Il design dell’artefatto tecnologico
Premesse e delimitazioni di campo
L’artefatto tecnologico è da tempo divenuto uno dei grandi temi del design contemporaneo. Nella vita quotidiana e negli oggetti che ogni giorno utilizziamo, è enormemente cresciuto l’impatto delle tecnologie, tradizionali e innovative; presenti in prodotti finiti, ma anche contenute all’interno di prodotti/sistemi/servizi più articolati. Oggetti legati a tecniche (semplici o complesse) sono naturalmente sempre esistiti, ma, con l’eccezione di alcuni settori ‘a impatto collettivo’ (dai mezzi di trasporto agli elettrodomestici), hanno di frequente conosciuto impieghi settoriali, specialistici o temporanei. La novità è costituita da una parte dalla pervasività e massificazione dei prodotti tecnologici, dall’altra dalla perdita di fisicità e visibilità a favore di una presenza immateriale e virtuale. Dal punto di vista del design, questo ha significato l’elaborazione di un nuovo progetto, che esce dalle modalità della fruizione tecnico-specialistica per ambire a un impiego generalizzato. Conta in sostanza non più soltanto che un prodotto funzioni e in quale modo, ma che sia compiutamente disponibile, oltre che agevolmente fruibile. Ciò ha comportato il passaggio da un modo di intendere il progetto centrato sul ‘dover essere’ della funzione a uno dove prevalgono (o dovrebbero prevalere) le esigenze dell’utilizzatore. Altrettanto evidente è il superamento dell’ostentatività dei meccanismi, dell’esibizionismo funzionalista, a favore di un’attenzione verso le caratteristiche della performance e la qualità globale.
L’affidabilità degli oggetti tecnologici e l’interazione uomo-macchina, o, più in generale, la direzione verso cui si orienta lo sviluppo restano grandi temi di riflessione e occasione di rinnovata azione. Sono stati sviluppati specifici approcci e contributi (fra gli altri, l’interaction design), ma permangono evidenti le oggettive e diffuse difficoltà nella progettazione e gestione di oggetti/sistemi/servizi/contesti tecnologici.
La condizione pare talvolta essere quella delineata da Jacques Attali: «Le innovazioni lineari sembrano rallentare: l’industria automobilistica è stagnante, così come quella degli elettrodomestici, il telefono cellulare e internet non hanno quasi fatto progressi negli ultimi quindici anni, i nuovi medicinali non sono dietro l’angolo. […] Vediamo un gran fiorire di falsi progressi: i personal computer sono inutilmente potenti, le automobili troppo complesse» (2006; trad. it. 2007, p. 121).
Non è un caso allora che gli artefatti e artifici tecnologici realmente e utilmente incisivi per la vita delle persone abbiano adeguatamente affrontato le questioni d’interazione; sostenendo in qualche modo un’idea di ‘tecnologia calma’, ossia non ostentativa e iperprestazionale, come invece è ancora spesso proposta, seguendo logiche distanti dalle reali esigenze degli utilizzatori, oltre che fuorvianti rispetto al riconoscimento di un appropriato ruolo del design, che è tale, come afferma Giovanni Klaus Koenig, «solo quando agiscono forti interazioni fra scoperta scientifica, applicazione tecnologica, buon disegno ed effetto sociale positivo» (Design: rivoluzione, evoluzione o involuzione?, «Ottagono», 1983, 68, p. 24).
Si tratta di premesse obbligatoriamente generiche e semplificanti, che registrano però una condizione evidente, in cui la quotidianità risulta segnata da neo-oggetti tecnici di assoluta utilità/invasività, dai computer ai mobile phones e alle smart cards, associati a nuovi comportamenti, dal neonomadismo al lavoro delocalizzato e diffuso, alla fruizione continuativa di tecnologie cui spetta un futuro altrettanto agevolmente prefigurabile, sia per quanto riguarda gli artefatti tecnologici sia per il ruolo del progetto.
Di recente Donald A. Norman ha scritto: «Mi sembra evidente che il futuro del design stia nello sviluppo di dispositivi intelligenti che guidano l’auto per noi, cucinano per noi, tengono sotto controllo il nostro stato di salute, puliscono i pavimenti, e ci dicono cosa mangiare e quando fare un po’ di esercizio. [...] La sfida sta nell’arricchire le nostre vite di dispositivi intelligenti capaci di accompagnarci nelle nostre attività, dotati di capacità complementari alle nostre, capaci di farci avere più risultati, più benessere, più scelte, non più stress» (2007; trad. it. 2008, p. 132).
L’artefatto tecnologico e il design contemporaneo
Esula dai confini di questo saggio una disamina dello status teorico e filosofico dell’oggetto tecnologico, attorno al quale si sono cimentati nel tempo importanti studiosi. Ci si limiterà a un’indagine fenomenologica del suo manifestarsi contemporaneo, in relazione con i modi del progetto; provando inoltre a fornirne una lettura non settoriale e specialistica in senso stretto, evitando di soffermarsi solo sugli aspetti ingegneristico-tecnologici e guardando invece alla connessione fra design, sistema economico e socioculturale.
