Il degrado dei materiali archeologici
di Giorgio Torraca
Il termine degrado, riferito ad un oggetto, definisce un'evoluzione nel tempo delle sue caratteristiche (ottiche, meccaniche o altre), che ha connotati decisamente negativi; esso quindi implica un peggioramento della funzionalità e una diminuzione del valore. Nel caso di oggetti prodotti dalla tecnologia contemporanea, per i quali le caratteristiche iniziali sono quelle desiderate, qualsiasi mutamento comporta un deterioramento rispetto alla condizione ideale ("nuovo") e quindi un degrado. La definizione di degrado è più incerta però quando è riferita a oggetti d'interesse culturale, perché in questo caso i mutamenti delle loro caratteristiche che si verificano nel tempo (ad es., la "patina" e in generale i segni del tempo) invece di diminuire il valore possono addirittura aumentarlo e non si desidera affatto il ritorno allo stato di "nuovo". È possibile aggirare questa difficoltà definendo "fisiologica" una lenta evoluzione nel tempo che non compromette la funzionalità culturale dell'oggetto e "patologica" qualsiasi pericolosa accelerazione di questa evoluzione. Si può applicare allora il termine degrado soltanto ai processi "patologici", impiegando un altro termine con connotazioni non necessariamente negative, come ad esempio "invecchiamento", per l'insieme dei processi "fisiologici". È però difficile tracciare una precisa linea di demarcazione tra i due tipi di processo per la conoscenza ancora imprecisa delle lente trasformazioni chimiche e fisiche che i materiali subiscono in tempi molto lunghi. Le cause prime delle modificazioni patologiche che si verificano nel tempo sono definite fattori di degrado.Tali fattori agiscono dall'ambiente che circonda l'oggetto, ma i loro effetti sono anche condizionati dalle caratteristiche dei materiali che compongono l'oggetto stesso; è quindi possibile una gran varietà nei processi di degrado, determinata dalle combinazioni di fattori esterni e proprietà dei materiali. Un ulteriore motivo di complessità è il fatto che alcuni processi di degrado sono causati dall'azione simultanea di più fattori; si parla allora di una sinergia di fattori diversi che è capace di produrre danni più gravi che non la somma di quelli prodotti dai singoli processi. Nella trattazione che segue, i principali fattori di degrado fisici e chimici sono presentati separatamente, per una migliore comprensione, con solo alcuni accenni alle possibili sinergie; occorre tuttavia tenere presente che la realtà dei fenomeni di degrado è sempre più complessa dei modelli semplificati che noi usiamo e che quindi nella progettazione degli interventi conservativi non è possibile una loro applicazione automatica senza verifiche approfondite.
I principali fattori di degrado di origine naturale sono costituiti dall'acqua, dalle variazioni di temperatura, dalle radiazioni elettromagnetiche e dai gas atmosferici.
Acqua - L'acqua può contribuire a processi di degrado, sia allo stato di liquido che a quello di solido o di vapore. Le particolari caratteristiche dell'acqua sono determinate dalla "polarità" delle sue molecole (poli negativi sull'ossigeno e positivi sull'idrogeno), la quale fa sì che i materiali a struttura polare siano capaci di attirare l'acqua nel proprio interno (materiali idrofili). Ciò avviene ad esempio nei materiali da costruzione porosi (pietre, mattoni, malte), che attraggono l'acqua nei pori più fini (capillari) dando luogo a processi di degrado, sia a bassa temperatura, con la formazione di cristalli di ghiaccio, che a temperature medio-alte, se l'acqua evapora lasciando nei pori cristalli formati dai sali solubili che essa conteneva. Gli effetti distruttivi dei fenomeni di gelo e di cristallizzazione dei sali sono determinati dal tensionamento meccanico provocato dalla crescita di cristalli di ghiaccio o di sale all'interno di un sistema di pori. L'acqua contribuisce anche al degrado chimico dei materiali, dato che, a temperatura ambiente, la massima parte delle reazioni chimiche richiede la sua presenza. L'acqua allo stato liquido può entrare in contatto con le superfici dei materiali non solamente sotto forma di pioggia, ma anche come velo liquido formato da fenomeni di condensazione di umidità (rugiada), che trasportano sui materiali molte delle impurità solide (particelle) e gassose (gas inquinanti) presenti nell'atmosfera. Il risultato di questo processo è la formazione di croste di colore scuro. I fenomeni di condensazione rendono quindi possibile l'azione fisica e chimica dell'acqua liquida anche su superfici protette dalla pioggia. Nei metalli, la formazione di un velo di acqua liquida sulle superfici scatena i processi elettrochimici della corrosione umida, che hanno grande importanza nel degrado degli oggetti esposti all'atmosfera e di quelli sepolti nel terreno. Sfuggono a questo fenomeno i metalli più nobili (oro, platino, titanio), mentre esso è più violento per le leghe e per gli accoppiamenti di metalli diversi. L'acqua allo stato di vapore agisce sui materiali in tutte le condizioni di esposizione. Materiali idrofili (come legno e carta) sono infatti capaci di assorbire molecole d'acqua dall'aria quando essa è molto umida (alta umidità relativa) e di restituirla all'aria quando essa è molto secca (bassa umidità relativa). Dato che l'assorbimento di acqua provoca un aumento delle dimensioni del materiale e il fenomeno opposto (desorbimento) una diminuzione, le oscillazioni dell'umidità atmosferica provocano continui movimenti e tensionamenti meccanici se il materiale idrofilo è vincolato ad altri che o non lo sono o subiscono minori variazioni dimensionali. In genere la costanza dell'umidità dell'atmosfera che circonda un oggetto è un fattore favorevole per la sua conservazione, ma bisogna fare eccezione per l'effetto delle altissime umidità sui materiali organici (azione sinergica con l'attacco microbiologico) e sui metalli non nobili (corrosione elettrochimica). Oltre che per i processi chimici, la presenza dell'acqua è la condizione necessaria anche per il degrado microbiologico; l'alta umidità dell'aria e/o la periodica disponibilità di acqua liquida, entro un certo intervallo di temperatura, rendono infatti possibile lo sviluppo di colonie di microrganismi (alghe, funghi, licheni, batteri) capaci di produrre danni sia su materiali organici (carta, legno, tessuti) che inorganici (pietre, malte).
