprattutto, ad «almanaccatori privi di specifica cultura» (p. 193). Indirizzo che riconosceva il suo rappresentante tipico nel pastore protestante svizzero grigionese Giovanni Andrea Scartazzini (neppure ricordato nell’appendice), autore, tra l’altro, di un vasto commento al poema pubblicato a Lipsia tra il 1874 e il 1882 – l’edizione minore del quale, restaurata e rielaborata da Giuseppe Vandelli a partire dalla quarta edizione (1903), praticamente ristampata fino ai nostri giorni, ha conosciuto una capillare diffusione – nonché di altre opere di intento divulgativo alle quali arrise una non casuale fortuna dato l’orientamento degli studi del tempo. Il commento scartazziniano – per il filologo e dantista Francesco D’Ovidio – «divulgò a un tratto tante cose e tante chiose, con uno spoglio largo degl’interpreti antichi e con un travasamento repentino di erudizioni e speculazioni tedesche». E sarà proprio il D’Ovidio, allora docente di lingue e letterature neolatine all’Università di Napoli, a fare le spese della «dantomania» tardottocentesca, in un saggio da Croce bipartito fra lo studioso molisano (che nel frattempo aveva dato alla luce Nuovi studi danteschi, 1906-1907) e Luigi Morandi, coinvolti in una tenzone di argomento manzoniano (La letteratura della nuova Italia, 3° vol., 1915, 19646, pp. 309-29).
Il Dante di D’Ovidio – scrive Croce in quelle pagine che segnano l’inizio della polemica contro il dantismo della scuola storico-positiva – appare «ridotto in minuzzoli, e ogni minuzzolo […] adoperato come attaccàgnolo per qualche discettazione», un «inesauribile vivaio di chiose» dal momento che ha lasciato «parecchi indovinelli col proposito che i lettori ci si avessero ad affaticare intorno». Ecco quindi che le questioni sollevate da D’Ovidio sono «d’ovidiane» e non «dantesche», perché «poste in modo da riuscire insolubili, o […] trattate in cambio d’altre davvero importanti» (pp. 315-16), mentre il compito attuale dello studio della Commedia è appunto quello «di rivivere la poesia di Dante». D’Ovidio è il «vecchio letterato italiano» che pratica un filologismo senza storia, fine a se stesso, all’opposto della «critica desanctisiana, figlia della filosofia idealistica moderna, e perciò fondata tutta sul concetto della produttività spirituale, della forma, della sintesi a priori» (pp. 320-21).
Anche se più di dieci anni separano queste pagine dalla Poesia di Dante, è tuttavia legittimo cogliervi le battute di preludio che troveranno coerente sviluppo critico in quel libro destinato a cambiare, per almeno un trentennio, il corso degli studi danteschi in Italia e non solo.
Gentile, sia pure come filosofo di «incomparabile perfezione tecnica» (Contini 1966, 19893, p. 51), non ha la competenza letteraria di latitudine europea di Croce, ma l’interesse per le origini del pensiero moderno emerso dall’oscurità dell’epoca di mezzo e per l’influenza del Rinascimento italiano sul risveglio della filosofia europea lo convince ad accettare nel 1901 la collaborazione al volume La filosofia, da pubblicarsi nella Storia dei generi letterari italiani in preparazione presso l’editore Vallardi, dopo che Croce ne aveva rifiutato l’incarico. L’opera, cui Gentile si accinse a partire dal 1902, apparve in sei fascicoli tra il 1904 e il 1915, ma rimase interrotta, dopo i primi tre capitoli del secondo libro dedicato all’Umanesimo, con Lorenzo Valla (Storia della filosofia italiana fino a Lorenzo Valla, 20032).
Epicentro ideologico della trattazione è il principio di nazionalità: se Francesco Petrarca è il primo filosofo moderno e nazionale, spetta a Dante, riletto e reinterpretato secondo parametri speculativi, il merito di aver avviato il primo esperimento di filosofia italiana, scrivendone in volgare: «Con Dante comincia ad affermarsi idealmente l’Italia; col suo Poema la filosofia italiana», per questo, «in ogni tempo», Dante è stato considerato «padre spirituale della nazione», e «la sua poesia è la sua filosofia» (Studi su Dante, cit., pp. 19-20).
All’inizio del 4° capitolo della Storia della filosofia (poi 1° della Filosofia di Dante, ripubblicata in Studi su Dante, cit.) Gentile stabilisce una assiomatica premessa, rivendicando la Commedia quale «opera filosofica oltre che poetica […]. In Dante la filosofia non è il particolare e l’accessorio; ma il generale, l’insieme, il principale» (p. 4). Anche se ha forma di visione, visione non è, come dimostra il fatto che «la prima parola del poema – che è la coscienza volgare, dominata dalle passioni, involta ancora nel senso – e l’ultima – Dio – sono il punto di partenza e d’arrivo […] dell’eterno procedimento filosofico dello spirito» (p. 6). Ne consegue che Dante «è poeta per non poter essere interamente quel che si era proposto di essere: maestro di verità. […] È più grande poeta che filosofo, ma egli intendeva riuscire più grande filosofo che poeta» (pp. 6-7), quindi la Commedia, «una specie di sistema filosofico», è «il primo libro di filosofia scritto in italiano» (p. 15). Del resto il «duca» eletto ad accompagnare Dante nel percorso di redenzione è Virgilio,
poeta [...] di quella poesia filosofica e filosofia adombrata in figure poetiche, che egli [Dante] voleva proseguire in volgare a vantaggio dei “miseri”, a divulgazione della scienza, per dare un grande “convivio”, un ammaestramento universale (p. 31).
Fino dalla prima riga del saggio Gentile insiste sul dato che a Dante faccia capo «il doppio movimento aristotelico-tomistico e francescano» e tutto quanto segue sviluppa questa prospettiva, come dimostrerebbero sia i personaggi sia i singoli episodi: «Beatrice è la fede, o teologia o sistema della fede», contrapposta «alla ragione o lume naturale» rappresentata da Virgilio e il loro rapporto è sempre quello concettualmente elaborato da Tommaso d’Aquino, a dimostrazione che Dante accoglie il razionalismo tomistico che – come risulta dal secondo canto dell’Inferno – «riesce in certo modo a sottomettere la teologia alla ragione» propter defectum intellectus nostri, perciò Beatrice ha bisogno di Virgilio per il difetto di Dante (pp. 29-31). Anche se, poi,
Dante […] non si spoglia della ragione per darsi alla fede. La sua teologia non è visione, ma raziocinio; la sua grazia non gli concede immediatamente l’aspetto di Dio, ma gliel’addita come meta suprema di un’elevazione progressiva dello spirito fortificato dalla ragione (p. 34),
a conclusione del viaggio oltremondano, il «razionalista alla maniera di s. Tommaso» finirà, nel XXXI del Paradiso, nel misticismo «d’una fede, infine, che non è data dalla scienza» di san Bonaventura (p. 43).