La maggioranza degli oggetti, a cominciare dagli utensili, in verità presenta da sempre un contenuto in senso lato riferibile a un qualche tipo di tecnologia; quello che pare rilevabile è dunque la loro moltiplicazione e l’invasività, il nuovo modo di manifestarsi (virtuale e dematerializzato), ma soprattutto ciò che tali caratteristiche comportano nel processo globale del progetto. Va registrato in particolare come molti ambiti, per quanto riguarda prodotti/sistemi/servizi, siano ormai entrati in stretta relazione con le innovazioni e le ricerche tecnologiche, facendole concorrere alla messa a fuoco di problematiche e alla soluzione di esigenze puntuali.
In un campo così delineato, dai confini divenuti dunque particolarmente estesi, una ricognizione attenta ed esaustiva attorno a specifici prodotti si presenta problematica e fuorviante; per questo si è privilegiata l’identificazione di alcuni oggetti-archetipi e di altri emblematici degli orientamenti in corso.
Alcune necessarie premesse risultano importanti per delineare il contesto della cultura del progetto contemporanea, all’interno della quale si configura il design dell’oggetto tecnologico.
Nella condizione attuale è possibile parlare di un nuovo status per gli artefatti-merce culturali ed estetici, dal design alla moda; il loro valore non ha più unicamente una relazione con le regole dei costi di produzione, quanto piuttosto – scrive lo studioso di estetica Fulvio Carmagnola – con «la valutazione della potenza dei segni e dei simboli veicolati da icone mediali e da artefatti fisici. […] È un’estetica corrispondente all’economia impura o funzionale del simbolico, che non riconosce più la sua base nella coppia classica valore d’uso/valore di scambio» (2001, pp. 38 e 52). Questo condiziona anche linguaggio e modi del progetto che si indirizzano, fra l’altro, verso l’accentuazione degli elementi simbolici o legati all’immaginario, o ancora ‘finzionali’, secondo la definizione di Carmagnola: dall’emozionalità al funny, dai materiali high-tech alle tecnologie digitali, alla poli- e/o iperfunzionalità.
D’altra parte, riflessioni teoriche e prassi operative hanno proposto negli ultimi anni un ruolo e un destino ‘debole e diffuso’ per la cultura del progetto, in relazione al contesto imprenditoriale, sociale e culturale dell’attuale ‘modernità liquida’, per usare l’efficace metafora di Zygmunt Bauman (Liquid modernity, 2000; trad. it. 2002); un design (un’architettura, una progettazione visiva ecc.) in sostanza rinunciatario, un po’ in difficoltà, destinato a muoversi in spazi liminari e laterali rispetto alle grandi questioni (e ai poteri economici) del nostro tempo. Così come risulta parziale e limitante la lettura proposta del design, all’interno delle numerose competenze che contribuiscono alla determinazione delle caratteristiche di un oggetto, se visto come modalità ancillare rispetto alle esigenze del mercato e all’impresa, che determinano scelte obbligate del ‘nuovo’ a tutti i costi (in risposta alle presunte richieste del consumo) o della stravaganza, in funzione comunicativa e autocelebrativa per designer, imprese e brands.
Tali impostazioni, peraltro legittime, presentano limiti filosofici, culturali e ideologici evidenti a fronte di una modernità che, per es., non ha rinunciato a fisicità e significato delle cose (prodotti, sistemi, servizi), con quanto tutto ciò comporta in relazione ai meccanismi economici e sociali. Ma soprattutto appaiono poco convincenti se si guarda al ruolo del progetto (compiutamente inteso come capacità di configurare condizioni altre rispetto all’esistente, fare cioè innovazione tipologica, tecnologica, produttiva, estetica ecc.); ha sostenuto Giorgio De Michelis: «Un artefatto è sempre disegnato, progettato in quanto gli accorgimenti tecnici che regolano la sua realizzazione e lo studio e l’esperienza su cui quest’ultima si fonda rendono possibile anticiparne le caratteristiche prima che essa sia addirittura avviata. Ed è proprio a questo che fa riferimento la parola progettare. Essa, che compare in italiano dopo che già projeter era usato in Francia, ha il significato di ‘ideare qualche cosa e proporre il modo di attuarla’ e deriva dal latino proiectare, a sua volta derivato da pro ‘avanti’ e da iàcere ‘gettare’, per cui il suo significato di ‘gettare avanti’, ‘anticipare’» (1998, pp. 2-3).
Risulta allora necessario accennare ai principali cambiamenti avvenuti nei modi di intendere funzioni e pratiche del design, con particolare riferiemento all’industrial design, sottolineando in primo luogo come esso abbia assunto un’accezione globale che si applica a tutte le tipologie di artefatti, e come, in quanto processo di problem solving e team work, si collochi in un contesto produttivo, tecnologico, di mercato, di distribuzione e comunicazione.