Oscillazioni termiche - L'aumento delle dimensioni che tutti i materiali subiscono quando sono riscaldati (dilatazione termica) dipende dalla variazione di temperatura, dalla lunghezza dell'oggetto e anche dalla natura del materiale. I materiali che si dilatano meno sono quelli che contengono i legami chimici più forti; si può quindi costruire una scala approssimata delle dilatazioni, da usare a scopo orientativo: pietre, ceramiche e vetri 〈 metalli 〈 polimeri organici. Le variazioni di temperatura giornaliere e stagionali provocano quindi continui cambiamenti di dimensioni, specialmente per gli oggetti esposti all'esterno e soprattutto per quelli direttamente raggiunti dalle radiazioni solari. Se questi movimenti sono impediti da vincoli, si origina un tensionamento sia all'interno dell'oggetto vincolato che dei materiali che lo contrastano. Tensionamenti su scala microscopica si verificano in materiali composti da aggregati disordinati di cristalli minerali abbastanza grandi (ad es., marmo e granito), che presentano una dilatazione termica variabile in funzione della direzione (anisotropia). A lungo andare, e in sinergia con la presenza di acqua e di acidi provenienti dall'aria, i contrasti tra i cristalli possono provocare una decoesione della struttura cristallina.
Radiazioni elettromagnetiche (IR, visibile, UV, X, γ) - Mentre sui materiali inorganici l'irraggiamento determina soltanto un riscaldamento della superficie, nel caso di materiali organici le radiazioni elettromagnetiche possono provocare trasformazioni chimiche importanti. Dato che l'energia trasportata aumenta con l'aumentare della frequenza, l'effetto dell'irraggiamento, scarso per la radiazione infrarossa (IR), diventa più importante passando dalla luce visibile alla radiazione ultravioletta (UV). In sinergia con l'ossigeno dell'aria, queste radiazioni causano processi di ossidazione e/o polimerizzazione, accompagnati da ingiallimento o imbrunimento delle sostanze incolori e dalla perdita di colore di molti coloranti organici. Si verificano anche variazioni delle proprietà meccaniche (irrigidimento, infragilimento) e fisiche (perdita della solubilità e dell'idrorepellenza). Gli effetti di queste radiazioni sono piuttosto superficiali. Le radiazioni di frequenza alta (raggi X) e altissima (raggi γ) provocano la frammentazione delle molecole organiche, con sviluppo di gas, ma anche la ricombinazione dei frammenti e l'irrigidimento della struttura molecolare. Queste trasformazioni avvengono anche in profondità.
Gas atmosferici - L'ossigeno, in presenza di adatte sinergie (radiazioni visibili e ultraviolette, acqua, catalizzatori, come ad es. ossidi metallici), causa fenomeni di ossidazione dei materiali organici del tipo descritto nel paragrafo precedente. La lenta ossidazione dei materiali organici di un oggetto antico può in realtà essere considerata un invecchiamento fisiologico, ma quando si tratta dei materiali usati nel restauro (protettivi, adesivi) il decadimento delle caratteristiche funzionali che essa provoca deve essere considerato un degrado. Su molti metalli l'ossigeno determina la formazione di uno strato sottile di ossido quando la superficie resta per lo più asciutta. Il cambiamento di aspetto che ne risulta talvolta viene considerato accettabile, anche perché questo strato sembra avere un certo valore protettivo (ad es., ossido di ferro, ossido di alluminio). In altri casi l'ossido ha scarso valore protettivo (ossido di ferro rosso) o aspetto poco attraente (ossidi misti su ottone) e allora l'ossidazione provoca ripetuti interventi di pulitura ed è in definitiva una causa di degrado. Nel caso di corrosione umida dei metalli, l'ossigeno è solo uno dei fattori (e non uno dei più importanti) di un complesso processo elettrochimico. Per il metabolismo di insetti e di animali roditori, causa frequente di danni a materiali organici, l'ossigeno è un fattore essenziale, tanto che la sua eliminazione costituisce spesso il più efficace mezzo di difesa. Diversi gas prodotti da processi di combustione (inquinanti atmosferici) contribuiscono in modo significativo a processi di degrado, perché possono formare acidi o catalizzare la loro formazione. L'anidride carbonica quando è sciolta in acqua forma acido carbonico, che permette la dissoluzione dei carbonati di calcio e magnesio (che in acqua pura sarebbero insolubili) grazie alla formazione dei relativi bicarbonati. Ne conseguono processi di erosione di pietre e malte, mentre la successiva riprecipitazione dei carbonati, che avviene quando l'acqua evapora, provoca la formazione di incrostazioni, esse stesse dannose in quanto spesso ricoprono superfici antiche rendendo invisibili (e difficilmente recuperabili) dipinti o altre decorazioni. L'anidride solforosa viene ossidata ad acido solforico in presenza di catalizzatori ed è responsabile della solfatazione (trasformazione del carbonato di calcio in gesso) delle superfici di pietre e malte esposte all'esterno: ad essa è stata anche attribuita un'accelerazione del degrado del cuoio. Questi acidi, in sinergia con i meccanismi di trasporto dell'acqua (pioggia, condensazione) e con le oscillazioni termiche dell'ambiente, contribuiscono a vari tipi di degrado delle pietre (erosione, croste nere, "cottura del marmo"). Gli ossidi di azoto possono produrre acido nitrico per ossidazione, ma sembra che nell'atmosfera essi agiscano piuttosto come catalizzatori dell'ossidazione dell'anidride solforosa ad acido solforico. Ad essi è stata comunque attribuita un'azione sinergica con l'ossigeno nel degrado di alcuni coloranti organici, funzione che è stata attribuita all'ozono, un gas che non forma direttamente acidi, ma partecipa attivamente a molti processi di ossidazione delle sostanze organiche. L'acido solfidrico prodotto da fonti naturali (fenomeni vulcanici, processi di putrefazione in acque salmastre) provoca la formazione di patine scure di solfuri su diversi metalli nobili (particolarmente sull'argento).
