Il decennio breve
Tra l’11 settembre 2001 e il settembre 2008 si è consumato il tentativo di centrare il mondo su un unico polo di potenza, gli Stati Uniti d’America. L’attacco terroristico alle Twin Towers e al Pentagono, e poi la crisi finanziaria che dall’America si è diffusa ovunque, con pesanti quanto diverse conseguenze sulle economie di tutto il mondo, sono due pietre miliari destinate a segnare i libri di storia. Per comprendere meglio senso ed effetti di quel decennio breve, conviene qui esaminare le radici del paradigma geopolitico della monopotenza americana, accennando alle sue diramazioni principali. Per verificare poi come la crisi della superpotenza solitaria influisca su noi italiani ed europei e sul futuro geopolitico del pianeta.
Il momento unipolare
L’idea del «momento unipolare» (espressa da Charles Krauthammer, uno degli ideologi neoconservatori che più hanno scommesso sulla presidenza di George W. Bush) deriva da una visione ben radicata nella storia americana, quella del ‘destino manifesto’, ossia della missione speciale che Dio avrebbe assegnato all’America. Secondo la definizione del massimo esponente novecentesco dell’idealismo americano, il presidente Woodrow Wilson: «È stato come se la Provvidenza di Dio avesse mantenuto intatto un continente, in attesa di un popolo pacifico che amasse la libertà e i diritti dell’uomo al di sopra di ogni cosa, affinché venisse e mettesse in piedi una repubblica altruista (an unselfish commonwealth)» (Selected addresses and public papers of Woodrow Wilson, 1918, p. 127).
Nel codice genetico degli Stati Uniti d’America, in specie nelle sue radici puritane e insieme illuministiche, c’è la certezza di rappresentare un’entità particolare, dotata di una propria missione universale. Non una nazione fra le altre. Semmai, il paradigma del Bene, cui le altre nazioni si dovranno approssimare.
Teniamo fermi, dunque, alcuni tratti caratteristici del modo in cui l’America si pensa e pensa il suo ruolo nel mondo: universalismo, moralismo, progressismo. Le élites americane tendono nella storia a determinare uno standard etico che nella prassi potrà essere solo avvicinato, ma mai completamente rinnegato. Anche i più realisti fra i presidenti americani, da Theodore Roosevelt a Richard Nixon a G.W. Bush, hanno sempre dovuto tener conto di questi principi, senza i quali non avrebbero potuto contare su un sufficiente sostegno dell’opinione pubblica nella loro azione internazionale. Ma il momento unipolare è frutto di una peculiare costellazione geopolitica, che si materializza ben prima dell’11 settembre 2001. Esso diventa possibile – molti pensano addirittura reale – all’indomani del crollo del muro di Berlino (1989) e, per conseguenza, dell’impero sovietico e della stessa Unione Sovietica. Fine della guerra fredda, dunque del bipolarismo. Gli Stati Uniti restano l’unica superpotenza, sotto ogni profilo: economico, culturale, militare, geopolitico. Un colosso inarrivabile nel quale si concentra una potenza mai espressa sulla Terra dalla fine dell’Impero romano d’Occidente. Negli anni Novanta, fra gli Stati Uniti e le altre grandi nazioni, dalla Cina alla Russia al Giappone e ai maggiori Paesi europei, non c’è solo una differenza quantitativa, ma un salto di qualità. Dal quale per gli Stati Uniti si possono trarre in teoria due indicazioni geopolitiche opposte: ritirarsi nel proprio giardino di casa, bisognoso di cure; oppure dedicarsi alla redenzione del mondo, proiettando all’esterno, grazie all’inesistenza apparente di potenze avversarie, il proprio modello di democrazia, di libertà e di economia capitalistica.
Sotto Bill Clinton – salva la parentesi delle guerre balcaniche, in cui l’inefficienza degli europei spinse gli Stati Uniti a intervenire, senza che vi fossero particolari interessi americani da proteggere – l’inclinazione è verso il primo corno del dilemma. Si proclama la ‘fine della storia’ poiché il sistema democratico-capitalistico non ha più rivali e ha conquistato o sta per conquistare tutti. Con questa tesi si vellica la profonda inclinazione provinciale di gran parte dell’opinione pubblica e delle stesse élites statunitensi, poco curiose del resto del mondo, quanto convinte della relativa benevolenza altrui nei propri confronti.
Sotto G.W. Bush – tranne la parentesi dal 20 gennaio all’11 settembre 2001, quando il neopresidente repubblicano sembra voler rispettare la sua promessa elettorale di una politica estera più ‘umile’ – si passa invece al tentativo di sostenere un impero americano vocato ad affermare i propri interessi e quindi a diffondere libertà e democrazia nel mondo. Nel Paese sconvolto dall’attacco terroristico, che riporta gli americani alla realtà di un pianeta pericoloso e in buona parte irriducibile agli ideali a stelle e strisce, per la prima volta il termine impero diviene di uso corrente. In senso positivo. Un impero del Bene destinato a migliorare, anzi a riscattare il resto del mondo. Per un Paese nato come contraltare rispetto all’imperialismo britannico e poi delle potenze europee, una svolta di 180 gradi.
L’obiettivo strategico della presidenza Bush, dopo l’11 settembre, è rendere l’America più indipendente dal mondo perché il mondo si è rivelato maledettamente pericoloso per l’America. L’11 settembre gli Stati Uniti si scoprono vulnerabili a quel fanatismo musulmano di cui prima si erano serviti per affossare l’Unione Sovietica. Bush è convinto che l’America sia stata attaccata perché si era dimostrata troppo debole verso i gihadisti. La guerra al terrorismo è intesa quindi principalmente come un’esibizione di forza e di determinazione per scoraggiare un nemico che potrebbe colpire ancora e con qualsiasi mezzo, incluse le armi di distruzione di massa, per quanto ‘sporche’ o improprie. Con lo scopo di riaffermare la leadership degli Stati Uniti su un nuovo mondo, idealmente ridisegnato a loro immagine e somiglianza. Insomma, il mondo perfetto vede una grande e potente America al centro di un sistema di piccole Americhe, orbitanti attorno alla stella di Washington.