Merita altresì attenzione il tema del ruolo del design e dei designer all’interno di ampi gruppi di lavoro; i designer da una parte sono chiamati a contribuire a una sorta di processo e progetto collettivo, dall’altra, a esercitare una funzione di sintesi ‘registica’, muovendo da conoscenze generaliste ma in grado di dialogare con le discipline specialistiche. Un’attività, quindi, sempre meno immediatamente visibile e riconoscibile, eppure potenzialmente capace di incidere in modo consistente, come testimonia l’assai noto esempio della filosofia di Apple della design driven innovation – ma certo anche della human driven innovation –, di cui molti hanno colto l’interesse e seguito il modello, e nella quale è stato riservato un spazio determinante al progetto condotto da designer attivi dentro l’impresa, individualmente sconosciuti almeno per i non addetti ai lavori; tale progetto, come in verità è accaduto di frequente nei capolavori del design, è frutto di convergenti competenze di imprenditori, ingegneri, maestranze e, naturalmente, di progettisti.
In questo contesto, la cultura del design appare cruciale per affrontare le reali sfide del presente, dalla sostenibilità all’usabilità, dal social design al safe. Quest’ultimo termine è inteso nella sua più ampia accezione (dalla sicurezza alla protezione, allo stare bene) proposta dall’omonima mostra al MoMA (Museum of Modern Art) di New York, curata da Paola Antonelli nel 2005; la questione posta è se sia possibile immaginare, sperimentare e proporre, anche attraverso opzioni e operazioni politico-culturali, da una parte modelli di sicurezza non repressivo-autoritari ma democratici, dall’altra modi di intendere e praticare il benessere non ostentativi ma culturalmente ed eticamente sostenibili. Ancora Attali, riferendosi a un prossimo futuro, sostiene che «tutte le imprese, tutte le nazioni si organizzeranno attorno a due esigenze: proteggere e distrarre. Proteggere e distrarsi dalle paure del mondo» (2006; trad. it. 2007, p. 105). Safe ed entertainment, connessi dunque alle attenzioni e preoccupazioni che muovono o muoveranno le persone e i mercati, costituiscono ambiti decisivi per il progetto, e da tempo hanno avviato un consistente dialogo con le scoperte tecnologiche e le loro ‘traduzioni’ in artefatti, sistemi e servizi.
Un discorso a parte meriterebbero naturalmente le problematiche legate alla sostenibilità ambientale, ormai di crescente e drammatica attualità. Sintetizza Bruce Sterling: «I modi di produzione usati attualmente non sono più sostenibili. Hanno scale enormi, la loro storia è lunga e hanno conosciuto lunghe fasi di ricerca e sviluppo ma non possono andare avanti nella forma attuale. Lo status quo usa forme di energia e di materia arcaiche, limitate e tossiche, che danneggiano il clima, avvelenano la popolazione e fomentano guerre per le risorse. Non hanno futuro» (2005; trad. it. 2006, p. 1). Necessità obbligata, seppur ancora lontana dal divenire compiutamente cosciente se non praticata, è che le logiche della sostenibilità divengano parte integrante e ineludibile di progetto, produzione, distribuzione e consumo.
Queste riflessioni su questioni generali e aspetti hard relativi al sistema del design hanno massima rilevanza quando si parla di artefatti tecnologici, dove tutto è molto poco soft e debole: grandi economie e investimenti produttivi, distributivi e comunicativi; un ruolo significativo per la ricerca e sviluppo; uno specifico, anche se talvolta sottostimato (muovendo da equivoci cui si è fatto cenno), ruolo del design; enormi quantità di rifiuti, di consumi energici, di pollution multisensoriale e così via.
La rivoluzione Apple
Argomentando attorno alle nuove frontiere dell’oggetto tecnologico, resta obbligatorio considerare il cambiamento (anche in una chiave storica, che esula in senso stretto dai caratteri di questa riflessione sul contemporaneo) del punto di vista introdotto dalla logica progettuale e dai prodotti Apple, dalle antesignane interfacce user-friendly dei primi elaboratori, al disegno complessivo e alle frequenti innovazioni formali e funzionali, fino all’iPod (uno degli oggetti archetipi del nuovo secolo) e all’iPhone. Facilità d’uso delle macchine e delle interfacce, buon disegno, forme levigate e scultoree, introduzione di cromie e scelte di materiali ispirati al mondo non tecnologico (come le plastiche trasparenti o il bianco opaco nello ‘stile Braun’), ideazione di nuove tipologie di prodotto: sono questi alcuni dei caratteri che hanno fortemente condizionato ed elaborato uno standard per questo tipo di oggetti. Determinante è stata la convergenza assoluta fra la strategia dell’impresa, condotta da Steve Jobs, e la funzione riconosciuta al design, cui negli anni ha fornito un contributo determinante Jonathan Ive.