L'attività dell'uomo determina spesso condizioni adatte per lo sviluppo dei processi di degrado, anzi ne è uno dei fattori più importanti. In alcuni casi è la stessa lavorazione dei materiali per la creazione dell'oggetto che lo predispone ai processi di deterioramento: si possono citare ad esempio l'estrazione delle pietre e la lavorazione delle loro superfici (che determinano una più o meno estesa microfratturazione), la doratura dei metalli (che predispone al processo elettrochimico di corrosione), l'appretto della carta a base di allume e colofonia (che causa la formazione di acido solforico all'interno dei fogli), l'inserzione di perni di ferro in sculture e rilievi in pietra (con conseguente corrosione e rigonfiamento del ferro seguiti da frattura della pietra). Anche il restauro è frequentemente una causa di degrado, sia per l'uso di tecniche non appropriate sia perché è quasi impossibile intervenire su strutture complesse e deteriorate senza causare qualche danno o preparare le condizioni per qualche futuro processo di deterioramento. Scegliendo fra i moltissimi esempi possibili, si possono citare: la pulitura con abrasivi di materiali rigidi e fragili (che produce microfratture), la pulitura con acidi o basi (che corrode le superfici e forma sali solubili), l'uso di materiali biodeteriorabili come adesivi o protettivi (che causa lo sviluppo di colonie di muffe), l'uso del cemento nel rinforzo delle strutture antiche (che produce sali solubili e può causare contrasti meccanici), il collegamento rigido di materiali a dilatazione diversa (come nel caso di pietra e acciaio inossidabile). Talvolta il degrado è dovuto anche a danni intenzionalmente apportati al bene culturale, cioè a vandalismo. La sua forma più diffusa è il graffito, eseguito con i più vari mezzi di scrittura, dall'utensile per graffiare fino alla bomboletta di pittura a spruzzo; il danno maggiore è sopportato dai materiali porosi o microfessurati, nei quali il graffio produce più danni e i colori penetrano più profondamente. Più rare sono le aggressioni di tipo meccanico, che vanno dall'uso di strumenti vari fino a quello di esplosivi.
Questi eventi non dovrebbero essere inclusi in una discussione sul degrado, perché il termine include la nozione di danno che si determina progressivamente e non la rapidissima distruzione dell'oggetto. In realtà però le catastrofi sono anche dei fattori di degrado di moltissimi oggetti che non vengono distrutti, ma sono solo danneggiati o perdono i loro sistemi protettivi (materiali surriscaldati, metalli distorti, edifici senza tetto, legno e carta impregnati d'acqua, materiali organici parzialmente decomposti) e si trovano successivamente esposti ad un'importante accelerazione dei processi di degrado.
I fattori naturali e antropici di degrado sono sempre in azione ed è perciò vano sperare che oggetti e strutture di interesse culturale possano sopravvivere per tempi molto lunghi se lasciati a se stessi, anche se nel caso di materiali intrinsecamente resistenti, o collocati in condizioni ambientali favorevoli, si può sperare che la velocità di degrado sia lenta. Gli stessi materiali che si usano per consolidare o proteggere gli oggetti antichi sono affetti da processi di degrado e perciò la loro "vita utile" è limitata ad un certo numero di anni. Un sistema che miri alla conservazione su tempi lunghi di oggetti e strutture di grande valore deve perciò essere basato su un frequente controllo diagnostico che permetta l'applicazione, non appena ciò sia necessario, di misure correttive che possono riguardare sia i materiali dell'opera da preservare, sia l'ambiente che la circonda.
G. Urbani (ed.), Problemi di conservazione, Bologna 1973; G. Torraca, Porous Building Materials: Materials Science for Architectural Conservation, Rome 1988³; J.S. Mills - R. White, The Organic Chemistry of Museum Objects, London 1994²; G. Thomson, The Museum Environment, London 1994².
di Massimo Leoni
In metallurgia il termine degrado può assumere differenti significati; si può parlare di: degrado estetico per variazione della lucentezza o del colore di una superficie metallica, senza che il manufatto subisca un decadimento delle sue caratteristiche meccaniche; degrado per la presenza di fenomeni corrosivi, sia pregressi che in atto, con conseguente riduzione delle sue caratteristiche meccaniche; degrado per variazioni microstrutturali del metallo o della lega per il raggiungimento di uno stato di equilibrio termodinamico (fenomeni di invecchiamento), qualora tali trasformazioni comportino un decadimento delle caratteristiche del manufatto. Esempio del primo caso può essere l'annerimento di un oggetto d'argento, anche se conservato in bacheca, in cui però non siano presenti appropriati inibitori. Per quanto riguarda il secondo caso, è noto che i manufatti metallici, ad eccezione di quelli in oro, subiscono un degrado, ovvero fenomeni corrosivi, in funzione delle condizioni di esposizione (esposizione atmosferica, interramento, immersione, ecc.) e della durata dell'esposizione. Le alterazioni che il manufatto subisce sono in stretta relazione e potremmo dire in equilibrio con l'ambiente in cui il manufatto stesso si trova o si è trovato. Variando le condizioni di esposizione, il manufatto dovrà trovare nuove condizioni di equilibrio e pertanto subirà ulteriori trasformazioni che possono portare a un ulteriore degrado e anche alla sua distruzione, se non si interviene opportunamente. In alcuni musei si possono vedere nelle vetrine scatole contenenti frammenti di materiale nero frammisti a polvere giallo-ocra. Si tratta di oggetti di ferro trasformatisi totalmente, durante l'interramento, in ossidi tipo goethite, pur conservando la forma originaria, ma che durante l'esposizione museale hanno reagito con l'umidità ambientale trasformandosi parzialmente in ossidi idrati tipo limonite, gialli, pulverulenti, e provocando lo sgretolamento del pezzo. Il degrado degli oggetti metallici dopo lo scavo è un fenomeno al quale gli archeologi devono prestare particolare attenzione. Così pure è da prestare attenzione allo spostamento di oggetti da un museo ad una mostra, ecc. Degrado ovvero alterazioni possono subire nel tempo anche oggetti conservati con apparente diligenza in luoghi confinati, vetrine e bacheche, in quanto possono essere sufficienti per la loro aggressione anche tracce minime di inquinanti presenti nell'atmosfera. Sono noti gli irreparabili danni provocati a sigilli e a prove di medaglie in piombo da parte dei vapori sprigionati dai legni costituenti le cassette in cui tali oggetti erano conservati. Per quanto riguarda il terzo caso ricorderemo il raro, ma noto, evento denominato "peste dello stagno". Il fenomeno fu osservato e descritto per la prima volta nel 1800 in Russia e quindi nel 1850 in Germania e consisteva nello sgretolamento spontaneo delle canne in stagno di organi con formazione di polvere grigia. Le cause di tale fenomeno erano dovute al fatto che lo stagno presenta, a temperature ordinarie e fino alla temperatura di fusione, una struttura cristallina ortorombica, ma a bassa temperatura (‒ 48 °C) assume una struttura cubica con aumento di volume dei cristalli, provocando lo sgretolamento del pezzo.