Tema cruciale e polemico, il principio di nazionalità sul quale il laico liberale Gentile insiste, celebrando in Dante la «latinità che diventa italianità» contro la Chiesa imputata di avere per secoli «avversato […] ogni regolare sviluppo della nostra costituzione politica, ogni naturale espansione della nostra libertà interiore» (p. 20), come quel «passo notevolissimo oltre la Commedia» rappresentato dal Monarchia, «primo atto di ribellione alla trascendenza scolastica».
Due sono dunque le chiavi di lettura del capitolo dantesco di Gentile: la Commedia come opus magnum filosofico tra razionalismo tomistico e misticismo francescano in forma di poesia al tramonto del Medioevo; Dante come suprema figura simbolica della nazionalità italiana attraverso i secoli. E, ovviamente, sarà la prima delle due direzioni di ricerca quella destinata a dare i più consistenti risultati, nella misura in cui la rivendicazione della filosofia dantesca come tale, nel contesto della cultura e della spiritualità medioevale, prepara il terreno per i successivi, fondamentali approfondimenti dovuti a studiosi quali Étienne Gilson e Bruno Nardi. Fino da subito sottolinea l’importanza di tale assunto la lettera di Vossler – impegnato nella stesura della seconda parte del suo imponente trattato sulla Divina Commedia – a Croce del 7 ottobre 1906:
Ho ripreso il mio Dante e condotto a termine la seconda parte [La genesi filosofica della Divina Commedia]. Ma troppo mi resta da fare. La storia della filosofia italiana del Gentile mi è stata assai utile (Carteggio Croce-Vossler. 1899-1949, 1991, pp. 103-04).
Sull’identità filosofia-poesia nell’opera dantesca, Gentile porterà ulteriori chiarimenti con le ampie recensioni dei primi due volumi del trattato di Vossler, pubblicate sulla «Critica» e sul «Giornale storico della letteratura italiana» nel biennio 1908-09 (da ultimo raccolte, con il titolo Pensiero e poesia nella “Divina Commedia”, in Studi su Dante, cit., pp. 53-130). Dopo di allora, il filosofo tornerà sull’argomento con due letture tenute alla Casa di Dante di Roma, rispettivamente il 17 febbraio 1918 (La Profezia di Dante) e il 19 marzo 1939 (Il canto di Sordello) e con una conferenza al Circolo filologico di Milano del gennaio 1921 (La filosofia di Dante).
Il primo dei tre interventi – siamo nel febbraio 1918 – concerne il Dante politico, sostenitore dell’autorità imperiale e di Arrigo VII invocato perché metta ordine nell’anarchia politica che rende ingovernabile la nuova società comunale. In cosa consisterebbe allora la «profezia», quando Dante è ormai ai margini della dinamica politico-sociale del suo tempo? Nell’immaginare che le parole di Dante configurino un progetto di Stato etico:
ei ammonisce, non esservi pace senza Stato forte; e finché questa forza non coincida con la giustizia e con la libertà, la pace esser vana speranza, e la guerra necessaria, da combattere senza tregua, senza esitanze, fermi nella fede che Dio la vuole; perché lo Stato […] fa uomo l’uomo, libero nel diritto: di quella libertà, che sola può lasciarci sentire la presenza di Dio in noi e nelle cose nostre […]. La vita dello Stato infatti è vita di uomini, vita spirituale: e questa vita non è dato concepirla se non come devozione assoluta a un’idea […]. Quella devozione, che fa il soldato sicuro incontro alla morte necessaria alla patria, ma fa anche ogni cittadino negli uffici più prosaici e meno rischiosi […], inflessibile nella coscienza e nella volontà del dovere (Studi su Dante, cit., pp. 174-75).
Di tre anni successivo il discorso sulla filosofia di Dante dove, muovendo dalla contrapposizione di due modi fondamentali di «intendere il pensiero di uno scrittore» – schematicamente riconducibili il «classico» a Platone, il «romantico» a Giacomo Leopardi –, Gentile stabilisce che, nel caso di Dante, è il secondo da seguire. E, proseguendo su questa linea, arriva a chiarire, una volta per tutte, il rapporto pensiero-poesia. Se «la poesia filosofica come ogni poesia didascalica nasce morta», come può apparire viva la poesia dantesca? Questa la risposta al problema centrale di quella che sarà la «filosofia dell’arte» di Gentile:
Il pensiero […] d’un poeta non si attinge per altra via da quella che ci è additata dal metodo romantico; il quale non solo ci mette in grado di ricostruire il pensiero stesso, ma di scavare attraverso di esso fino alla scoperta del filo d’oro di quella vita immortale che è la poesia, in cui il pensiero fu assunto e assorbito (p. 187).
È evidente come Gentile, il quale aveva curato tre anni prima un’edizione delle Operette morali, ormai sempre più distante dall’estetica crociana, abbia trovato conferma al concetto di pensiero poetante nel Leopardi dello Zibaldone quando, premessa «l’insociabilità della odierna filosofia colla poesia», sostiene che
gli spiriti veramente straordinari e sommi, i quali si ridono dei precetti, e delle osservazioni, e quasi dell’impossibile, e non consultano che loro stessi, […] potranno essere sommi filosofi moderni poetando perfettamente (Zib., 24 luglio 1821, 1997, p. 1383).
Vedeva giusto quindi, a proposito del significato e del peso che l’interpretazione gentiliana aveva nel rapporto con Croce, Luigi Russo, che, a partire dagli anni Venti, è lecito considerare il critico letterario deuteragonista del rinnovamento neoidealista degli studi danteschi, animato dall’ambizione di conciliare le divergenti proposte di Gentile e di Croce:
tutto questo voler ricondurre la poesia di Dante alla sua ‘filosofia’, era il motivo polemico del giovane poco più che trentenne nei riguardi dell’amico e maestro Croce, che amava parlare di una poesia tutta alogica (La critica letteraria contemporanea, 1942, 1967, p. 293).