Esemplare il caso dell’iPod (2001), che ha dato forma, tipologia e modalità di fruizione alla tecnologia MP3, ed è divenuto, oltre che un successo di mercato, un riferimento qualitativo per tutto il settore. Allo stesso modo, l’idea contenuta nell’iPhone (2007) di integrare diversi strumenti (telefono, agenda, collegamento web, macchina fotografica, navigatore satellitare) è risolta con una innovativa configurazione dell’interfaccia, completamente touch-screen e priva di tastiera ‘tradizionale’.
Analoghi apparecchi multifunzione sono oggi anche gli smartphones BlackBerry (2002), che montano invece una ridotta tastiera da usare con apposito strumento, e sono un’evoluzione del Palm (1996), l’organizer elettronico palmare che, rispondendo a nuove esigenze dei fruitori, aveva trovato una conformazione originale e assieme definitiva, grazie al design dell’agenzia di consulenza IDEO per Palm computing.
Quella della sommatoria delle funzioni, della convergenza tecnologica-funzionale in un unico oggetto, si presenta come questione controversa, che trova disponibilità nelle intenzioni di imprese e mercato, tensione e interesse da parte dei designer, ma allo stesso tempo solleva dubbi da parte di chi teorizza e privilegia il prodotto pressoché monofunzione – e non troppo masochista, per riprendere il titolo italiano di un noto volume di Norman (The psychology of everyday things, 1988; trad. it. La caffettiera del masochista. Psicopatologia degli oggetti quotidiani, 1990) – user- friendly e allo stesso tempo attento alle problematiche di usabilità e di utenza ampliata.
A livello generale, il settore dell’information technol-ogy è stato attraversato da due orientamenti convergenti: da una parte la miniaturizzazione degli oggetti, dall’altra il potenziamento degli strumenti e la definizione di nuove tipologie in relazione ai bisogni e alle funzioni emergenti.
Altrettanto decisivo è ormai divenuto il ruolo delle tecnologie Wi-Fi, che vanno mutando la nostra relazione con gli oggetti e gli spazi, ponendoci in una condizione di perenne ubiquità virtuale, attraverso sistemi permanenti di connessione con strumenti tecnologici e di rete, come si sono configurati a partire dalla rivoluzione di Internet.
A questo proposito, paiono interessanti le questioni che si vanno ponendo attorno alla possibilità, necessità e libertà di disconnettersi.
Non oggetti e superoggetti tecnologici
Una straordinaria quantità di tipologie di artefatti, alcuni di tradizione precedente ma impetuosamente sviluppatesi, altri di nuova concezione, rimandano a una categoria concettuale che li qualifica come neo-oggetti o non oggetti (riprendendo in questo contesto l’intuizione che ha portato Marc Augé a parlare di ‘non luoghi’). Molti prodotti e servizi contemporanei che popolano luoghi pubblici e privati – solo per fare qualche esempio, la segnaletica, l’attrezzatura urbana o le vending machines, cioè macchine che distribuiscono dal denaro alle sigarette, al caffè – sono da noi fruiti nella ‘distrazione’, ossia senza porre troppa attenzione ai loro caratteri funzionali ed estetici. A questo proposito viene allora da adottare e adattare la classica riflessione antropologica di Augé: «Uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico, definirà un non luogo» (Non-lieux. Introduction à une anthropologie, 1992; trad. it. 1993, p. 73); analoghe caratteristiche possono forse essere attribuite a molti non oggetti della ‘surmodernità’, secondo la definizione di Augé. Nel nostro caso siamo di fronte a non oggetti (nel senso che nessuno se ne accorge), ma alla fine anche a superoggetti (in quanto hanno presenza culturale e una fisicità evidente).
In questo ambito, collocabili in senso stretto fra gli artefatti tecnici sono certo le smart cards, a cominciare dalle carte di credito. Una semplice e anonima superficie di plastica contiene informazioni in grado di gestire prelievi di denaro ma anche di sostituirsi a una chiave per fornire un accesso. Non possiede una forma propria, e in sostanza è progettata nei suoi caratteri virtuali. Questa tipologia – imparentata del resto con le componentistiche elettroniche, dai microchips alle SIM cards – configura la metafora del passaggio in corso dal contesto oggettuale a quello non oggettuale, basato sulla virtualità ma anche sulla mancanza di riconoscibilità morfotipologica.
E ancora – a indicare un ulteriore indirizzo già presente ma destinato a sviluppo, anche nella direzione della progressiva sparizione degli oggetti – è da tempo chiaro come per le imprese stia divenendo sempre più importante non tanto il prodotto quanto il servizio (e il suo design): un telefonino gratuito in cambio di un abbonamento, una stampante o un personal computer low-price per l’acquisto a caro prezzo di cartucce di ricambio o software, e poi ancora offerte di car shar-ing o di noleggio della lavatrice.
High-tech, sostenibilità e automotive design
I mezzi di trasporto – automobili, treni, barche, aereoplani, elicotteri, space shuttles ecc. – determinano straordinarie e ormai irrinunciabili facilities e opportunità, ma allo stesso tempo presentano anche limiti oggettivi, fra l’altro per quanto riguarda l’impatto globale sul pianeta. Non è difficile immaginare nel medio periodo la necessità di una loro trasformazione, dal punto di vista dell’energia, delle modalità di fruizione e impiego, della sicurezza.