Per dare sostanza ideologica e popolarità, almeno domestica, alla sua impresa, l’amministrazione Bush reinterpreta la guerra al terrorismo secondo i canoni dell’idealismo americano: una guerra per esportare democrazia e libertà. La misura del successo o dell’insuccesso è quindi l’avanzamento o l’arretramento delle frontiere della liberaldemocrazia e del libero mercato nel mondo. Nella sua versione estrema, questa ideologia unipolarista immagina la fine dell’ONU, da sostituire con una lega delle democrazie.
L’impero a credito
Alla base di questa ambiziosa visione geopolitica, che porterà le forze armate americane a impegnarsi nelle campagne di Afghānistān e ῾Irāq, c’è la parossistica espansione di un meccanismo che possiamo definire di ‘impero a credito’. Infatti, per la prima volta nella storia universale, la massima potenza è insieme il massimo debitore internazionale. Alla fine del 2008, gli Stati Uniti avevano accumulato quasi 3 miliardi di dollari di debito estero, con un deficit pubblico che allo scoppio della crisi di Wall Street aveva già superato i 400 miliardi di dollari. Ma fino al settembre 2008 la Casa Bianca non sembrava troppo preoccuparsi delle sue esposizioni finanziarie con il resto del mondo. «Reagan ha provato che i deficit non contano», diceva il vicepresidente Dick Cheney, di gran lunga il più influente fra gli esponenti della prima amministrazione Bush (nella seconda lo sarà molto meno, dato l’esito non esaltante della strategia offensiva da lui caldeggiata).
Partendo da questo postulato, e avendo al centro della loro missione la protezione dell’American way of life, ossia del consumatore americano e del suo stile di vita, gli Stati Uniti d’America fanno leva sulla loro strapotenza militare e sul loro soft power (egemonia culturale e politica) per alimentare la crescita dell’economia americana grazie all’afflusso di risorse esterne – merci, capitali, energia e materie prime – a sostegno della domanda aggregata interna. Ciò consente al governo americano di non eccedere nel carico fiscale, mentre accolla agli acquirenti dei titoli del Tesoro, soprattutto giapponesi, cinesi e altri asiatici, l’onere di finanziare indirettamente una quota importante della spesa pubblica. L’equazione è molto semplice: l’Asia produce beni a basso costo e l’America si indebita comprandoli.
Il credito altrui non si spiega in base al mero calcolo di utilità economica, data la modesta redditività dei capitali stranieri investiti in attività in dollari, ma con il riconoscimento della supremazia complessiva degli Stati Uniti d’America in quanto garanti in ultima istanza del paradigma universale (americano). La cui moneta centrale è il dollaro. Uno standard assoluto, almeno fino alla crisi del 2008, cui si affidavano anche i competitori e insieme detentori del debito statunitense, a cominciare dagli asiatici.
Le stesse organizzazioni finanziarie internazionali, dal Fondo monetario internazionale alla Banca mondiale, sono figlie e funzione di questa strategia imperiale mai esplicitata e assolutamente originale, che non ha nulla a che vedere con i classici imperialismi asiatici ed europei, fondati, per quanto possibile, sul dominio diretto dello spazio e sull’estensione di tale controllo territoriale.
L’impero a credito ha creato nel tempo un’interdipendenza strategica fra Stati Uniti e Cina. Le due economie e i due sistemi finanziari, per quanto assai diversi, sono simbiotici. I punti deboli come quelli di forza della superpotenza in atto e di quella apparentemente in fieri si incrociano. Ciò dovrebbe obbligare Washington e Pechino a una sincronizzazione se non omologazione dei due sistemi, finora impedita dalle diffidenze geopolitiche e dalle rispettive ideologie, effettive o dichiarate. Resta il fatto di decisivo impatto geostrategico per cui senza i finanziamenti provenienti dall’Asia e, particolarmente, dalla Repubblica popolare cinese, i costi economici delle campagne belliche combattute in nome della guerra al terrorismo sarebbero stati probabilmente insostenibili anche per un’amministrazione indifferente al debito, come sicuramente è stata quella di G.W. Bush.
Aporie della superpotenza solitaria
L’ideologia dell’impero del Bene fondato sul moltiplicatore dell’impero a credito si rivela insostenibile nell’arco del decennio breve che apre questo secolo. Dimostrando che il dilemma teorico sopra esposto – neoisolazionismo o egemonia mondiale – è del tutto improbabile. In realtà, l’America non può ritirarsi dal mondo né può dominarlo.
Ciò in base a un dato di fatto geopolitico cui nemmeno il più abile leader americano può sfuggire: il mondo è semplicemente troppo vasto e vario per essere retto da un solo polo. Ai tempi della guerra fredda, l’Unione Sovietica faceva metà del lavoro degli Stati Uniti, mentre si contrapponeva a essi. Mosca e Washington, feroci rivali ideologici e geopolitici, svolgevano la funzione di riduttori della complessità geopolitica all’interno dei rispettivi territori d’influenza, ciascuno naturalmente con i metodi caratteristici del proprio regime. Senza Mosca, Washington ha dovuto – e inizialmente solo in parte voluto – accollarsi compiti di ‘polizia’ molto al di là del suo Occidente tradizionale, a cominciare dai Balcani, sotto Clinton, per finire con il Grande Medio Oriente di Bush Jr.
Per questo motivo, quando un consigliere di Michail Gorbačëv notava sarcasticamente «abbiamo fatto all’America il peggiore scherzo possibile, le abbiamo tolto il nemico», coglieva nel segno. Washington era del tutto impreparata alle conseguenze della vittoria. Meglio, non aveva una strategia per la gestione del successo. Si consideri l’approccio riservato alla Russia, in quanto erede (molto relativo) della defunta Unione Sovietica. Di fatto, negli anni Novanta la Russia di Boris El´cin viene trattata come un fattore residuale della geopolitica mondiale. Ci si preoccupa solo di mettere in sicurezza il suo apparato nucleare, per evitare che testate, missili e conoscenze tecnologiche finiscano in mani pericolose. E, contemporaneamente, si punta a mettere le mani sul tesoro energetico russo ed ex sovietico, attraverso ‘oligarchi’ più o meno amici.
Inoltre, malgrado le promesse pubbliche e private fatte a Gorbačëv, negli anni Novanta matura l’espansione della NATO verso Est, nel cuore stesso dell’ex impero sovietico. Un percorso quasi parallelo a quello dell’allargamento dell’Unione Europea. Il sistema euroatlantico si configura così, visto da Mosca, come una punta di lancia che mira al cuore della Russia. E si segnala sempre più per l’attiva presenza di Paesi come la Polonia e i tre Stati baltici (Lettonia, Lituania, Estonia) già sovietici, che d’intesa con Stati Uniti e Gran Bretagna danno corpo e tono alla ‘NATO dell’Est’.