L’ultima conferenza dantesca di Gentile è dedicata alla lettura del IV del Purgatorio (il canto di Sordello), anche se, nonostante l’intitolazione, è soprattutto sulla prima parte del canto che l’oratore si sofferma: i personaggi che Dante incontra e soprattutto la rasserenante atmosfera del Purgatorio. Ed è proprio in merito al «divario» tra prima e seconda cantica che Gentile riconosce come «il meglio che sia stato scritto» sull’argomento si trovi nella Poesia di Dante di Croce (Studi su Dante, cit., p. 217), anche se più oltre polemizzerà contro ogni lettura rapsodica della Commedia: «Come non si sapesse che la poesia non è nelle parti singole, ma nel tutto, nella sua unità indivisibile» (p. 224) e contro l’imputazione di oratoria mossa all’invettiva all’Italia di Sordello dai «soliti critici armati di coltello anatomico» (p. 231), con implicito quanto trasparente riferimento a Croce, il quale, in proposito, aveva scritto: «Dante declama un intero pezzo oratorio, con partizioni, trapassi, esclamazioni, esortazioni, ironie, sarcasmi, come chi è preso bensì dal furore della passione, ma non dimentica nulla di quanto gli sta a cuore di dire per l’effetto politico che si propone di conseguire» (La poesia di Dante, cit., p. 107). In concreto, replica Gentile:
nulla è per se stesso impoetico e refrattario al soffio animatore dell’arte.[…] Non si parli dunque di oratoria; ma di quadro, in cui l’artista, per irradiare una viva luce, chiara e serena, sulla figura che ha inteso ritrarre, ha dovuto contornarla con uno sfondo fosco e minaccioso (Studi su Dante, cit., pp. 231-32).
Sordello è la personificazione dell’amor di patria «sentita come la nostra patria, quella patria che esiste infatti perché e in quanto noi la sentiamo, e noi la evochiamo alla vita e la facciamo esistere nel nostro cuore» (p. 237). Per apprezzare la «schiettezza estetica del canto» e l’invettiva di Sordello non valgono quindi le chiose che distraggono l’attenzione facendo perdere tempo e «girare intorno al murato castello della poesia» senza «farcene infilare la porta» (p. 233). In quei versi Dante «intravvede l’avvenire: serva ancora per secoli la sua Italia a causa delle intestine discordie, ma grande, tuttavia, alta, splendida agli occhi e al cuore di ogni nazione civile» (p. 235).
Durante il quasi ventennio che separa La filosofia di Dante di Gentile da La poesia di Dante di Croce vede la luce la poderosa opera di Vossler – linguista e filologo romanzo docente nelle Università di Heidelberg, Würzburg e Monaco –̶ Die Göttliche Komödie. Entwicklungsgeschichte und Erklärung, pubblicata a Heidelberg tra il 1907 e il 1910, e, in seconda edizione, profondamente riveduta nelle conclusioni, nel 1925,
sotto l’assillo di un fedele anche se personalissimo ancoraggio alla lezione di Croce, del quale rielabora a suo modo l’impostazione estetica in un generoso tentativo d’inverarla in teoria e scienza del linguaggio (G. Petrocchi, premessa a K. Vossler, La “Divina Commedia” studiata nella sua genesi e interpretata, 1983, p. VII).
La prima edizione fu subito tradotta in italiano, per interessamento di Croce, da Stefano Jacini (1909-1913), la seconda e definitiva, nella versione di Jacini per la cura di Leonello Vincenti, nel 1927. L’opera presentava un’architettura complessa suddivisa in quattro parti: La genesi religiosa e filosofica; La genesi etico-politica; La genesi letteraria; La poesia. Esplorazione nel tempo e nello spazio di un vastissimo territorio culturale per censire anche le più remote premesse di una poesia sintesi suprema di antico e nuovo. Ma il complesso ordito della ricerca e il metodo culturalistico da Vossler adottato in conformità con la tradizione tedesca sollevarono fondate obiezioni: l’aver preso le mosse (qualcuno ha ironizzato: «la rincorsa») troppo da lontano in vista di una raccolta di dati che sarebbero poi confluiti, in misura variabile, nella genesi del capolavoro; le difficoltà dell’analisi quadripartita dei presupposti che avrebbero restituito aspetti del poeta di volta in volta di carattere religioso, filosofico, etico-politico, letterario, ognuno dei quali, prevedendo una specifica strumentazione storico-critica, metteva a rischio, a causa dell’aggravio di tanta e tanto varia cultura, l’immagine storica, l’identità della personalità di Dante sommo poeta. Cosicché la conclusione ‘crociana’ della fatica del Vossler – evidentemente imputabile sia alla formazione idealistica della sua giovinezza romana, sia, soprattutto, alla Poesia di Dante pubblicata da Croce nell’intervallo tra prima e seconda edizione – si sovrapponeva ai risultati dell’opera contraddicendone l’originaria impostazione culturalistica.
L’opera di Vossler si incunea quindi nel processo di rifondazione del dantismo con reazioni diverse da parte del fronte neoidealistico (al quale egli stesso – quasi mediatore ufficiale della cultura italiana in Germania – appartiene per la consuetudine con la cerchia crociana), documentate sia nel carteggio con l’amico Croce, sia nell’attento monitoraggio di Gentile a mano a mano che comparivano i primi due volumi dell’opera.
Lo studioso tedesco informa del procedere dell’opera l’amico e maestro italiano il quale dimostra vivo interesse per l’impresa che investe anche la diffusione del verbo neoidealista in Europa. Terminata la lettura del primo volume, in data 28 gennaio 1907, Croce gli scrive per informarlo di aver pregato Gentile di recensirlo sulla «Critica», dal momento che questi è già «ingolfato negli studi stessi che formano tanta parte del vostro libro» e aggiunge (a dimostrazione anche della lunga incubazione della Poesia di Dante):
Tutta la trattazione dello svolgimento religioso e filosofico è fatta con una precisione e succosità e con uno stile epigrammatico che mi piace assai. […] Voi mi avete riconciliato con la letteratura dantesca, che da un pezzo non leggevo più (Carteggio Croce-Vossler, cit., p. 106).