Determinate trasformazioni avvenute nel design dell’automobile paiono emblematiche e significative per il prossimo futuro. Un apporto decisivo è stato fornito da nuove tecnologie, per lo più ‘invisibili’ dentro il mezzo, che hanno permesso la crescita delle possibilità di controllo e gestione della vettura, ma soprattutto della sicurezza: dall’airbag al navigatore satellitare fino al futuribile (ma in verità già applicato in singole soluzioni) drive by wire, vale a dire la guida completamente mediata grazie a sistemi di attuazione elettronici, dove i comandi non hanno più alcun legame meccanico con ciò che controllano ma solamente con il computer di bordo.
Un ulteriore interessante sviluppo è collegato alla possibilità che l’automobile e i suoi sistemi di controllo possano inoltre diventare veicoli di informazione, comunicazione e connessione con altri mezzi o con l’intero sistema urbano. Questi sono solo alcuni dei fattori che stanno contribuendo alla progressiva mutazione dell’idea di automobile, basata sempre meno su potenza e velocità e concepita sempre meno come status o style-symbol, e invece più vicina ai bisogni reali degli utilizzatori. Paradossalmente potrebbe avviarsi a diventare (e in molti casi forse lo è sempre stata) poco più che un utensile o un elettrodomestico.
In verità molto deve essere ancora progettato, dai sistemi energetici al comfort, alla sicurezza integrale, ma stimolanti possibilità culturali, economiche e di design cominciano ad aprirsi. Interessano, per es., come hanno di recente sottolineato diversi studiosi, le ricerche su mezzi di trasporto immaginati secondo rinnovate modalità di interazione naturale fra uomo e macchina; come avviene nel caso del Segway human transporter, progettato nel 2001 da Dean Kamen, un veicolo fra scooter e monopattino basato su un meccanismo di autobilanciamento che agisce in relazione ai movimenti umani.
Proprio l’impellente questione del rinnovo delle fonti energetiche è in grado di generare inedite soluzioni di progetto dei mezzi, dal punto di vista dei sistemi di propulsione ma anche della configurazione complessiva dei veicoli. Sintomo del cambiamento in corso è l’attenzione (da parte delle imprese ma anche del mercato) suscitata dai veicoli ibridi, in particolare nel settore dell’automotive, mezzi con motori misti elettrico-idrocarburi che hanno cominciato a diffondersi da circa un decennio.
Altre risorse sono state investite sia dalle aziende produttrici sia dagli studi di design per indagare ulteriori direzioni innovative, sviluppando così diversi concepts, come, per es., quelli legati alla possibilità di utilizzo dell’idrogeno come vettore di energia. Fra questi, il prototipo Semi-powered bike, progettato nel 2001 per Aprilia da Johan Persson dello studio svedese No picnic: uno scooter dotato di un motore elettrico alimentato da batterie a gas di idrogeno; a metà strada fra bicicletta e moto, spostabile sia con la forza muscolare sia con quella del motore, propone un disegno di grande eleganza. Un design avanzato che adotta un innovativo sistema tecnologico per prefigurare una soluzione futuribile, eppure concreta, alle necessità della mobilità.
Anche nel campo dei velivoli l’attenzione verso il notevole impatto ambientale dei mezzi ha portato a ricercare soluzioni migliorative e alternative agli attuali sistemi. Per es., il concept del SAX-40 (Silent Aircraft eXperimental) prova a definire un jet passeggeri silenzioso ed ecologico attraverso la riduzione del consumo di combustibile (il cui prezzo è sempre più elevato) necessario per il volo e attraverso la limitazione delle emissioni inquinanti negli scarichi e del rumore. Frutto del lavoro condotto da quaranta ingegneri, riuniti in équipe dal MIT di Boston, dall’università di Cambridge e dalla NASA, appoggiati da società aeronautiche ed enti civili, il progetto (che è stato presentato al pubblico nel 2006) prende le mosse da un velivolo militare, il bombardiere invisibile B-2 Spirit (il cosiddetto Stealth), a cui è apparentato morfologicamente nel disegno della grande ala, che però viene abbinata a una fusoliera ampia e aerodinamicamente portante, su cui si trovano le semiali ripiegate. I reattori sono incorporati nella fusoliera, contribuendo, insieme all’eliminazione dei flaps e al ridisegno dei carrelli, al contenimento e all’abbattimento del rumore.
Automazione e sostenibilità in abitazioni ed edifici
La tecnologia svolge, ed è destinata a svolgere, un ruolo sempre più importante negli edifici (siano spazi privati o pubblici, di lavoro o produzione) secondo due direzioni: la prima riguarda i sistemi di controllo e gestione delle funzioni all’interno e all’esterno degli edifici; la seconda la possibilità che componenti edilizie incorporino tecnologie, per es., in grado di generare energia, utili a fornire inedite soluzioni per il progetto dell’architettura e delle città.