C. Panseri - C. Garino - M. Leoni, Ricerche metallografiche sopra alcune lame etrusche di acciaio, Milano 1957; R.J. Gettens, The Corrosion Product of Metal Antiquities, Washington 1964, pp. 547-68; M. Leoni - G. Fortina, Studio metallografico di manufatti bronzei provenienti da stazioni palafitticole del Garda, in MemMusNaturVerona, 18 (1970), pp. 423- 47; I Cavalli di San Marco, Venezia 1977; M. Leoni, Elementi di metallurgia applicata al restauro dei monumenti metallici, Firenze 1984.
di Costantino Meucci
Nella fase di giacitura il legno archeologico subisce l'azione spesso combinata di più fattori di alterazione, sia biologici che chimico-fisici. Sulla velocità del degrado, generalmente differente per le diverse specie legnose, soprattutto per il loro variabile contenuto di sostanze resinose, influiscono molti parametri, tutti legati all'ambiente circostante, le sollecitazioni dei quali sono sempre strettamente correlate tra loro. Elemento comune al complesso dei processi di degrado è l'acqua, in quanto essa è il mezzo nel quale hanno luogo le reazioni chimiche di alterazione; negli ambienti secchi, così, la velocità del degrado chimico-fisico si annulla, come pure rallentati risultano i processi di demolizione biochimica dei componenti strutturali del legno. Questi processi, infatti, realizzandosi attraverso reazioni enzimatiche, necessitano comunque di una concentrazione minima di acqua per avere inizio e consentire lo svolgersi dell'attività metabolica degli agenti biologici patogeni. Si giustifica, così, il buono stato di conservazione di numerosi manufatti lignei rinvenuti in siti estremamente asciutti, come bene dimostrano le suppellettili della tomba di Tutankhamon o anche le numerose pitture funebri su tavola del Fayyum. Nelle più frequenti e comuni condizioni di giacitura, invece, l'acqua è sempre presente e consente l'attuarsi dei meccanismi di decadimento del materiale. La velocità del degrado, inoltre, è tanto maggiore quanto più frequente e continuo è il ricambio di acqua all'intorno, ovvero quanto più esposto alle variazioni ambientali è il manufatto. In tal senso, quindi, tutti i siti subacquei comportano un rischio elevato di alterazione dei materiali legnosi. La velocità dell'alterazione, però, decresce all'aumentare dello spessore degli strati di sedimento che ricoprono il manufatto: avviene così, paradossalmente, che un sito subacqueo pelagico (cioè localizzato a batimetrie superiori ai 50 m e caratterizzato da una sostanziale assenza di sollecitazioni ambientali), un sito subacqueo costiero con fondali limoso-sabbiosi (nel quale ci sia una elevata velocità di deposizione dei sedimenti) ed un sito terrestre, soggetto ad un'abbondante percolazione delle acque meteoriche, possano presentare le stesse condizioni di alterazione dei materiali organici, in ragione del fatto che, indipendentemente dalle caratteristiche morfologiche, tutti e tre gli ambienti ripropongono le medesime stabili condizioni di degradazione anaerobica. In generale i meccanismi di degrado del legno possono essere fatti rientrare in due grandi categorie: i processi di demolizione riconducibili a cause biologiche e quelli più spiccatamente chimico-fisici. Il degrado biologico si manifesta ad opera di microrganismi, batteri e funghi, che espletano le loro funzioni vitali metabolizzando le componenti fondamentali del legno, cioè la lignina e, prevalentemente, la cellulosa e la emicellulosa. Le colonie biologiche trovano la loro preferenziale collocazione all'interno dei lumi cellulari e svolgono la loro azione di demolizione a spese delle pareti della cellula, oltre che delle punteggiature areolate di connessione tra cellule contigue. Particolarmente attivi in tal senso sono gli organismi cellulosolitici, la cui attività di demolizione si concentra sulla vera e propria struttura portante del tessuto legnoso. Il risultato di questa attività si manifesta in due modi: dal punto di vista meccanico si osservano la scomparsa o la modificazione di elementi strutturali delle cellule; dal punto di vista chimico, invece, si generano le condizioni di acidità e di concentrazione salina favorevoli alla dissociazione chimica delle olocellulose e, in alcuni casi, della lignina. L'attacco chimico alle componenti del legno si manifesta in differenti stadi e con meccanismi diversi. La prima azione è quella solvente dell'acqua. Infatti, nel momento in cui le strutture cellulari vengono a contatto con questa per un tempo sufficiente, si verificano la solubilizzazione e l'estrazione dei composti a più basso peso molecolare. Gli zuccheri elementari (glucosio e saccarosio) prodotti dalla demolizione enzimatica della frazione olocellulosica, le componenti resinose volatili, alcune componenti tanniche passano in soluzione e vengono eliminati dalla struttura con una velocità direttamente dipendente dal grado di saturazione del legno, dal tempo di contatto tra il manufatto e l'acqua, nonché dalla frequenza del suo ricambio nell'ambiente di giacitura. Gli effetti dell'alterazione si manifestano con un aumento della porosità del legno, con l'incremento della sua fragilità, nonché con la diminuzione del valore del modulo elastico; si assiste in generale ad una diminuzione della resistenza del materiale connessa alla perdita di coesione tra gli elementi strutturali del tessuto legnoso. Le pareti cellulari si assottigliano e, nei casi di degrado molto avanzato, esse si distaccano dalla lamella mediana, contribuendo sensibilmente al decremento dei valori di resistenza meccanica del materiale. Il degrado del legno può essere quantizzato in modo semplice mediante la determinazione dell'acqua di saturazione contenuta all'interno del tessuto (MWC%, Maximum Water Content) rispetto al suo peso secco a 105 °C, ovvero, in modo più complesso, mediante la determinazione della perdita di sostanza della parete cellulare (LWS%, Loss of Wood Substance). Dal punto di vista estetico il legno archeologico degradato ha un aspetto spugnoso, compatto e scuro, fino a che permane lo stato di saturazione di acqua. Quando passa allo stato secco, invece, esso si deforma e si scaglia in superficie in modo tanto più accentuato quanto maggiore è il suo degrado. Dopo una lunga permanenza in ambiente aereo e in condizioni non idonee alla conservazione, infine, le estremità libere di un manufatto ligneo possono sfibrarsi e assottigliarsi notevolmente, in conseguenza della degradazione biologica della lignina, iniziata, dopo l'estrazione del manufatto dal suo ambiente di giacitura, ad opera di funghi microscopici spiccatamente ligninolitici.