La lettera del 29 maggio 1909 è particolarmente significativa perché l’approvazione di Croce è confermata e ribadita:
La rilettura del volume mi ha fatto gustare anche di più l’opera tua, di cui ho meglio inteso l’organismo e le proporzioni. Mi sono persuaso che non si poteva scegliere una via più adatta per studiare in modo sostanziale la Divina Commedia. Ti sono poi specialmente grato per avere dato agli italiani, sul testo di Dante, una così ricca lezione di filosofia e di storia della filosofia. Così hai veramente aiutato quell’educazione filosofica del popolo italiano, alla quale anch’io collaboro (p. 127).
Il 10 febbraio del 1920, quando sta lavorando alla Poesia di Dante, Croce, mentre avanza riserve a proposito della quarta parte dell’opera, sostenendone la discontinuità rispetto ai precedenti – Vossler avrebbe dovuto suddividere nettamente l’opera tra ricostruzione culturale del poema e interpretazione della poesia –, approva solennemente la sezione conclusiva dell’opera dell’amico: «Tra i pochissimi lavori che hanno affrontato il problema della poesia dantesca, io annovero il tuo, subito dopo quello di De Sanctis, e mi pare che questi due non abbiano molti compagni» (p. 257).
Gentile, pur convinto, come Croce, che Vossler riprenda la lezione di De Sanctis, tra il 1908 e il 1912, segue la pubblicazione dell’opera nei singoli passaggi (per cui i tre interventi costituiscono, in certa misura, un’integrazione del suo Dante filosofo) in puntuali recensioni, più tardi raccolte sotto il titolo Pensiero e poesia nella “Divina Commedia”. E, fra quanti discussero l’opera del Vossler, è colui che con maggiore chiarezza seppe illustrarne l’impostazione e vederne i limiti, come appare dalle prime pagine della seconda recensione, uscita nel 1909. Vossler – osserva Gentile – ha preparato la «spiegazione» del poema
con una ricostruzione dello spirito del Poeta, la quale non ne raccogliesse immediatamente i singoli elementi, come d’ordinario s’è fatto, nello stesso mondo dantesco; […] bensì ne dimostrasse la genesi attraverso tutta la civiltà anteriore (Studi su Dante, cit., p. 88).
Mentre una «ricerca più modesta» della formazione e quindi della biografia consente che «la figura dello scrittore vien quasi imposta […], come ché appena sgrossata, dalla stessa materia storica, che si ha tra mano». Non quindi «fissare anticipatamente i lineamenti dell’uomo, che la sua ricerca ci deve far intendere», ma procedere come «chi ha pratica diretta e quotidiana con una persona, e crede bene di averne esatta conoscenza, senza indagarne gli antenati, e la prima educazione, e tutta insomma la genesi di quel che ha dinanzi». Perché è questo «il metodo atto a farci scoprire la verità storica» (p. 89).
Non a caso le riserve più forti riguardano la contraddizione tra la prospettiva integralmente storicistica dei primi due volumi e l’assenza di quella conclusione ‘estetica’ (dovuta alla scansione cronologica dei volumi) che, rielaborata dall’autore nella seconda edizione, sarà senz’altro condivisa da Croce. Vossler infatti indica le «particolari bellezze» del mondo dantesco, manca tuttavia «la comprensione del tutto dell’arte dantesca», come conferma il procedimento seguito dallo studioso: «esame particolare e successivo delle singole cantiche, e, in ognuna di esse, dei singoli canti, uno dopo l’altro», come se mancasse nel poema «l’unità dell’intuizione animatrice» (p. 124).
L’approssimazione all’opera di Dante richiese a Croce molto più tempo rispetto a Gentile: il poeta è ricordato senza particolare rilievo nel 2° capitolo della parte storica dell’Estetica (19124, pp. 204-06) dedicato a “Le idee estetiche nel Medioevo e nel Rinascimento”, e citato nelle pagine dedicate a Vico (p. 258) e a Johann Gottfried von Herder (p. 293). Sette anni più tardi inizia la polemica, mai intermessa, contro il dantismo della scuola storico-erudita, donde l’attacco al dantista D’Ovidio del 1909, consegnato nel terzo volume della Letteratura della nuova Italia.
Ancora un riferimento a Dante in uno scritto del 1912, Amori con le nuvole, poi raccolto nel 1914 in Cultura e vita morale. Intermezzi polemici: «Il dovere nostro rimane sempre quello: la ricerca della chiarezza, la fuga dell’oscurità. Dante è, qua e là, oscuro? Ma voleva esser chiaro, e perciò fu Dante» (1993, p. 126).
Risolutiva importanza, nella decisione di affrontare il problema Dante, ebbe certamente per Croce, come si è visto, l’apparizione dell’opera del Vossler. Tracce evidenti nel carteggio già ricordate che prefigurano, con il facile senno di poi, un progetto di lavoro che nel 1920 è praticamente compiuto.
La prima pagina dell’“Avvertenza” che inaugura La poesia di Dante, datata 1920, dichiara, senza ambage, scopo e funzione del libro: «introduzione metodologica alla lettura della Commedia», con l’intenzione di «rimuovere alquanto l’ingombro della ordinaria letteratura dantesca, per riportare gli sguardi verso ciò che è proprio ed essenziale nell’opera di Dante» (La poesia di Dante, cit., p. 1). Quindi, un invito a ‘saper leggere’ Dante «con semplicità, libera da preoccupazioni estranee».
Come testimonia nell’introduzione l’affermazione secondo la quale, di contro alla farragine erudita dei positivisti, se Dante non fosse «grandissimo poeta», tutte le altre facoltà che gli sono state attribuite (filosofo, teologo, giudice, banditore di riforme), soprattutto nel periodo risorgimentale, «perderebbero di rilievo». Alla letteratura dantesca, quindi, in crescita esponenziale a partire dalla metà del Settecento, ormai «imponente e addirittura spaventevole per mole», è da imputare ogni interpretazione «allotria» del poema sia filosofica sia etica o religiosa (pp. 4-5). Fra queste, da una parte, l’interpretazione allegorica che è solo criptografia spiegabile, come tale, soltanto da parte dell’autore e, dall’altra, la «sopraestimazione […] o il fraintendimento della particolare importanza del Dante filosofo e politico» (p. 8).
Gentile non è nominato, ma la ricusazione dell’interpretazione filosofica elaborata anni prima non potrebbe essere più evidente; così, tra le opere minori, il Monarchia, celebrato dal filosofo siciliano, è considerato «piuttosto opera di pubblicistica che di scienza politica» (p. 8), come il De vulgari eloquentia che non costituisce il «documento del formarsi spirituale della nazionalità italiana», ma, più semplicemente, «un documento della formazione artistica di Dante».
