Il declino del calcio italiano
L’Italia dello sport è il calcio e nel calcio non siamo più i primi. Non lo è il nostro campionato, ormai soppiantato dalla Premier League inglese e dalla Liga spagnola, oltre che fortemente insidiato dalla Bundesliga tedesca. Non lo è la Nazionale, uscita assai ridimensionata dalla Coppa del Mondo, in Sudafrica, con il peggior risultato di sempre. Non lo sono i calciatori italiani, né gli importati che giocano nella nostra Serie A. L’ultima vittoria internazionale è la Champions League del 2010 per opera dell’Inter di Mourinho, tecnico portoghese che schierava undici giocatori stranieri, più i rincalzi stranieri al pari degli altri. Due le eccezioni: il vecchio Materazzi, ormai a fine carriera, che ha giocato pochissimo, e il giovane Mario Balotelli, la cui carriera inizierà, forse, quando diventerà adulto. Cioè mai. Capita a molti atleti, specialmente del calcio e, per la verità, non solo agli italiani, di confermarsi come eterni adolescenti. Nel frattempo Balotelli ha esportato i suoi dannosi capricci in Inghilterra, al Manchester City, lasciando traccia solo per le espulsioni, i litigi con i compagni e nei locali pubblici, le multe stradali e tutta la gamma di intemperanze che fa di un ragazzo calcisticamente dotato un bullo da prima fila.
Su di lui e su Antonio Cassano, un altro irregolare, il commisssario tecnico che ha sostituito Lippi, cioè Cesare Prandelli, aveva fondato la sua nuova Nazionale. In meno di otto mesi, Prandelli ha dovuto cambiare idea e riparare verso scelte meno avventurose.
Tecnicamente e perfino agonisticamente siamo modesti, dal punto di vista organizzativo ci hanno superato anche paesi come l’Olanda. I nostri stadi sono vetusti e, in alcuni casi, fatiscenti. L’unico club di A o di B che ne abbia uno proprio è la Juventus (dalla stagione 2011-12), mentre in Inghilterra e Spagna sono quasi tutti patrimonio dei club. I quali li rendono vivi, abitabili, fruibili come fossero un luogo di aggregazione non solo per vedere una partita, ma per viverne l’attesa, esercitare la memoria attraverso il museo e i filmati d’epoca, offrire prodotti (dal gadget alla maglia originale) che aumentano il gettito alla voce merchandising, un’attività che in Italia, oltre a essere scippata da falsari e volgari imitatori, è tralasciata perché nessuno ha una specifica preparazione per svilupparla.
L’assenza di idee e l’allergia alla sperimentazione hanno accentuato la crisi economica che dalle attività produttive e dai mercati si è trasferita al calcio. L’incapacità di affrontarla ne ha comportato l’aggravamento. Se una volta la prima voce degli introiti economici derivava dall’incasso della vendita di biglietti e abbonamenti, ora in testa ci sono i diritti ceduti alle pay tv. Pochi, per non dire nessuno, si sono adoperati per conservare un sistema misto, incrementato dallo sportivo da poltrona senza perdere quello da stadio. Rinuncia incomprensibile perché non riconducibile agli stadi obsoleti, inospitali e, soprattutto, costosamente affittati dalle amministrazioni comunali o dal CONI. Più semplicemente si è evitato di preoccuparsi dello spettatore presente sugli spalti perché, in fondo, era più vantaggioso si sottoponesse ai costi della pay tv che di soldi ai club ne versa molti di più. L’esito è stato devastante: uccidendo la cultura della partecipazione allo stadio, la nostra Serie A è adesso forse l’unico campionato europeo che presenta stadi desolatamente vuoti, anche perché consente la trasmissione in diretta di tutte le partite della giornata. Un suicidio. Ha detto Michel Platini, presidente dell’UEFA: «Mi chiedo come un arabo o un russo, guardando la tv, possa essere invogliato a investire nel calcio italiano. Come minimo pensa che interessi a pochi».