Ciò provoca l’incrinarsi della solidarietà atlantica. Ai tempi della guerra fredda, era molto chiaro a che cosa servisse la NATO: a tenere «i russi fuori, gli americani dentro e i tedeschi sotto», secondo l’espressione del suo segretario generale Lord Hastings L. Ismay. Scaduto quel tempo con il suicidio del nemico, fra il 1989 e il 1991, obiettivi e mezzi dell’Alleanza atlantica appaiono molto meno chiari e meno condivisi. Da parte americana matura il disegno, peraltro mai del tutto esplicitato, di farne uno strumento globale con cui proteggere gli interessi degli Stati Uniti in tutto il mondo, ben al di là dell’area statutariamente riservata agli interventi della NATO. Principio che trova attuazione già nelle guerre balcaniche (Bosnia 1995, Kosovo 1999).
Da parte dei tradizionali alleati europei si tenta di schivare la questione, fin quando non sono costretti ad affrontarla. Berlino, Parigi, Roma e Madrid evitano di mettersi di traverso e finiscono per seguire le scelte di Washington e di Londra, caldamente supportate dai partner neoatlantici che vedono nell’Alleanza la migliore garanzia contro il temuto ritorno di potenza della Russia. Al massimo, si cerca di accollare la maggior parte dei costi della doppia espansione UE/NATO ai suoi propositori d’oltreoceano.
Insomma, prima dell’11 settembre 2001 nessuno sfida l’America, che sembra agire nel vuoto geopolitico. Su scala globale, la Russia è un relitto e minaccia di spaccarsi come a suo tempo l’URSS; la Cina è ancora lungi dall’aver raggiunto dimensioni economiche e geopolitiche tali da poter minacciare l’egemonia americana; gli europei non sono assolutamente in grado di diventare Europa, ossia di presentarsi come un soggetto unico sul palcoscenico internazionale. Sotto quest’ultimo profilo, non vi è alcun dubbio che la corsa euroatlantica verso l’Est sia stata sponsorizzata da americani e britannici anche per garantirsi da tale eventualità.
Dopo l’attacco alle Twin Towers e al Pentagono, questo scenario apparentemente fisso, nel quale si era già decretata la fine della storia, cioè l’affermazione definitiva del paradigma liberaldemocratico e del mercato su scala universale, cambia d’improvviso.
La guerra al terrorismo
Non sapremo probabilmente mai in ogni dettaglio rilevante che cosa è davvero accaduto l’11 settembre negli Stati Uniti. Le versioni ufficiali zoppicano e le dietrologie più o meno fantasiose si sprecano. In ultima analisi, la meccanica degli eventi ha un valore relativo. Contano gli effetti. E quelli sono sufficientemente visibili, anche se soggetti a diverse valutazioni.
L’attacco del terrorismo gihadista alla superpotenza unica pone la nuova amministrazione, già indebolita dalla vittoria elettorale contestata e dalle polemiche conseguenti, di fronte a una sfida inedita. Non ci sono precedenti né formule sperimentate cui attingere. La parola d’ordine nel gabinetto di crisi è «think out of the box», pensare fuori degli schemi.
Sappiamo che nel ristretto novero dei decisori americani si scontrano diverse linee. Comprese le pulsioni estremiste che vorrebbero reagire subito con una guerra all’Irāq, se non all’Irān o all’Arabia Saudita. Ben presto prevale un consenso, imperniato sul trio Bush-Cheney-Rumsfeld (presidente, vicepresidente e ministro della Difesa), che verte sui seguenti punti: l’America non può limitarsi alla difesa del territorio nazionale contro nemici invisibili, deve stanarli e distruggerli dovunque si trovino; gli Stati che appoggiano o tollerano il terrorismo (definizione peraltro vaga e fungibile, dunque strategicamente manipolabile per legittimare varie operazioni) sono nemici e vanno trattati come tali; «in questa guerra sono gli obiettivi che fanno la coalizione e non il contrario» così Donald Rumsfeld, per spiegare al mondo che gli Stati Uniti non accettano compromessi con alleati tiepidi o troppo condizionanti; «chi non è con noi è contro di noi», mantra ripetuto da Bush e associati soprattutto nei primi anni di guerra.
Da tale vademecum scaturiscono le sottoelencate priorità geopolitiche.
a) Una volta stabilito che è stato Osama bin Laden (Usāma ibn Lādin) con la sua organizzazione al-Qā῾ida a ordire gli attacchi dell’11 settembre, sarà lui il primo bersaglio. E poiché si trova in Afghānistān sotto la protezione del locale regime dei Ṭālibān, la prima campagna sarà condotta su quel terreno contro Osama e i suoi protettori fino allo smantellamento della rete terroristica e del regime che la copre (o ne è coperto).
b) In questa operazione non si deve solo distruggere il nemico. Bisogna soprattutto mostrare al mondo che l’America è decisa a difendersi con tutti i mezzi, anche mettendo ‘gli stivali a terra’, ossia mandando al fronte il meglio delle proprie Forze armate.
c) Lo scopo strategico della guerra al terrorismo va ben oltre la campagna afghana. Si tratta di palesare con una straordinaria esibizione di forza al resto del mondo che l’America resta più che mai il numero uno e non si fa intimorire da nessuno. Se per caso qualche potenza rivale sogna di approfittare della crisi per mettere in discussione l’egemonia americana, sappia che si sta illudendo.
d) In particolar modo, si tratta di sancire l’indipendenza energetica degli Stati Uniti sia dal Medio Oriente sia dall’OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries). Anche rischiando una rivoluzione geopolitica che porti per effetto domino alla caduta delle autocrazie ‘moderate’ ma infide, non esclusa quella saudita.
e) Dopo la marcia su Kābul, vittoriosamente conclusa in poche settimane, nel mirino viene messo l’Irāq e in prospettiva anche l’Irān. Non sarà possibile né necessario – si pensa inizialmente – rovesciare armi in pugno ogni regime infido. Saranno loro stessi ad arrendersi una volta ostentata la supremazia militare americana nella regione.
f) In questa guerra il richiamo idealistico all’espansione della democrazia come missione americana si sposa perfettamente con gli obiettivi geopolitici che si vogliono raggiungere.