La rinnovata polemica contro i ‘dantisti-dantomani’ e il giudizio negativo sulla maggior parte dei commenti ispirati a una frenesia di erudizione che sfiora il ridicolo introducono, fin dall’inizio, la ‘formula’ per la lettura di Dante:
nessuno può leggere Dante senza adeguata preparazione e cultura, senza la necessaria mediazione filologica, ma la mediazione deve condurre al ritrovarsi con Dante da solo a solo, ossia a mettere in immediata relazione con la sua poesia (p. 20).
Questo esclude tuttavia tassativamente la «danteità», ossia la lettura di Dante con Dante, perché
Dante poeta non combacia con Dante critico, […] l’atto della creazione poetica e l’atto del pensamento filosofico di essa sono due atti distinti e diversi, e […] perciò bisogna trattare la poesia dantesca, non secondo Dante, ma secondo verità (p. 22).
La conclusione delle pagine introduttive conferma insomma quanto la Commedia costituisca per Croce, oltre che il consuntivo di una riflessione protratta negli anni sul poema, l’occasione da tempo ricercata e meditata di una lezione di metodo su di un testo universalmente riconosciuto quale suprema espressione poetica (si ricordi che Dante è l’ultimo dei sommi con i quali Croce si cimenta, a partire dal 1919 con Johann Wolfgang von Goethe, per proseguire con William Shakespeare e Ludovico Ariosto).
Il 1° capitolo affronta la comparazione tra “Il Dante giovanile e il Dante della ‘Commedia’” con una perentoria affermazione che sarebbe costata a Croce non poche critiche da parte del dantismo accademico: «La poesia di Dante è principalmente, e si potrebbe dire quasi unicamente, la poesia della Commedia» (p. 27). L’opera giovanile di Dante, incardinata sul mito di Beatrice, piuttosto che poesia è rappresentazione di «atti d’un culto, adempimenti di riti, cerimonie, atti liturgici», insomma, «deliberata esecuzione del programma della scuola» stilnovista che, unita alla «rettorica giovanile», non accende la luce della poesia (pp. 29-30). Il «dolce stil nuovo» è «poesia di scuola», nelle liriche giovanili di Dante vivificata da una «squisitezza di ritmi e di suoni, si direbbe quasi una musica, la musica di un’anima commossa soavemente e rapita», che, tuttavia, provocando un «sorpassare col suono le parole», rinvia alla letteratura del tempo: «c’è dell’incompiutezza; e tali versi si direbbero, non senza fondamento, alquanto ingannatori» (pp. 32-33). Pertanto l’insieme delle rime (ivi comprese le didascaliche e le virtuosistiche «petrose») mantiene con il poema «legami […] scarsi e lievi», meno di quanto li mantengano interessi intellettuali, ideali morali e politici, odi e amori delle prose. La conclusione non può che confermare l’enunciato iniziale: «se in altri casi si vede, nello svolgimento di un artista o di un pensatore, prepararsi il suo capolavoro, per Dante non si vede». Solo con la Commedia Dante «si lega all’età sua e insieme […] la produce e la fa sua» (pp. 42-45).
Con il 2° capitolo, “La struttura della ‘Commedia’ e la poesia”, si arriva al cuore dell’interpretazione crociana del poema che esordisce con la constatazione che, se alla «fede nella vita oltremondana come vera ed eterna vita si univa nell’animo di Dante fortissimo il sentimento delle cose mondane», mondo e oltremondo appartengono «a un sol mondo, al mondo del suo interessamento spirituale, nel quale l’uno e l’altro avevano parte» (p. 48).
Soggetto del poema non è quindi la rappresentazione dell’altro mondo e neanche il guardare il mondo reale dalla prospettiva dell’altro mondo, come farebbe un mistico o un asceta, perché il poeta non si conforma al giudizio divino che separa dannati e salvati, «ma si allarga a giudizio morale, e discerne il bene nei dannati e il male nei salvati, e perfino lascia prorompere liberamente amori e odî, simpatie e antipatie, trattando le ombre come cosa salda» (p. 49). Questo atteggiamento non è incoerente o addirittura «illogico», come a qualcuno è parso, perché al lettore non tanto rimane l’impressione delle pene infernali, dell’aura di penitenza e speranza del Purgatorio o del tripudio paradisiaco, quanto l’immagine dello stesso Dante personaggio-poeta:
sicché si direbbe inclini a non dare tutti i torti a quello scrittore settecentesco, che voleva togliere alla Divina Commedia il suo titolo vulgato e sostituirvi l’altro di Danteide (p. 50).
Perciò l’aldilà «non è veramente il motivo poetico dominante nella poesia della Commedia» (p. 52). Conclusione che, confermata dalla topografia dell’altro mondo, elaborata per «foggiare un oggetto che adombri a uso dell’immaginazione l’idea dell’altro mondo», introduce al nucleo germinativo dell’interpretazione crociana: il «romanzo etico-politico-teologico», «il più grandioso e meglio architettato» dei romanzi teologici medievali, quale struttura didascalica portante della Commedia paragonabile a
una fabbrica robusta e massiccia sulla quale una rigogliosa vegetazione si stenda [...], rivestendolo in modo che solo qua e là qualche pezzo della muratura mostri il suo grezzo (p. 54).
Fuor di metafora (da allora costantemente ripetuta per la sua efficacia figurativa, in consenso e in dissenso dai lettori di Dante e di Croce): «il rapporto con la poesia è semplicemente quello che passa tra un romanzo teologico […] e la lirica che lo varia e interrompe di continuo» (p. 59), quindi struttura e poesia «non sono separabili nell’opera di Dante», ma vivono in rapporto dialettico sul quale si fonda l’unità della Commedia (p. 61). Se quindi «l’unità vera della poesia dantesca è lo spirito poetico di Dante», il «cammino più corto e più proprio» per leggere la Commedia sarà quello di «passare in rassegna le principali poesie e gruppi di poesie» comprese in ciascuna delle tre cantiche, alla ‘lettura’ delle quali, memorabile per quel che riguarda personaggi, luoghi, episodi evocati, sono dedicati i tre capitoli successivi.