La home e la building automation, non diversamente da quanto è avvenuto con l’automazione dei processi produttivi o esecutivi (per es., in campo sanitario), offrono la possibilità di affrancamento da attività fisicamente o mentalmente onerose, ma soprattutto di incremento dell’efficacia e del coordinamento di singoli strumenti e delle relative azioni a essi collegate: dagli elettrodomestici-robot alle centraline di controllo di varie funzioni nelle abitazioni. In alcuni casi lo sviluppo della domotica dal punto di vista delle tecnologie applicate alla gestione della casa, per es. con My home (2001) di BTicino, ha finito con il permeare ogni componente elettrico ed elettronico, aprendo grandi potenzialità nella fruizione degli spazi, anche per un’utenza ampliata. Non sono mancate tuttavia resistenze psicologiche e interrogativi in relazione alle modalità di interazione. Recenti ricerche in questo campo si sono allora orientate verso un nuovo concetto di casa ‘adattiva’ (adaptive house), che si regola in base a tempi e modi della fruizione, e non viceversa.
Per quanto riguarda gli elettrodomestici, invece, è in corso una significativa trasformazione, per ora legata soprattutto a ricerche progettuali verso apparecchi tecnologicamente innovativi, ma anche capaci di indurre nuovi comportamenti attenti alle tematiche della sostenibilità, dal risparmio energetico all’adozione di materiali e sostanze non inquinanti. Riduzione dell’impatto ambientale, ecodesign, ecoefficienza, ecointelligenza, design for environment, bassi consumi, atossicità e risparmio di energie: sono tutte espressioni ormai molto usate, indici di una crescente sensibilità nei confronti della salute del pianeta. Lavatrici, lavastoviglie, frigoriferi, forni, tostapane, ferri da stiro sono infatti oggetti che migliorano il comfort ma provocano consumo di energia, emissioni più o meno tossiche e rifiuti. Intanto, sono in vigore da diversi anni normative atte a regolarne i consumi e l’impatto ambientale mediante il sistema di assegnazione delle ecolabels e delle energy-labels, etichette obbligatorie su vari tipi di elettrodomestici. Si tratta di strumenti in grado di confrontare correttamente la convenienza economica dei prodotti, ma soprattutto di spingere verso lo sviluppo di dispositivi sempre più efficienti dal punto di vista ecologico.
Per quanto riguarda la relazione con gli utilizzatori, appare appropriato parlare di reattività (capacità di reazione a un input), mentre una logica compiutamente interattiva o intelligente dell’elettrodomestico resta ancora da sviluppare, anche se studi in questa direzione non sono mancati, come i robot tagliaerba o gli aspirapolvere di Electrolux, in grado di condurre in autonomia le proprie attività. La robotica domestica appare ancora poco disponibile, ma comunque non si realizzerà con automi antropomorfi, come forse si era immaginato, quanto piuttosto con immateriali software. Molti prodotti sono stati realizzati puntando sulla semplificazione dell’interfaccia di comando: fra i numerosi esempi, da ricordare i modelli di lavastoviglie Izzi (2002) di Electrolux, progettati da Roberto Pezzetta e dallo Zanussi industrial design center, oppure la lavatrice Aqualtis (2005) di Ariston-Merloni, disegnata da Makio Hasuike.
Interessanti ricerche sono invece incentrate sull’applicazione di nuove tecnologie – di frequente sperimentate dai grandi gruppi multinazionali anche attraverso workshops e concepts come quelli realizzati da Philips a partire dagli anni Novanta e ispirati da Stefano Marzano (dal 1991 chief executive officer e chief creative director di Philips design) – per il lavaggio dei capi di abbigliamento, la conservazione di prodotti alimentari, la cottura dei cibi. In quest’ultimo ambito, recente sviluppo ha avuto la tecnologia della cottura a induzione, che sfrutta il calore generato dal campo magnetico indotto fra speciali bobine a induzione e la pentola. Si limitano così notevolmente le dispersioni di energia e conseguentemente, oltre a ottimizzare i consumi, vengono ridotti i tempi di cottura; inoltre aumenta la sicurezza d’uso, perché il calore rimane circoscritto alla zona di cottura, e risulta più agevole la pulizia del piano.
Più futuristico invece il concept di cucina ‘verde’ presentato da Whirlpool nel 2008, che, imitando le dinamiche presenti in natura, consente di utilizzare il calore e l’acqua generati da alcuni elettrodomestici per alimentarne altri, arrivando a incrementare del 70% l’efficienza energetica.