Insomma, la vittoria inevitabile nella guerra al terrorismo non solo guarirà la ferita dell’11 settembre, ma rafforzerà l’egemonia globale degli Stati Uniti, tagliando le unghie alle ambizioni delle potenze emergenti o riemergenti.
La guerra per liberare l’America dalla paura del terrorismo innesca così un meccanismo semiautomatico che ha la funzione di alimentare la paura come condizione dell’emergenza patriottica. E questo proteggendo Bush dalle critiche interne, favorendo le industrie variamente connesse alla difesa e allargando il differenziale di potenza tecnologico-militare fra gli Stati Uniti e il resto del mondo.
L’aspetto più peculiare di questo approccio è che la superpotenza unica rimette in discussione l’assetto geopolitico sul quale appare dominare. Normalmente, le potenze revisioniste sono quelle che hanno perso. Qui invece è il vincitore che rovescia il tavolo e cerca di costruirne un altro, ancor più nettamente a misura dei propri interessi. Anzi, a propria immagine e somiglianza, almeno nelle intenzioni dei più scatenati fra gli ideologi neoconservatori che animano il Project for the new American century (PNAC).
Non bisogna trascurare questa forte componente ideologica della strategia bellica degli Stati Uniti. Un approccio che certamente non è nemmeno pensabile da parte delle potenze tradizionali, a cominciare da quelle europee. Che infatti faticano a capire la ratio di Bush. Tanto minore è la capacità di penetrare nel ragionamento americano, tanto più ricca e fantasiosa si rivela la fioritura di teorie del complotto, che trovano nel vecchio continente la loro terra d’elezione. E che inclinano a ridurre la spiegazione delle campagne militari americane alla caccia al petrolio e al gas, che certamente influisce, ma non appare in cima alle preoccupazioni dell’amministrazione Bush, impegnata in una partita a 360 gradi per la riaffermazione del primato statunitense nel mondo.
Lo iato tra le percezioni americane e le percezioni di gran parte delle opinioni pubbliche europee e di una quota importante delle rispettive leadership emerge con la decisione americana di invadere l’Irāq, di fatto presa già nel gennaio 2002, più di un anno prima dell’invasione. La legittimazione ricercata attraverso l’attribuzione al regime di Saddam Hussein (Ṣaddām Ḥusayn) di armi di distruzione di massa che si riveleranno inesistenti non basta a mascherare le ragioni di fondo di quell’intervento, legate alla sopra citata strategia di consolidamento del momento unipolare. Segnalata, d’altronde, anche dal fatto che il nerbo del corpo di spedizione in Mesopotamia è americano (150.000 uomini), affiancato da pochi alleati (25.000 uomini), soprattutto britannici. La NATO non viene nemmeno presa in considerazione.
Risultato: il fronte euroatlantico risulta spaccato secondo linee di faglia rivelatrici. Con gli Stati Uniti, ecco i britannici e quasi tutti i Paesi atlantici del Centro e dell’Est Europa, più italiani e spagnoli. Sul versante degli oppositori, insieme alle altre potenze mondiali, a cominciare da Russia e Cina, le due principali nazioni continentali, Francia e Germania. Non si tratta di una divisione d’occasione. È invece il sintomo di una differenza di interessi e di visione del mondo, destinata a rafforzarsi negli anni successivi. Sul piano geopolitico e geostrategico, l’eredità maggiore per l’Alleanza atlantica della campagna d’Irāq è la dimostrazione che quando si fa sul serio, cioè si va alla guerra, l’Alleanza di fatto non esiste.
Le campagne di Afghānistān e di ῾Irāq sono il massimo fallimento dell’amministrazione Bush. Certo, i regimi nemici – i Ṭālibān e Saddam Hussein – sono spazzati via (il primo forse in modo non definitivo). Ma al loro posto non solo non sorgono strutturate e moderne democrazie, secondo i sogni degli ideologi neocon più refrattari all’analisi realistica, ma subentrano caos, guerriglia e vera e propria guerra. Con perdite gravissime per gli americani, e ancor più per le popolazioni civili di quei territori sfortunati.
Le due campagne sono ovviamente diversissime, ma hanno in comune l’incapacità americana di controllare il territorio. Quel genere di guerre non si vince conquistando la capitale nemica, bensì costruendo un ordine nuovo e più confacente agli interessi americani con le forze endogene a disposizione. È quello che i comandanti militari in ῾Irāq e in Afghānistān hanno per lo più consigliato ai loro leader politici, inizialmente con scarso successo. Ci vorranno quattro anni di esperienze devastanti in ῾Irāq per passare alla cosiddetta tattica del surge spacciata per puro incremento di forze mentre in realtà si è trattato di un’apertura politica agli insorti sunniti, abbondantemente innaffiata di contributi finanziari ai leader tribali; e insieme di un compromesso implicito con l’Irān, che ha ottenuto un governo più o meno amico a Baġdād, riservandosi naturalmente di riscatenare l’inferno nel caso in cui gli equilibri iracheni prendano una piega sfavorevole.
Più o meno contemporaneamente, intorno al 2006, Bush scopriva in Afghānistān i Ṭālibān ‘buoni’, ossia quegli insorti disponibili a un compromesso in cambio di potere locale e soldi. Ma Washington non ha mai fatto una scelta chiara circa gli equilibri da promuovere in Afghānistān, che certo non possono essere garantiti dal debolissimo presidente Hamid Karzai. Ciò ha favorito nel tempo l’estendersi del fronte all’intera regione di (pseudo) frontiera fra Pakistan e Afghānistān, ossia la fascia pashtun, dove non sono ammesse altre autorità che quelle locali. È probabile che una delle priorità della presidenza di Barack Obama sarà proprio quella di evitare che l’incendio afghano si connetta alla destabilizzazione del Pakistan, Paese cronicamente in crisi e tanto più pericoloso in quanto dotato di un proprio apparato nucleare.
Le due guerre ancora in corso hanno indotto lo stesso presidente Bush, negli ultimi due anni della sua amministrazione, ad abbandonare la ‘diplomazia trasformativa’ e a optare per approcci più pragmatici. Niente più miraggi neocon, ma nemmeno una netta alternativa realistica. Nella guerra al terrorismo dunque Obama eredita un Paese in mezzo al guado. E profondamente provato dai costi umani, morali ed economici delle campagne mediorientali.