La suite dei luoghi prescelti parve ad alcuni troppo rapida, ma lo stesso autore l’aveva designata come una «scorsa attraverso le tre cantiche», dopo la quale la conclusione affidata al 4° capitolo, “Carattere e unità della poesia di Dante”, che intende sottrarre Dante al mito con «brevi e semplici parole», potrebbe risultare, tutto sommato, piuttosto sfocato, come dimostrano la vaga definizione dello «spirito» dantesco quale «sentimento del mondo, fondato sopra una ferma fede e un sicuro giudizio, e animato da una robusta volontà» (p. 155), o le parole sulla «modernità» di Dante o l’intermezzo sul Dante «germanico» e «latino» a un tempo, per impeto mistico, ascetico ed eroico-militante, così come il paragone con Shakespeare «primo poeta pari a lui di grandezza che s’incontri dopo di lui nella storia della poesia europea» (p. 161). Considerazioni e tonalità che lasciano affiorare la difficoltà di coniugare la lettura rapsodica con la riaffermata unità del poema garantita dallo spirito dantesco.
Così efficamente Gianfranco Contini ha compendiato senso e significato del dirompente intervento crociano, che «fece scandalo tra i benpensanti» per la distinzione fra «struttura» e poesia, nucleo della lettura della Commedia:
La molesta valanga di interpretazioni avvocatesche che ne è stata preterintenzionalmente smossa (volte per lo più a riannettere alla poesia la cosiddetta struttura) non può far dimenticare che il saggio crociano è stato il primo richiamo all’intelligenza moderna dell’opera, più pertinente, non esito a dirlo, di tutta la secolare ermeneutica messa assieme. L’aspetto pragmatico di quel gusto è certo nella conquista di Dante alla liricità (Contini 1965, 1976, p. 71).
La polemica innescata dallo «scandalo» coinvolge ovviamente la folta schiera dei dantisti (Vladimiro Arangio-Ruiz, Russo, Vossler, Mario Rossi tra gli altri), ma non solo, dal momento che la distinzione struttura/poesia, su cui si incentra il libro dantesco, confermata due anni dopo dai saggi ottocenteschi di Poesia e non poesia, divenne un parametro critico della vulgata crociana adottato e abusato dalla critica militante. Anche se, per quanto concerne la critica dantesca, rimase nell’ambito metodologico sostanzialmente fissato dal Croce, incentrato sulla discussione del concetto di «struttura», pietra angolare del saggio dantesco, e sulla questione dell’unità del poema che, secondo gli oppositori, ne sarebbe risultata decisamente compromessa. Si trattò quindi di una polemica in astratto, in assenza di un rinnovato approccio al testo della Commedia quale avrebbe configurato, oltre vent’anni più tardi, il commento di Attilio Momigliano. Opera di indiscutibile eccellenza nel panorama del dantismo novecentesco, composta negli anni 1945-47, che – pur condividendo la preclusione crociana nei confronti della «vegetazione parassitaria» cresciuta sul testo della Commedia – offriva un’analisi del testo concettualmente innovatrice, intesa soprattutto a evidenziarne la coerente e continua poeticità, in una tessitura di chiose di prevalente impostazione psicologico-figurativa.
Alle non poche obiezioni che gli furono mosse Croce reagì negli anni seguenti con precisazioni quasi sempre di taglio polemico, ma anche con integrazioni e chiarimenti della sua tesi, affidate alla «Critica» e successivamente raccolte nelle pagine delle Conversazioni critiche. Così nella serie III (1932) trovano posto lo scritto sulla Vita nuova, proemio all’edizione dell’Officina Bodoni (1925) – «unione di sentimentalmente commosso e d’intellettualmente voluto, di espressione poetica e di allegorismo» che «porge il filo critico per intendere e gustare e sceverare e giudicare l’eterno e il contingente di quest’arte» (Conversazioni critiche, serie III, 19512, p. 190) – la recensione ai saggi di Hermann Hefele e di Wolfgang Sciferth (il secondo contro l’interpretazione del Dante «poeta-prete» e del «carattere sacramentale» della Commedia) e il Dante als Dichter der irdischen Welt (1929) di Erich Auerbach. Del quale ultimo Croce riconosceva l’importanza, per aver «mostrato storicamente, forse meglio che non era stato fatto finora, tutto ciò che Dante compié o iniziò nella storia dello spirito umano», pur nel dissenso «quanto al problema propriamente poetico», contestando la proclamata unità di bellezza e verità, di teologia e di poesia: «Come dimostrare che l’acqua della poesia e l’olio della teologia si combinano in un terzo liquido, che non è né l’uno né l’altro ed è l’uno e l’altro?» (pp. 194-95).
Degli interventi quivi raccolti i più significativi restano comunque quelli intitolati rispettivamente Critica dantesca e Ancora dell’unità poetica della “Commedia”. Il primo (pp. 197-99) vuol essere una risposta a quei «tanti robusti cervelli sintetici» e quelle «tante fervide anime religiose» che gli avevano «somministrato ammonimenti sulla unità della poesia dantesca, sulla impossibilità di distinguere nella Commedia struttura e poesia, sulla indispensabilità della interpretazione allegorica e della disposizione mistica e religiosa per leggere Dante» (p. 197). Contro i quali rivendica, citando l’“Appendice” alla Poesia di Dante, la legittima appartenenza della propria tesi alla tradizione critica inaugurata da Leonardo Bruni e proseguita da Vincenzo Borghini, accusando, senza mezzi termini, i cosiddetti dantisti di ignorare, in generale, «che cosa propriamente sia poesia» e, in particolare, la storia della critica dantesca:
dico della critica e non delle melensaggini intorno alle allegorie e alla topografia fisica e morale dei tre regni, nelle quali sono certamente bene esperti, il che non conferisce alla loro perspicacia e svegliatezza mentale (p. 198).
Il secondo intervento (pp. 200-04) prende lo spunto dal saggio di Russo, Il Dante di Vossler e l’unità poetica della “Divina Commedia”, per riaccendere la polemica con Gentile sul tema dell’allegoria dantesca, secondo il filosofo siciliano, «una forma di espressione come le altre», opinione che Croce aveva contestato fin dal 1922 con la «memorietta» Sulla natura dell’allegoria (Nuovi saggi di estetica, 1926, 1991, pp. 301-10), nella quale, pur senza fare il nome di Gentile, dimostrava, sulla base della storia delle retoriche e dell’ermeneutica allegorica, che l’allegoria deve considerarsi «una forma d’interpretazione produttiva, ossia di parola inserita su parola, di scrittura su scrittura» (p. 201).