G. Giordano, Tecnologia del legno, I, Torino 1971; D. Fengel - G. Wegener (edd.), Wood, Berlin 1984; R.M. Rowell (ed.), The Chemistry of Solid Wood, Washington 1984; T. Higuchi (ed.), Biosynthesis and Biodegradation of Wood Components, London 1985; C. Meucci et al., Thermogravimetric Analysis of Fresh and Archaeological Waterlogged Woods, in Thermochimica Acta, 117 (1987), pp. 297-315; S. D'Urbano et al., Valutazione del degrado biologico e chimico di legni archeologici in ambiente marino, in G. Tampone (ed.), Il restauro del legno, I, Firenze 1989, pp. 79- 84; C. Meucci et al., Una procedura analitica semplificata per la caratterizzazione dei legni archeologici e del loro degrado, ibid., pp. 71-78.
di Costantino Meucci
L'alterazione dei tessuti dipende direttamente dalla loro composizione chimica, oltre che dai procedimenti di lavorazione ai quali sono stati sottoposti. I tessuti ottenuti da semi fioccosi (cotone, kapok), vista la loro maggioritaria componente cellulosica, subiscono gli stessi processi di degrado del legno, sia ad opera dei microrganismi, sia per attacco chimico; sono, cioè, prevalenti nel processo di alterazione le demolizioni idrolitiche delle catene cellulosiche, soprattutto se esse sono iniziate dall'azione di enzimi specifici, ad esempio quelli prodotti dai batteri cellulosolitici. In ogni caso la velocità del degrado è superiore quando le fibre hanno subito danni precedentemente alla fase di interramento. Tutti i meccanismi di alterazione che si possono verificare in condizioni di saturazione di acqua avvengono più rapidamente e interessano l'intero spessore della fibra. Nel caso di fibre ottenute per battitura di vegetali (lino, canapa, juta, ecc.), la composizione mista del tessuto (cellulosa, olocellulosa, lignina, pectina) rende il loro comportamento del tutto analogo a quello del legno, sia dal punto di vista biologico che chimico: l'acqua ha funzione di veicolo delle reazioni di decadimento, mentre la preparazione stessa delle fibre (battitura, torsione, sbianca, ecc.) accelera la velocità della degradazione, in quanto causa danni meccanici alle cellule delle piante di origine. In modo differente si comportano invece le fibre di origine animale (lana, seta, ecc.), la cui composizione chimica è generalmente sfavorevole alla penetrazione dell'acqua. Nel caso della lana, in particolare, si osserva che, fino a quando la cuticola esterna è sana, non si verificano le demolizioni enzimatiche delle fibrille di cheratina all'interno del pelo. Quando invece le placche di protezione esterna si rompono, sia pure per danno meccanico, la velocità delle reazioni di idrolisi, di ossidoriduzione, di esterificazione e di tutte le altre reazioni chimiche proprie degli aminoacidi aumenta notevolmente, così che in poco tempo si può verificare la distruzione del manufatto. In acqua di mare, per contro, la conservazione è favorita, visto che soluzioni al 2% di cloruro di sodio inibiscono la solubilizzazione dei componenti in ambiente alcalino. La seta, pur presentando una elevata resistenza all'assorbimento di acqua grazie alla stretta associazione tra le due proteine costituenti (fibroina e sericina), perlomeno fino a che non si siano verificati danni meccanici nella struttura delle fibre, è sensibile all'azione di degrado per ossidazione fotochimica. In presenza di ossigeno e di radiazione luminosa ha luogo l'ossidazione degli aminoacidi della molecola della fibroina e la rottura dei legami idrogeno intermolecolari: decadono, così, le caratteristiche meccaniche della fibra e aumenta la sua degradabilità anche per meccanismi chimici in soluzione acquosa.
J.W.S. Hearle - P. Grosberg - S. Backer, Structural Mechanics of Fibers, Yarns and Fabrics, I, New York 1969; E.R. Kaswell - G.A.M. Butterworth - N.J. Abbott, Textile Testing, in Encyclopedia of Chemical Technology, XX, New York 1969, pp. 33-62; Z. Goffer, Archaeological Chemistry, New York 1980; R.M. Rowell (ed.), The Chemistry of Solid Wood, Washington 1984; T. Higuchi (ed.), Biosynthesis and Biodegradation of Wood Components, London 1985; M.L.E. Florian, Deterioration of Organic Materials other then Wood, in C. Pearson (ed.), Conservation of Marine Archaeological Objects, London 1987, pp. 21-54.
di Costantino Meucci
Le alterazioni che subiscono le ceramiche sono strettamente legate alle condizioni dell'ambiente di giacitura, oltre che alla particolare tecnologia di produzione. In siti asciutti e con basse concentrazioni saline del suolo il degrado è minimo, tanto che possono essere ben conservate anche le ceramiche caratterizzate da decorazioni sovradipinte con tecnica a tempera. La presenza di acqua, invece, innesca meccanismi di degrado decisamente più gravi. All'effetto di lisciviazione diretta, infatti, si aggiungono i fenomeni di solubilizzazione chimica di componenti strutturali deboli, nonché tutti quei processi di degrado chimico-strutturale della massa di fondo che portano alla riargillificazione del corpo ceramico, con formazione di frazioni argillose smectitiche. I processi di alterazione, inoltre, sono decisamente più veloci in regime di saturazione di acqua, e ancora di più se questa è ad elevato contenuto salino, come si verifica, ad esempio, in una giacitura subacquea marina. In tali condizioni giocano un ruolo determinante due parametri: la temperatura di cottura del manufatto e la salinità del sito di giacitura. Quanto maggiore è il grado di depurazione dell'impasto e quanto più elevata è la temperatura di cottura tanto migliore sarà lo stato di conservazione del manufatto; infatti, come è logico pensare, le fasi di neoformazione prodotte nel processo di cottura tenderanno a fare ridurre la porosità totale aperta, cioè a compattare la massa di fondo, così che l'azione di degrado dell'acqua o delle soluzioni saline sarà necessariamente meno importante e relegata ai soli strati esterni del manufatto. Al contrario, per ceramiche poco o, peggio ancora, non uniformemente cotte, se non anche mal depurate ed estremamente porose, il degrado può manifestarsi sia con la già citata riargillificazione dell'impasto, che, più frequentemente, nel rigonfiamento della frazione argillosa primaria, con la conseguente implosione dell'impasto. Se, poi, le condizioni di acidità dell'ambiente di giacitura e delle acque