Il cuore del problema: l’Irān
Le guerre americane in Afghānistān e in ῾Irāq impallidiscono di fronte alla prospettiva di un possibile conflitto con l’Irān. È intorno a questo grande Paese che si giocheranno i destini del Medio Oriente e della geopolitica americana nella regione.
Da quando nel 1979, dopo la vittoria della rivoluzione islamica guidata da Ruhollah Khomeini (Ruḥ Allāh Musavi Ḫomeyni), i rapporti fra Irān e Stati Uniti si sono virtualmente interrotti, per Washington la questione persiana si è posta in termini nuovi. Ma sempre più centrali. Se consideriamo il Grande Medio Oriente, termine inventato dall’amministrazione Bush per identificare il teatro della guerra al terrorismo – una regione geostrategica che va dal Maghreb al Pakistan – dobbiamo constatare che il perno di questo spazio è l’Irān. Una potenza dalle caratteristiche peculiari e insieme ambigue. Proviamo a riassumerle.
a) L’Irān è una Repubblica islamica e l’erede del grande impero persiano. Nella sua autorappresentazione geopolitica queste due linee identitarie scorrono parallele. E fondano la sua idea di grandezza, ossia di una potenza regionale con ambizioni molto più vaste in quanto nazione leader degli sciiti nel mondo e insieme erede degli Achemenidi. Di più, la retorica antisemita prima ancora che antisionista di Mahmoud Ahmadinejad (Maḥmūd Aḥmadīnejād), il suo presidente eletto a sorpresa nel 2005, mira a presentare l’Irān come il capofila del mondo veramente islamico, unito nella necessità di liquidare l’entità sionista incistata sul ‘suo’ territorio, in quanto tale e in quanto alleata intima del ‘grande Satana’ a stelle e strisce.
b) L’Irān è una grande potenza energetica, soprattutto quanto a gas. Tuttavia, il suo rango economico-energetico è drasticamente ridotto dalle sanzioni promosse dagli Stati Uniti e dall’isolamento rispetto all’Occidente e al mondo arabo-sunnita. Solo rientrando nel grande gioco internazionale come legittima potenza regionale la Repubblica islamica d’Irān può sfruttare il suo enorme patrimonio energetico.
c) Il programma nucleare iraniano, ufficialmente civile, ma con una componente segreta militare che quasi tutti danno per scontata, ha una doppia valenza. Per quanto concerne l’aspetto civile, si tratta di produrre energia a fini domestici, in modo da liberare più risorse (gas e petrolio) per l’esportazione. Accanto a questa funzione si pone la dimensione militare. Che non è un fine in sé, ma uno strumento di pressione e di scambio, rivolto in particolare agli Stati Uniti, in vista di un possibile negoziato complessivo che sancisca ruolo e rango dell’Irān nella regione e nel mondo.
d) Mentre la propaganda ufficiale non cessa di attaccare Stati Uniti e Israele, nelle stesse élites di regime si è consapevoli dell’opportunità di arrivare a un compromesso, in particolare con Washington, se davvero si vuole rientrare nel grande gioco. Ma non un’intesa a qualsiasi prezzo. Per questo non si può escludere l’ipotesi di un conflitto, dal quale l’Irān immagina di uscire comunque vincitore, se non altro per l’improbabilità di un’invasione stile iracheno, non fosse che per le dimensioni territoriali del Paese.
e) La società iraniana, estremamente variegata e composita (i persiani sono solo la maggioranza relativa della maionese etnica, rappresentando a stento la metà della popolazione), è la più filoccidentale, filoamericana e antiaraba della regione. In quanto polo sciita, si contrappone alla massima potenza sunnita, l’Arabia Saudita, con cui sta faticosamente costruendo un instabile modus vivendi.
f) Il regime è largamente informale e assai ambiguo. Le decisioni vengono prese da una ristretta cerchia di leader religiosi con poteri militari ed economici (pāsdārān). Al vertice del Paese c’è la Guida Suprema, l’āyatollāh Ali Khamenei (῾Ali Ḥoseyni Ḫāmene᾽i), che però è solo primus inter pares. Non ha né il carisma né il potere del suo venerato predecessore, l’āyatollāh Khomeini. Il presidente della repubblica Ahmadinejad ricopre un ruolo paragonabile a quello di un primo ministro nel sistema francese: importante, ma non determinante. Il suo compito è di caricarsi di ogni responsabilità senza avere nemmeno lontanamente tutti i poteri. Un labirinto di istituzioni elette direttamente dal popolo e formate per cooptazione, dal Parlamento al Consiglio per i pareri di conformità e all’Assemblea degli esperti completa il quadro. Ciò rende maledettamente complicato qualsiasi negoziato con l’Irān: con chi ci si può/deve mettere d’accordo?
Nella visione originaria dell’amministrazione Bush, le vittorie in Afghānistān e in ῾Irāq avrebbero costretto il regime di Teherān alla capitolazione. Al suo posto sarebbe subentrato un governo più o meno amico e democratico, con il quale gli americani avrebbero ristabilito normali rapporti. Di più, ne avrebbero fatto la leva per consolidare la propria influenza nella regione e per tenere in scacco il radicalismo sunnita, nelle sue varianti politiche (in particolare, i Fratelli musulmani) e militari (gihadisti e dintorni). In quest’ultimo aspetto – la contrapposizione alla galassia sunnita – interessi americani e iraniani coincidevano nella prima fase del decennio breve, e forse ancora oggi non divergono del tutto. Si tende troppo spesso a dimenticare il fondamentale aiuto fornito dagli iraniani soprattutto in termini di intelligence alla campagna afghana di Bush, come pure la grande soddisfazione per il fatto che l’invasione dell’Irāq abbia prodotto il crollo del regime di Saddam, storico arcinemico nella regione, contro il quale i soldati di Teherān combatterono la lunga e sanguinosissima guerra del 1980-1988.