Accanto alle ricerche condotte all’interno dei centri di ricerca e sviluppo delle grandi industrie, merita attenzione, in quanto esempio significativo di imprenditoria design driven, l’attività di James Dyson, progettista-industriale in grado di far dialogare design e invenzione/innovazione tecnologica. È dalla metà degli anni Ottanta che Dyson sperimenta efficienti tecnologie di aspirazione, costruendo poi un’azienda dedicata a un’unica tipologia di prodotto, con una struttura tecnica e progettuale di oltre trecento persone, che ha rivoluzionato le tecnologie del settore (per es. facendo scomparire il sacco, adottando il contenitore trasparente per lo sporco, sostituendo le ruote con una sfera per aggirare velocemente gli ostacoli). Dyson, parallelamente all’innovazione in campo tecnologico, ha introdotto configurazioni formali capaci di coniugare l’impostazione high-tech con cromie decise, a quel tempo inedite e oggi parte della realtà domestica. La stessa azienda Dyson ha poi ampliato la propria tipologia di prodotto con l’asciugamani automatico professionale Airblade (2006), destinato a diventare uno standard per il settore. Frutto dello studio delle attuali disfunzionalità di tali apparecchi, asciuga in pochi secondi introducendo semplicemente le mani nella fessura superiore, senza bisogno di sfregarle, e assicura la massima igiene, in quanto è dotato di un filtro che rimuove i batteri prima di diffondere l’aria sulle mani, nonché di additivi antimicrobici per il rivestimento esterno, diminuendo così le possibilità di contaminazione da parte degli utenti.
Gli spazi del lavoro
L’impatto dei nuovi artefatti tecnologici ha cambiato profondamente i modi e i luoghi dell’abitare ma anche quelli del lavorare e del produrre (basti pensare, per es., all’introduzione della robotizzazione nei processi produttivi).
Volendo riassumere, con una sintetica definizione, rispettivamente il punto di partenza e quello di approdo dell’evoluzione dei luoghi di lavoro nel corso del 20° sec., si può forse parlare di un percorso che ha condotto da una situazione di official office (a definire, fra l’altro, spazi gerarchici e specializzati) a una condizione (prendendo a prestito il titolo di un’altra mostra organizzata da P. Antonelli al MoMA, questa volta nel 2001) di worksphere (a voler identificare, più che l’ufficio in senso stretto, un’atmosfera e una condizione personalizzate relative al lavoro, anche d’ufficio); perché è ormai comune acquisizione che, in risposta alle mutate condizioni sociali e spaziotemporali e alle necessità della loro soddisfazione, l’attenzione si sia spostata (anche se talvolta più nelle intenzioni che nella pratica) dalla centralità attribuita ad architetture, ambienti, arredi e dotazioni tecnologiche a una maggiore considerazione delle persone e delle loro esigenze, funzionali e di benessere.
Le tipologie storiche degli ambienti per ufficio sono state quindi sottoposte a un radicale ripensamento, in quanto sono cambiati il modo e l’unitarietà del lavoro, meno rigidamente strutturati, maggiormente flessibili, con una variazione frequente di attività e funzioni. In sostanza, un tempo esistevano la postazione individuale (in un ufficio chiuso o in uno spazio aperto), la sala riunione, tutt’al più una sala d’attesa. Grazie al contributo decisivo, fra l’altro, della miniaturizzazione elettronica, alla diffusione dei computer portatili, alla telefonia mobile, ai sistemi di connettività rapida e wireless, la postazione fissa è stata invece messa in discussione; uno stesso luogo può allora essere individuale, divenire poi condiviso da più persone in tempi diversi, trasformarsi ancora in sala riunione per un piccolo o elevato numero di persone.
I più recenti modelli spaziali sono perciò basati sulla mobilità e il nomadismo interno/esterno; si indirizzano verso configurazioni che tengono conto di una diversa organizzazione, a cominciare dal ruolo esteso dei consulenti. Di conseguenza, per quanto riguarda distribuzioni e partizioni si è assistito al progressivo superamento della struttura ortogonale a favore di una struttura mobile e organica, mentre pannelli e pareti sono spesso sostituiti da membrane e schermi, come avviene, fra gli altri, nel sistema A3 (2002) di Knoll, progettato da Hani Rashid e Lise-Anne Couture dello studio Asymptote; oppure con Joyn (2002), sviluppato da Ronan ed Erwan Bouroullec per Vitra, che incoraggia la comunicazione fra le persone immaginando composizioni di tavoli privi di barriere fisiche ma con molteplici accessori.
La costruzione complessiva appare in questo modo più fluida e magmatica, talvolta quasi precaria. Al limite si può arrivare a sostenere che non è più interessante generare situazioni di flessibilità negli ambienti, riconfigurati spostando divisori o pareti a seconda delle necessità; la mobilità è data al contrario dal movimento e dalla rinnovata disposizione delle persone nello spazio, che sempre più si va definendo soprattutto per funzioni.