Nella stessa circostanza Croce rispondeva anche al crociano-gentiliano Russo che aveva osservato, nel saggio sopra citato, apparso in «Studi danteschi» (1927, 12), come la distinzione tra luoghi strutturali e momenti poetici di fatto rompesse «l’unità dialettica dello spirito dantesco». Croce intende perciò chiarire come l’unità del poema da lui postulata debba essere concepita teoreticamente in senso dialettico, affrontando, una volta per tutte, quella che a taluni era apparsa la crux focale della sua interpretazione:
In Dante, il didascalo ora prende il disopra sul poeta, ora, e più di frequente, ne viene soverchiato; e questa lotta appartiene allo spirito dantesco nel suo effettivo unificarsi, dividersi e riunificarsi. Il poeta Dante attua via via le sue sintesi poetiche ed è quello che è, perché ha di fronte quel Dante didascalo, e il didascalo è quello che è perché ha di fronte quel commosso poeta […]: non è l’uno la luce e l’altro la tenebra, ma l’uno e l’altro a volta a volta appaiono luce e tenebra (p. 203).
E, di seguito, intervenendo a proposito della recensione di Salvatore Frascino al libro di Vossler, insisterà sull’«unità» fra struttura e poesia nella Commedia, che «è bensì spirituale ma non propriamente estetica, e costituisce, come ogni unità spirituale, una relazione ossia un’unità dialettica» (p. 206).
Croce tornerà infine sull’argomento nelle pagine dedicate al De Sanctis e la critica dantesca raccolte nella serie V delle Conversazioni critiche (1939, 19512, pp. 96-99), con il proposito di ribadire la continuità della sua interpretazione con quella di De Sanctis e insieme il significativo passo in avanti rappresentato dalla Poesia di Dante. Ancora una volta in polemica con quanti a lui e, più in generale, alla «critica estetica» imputavano di aver scisso la «bella unità» del poema quale risultava dalla lezione desanctisiana. In realtà – afferma Croce – De Sanctis aveva scorto nella Commedia «un dualismo insanabile» e comunque «innegabile», che la critica estetica «ha […] grandemente attenuato, risolvendolo, in ultimo, se non in piena unità estetica, certamente nell’unità dialettica e viva dell’anima dantesca» (p. 96), contribuendo anche a correggere «quella sorte di imperfezione che il De Sanctis notava nelle figure dantesche, le quali gli sembravano sommarie, involute, pressoché immobili, solo accennate» (p. 98).
Il rapporto dialettico struttura-poesia sarà argomento centrale nella lettura dell’ultimo canto della Commedia (Poesia antica e moderna, 1940, 19432, pp. 151-61), alla luce del definitivo sviluppo della riflessione sull’estetica, con la distinzione chiarificatrice tra «poesia» e «letteratura», affidata nel 1936 alla Poesia. Per la rappresentazione finale del gran viaggio, Dante aveva di fronte a sé «una sola via: raccontare come a lui fosse concessa per grazia la visione di Dio, e dichiarare così la impossibilità di renderla coi vocaboli in quanto sono adoperati come segni di concetti». Se il poeta «ripete più volte, in varî modi, che ciò che vide è ineffabile, e dice non quel che vide ma ciò che avrebbe dovuto vedere», il critico osserva che – ferma restando la «dovuta ammirazione» per questa rappresentazione finale del gran viaggio, e per quest’«ultimo capitolo dell’insegnamento dantesco» –̶ «ciò che si è ammirato è una didascalica, di eccelso argomento, di grandioso movimento, di altissima intonazione, ma una didascalica con gli espedienti della didascalica», da cui prescinde la poesia che pure Dante «ha sparso anche in questo canto». Distinguere quindi poesia da struttura è necessario, ma l’accettazione della didascalica come poesia costituirebbe rinuncia alla poesia (pp. 155-56). Ancora il canto XXXII del Paradiso – «uno dei canti più deserti di poesia […], e perfino molto stentato e contorto nella dicitura» – offrirà l’occasione per ritornare sul tema e sulle discussioni in merito che negli anni non si erano placate (Discorsi di varia filosofia, 2° vol., 1945, 19592, pp. 41-56).
Argomento al centro anche dell’estremo contributo alla querelle dantesca, lo scritto del 1948 Ancora della lettura poetica di Dante che inaugura la raccolta Letture di poeti e riflessioni sulla teoria e la critica della poesia (1950, 1966, pp. 9-24), che è insieme una ricapitolazione della questione, ma segna anche un’attenuazione della schematicità della formula proposta quasi trent’anni prima. Pure in questa circostanza Croce non risparmia, fin dal secondo capoverso della prima pagina, sarcasmi nei confronti dei «dantisti di professione» che avevano impugnato la sua tesi, e sottolinea che il proposito della Poesia di Dante era riassunto nel «motto serio-giocoso che convenisse togliere Dante dalle mani dei ‘dantisti’» e «pregarli di andarsene con Dio e non vessare Dante e noi» (p. 11). A questa opposizione, nella quale rientravano da tempo gli «allegoristi» e i «topografi descrittori e ripartitori delle varie tappe del viaggio dantesco», si era aggiunta una «opposizione filosofica nell’aspetto» – «una delle varie manifestazioni di una scuola di filosofia universitaria di allora che si chiamava dell’idealismo attuale» (il riferimento è ovviamente a Gentile neppure nominato; l’imperfetto evidenzia la scomparsa della cosiddetta scuola) – che negava la realtà dell’arte dissolvendola nella filosofia pura, dottrina che si trovava già «nella parte deteriore del pensiero hegeliano» (da sempre argomento di fiera disputa tra i versanti gentiliano e crociano del neoidealismo). Né erano mancati, continua Croce, i «sempre disposti a conciliare»; allusione agli interventi di Russo raccolti nel secondo volume di La critica letteraria contemporanea (1942). In realtà, la distinzione tra struttura e poesia riguarda non già la composizione del poema quanto lo spirito di Dante «faustianamente duplice» che in questa dialettica «non si acquetò mai» (pp. 10, 11-12 e 16). Parole che, con evidente intenzione ironica sia nei confronti di avversari sia di troppo zelanti proseliti, definitivamente suggellano la questione dantesca.