Contrariamente alle aspettative dei leader moderati di Teherān, questa comunanza di interessi non ha però spinto Bush a un vero e proprio negoziato complessivo con l’Irān. Anche se dopo il 2006 sono state stipulate intese parziali e informali per ottenere che l’Irān frenasse la sua iniziativa destabilizzante in ῾Irāq, a sostegno dei confratelli sciiti di Mesopotamia e soprattutto dei propri interessi nazionali nel Paese arabo-curdo limitrofo, non si è mai aperto un confronto a tutto campo su come comporre interessi americani e iraniani nella regione. Mentre la retorica antioccidentale in Irān assumeva spesso toni parossistici, anche se diversificati, a testimonianza della vivacità del dibattito interno, malgrado tutto relativamente aperto (almeno per gli standard regionali).
Certo, è possibile ipotizzare che dopo il 2006 gli americani abbiano scambiato la rinuncia alla guerra preventiva contro il programma nucleare iraniano con una relativa acquiescenza persiana in ῾Irāq, fondamentale per il successo del surge. Ma, se così è stato, è difficile provarlo, perché né Washington né Teherān hanno per ora interesse ad ammettere accordi segreti. Comunque assai parziali. A impedire almeno finora la pacificazione fra Irān e Stati Uniti resta anzitutto la questione israeliana, in secondo luogo quella araba o meglio arabo-sunnita.
Visto da Israele, l’Irān è anzitutto l’unica altra vera potenza regionale, oggi in quarantena. La convinzione della maggior parte delle élites israeliane è che dell’Irān non ci si possa fidare e che quindi debba restare sotto scacco. È del tutto inammissibile che possa dotarsi di armi nucleari, perché in tal modo verrebbe a cadere il monopolio regionale di quello strumento, oggi israeliano (anche se Gerusalemme non l’ha mai ammesso, dispone di circa duecento testate atomiche). Una minoranza, invece, ricorda i tempi dell’alleanza della ‘periferia’, quando, per il neonato Stato ebraico, l’Irān dello scià rappresentava, insieme con la Turchia, il miglior partner regionale. E si domanda se sia possibile ritornare a quella belle époque, naturalmente previo cambio di regime a Teherān.
Il governo israeliano, in tutti questi anni, non ha mai escluso l’opzione militare che consisterebbe anzitutto, ma non solo, nel bombardamento dell’area dei principali siti atomici e delle infrastrutture strategiche del Paese, a cominciare dalle telecomunicazioni e, in particolare, dalla rete elettronica. Il programma militare nucleare non sarebbe forse del tutto eliminato, ma sarebbe certo ritardato di molti anni. E le ambizioni di potenza di Teherān annullate per il futuro prevedibile. Un’operazione così vasta non potrebbe svolgersi senza la partecipazione americana. Partecipazione che potrebbe essere spontanea o, in caso estremo, indotta: Gerusalemme potrebbe portare il primo colpo, di fronte al quale l’Irān reagirebbe con rappresaglie tramite Ḥezbollāh e Ḥamās nel cuore di Israele e ciò costringerebbe gli Stati Uniti a entrare in guerra, anche qualora preferissero restarne fuori.
Lo scenario bellico è stato discusso fra Washington e Gerusalemme fino all’autunno del 2007, quando alla Casa Bianca ha finito per prevalere il partito dell’attesa (guidato dal ministro della Difesa Robert Gates) contro quello della guerra preventiva (capeggiato dal vicepresidente Cheney). Il rapporto dell’intelligence americana fatto filtrare nel novembre 2007 alla stampa, nel quale tra molte incertezze si negava che fosse possibile dimostrare l’esistenza di un programma militare segreto tuttora in corso da parte delle autorità iraniane, ha di fatto rinviato alla nuova amministrazione Obama ogni decisione strategica su cosa fare o non fare con l’Irān.
La Palestina, un falso problema?
Durante il decennio breve, la Palestina ha occupato un posto minore nella visione americana delle priorità geopolitiche, peraltro mai chiaramente esplicitate né definite. Al di là delle mosse teatrali – tipo road map – e delle dichiarazioni di principio – Bush che parla di due Stati, Israele e Palestina, destinati a convivere pacificamente – di passi avanti concreti nella risoluzione del confronto israelo-palestinese, parte del più vasto contenzioso israelo-arabo, se ne sono contati davvero pochi o nessuno.
Dal punto di vista israeliano, l’11 settembre è stata infatti la dimostrazione che Stati Uniti e Israele combattono dalla stessa parte della barricata, contro il comune nemico terrorista. Definizione sufficientemente fungibile per essere usata in contesti e per scopi geopolitici molto eterogenei. La recrudescenza degli attacchi terroristici palestinesi soprattutto a inizio decennio e la proverbiale ambiguità della leadership di Yasser Arafat (Yāsir ῾Arafāt), su cui incombeva la responsabilità, secondo la vulgata corrente, di aver rifiutato a Camp David nel 2000 la grande occasione di uno Stato palestinese, hanno contribuito ad avvicinare le percezioni americane e israeliane in materia. Sicché la presidenza Bush, originariamente in odore di filoarabismo, è stata forse la più filoisraeliana della storia americana.
Il concetto di fondo che ha di fatto unito Washington e Gerusalemme, al di là delle differenze di tono e degli occasionali attriti, è stato che a Rāmallāh non c’era un interlocutore affidabile con cui fare la pace. Quando poi, con la morte di Arafat, alla presidenza dell’Autorità nazionale palestinese (ANP) è subentrato un moderato come Abu Mazen (῾Abbās Maḥmūd al-῾Aqqād Abū Māzin), l’argomento è stato rovesciato: nulla da eccepire sulla figura del nuovo leader, purché non si avvicinasse troppo ad Ḥamās; il problema però è che Abu Mazen conta troppo poco e quindi la pace con questa ANP è inutile, perché non è in grado di controllare il suo popolo. Argomento che ha un certo fondamento, dato che dopo la vittoria elettorale di Ḥamās nel gennaio 2006 e il fallito esperimento di una coalizione fra al-Fataḥ e Ḥamās, la guerra civile strisciante fra bande e clan palestinesi ha dimostrato l’inesistenza di un consenso nazionale palestinese. Con la presa di Gaza da parte di Ḥamās (giugno 2007), e mentre Abu Mazen disperatamente trattava con il premier israeliano Ehud Olmert un accordo improbabile, le chances di una soluzione a breve della questione israelo-palestinese paiono azzerate. Nel contempo, gli insediamenti israeliani in Cisgiordania crescono, né sembra esservi un leader politico che a Gerusalemme sia pronto a giocarsi la carriera procedendo a smantellarne i più rilevanti in nome di un ‘vero’ Stato palestinese. Sicché se anche si arrivasse alla proclamazione della Palestina, attualmente essa sarebbe un insieme di sacche territoriali dominate da Israele.