Nel frattempo gli scontri, anche fisici (purtroppo è vero), tra presidenti per risolvere la spartizione dei proventi dei diritti televisivi si sono moltiplicati, rendendo irrespirabile il clima in Lega (l’associazione dei club) e provocando, nel 2010, la scissione da quelli della Serie B. I settori giovanili sono considerati un costo inutile, perciò evitabile. Il risultato è che nessuna nazionale giovanile produce giocatori interessanti e che l’Under 21 non vince un campionato d’Europa dal 2004. Eppure nei dodici anni precedenti l’Italia ne aveva conquistati altri quattro: 1992, 1994, 1996, 2000. Considerato che si gioca a ogni biennio, quasi un dominio che propiziò il trionfo di Berlino, la quarta Coppa del mondo della storia azzurra, una sola in meno del Brasile. Era il 2006. Sembra un secolo fa.
La tessera del tifoso: un esperimento controverso
La stagione calcistica 2010-11 è stata anche quella che ha visto l’introduzione della ‘tessera del tifoso’, la card fortemente voluta dal ministro dell’Interno Maroni, per contrastare l’annoso problema della violenza negli stadi, accolta con favore dai vertici del calcio (presidenti della FIGC, della Lega di Serie A e di Serie B), ma aspramente contestata dalle tifoserie organizzate, che l’hanno tendenzialmente boicottata, considerandola una forma di schedatura di massa.
La tessera (costo unitario di 10 euro), obbligatoria per l’acquisto dell’abbonamento, è stata sottoscritta (al 30 settembre del 2010, cioè all’inizio dei campionati) da circa 655.000 persone. I suoi detrattori hanno stabilito un nesso causale tra l’introduzione della card e la netta diminuzione di abbonamenti e spettatori paganti negli stadi. Il suo principale sostenitore, il ministro Maroni, oltre a imputare il calo delle presenze alla situazione degli stadi italiani (vecchi e inadatti al calcio), ha attribuito alla card il calo dei feriti registrato nel 2010-11 tra forze dell’ordine e civili. La polemica è destinata a proseguire, vista la conferma del programma anche per l’anno 2011-12, sia pure con alcune modifiche.
La speranza, per il semplice appassionato, è che l’acquisto del biglietto non sia più una via crucis come nella passata stagione, quando, tanto per fare un esempio, era pressoché impossibile regalare a un amico una giornata allo stadio per il suo compleanno senza sottrargli di nascosto un documento di identità.
Inizia l’era del ‘fair play’ finanziario
Non è solo l’Italia a scontare i perversi effetti del calcio-business. Michel Platini, uno che di calcio (giocato) se ne intende, ha da tempo lanciato un tentativo di controffensiva, che fa perno sull’idea del ‘fair play’ finanziario. Il tentativo è quello di porre un freno alla pericolosa tendenza all’indebitamento, che non riguarda solo le società italiane, ma anche i club calcistici di paesi, come l’Inghilterra e la Germania, in cui gli stadi sono pieni e gli introiti non vengono solo o prevalentemente dalle televisioni a pagamento.
Il piano predisposto dalla UEFA prevede una serie di tappe: dal 1º luglio del 2011 inizia il monitoraggio di tutte le operazioni finanziarie delle società calcistiche, che servirà da base per i controlli sui bilanci chiusi al 30 giugno del 2012. Nel periodo 2011-14 saranno quindi consentite ai club perdite in bilancio non superiori ai 45 milioni di euro, e le società che oltrepasseranno questa soglia dovranno subire le penalizzazioni decise dal gruppo di esperti della UEFA, rischiando così, nei casi più gravi, l’esclusione dalle competizioni internazionali (Champions ed Europa League). Nel triennio seguente, 2014-17, il tetto dell’indebitamento sarà ulteriormente abbassato a 30 milioni di euro, per arrivare quindi, nel 2017-18 a ristabilire il principio del pareggio di bilancio (con un margine di tolleranza di 5 milioni di euro). Si prefigura quindi un ‘percorso di guerra’ per i club più ‘spendaccioni’, che dovranno adeguarsi alle nuove regole, se non vorranno fare la fine della squadra spagnola del Maiorca, estromessa dalla Europa League edizione 2010-11 (a vantaggio del Villareal) perché sprovvista dei requisiti economici richiesti dalla Federazione internazionale.