circolanti sono favorevoli, si può verificare la solubilizzazione chimica delle componenti più spiccatamente alcaline (ad es., la calcite), ovvero di quelle con maggiore affinità chimica verso le stesse soluzioni acide aggressive. Va sottolineato, a questo proposito, che al sempre più elevato contenuto di inquinanti chimici industriali dei terreni e delle acque (fosfati e nitrati dei concimi chimici, metalli pesanti e sali di cromo dei reflui industrali, ecc.), naturali componenti di tutti gli ambienti di giacitura archeologica, può essere imputato un certo numero di reazioni causa di gravi forme di alterazione, quali la decoesione della massa di fondo dell'impasto ceramico. In tutti i casi, comunque, la salinità elevata di un sito, sia esso terrestre che subacqueo, è causa di alterazioni accentuate allorquando il manufatto recuperato si essicca: le componenti saline, infatti, cristallizzando all'interno della porosità dell'impasto, generano tensioni interne che possono determinare fratture dell'intero spessore, nonché distacco di scaglie o esfoliazione delle superfici. Questi particolari tipi di alterazioni, comunque, sono sempre da mettere in relazione anche con la tecnologia di produzione del manufatto ceramico. Nel caso di ceramiche con superfici esterne lisciate, lucidate, invetriate o smaltate, la presenza di una componente salina nella rete porosa del materiale è la causa, durante la fase di perdita dell'acqua di saturazione, della formazione di criptoefflorescenze sotto lo strato di finitura esterno, con conseguente scagliatura e distacco dello strato superficiale, ovvero con innesco di una corrosione crateriforme nello spessore più esterno del manufatto. Questa particolare forma di alterazione, così come la più frequente cavillatura delle vetrine, può favorire essa stessa l'insorgere o l'aggravarsi dei processi di degrado, qualora le condizioni ambientali non siano favorevoli ad una buona conservazione. Le alterazioni biologiche, infine, non sono mai di tipo strutturale, ma coinvolgono sempre la sfera estetica: nelle giaciture in terreni umidi sono frequenti le deposizioni dendritiche bruno scuro di ossido di manganese, mentre in ambiente marino prevale la formazione di concrezioni calcaree (gusci di organismi animali, conchiglie, ecc.), alle quali sono spesso associate patine anche violentemente colorate di spugne e alghe.
Z. Goffer, Archaeological Chemistry, New York 1980; A.E. Charola - R.J. Koestler, The Action of Salt-Water Solutions in the Deterioration of the Silico-Aluminate Matrix of Bricks, in Il mattone di Venezia. Concorso di idee su patologia, diagnosi e terapia del mattone di Venezia, Venezia 1982, pp. 67-76; C. Pearson, Deterioration of Ceramics, Glass and Stone, in C. Pearson (ed.), Conservation of Marine Archaeological Objects, London 1987, pp. 99- 104; B. Fabbri - C. Ravanelli Guidotti, Il restauro della ceramica, Firenze 1993; F. Burragato - O. Grubessi - L. Lazzarini, Proceedings of the First European Workshop on Archaeological Ceramics, Roma 1994.
di Mariagrazia Plossi Zappalà
L'invecchiamento dei materiali scrittori è un processo evolutivo naturale, spontaneo, irreversibile. Esso sarebbe abbastanza lento se determinati fattori, spesso con effetto sinergico gli uni verso gli altri, non intervenissero ad aumentarne la velocità.
I fattori chimico-fisici ambientali (esterni ai materiali) sono di seguito elencati.
1) Temperatura elevata: il calore accelera tutte le reazioni di degradazione, compresa l'ossidazione da parte dell'ossigeno atmosferico, provocando ingiallimenti e fragilità della carta, indurimento delle pelli e perdita delle proprietà meccaniche degli adesivi; l'aumento di temperatura inoltre favorisce l'azione negativa degli altri fattori.
2) Umidità relativa: un'umidità eccessiva provoca rigonfiamenti e deformazioni, idrolisi della cellulosa, del collagene di pelli e pergamene; un'umidità troppo bassa indurisce pelli e pergamene e dissecca alcuni adesivi; variazioni di temperatura e umidità provocano deformazioni e curvature dei supporti, con il possibile conseguente distacco di pigmenti e inchiostri.
3) Luce e radiazioni in genere, il cui effetto degradante dipende: a) dalla lunghezza d'onda della radiazione (in ordine decrescente sono più degradanti i raggi γ, i raggi X, gli ultravioletti, il visibile, le radiazioni infrarosse, le radio-onde); b) dall'intensità della radiazione (massimo 50 lux nelle mostre); c) dal tempo di esposizione; d) dalla sensibilità del materiale.
4) Alcuni componenti in relazione a particolari ambienti naturali: cloruri (dal mare), H₂S (fenomeni vulcanici), ecc.
5) Inquinamento: in genere provoca un aumento dell'acidità dei materiali; particolarmente dannosi sono: anidridi solforosa e solforica, ossidi di azoto, ozono, idrocarburi.
6) Uso: cattivo immagazzinamento, grasso e sudore delle mani, macchie, strappi, vandalismi.
7) Catastrofi naturali o provocate.
8) Restauro sbagliato o non necessario.
I fattori chimico-fisici interni ai materiali possono essere sintetizzati come segue.
1) Instabilità intrinseca dei materiali, peggiorata dall'evoluzione delle tecniche di fabbricazione (ad es., per la carta si è passati dalla pasta di straccio alla pasta meccanica di legno e alle cellulose chimiche, dalla collatura con amidi o con gelatina a quella acida con colofonia e allume, ecc.).
2) Inchiostri e altre sostanze acide: provocano imbrunimenti e perforazioni del supporto cartaceo o membranaceo.
3) Metalli catalizzanti le reazioni di ossidazione e depolimerizzazione: ferro, rame, ecc. contenuti nella carta come impurezze o in alcuni pigmenti in quantità maggiori.
I principali fattori biologici sono riferibili ai seguenti gruppi di organismi.
1) Microrganismi: causano danni con i loro enzimi (cellulasi, proteasi, lipasi, tannasi), pigmenti e prodotti acidi del metabolismo (acido fumarico, citrico, lattico).
2) Insetti: blatte (scarafaggi: erosioni irregolari, escrementi), lepismatidi (pesciolini d'argento: erosioni superficiali), liposcelidi (pidocchi dei libri: si nutrono di muffe), termiti (difficilmente evidenziabili salvo che alla sciamatura, creano cavità all'interno dei libri e dei legni), coleotteri (tarli: scavano gallerie tortuose).
3) Mammiferi: roditori (topi: erosioni e macchie da urina), uomo (uso incauto, ecc.).