Nell’arco di due anni Croce, dopo aver dato alle stampe la parte più consistente della revisione-consuntivo del passato prossimo letterario della nuova Italia, si era cimentato con campioni di universale dignità, in pagine inevitabilmente innescate da un impegno di verifica della propria teoria estetica e delle successive integrazioni suggerite negli anni dall’assiduo esercizio della critica. Intento particolarmente evidente nel libro dantesco che, ispirato a una polemica franchezza nei confronti della deplorevole situazione critica dell’unico capolavoro della civiltà medioevale ancora linguisticamente vivente e supremo mito letterario della nazione italiana, mantenuta, come si è visto, fino agli anni estremi, costituì il preludio all’applicazione di un severo criterio poesia-non poesia fatto valere più compendiosamente, di lì a due anni, nei ventisette profili di ottocentisti europei maggiori adunati nella raccolta eponima. Pertanto lo studio della poesia dantesca è non soltanto educazione della cultura e del gusto, ma anche fondamentale esperienza di vita che riguarda la formazione più profonda e segreta della personalità.
Come si colloca il saggio crociano nella selva inselvatichita della critica dantesca otto-novecentesca? Merita ritornare, a questo proposito, ai richiami espliciti o impliciti di Croce all’appendice al suo «piccolo libro» del 1921 che, ancora al tempo delle Letture di poeti, appariva all’autore «esposizione concisa ma sostanzialmente compiuta» (La poesia di Dante, cit., pp. 2 e 13) di un itinerario giudicato complessivamente fuorviante mano a mano che si avvicina ai tempi nostri; accusa sdegnosamente respinta dagli addetti ai lavori. Le
così dette “questioni dantesche” prive d’importanza e spesso di fondamento e di metodo compongono almeno tre quarti della ingente mole di carta stampata che nell’ultimo cinquantennio si è accumulata su Dante (p. 193).
Il restante quarto riguarda invece indagini storiche, filologiche, linguistiche, erudite condotte con «metodo storico […] da medievalisti e non da almanaccatori privi di specifica cultura: indagini delle quali sarebbe superfluo difendere la legittimità e l’utilità» (p. 193).
Sembra quindi doveroso ricordare che l’opposizione a Croce tra i seguaci del metodo storico non fu unanime, poiché anzi le personalità di maggior rilievo di quella tradizione critica (Barbi ed Ernesto Giacomo Parodi su tutti) trovarono nelle pagine dell’Estetica, ma anche in quelle della Poesia di Dante, incentivo alla significativa revisione dei protocolli ottocenteschi della ricerca filologica in atto nel primo Novecento.
Tale è il caso soprattutto del quasi coetaneo di Croce, Parodi, maestro indiscusso di glottologia dedicatosi alla grammatica storica dell’italiano antico, ma anche lettore aperto alla modernità letteraria. Parodi cresciuto alla scuola della élite della filologia italiana attiva a Firenze, dal 1906 direttore, per quattordici anni, dell’autorevole «Bullettino della Società dantesca italiana», editore, con l’aiuto di Flaminio Pellegrini, del Convivio e poi del Fiore e del Detto d’amore per l’edizione 1921 delle Opere, fu anche, con Barbi, il più eminente innovatore della filologia dantesca praticata nell’accademia, come dimostra la raccolta di saggi pubblicata nel 1920 intitolata Poesia e storia della “Divina Commedia” (1920 e 1965), selezione di una assai copiosa produzione, a tutt’oggi ineludibile punto di riferimento nella storia della critica dantesca.
Carducciano, inizialmente schierato a difesa del metodo storico – come dimostra lo scritto del 1906 Dantofili dantisti dantomani e metodo storico nel quale difende le ragioni dei «pedanti» contro gli «estetizzanti», ma per concludere imputando a questi ultimi l’impostazione intellettualistica e l’insufficienza estetica del metodo critico –, si era progressivamente avvicinato alla lezione di De Sanctis e al neoidealismo, in particolare, come linguista, alle tesi dell’Estetica, riconoscendo il proprio debito nei confronti di Croce, la cui influenza si può cogliere anche nelle tante pagine dedicate a Dante, nelle quali la filologia si coniuga con la critica estetica. Così che Pietro Pancrazi poté concludere la commemorazione di Parodi osservando come: «Ogni volta che gli avviene di teorizzare, noi sentiamo che il suo accordo col Croce è completo. Glottologo, la sua teoria del linguaggio è schiettamente crociana» (P. Pancrazi, Nel giardino di Candido, 1961, p. 296).
Di fronte al rischio della prevalente desertificazione della critica dantesca, il lettore di Dante dovrà
possedere quella fondamentale conoscenza o coscienza storica, che si forma e cresce col formarsi e crescere della nostra personalità interiore (sorta di ontogenesi che coincide con la filogenesi); e, nel caso di Dante, è necessario farsi un’anima dantesca, e, insieme, poiché egli fu poeta, conoscere quel che sia la poesia nella sua eterna natura (La poesia di Dante, cit., p. 194).
«Farsi un’anima dantesca»: in questa prospettiva pare lecito individuare nella Poesia di Dante, fino all’ultimo difesa da Croce senza concessioni a chi ne criticava l’impianto metodologico, un decisivo punto di riferimento per la successiva, imponente produzione critica e storiografica. Opinione che, non a caso, ritroviamo, a dimostrazione della perdurante durata della lezione crociana, nel caposcuola dei filologi danteschi del secondo Novecento, il dichiarato ‘postcrociano’ Contini, quando insiste sul carattere formativo della Commedia: «Ogni lettura un po’ tesa [della Commedia] dovrebbe porsi a caso vergine e fare tabula rasa della storia della critica». Per concludere felicitandosi che, nell’epoca nostra, Dante sia rimasto «illeso», nonostante l’«esoso» dantismo (Contini 1965, 1976, pp. 69 e 111).
M. Barbi, Gli studi danteschi e il loro avvenire in Italia, in Id., Problemi di critica dantesca. Prima serie (1893-1918), Firenze 1934, 19652, pp. 1-27.
F. Maggini, La critica dantesca dal Trecento ai giorni nostri, in Letteratura italiana, 3° vol., Problemi e orientamenti critici di lingua e letteratura italiana, a cura di A. Momigliano, Milano 1949, pp. 123-66.
M. Barbi, Un cinquantennio di studi danteschi (1886-1936), in Id., Problemi fondamentali per un nuovo commento della Divina Commedia, Firenze 1956, pp. 141-59.
D. Mattalia, Dante Alighieri, in I classici italiani nella storia della critica, a cura di W. Binni, 1° vol., Firenze 19602, pp. 77-86.
G. Contini, Un’interpretazione di Dante (1965), in Id., Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Torino 1976, pp. 69-112.
M. Fubini, Rileggendo La poesia di Dante di B. Croce, «Cultura e scuola», 1965, 13-14, pp. 7-19.
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