Nel contesto del nostro ragionamento, conta qui rilevare lo scarso interesse della Casa Bianca di Bush per la questione che, sostanzialmente, è stata appaltata alle parti, cioè agli israeliani, visto che dei palestinesi alla fine non ci si fida troppo. Di fatto, nel quadro della riaffermazione dell’egemonia degli Stati Uniti in Medio Oriente e nel mondo, quella partita non è dirimente. Contrariamente a quanto spesso si dice in Europa, la soluzione della questione palestinese non significherebbe necessariamente un passo avanti fondamentale nella pacificazione della regione. È più probabile che avvenga il contrario: quando arabi e israeliani – ma ormai è meglio specificare musulmani ed ebrei israeliani, vista la manipolazione religiosa o pseudoreligiosa del conflitto – si metteranno d’accordo, allora anche palestinesi e israeliani vivranno in pace. Almeno questo sembra il pensiero maturato a Washington fin dai primi mesi del decennio breve.
In conclusione, avendo esaminato le principali caratteristiche della rivoluzione geopolitica che gli Stati Uniti avrebbero voluto promuovere in Medio Oriente, si può concludere che si è risolta in un fallimento.
Eurussia contro America
Sotto la pelle del decennio breve nel continente eurasiatico si profila un fenomeno geopolitico di fondamentale rilievo, specialmente per noi italiani ed europei. È la crescente interdipendenza, non solo energetica, fra Russia e maggiori Paesi europei, soprattutto euroccidentali. In una formula, Eurussia.
A produrla è la somma algebrica del declino europeo, del raffreddamento degli Stati Uniti verso il vecchio continente e della rinascita russa. Si tratta certo di tendenze, non di leggi storiche, tanto meno di destini. L’aspetto più curioso di questo intreccio è che sembra rovesciare la logica per cui la guerra fredda era stata combattuta e vinta dal fronte atlantico, riassunta nella succitata formula del primo segretario generale della NATO, Lord Ismay. Che oggi risulta rovesciata. A vent’anni dalla fine del confronto bipolare Stati Uniti-URSS, gli americani sono meno dentro che mai, i russi stanno ritornando e i tedeschi, riunificati, pur non essendo una grande potenza, hanno ricominciato a pensare un po’ più in grande di prima, riscoprendo la loro antica, ambigua vocazione di ponte fra Est e Ovest. Giacché la scomparsa dell’URSS non ha affatto favorito la formazione di un soggetto geopolitico europeo. Anzi, ha incentivato nazionalismi e particolarismi, tanto più forti ed evidenti quanto più l’Unione Europea si allargava, più che raddoppiando in 20 anni i suoi membri (dai 12 del 1989 ai 27 del 2009). L’unione monetaria che lega fra loro una abbondante metà dei Paesi membri dell’UE non ha generato quell’approfondimento dell’integrazione politica che molti fra gli ideologi dell’euro preconizzavano. Con ciò limitando contemporaneamente la potenza dell’euro – lungi dal rappresentare una moneta internazionale di riserva – e quella dei singoli Paesi che vi hanno aderito. Se davvero i prossimi anni saranno segnati da un paradigma multipolare, a meno di miracoli sarà un multipolarismo senza un polo europeo.
Non stupisce che in questo contesto di crescente disunione e di crisi del processo di integrazione, le potenze esterne, a cominciare da Stati Uniti e Russia, approccino il nostro continente allacciando relazioni bilaterali con i singoli Stati più che attardarsi con la Commissione di Bruxelles. Ma mentre per gli Stati Uniti l’Europa è importante, ma non più decisiva come durante la guerra fredda, per la Russia il vincolo reciproco con noi europei è vitale. Nel senso che visto da Mosca questo nostro piccolo continente – che i geografi russi amavano battezzare perednaja Azija «Asia anteriore» – non ha alternative come partner economico e, entro certi limiti, geopolitico. Non c’è, né vi può essere, analoga interdipendenza con le altre aree o potenze adiacenti all’immenso spazio russo, Medio Oriente, Cina-Giappone o Stati Uniti che siano.
Dopo che Vladimir Putin è riuscito a salvare la Federazione Russa dalla disintegrazione cui sembrava condannata a fine anni Novanta, Mosca è tornata a contare nel vecchio continente dal quale la sconfitta nel confronto con gli Stati Uniti sembrava averla espulsa. La rinnovata influenza russa è particolarmente evidente in Europa occidentale, mentre è minore o, comunque, assai più temuta in Europa centrale e orientale: anche questo, un paradossale rovesciamento rispetto allo scenario della guerra fredda. Il ritorno della Russia si basa su tre vettori.
Il primo è il rango di potenza nucleare bicontinentale, estesa su un territorio vastissimo, straricco di materie prime. Un impero in relativa espansione geopolitica, come dimostra l’esito della vittoria nello scontro con la Georgia (agosto 2008), che ha rafforzato la presa di Mosca sul Caucaso e sull’area del Mar Nero, ritardando se non annullando le prospettive di allargamento della NATO alla stessa Georgia e all’Ucraina. E come confermano le pretese avanzate sugli spazi artici ricchi di idrocarburi e di altre risorse naturali di pregio, che dovrebbero essere rese più accessibili dal mutamento climatico.
Il secondo, fin troppo mediatizzato, è l’esportazione di idrocarburi, che vale il 44% (gas) e il 30% (petrolio) delle importazioni europee. Fenomenale fabbrica di quattrini, che negli ultimi anni ha permesso ai russi di fare shopping in giro per il mondo, mentre accumulava riserve nelle casse dello Stato per quasi 500 miliardi di dollari.
Il terzo, visibile solo in superficie, associa agenzie informali (come la rete esterna dell’ex KGB, ben ramificata nel nostro continente) e mafie, più o meno infiltrate e usate dallo Stato (e viceversa) onde promuovere interessi economici e nello stesso tempo geopolitici. Quest’ultimo vettore illustra in specie la profonda integrazione russa nei Balcani o verso il Mediterraneo, il Medio Oriente e l’Africa. Grazie anche ad antichi vincoli con leader del Terzo mondo addestrati a Mosca ai tempi del comunismo.