Tutti i materiali scrittori possono essere danneggiati dai biodeteriogeni se conservati in condizioni ambientali non idonee (polvere, aerazione insufficiente, scarsa illuminazione, temperatura maggiore di 20 °C e umidità relativa maggiore del 65%). Per una buona conservazione si consigliano una temperatura di 16÷20 °C e una umidità relativa dal 40% al 65%.
H.W.Winger - R.D. Smith (edd.), Deterioration and Preservation of Library Materials, Chicago - London 1970; F. Flieder - M. Duchein, Livres et documents d'archives: sauvegarde et conservation, Paris 1986; F. Gallo, Il biodeterioramento di libri e documenti, Roma 1992.
di Marisa Laurenzi Tabasso
La composizione chimico-mineralogica dei materiali lapidei (naturali e artificiali) ne determina la diversa reattività rispetto all'acqua e alle sostanze chimiche con le quali essi possono venire in contatto. Le caratteristiche strutturali, in particolare la struttura porosa, ne determinano la possibilità di interazione con l'acqua e la resistenza agli sforzi di tipo meccanico, sia a quelli applicati dall'esterno sulla superficie del materiale, sia a quelli che si sviluppano all'interno della struttura stessa. Tutti i materiali lapidei sono caratterizzati dalla presenza di spazi vuoti all'interno della massa solida; tali spazi possono essere "aperti", cioè comunicanti con l'esterno, oppure "chiusi", cioè non accessibili attraverso la superficie del materiale; complessivamente essi costituiscono la "porosità totale". La porosità è strettamente correlata al processo petrogenetico e giuoca un ruolo fondamentale nel determinare la durabilità, la resistenza meccanica e alcune caratteristiche tecnologiche dei materiali lapidei, come ad esempio la lucidabilità. Gli spazi vuoti (pori, microfratture, ecc.) sono di forma e dimensioni molto variabili, ma i più importanti ai fini del deterioramento sono quelli di raggio inferiore al μm; essi sono variamente intercomunicanti e costituiscono una vera e propria rete capillare. Per comprendere l'importanza della porosità nei processi di deterioramento bisogna ricordare che le pareti dei capillari, che sono costituite dalle superfici dei singoli individui cristallini e/o degli aggregati dei componenti del materiale, sono di natura polare e come conseguenza esse esercitano una forte attrazione nei riguardi di sostanze polari, in particolare dell'acqua. L'acqua dunque penetra molto facilmente entro gli spazi porosi e si muove all'interno della rete capillare, sia in fase liquida che gassosa. La pressione capillare, responsabile dell'attrazione dell'acqua all'interno degli spazi porosi, è inversamente proporzionale al raggio dei pori (equazione di Laplace); quando il raggio è inferiore a 0,1 μm si può avere condensazione del vapore anche a valori di umidità relativa inferiori alla saturazione (equazione di Kelvin). D'altra parte, il flusso del liquido nei capillari è direttamente proporzionale alla quarta potenza del raggio (legge di Poiseuille). Sono i pori più piccoli, dunque, che governano l'assorbimento capillare, mentre da quelli più larghi dipende essenzialmente il flusso liquido che si muove all'interno della rete capillare. Una volta penetrata, l'acqua si muove con facilità all'interno della rete capillare, spostandosi dalle zone più umide a quelle più asciutte, da quelle più calde a quelle più fredde; essa può inoltre subire cambiamenti di stato, passando da liquido a vapore o a solido (e viceversa) in funzione delle condizioni esterne. Il passaggio da acqua liquida a solida può avere effetti distruttivi per il materiale poroso, legati alla formazione dei cristalli di ghiaccio all'interno dei pori: quando le condizioni di temperatura sono favorevoli alla formazione del solido, ma i cristalli che si cominciano a formare all'interno degli spazi vuoti non possono accrescersi per l'insufficienza di tali spazi, si sviluppa una pressione detta "pressione di cristallizzazione". Il fenomeno è tanto più accentuato quanto più alta è la percentuale di pori molto fini. La pressione di cristallizzazione può raggiungere valori così elevati da produrre la rottura delle pareti dei capillari e, a livello macroscopico, la comparsa di fratture e il distacco di porzioni di materiale. Un fenomeno simile si verifica quando l'acqua contiene specie saline idrosolubili. Quando si raggiunge il prodotto di solubilità di una o più specie disciolte (punto di saturazione), si cominciano a formare cristalli di tale specie all'interno degli spazi porosi. Se la concentrazione del sale raggiunge o supera il valore di super-saturazione (o saturazione critica), la cristallizzazione procede con velocità crescente. La pressione di cristallizzazione è tanto più elevata quanto più alto è il valore del rapporto tra concentrazione attuale del sale e concentrazione di saturazione. Anche in questo caso, un'elevata percentuale di pori molto fini rende il materiale meno resistente agli effetti della cristallizzazione dei sali. Il ripetersi dei cicli di gelo-disgelo e cristallizzazione-dissoluzione dei sali può portare alla rapida distruzione della struttura porosa originale, con l'apertura di micro- e macrofratture, al conseguente aumento della porosità e alla crescente deperibilità del materiale. L'acqua è anche il veicolo per mezzo del quale gli inquinanti atmosferici possono interagire facilmente con molti materiali lapidei, provocando il manifestarsi di forme di deterioramento molto specifiche. Gli inquinanti atmosferici che in questo caso svolgono un ruolo importante sono soprattutto gli ossidi di zolfo, gli ossidi d'azoto e il biossido di carbonio (composti che reagendo con acqua formano prodotti a carattere acido), il particellato sedimentabile e, in misura molto maggiore, quello sospeso. Per altri prodotti, quali acidi organici, aldeidi e ozono, è ipotizzabile un'azione indiretta, in quanto componenti dello smog fotochimico che entrano nella complessa catena di reazioni degli ossidi d'azoto; l'ozono inoltre può esercitare un'azione ossidante a carico dei prodotti organici spesso impiegati come protettivi idrorepellenti. I materiali lapidei che risentono maggiormente dell'azione degli inquinamenti atmosferici sono quelli carbonatici, in quanto più facilmente attaccabili dalle sostanze acide: marmi, calcari, calcareniti e arenarie a cemento calcareo, malte a base di calce, ecc.; nel caso di pietre silicatiche, le reazioni chimiche possibili sono meno probabili e avvengono con velocità molto più ridotta. Nelle zone con clima caratterizzato da inverni freddi e piovosi e con tassi di inquinamento piuttosto elevati l'aspetto delle superfici architettoniche e la morfologia del materiale lapideo deteriorato sono spesso così tipici da assumere valore di elemento diagnostico: le superfici protette dal dilavamento dell'acqua piovana sono annerite o addirittura coperte dalle cosiddette "croste nere", mentre quelle dilavate sono bianche ma mostrano gravi segni di corrosione. Il componente principale delle croste nere è il gesso (solfato di calcio bi-idrato), formato dalla reazione tra i composti solforati acidi nell'atmosfera inquinata e il carbonato di calcio dei substrati calcarei. Il colore nero che caratterizza le croste è dovuto a quantità discrete di materiale carbonioso, prodotto dalla combustione incompleta di combustibili e di altri materiali organici e costituente importante del particellato sospeso. La crosta nera non esercita alcuna azione protettiva nei riguardi del materiale lapideo sottostante, anzi, dopo un periodo di apparente stabilità, comincia a fratturarsi e distaccarsi dal substrato, trascinando con sé porzioni più o meno importanti del materiale lapideo ed esponendone nuove parti all'attacco degli inquinanti. Alla presenza dell'acqua vanno anche ricondotti molti fenomeni di deterioramento del materiale lapideo da parte di agenti biologici: dai batteri ai funghi, alle alghe, ai licheni fino alle piante superiori. Le condizioni di sviluppo, i meccanismi di azione e il danno prodotto variano corrispondentemente entro un arco molto ampio, ma in generale si può asserire che i substrati umidi facilitano il manifestarsi del biodeterioramento (comparsa di macchie, annerimento o colorazione verde delle superfici, ecc.). In molti altri casi si assiste alla formazione di pellicole o croste, alla corrosione delle superfici o a drammatici effetti meccanici prodotti dallo sviluppo delle radici e delle strutture aeree delle piante infestanti. Indipendente dalla presenza dell'acqua nella struttura porosa delle pietre è infine il biodeterioramento prodotto dalla fauna che si può insediare sui monumenti, sia in ambienti urbani sia in zone archeologiche extraurbane. Il tipo di fauna dipende dal contesto ambientale ed anche in questo caso i danni prodotti possono assumere importanza diversa. In generale si può dire che essi sono riconducibili agli effetti degli escrementi (danno estetico, corrosione chimica, formazione di substrato per lo sviluppo di microflora eterotrofa) e all'azione meccanica esercitata dagli animali che si muovono aggrappandosi o poggiandosi agli elementi lapidei delle superfici architettoniche provocandone a volte la fratturazione.
P. Rossi Doria, Pore Structural Analysis in the Field of Conservation: State of the Art and Future Developments, in J.M. Haynes - P. Rossi Doria (edd.), Principles and Applications of Pore Structural Characterisation, Bristol 1985, pp. 441-59; G. Caneva - M.P. Nugari - O. Salvadori, Biology in the Conservation of Works of Art, Roma 1991; M. Laurenzi Tabasso - M. Marabelli, Il degrado dei monumenti a Roma in rapporto all'inquinamento atmosferico, Viterbo 1992.
di Marco Verità
Il degrado del vetro consiste nel processo di alterazione delle superfici dei manufatti ad opera dell'ambiente di conservazione, che provoca la trasformazione del vetro in un materiale poco compatto, spesso friabile, simile al gel di silice. Tale processo comporta modifiche anche nell'aspetto dei manufatti, come la perdita della lucentezza e la formazione di strati iridescenti od opachi a volte di colore diverso da quello del vetro. Il procedere del fenomeno può provocare la completa disintegrazione del manufatto. I vetri, comunque, sono in genere materiali resistenti al degrado del tempo; solo l'acido fluoridrico e le soluzioni alcaline li disintegrano rapidamente. Tuttavia, lentamente, essi degradano, secondo meccanismi e con velocità che dipendono da due principali fattori: la composizione chimica e l'ambiente di conservazione. Altri fattori sono la temperatura e il tempo di conservazione, la forma del reperto, la tecnica con cui è stato lavorato (soffiatura, pressatura, ecc.) ed eventualmente decorata la superficie (smalti, incisioni, intagli, ecc.). La composizione chimica distingue i vetri in durevoli (con buona resistenza chimica) e non durevoli. I primi, con elevati tenori di silice, basse concentrazioni di alcali (sodio e potassio) e quantità equilibrate di stabilizzanti (calcio e magnesio), resistono bene al degrado, mentre i secondi sono poco resistenti e possono essere disgregati anche in situazioni di conservazione non particolarmente sfavorevoli. Nell'ambiente di conservazione è soprattutto l'acqua nelle sue diverse forme (soluzioni saline acide o basiche del terreno o del mare, vapore acqueo, ecc.) la principale causa del degrado. Essa agisce secondo due diversi processi, detti di lisciviazione e di disgregazione (o corrosione). Il primo si ha in ambiente acido o neutro (pH della soluzione inferiore a 9): l'acqua in contatto con la superficie estrae ioni alcalini (sodio e potassio) che sono debolmente legati nel reticolo vetroso. Contemporaneamente molecole di acqua entrano nel reticolo formando uno strato di gel di silice idrata. Se il vetro è di tipo durevole, tale strato agisce da barriera protettiva, rallentando progressivamente il processo di lisciviazione; se il vetro non è di tipo durevole, la lisciviazione procede anche nella massa del vetro. Il processo di disgregazione si ha invece quando l'acqua in contatto con la superficie vitrea è alcalina (pH maggiore di 9): in tal caso essa rompe i legami silicio-ossigeno del reticolo, provocando la distruzione del vetro, indipendentemente dalla sua composizione chimica. I reperti vitrei archeologici poco degradati presentano superfici ancora lucide leggermente iridescenti. Con il procedere del degrado la superficie perde l'aspetto iridescente per diventare leggermente ruvida e priva della naturale lucentezza del vetro. Nei reperti più degradati le superfici si infragiliscono per la formazione di sottili strati alterati sovrapposti dall'aspetto madreperlaceo, via via sempre più opaco e friabile. In presenza di elementi coloranti nel vetro o nell'ambiente di conservazione (ad es., manganese, ferro, piombo) gli strati degradati possono essere intensamente colorati e variare completamente l'aspetto originale del manufatto. In altri casi, infine, il degrado provoca la formazione di croste opache biancastre attraversate da microfratture, fenomeno talvolta impropriamente chiamato "devetrificazione".
R. Newton - S. Davison, Conservation of Glass, London 1989; M. Verità, Struttura, proprietà chimico-fisiche e composizione dei vetri, in R. Lefèvre - I. Pallot-Frossard, Les materiaux vitreux: verre et vitraux, Bari 1998, pp. 53-73.