I principali riferimenti europei del Cremlino sono nell’ordine Germania, Francia, Italia e Spagna, cioè le quattro maggiori nazioni euroccidentali. Con le quali agiscono anche analoghi riflessi geopolitici. A cominciare dalla pulsione verso l’equilibrio della potenza, ossia verso il compromesso fra Russia e potenze euroccidentali (Stati Uniti inclusi, se vorranno, ma per ora non vogliono affatto). A scapito soprattutto degli ex satelliti di Mosca, dalla Polonia ai Paesi baltici, dai mitteleuropei ai balcanici, che nutrono tuttora fortissime diffidenze nei confronti della Russia, vista come un impero malvagio e intrinsecamente aggressivo. E che cercano rifugio sotto l’ombrello di Washington. Il quale, peraltro, nella vicenda georgiana e non solo, si è dimostrato più teorico che effettivo. Sicché l’Euroamerica appare oggi meno fondata dell’Eurussia su fattori strutturali.
La crisi economica e finanziaria in corso sta incidendo su queste tendenze. È molto presto per stabilire come e con quali esiti. Se non nel senso, forse, di accentuare i particolarismi geopolitici e i protezionismi economici, mai prodromi di stabilità. I riflessi della crisi si possono già cominciare ad avvertire nei tre quadranti che abbiamo sopra identificato per illustrare il fenomeno Eurussia.
Sul fronte del declino europeo sembra che al di là della retorica ognuno pensi ad affrontare le conseguenze economiche e sociali della recessione a suo modo. L’ideale europeista non incanta più, e comunque non produce senz’altro effetti concreti sul versante dell’integrazione.
Quanto alla Russia, l’esplosione della crisi finanziaria americana ha messo in evidenza quanto poco lungimiranti siano stati quei leader politici ed economici che hanno scommesso – peraltro in ottima, semiglobale compagnia – sulle securities americane. Sicché le basi quasi monoculturali dell’economia russa, basata sugli idrocarburi e su altre materie prime, minacciano non solo la salute economica del Paese, ma le ambizioni geopolitiche di un impero che ha nel suo DNA la vocazione alla potenza. Se sommati al declino demografico, che lascia prevedere per metà secolo una popolazione di appena cento milioni, dispersa su uno spazio vasto circa 55 volte l’Italia, questi fattori negativi gettano un’ombra sconcertante sul futuro della Federazione Russa.
Infine, l’America. Noi europei siamo sempre più lontani dal Nuovo Mondo. Visti da Washington, dopo la fine della guerra fredda non siamo più né una grande risorsa né un grande problema. Dunque non contiamo più come prima. Né si vede come potremo contare in futuro, a meno di catastrofi che obblighino gli Stati Uniti a impegnarsi di nuovo in un continente che a oggi non attira la loro attenzione, se non sporadicamente, certo non strategicamente.
Il mondo dopo Wall Street
Se è fondato sostenere che nel decennio breve è fallita l’ideologia della monopotenza, con tutti i suoi correlati geopolitici, economici e psicologici, quale assetto è possibile immaginare per il futuro, su scala globale?
Anzitutto, occorre considerare che è molto più difficile costruire un’architettura di governance mondiale in un contesto di profonda crisi economica e di moltiplicazione dei soggetti geopolitici, formali e informali. Allo scadere del decennio breve, la semplice eleganza della guerra fredda, in quanto ordine bipolare più o meno perfetto, appare un paradigma non riproducibile. Gli Stati Uniti, per quanto alle prese con la più grave delle crisi successive alla Seconda guerra mondiale, restano il numero uno. Nel senso che tutti i possibili competitori cercano comunque un’intesa con Washington. Nessuno si propone come alternativa. Tanto meno la Cina, potenzialmente il massimo rivale degli Stati Uniti nel secolo in corso, che ha faticosamente e rischiosamente avviato l’integrazione nell’economia globale attivando un meccanismo di scambio con la superpotenza americana, per cui Pechino ha accumulato un enorme stock di riserve in divise estere (per quasi 2 trilioni di dollari nel 2008), massimamente in dollari.
Dalla simbiosi economica sinoamericana può scaturire una simbiosi geopolitica a 360 gradi? Questa è la pietra di paragone del futuro paradigma di ordine mondiale, ammesso che se ne possa impiantare davvero uno. Circostanza per nulla scontata, considerando che almeno in questa fase di crisi la tendenza degli attori internazionali è di chiudersi nel proprio orto, servire i propri interessi o quelli che si percepisce per tali, in una sorta di protezionismo/particolarismo di cortissimo respiro.
Noi europei siamo specialmente colpiti da questa sindrome, come conferma la reazione in ordine sparso dei vari governi dell’Unione Europea, e dello stesso eurogruppo (Paesi dell’euro), per fronteggiare la crisi economica. Continuando su questa strada, non si vede come le giaculatorie circa la necessità di parlare ‘con una voce sola’ possano trovare applicazione.
In caso di progressiva costruzione di un G2 Cina-Stati Uniti, informale ma in un futuro più lontano forse anche formale, noi europei siamo condannati a un ruolo ancillare. Inferiore forse a quello della Russia, del Brasile, dell’India, della Repubblica Sudafricana e delle altre potenze regionali che potrebbero compartecipare, ciascuno a suo modo, al condominio sinoamericano. Se mai questo G2 assumerà contorni definiti, non sarà comunque un’operazione né rapida né indolore. Da parte americana sarebbe non solo l’ammissione del fallimento della monopotenza, che gli Stati Uniti di Obama non hanno difficoltà ad ammettere, ma anche la transizione verso un sistema in cui il condominio avverrebbe insieme a una potenza in ascesa, destinata secondo molti analisti a superarli sotto ogni profilo, economico e strategico, nel corso dei prossimi decenni. La Cina, insomma, non è l’Unione Sovietica. Perché malgrado le apparenze non propone affatto una concezione del mondo alternativa rispetto a quella americana. E perché per dimensioni demografiche ed economiche è di una taglia incomparabilmente superiore a quella del defunto colosso sovietico.
Crescente anarchia geopolitica o nuovo ordine bipolare: all’interno di questi due casi estremi si possono immaginare una grande quantità di varianti. È in questo segmento di possibilità che potremo forse immaginare il futuro prossimo del 21° sec., dopo questo vorticoso decennio breve.
Bibliografia
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Si vedano anche le annate 2001-2008 di «Limes. Rivista italiana di geopolitica».