Ma è forse la tendenza ‘delocalizzante’ che investe il luogo lavorativo a stimolare maggiormente il progetto. Al di là degli estremismi futuristici che prefigurano la ‘morte dell’ufficio’, non è infatti possibile ignorare come attualmente l’accesso allo strumento tecnologico sia divenuto uno dei fattori decisivi nell’evoluzione del mondo del lavoro, tale da svincolare in molti casi dalla presenza fisica sui luoghi, sostituibili con la casa o la strada: per es. la ricerca di un human touch, di una costruzione a misura d’uomo, rappresenta una delle tematiche centrali del design inteso come prefiguratore, in senso lato, di ‘interfacce’ fra prodotto industriale e utilizzatore. Il ripensamento degli spazi operativi, a questo punto, si collega strettamente con una nuova progettazione degli oggetti, a cominciare da quelli tecnologici, il cui uso individuale ha già apportato in modo consistente modifiche anche nell’ambiente circostante e nel nostro modo di vivere, oltre che di lavorare.
Gli apparecchi d’illuminazione
Il settore dell’illuminazione rappresenta un ambito progettuale fra i più interessanti, un crocevia unico di indagine e sperimentazione tecnologica i cui risultati sono il frutto di una continua, accurata e aggiornata progettazione.
Nell’oggetto lampada, infatti, confluiscono le ricerche attorno alle sorgenti luminose – da quelle nuove, come i LED, a quelle a risparmio energetico – in grado di riconfigurare forma e sostanza dell’apparecchio, oltre a quelle su materiali innovativi o su tecnologie d’interazione oggetto-utilizzatore, sui meccanismi d’accensione e controllo alle variazioni cromatiche della luce. Ma allo stesso tempo le lampade devono adottare una modalità progettuale riconoscibile e riconducibile, fra l’altro, ai modi contemporanei di intendere i prodotti dell’arredamento. In conclusione, devono parlare un linguaggio che sia al contempo tecnologico e ‘domestico’. Anche tutto il settore delle cosiddette lampade tecniche, per usi specialistici e a fruizione collettiva, per es. negli spazi urbani o di lavoro, ha superato una certa crudezza di configurazione, assumendo caratteri ormai assimilabili a quelli degli apparecchi ‘decorativi’.
In estrema sintesi è possibile distinguere due direzioni per il design più innovativo. Da una parte, le aziende e i designer muovono da un’idea tradizionale dell’oggetto lampada, rinnovandolo con l’adozione di nuove tecnologie e materiali; ciò avviene, per es., negli apparecchi Luceplan, che sperimentano nuove sorgenti o modi di interazione, o Foscarini, caratterizzati dalla ricerca di materiali avanzati, come nei modelli Mite (2000) o Twiggy (2007) disegnati da Marc Sadler.
Dall’altra parte si indaga sui nuovi caratteri tipologici e ‘filosofici’ per le lampade. In questa direzione hanno operato Artemide, con le ricerche riguardanti le qualità cromatiche della luce, oppure iGuzzini, con l’attenzione verso la pollution luminosa e, più in generale, verso la sostenibilità e qualità complessiva della radiazione luminosa.
Infine, paiono stimolanti nuove tipologie di oggetti che integrano la funzione di illuminare con altre legate, per es., alla disponibilità di elettricità. Multipot (2005) di Dante Donegani e Giovanni Lauda per Elettrica rotaliana, pensato per razionalizzare gesti ed esigenze della quotidianità domestica e lavorativa, concentra in un unico pezzo molteplici funzioni: presa multipla, contenitore per cavi di alimentazione, vuota-tasche, lampada d’ambiente a LED.
Artefatti touch design
Connesso con la comparsa di nuovi materiali e tecnologie – determinanti per rispondere alle odierne esigenze d’uso e di prestazioni, e a questioni di sostenibilità ambientale, comfort e sicurezza – il progetto delle superfici costituisce un ideale spazio aperto per transferts tecnologici fra settori lontani fra loro. Molte realizzazioni contemporanee, per es., hanno proposto superfici potenzialmente attente ai risvolti ‘emozionali’, basate sull’influenza di colori e sensazioni tangibili sullo stato d’animo.
Per quanto riguarda più specificamente gli artefatti tecnologici, un orientamento trasversale è costituito dalle modalità d’interazione tattile. Infatti, l’esperienza degli oggetti, soprattutto di elevata e media complessità, oggi si fa sempre più toccando, o meglio sfiorando con la punta delle dita: la relazione tra l’utilizzatore e l’oggetto passa così attraverso quello che si potrebbe definire una sorta di touch design. Un toccare che permette di dare un nuovo significato al comune gesto dell’accensione e che sostituisce, per es. nelle lampade, i tradizionali interruttori e variatori di luce. Pionieri in questo sono stati, fra gli altri, i designer di Luceplan, come Alberto Meda che da anni sperimenta apparecchi in cui il comando non si trova più sul filo ma si attiva dall’azione sull’intero oggetto. Ricerche proseguite nel dimmer sensoriale a forma di bacchetta della lampada Costanza (1986) di Paolo Rizzatto, o nel modello Agaricon (2001) di Ross Lovegrove per Luceplan, dove un anello posto sul corpo del lume funge da interfaccia a sfioramento. Sono prodotti che sottolineano lo spostamento d’attenzione dalla forma all’interazione, talvolta con conseguente effetto di spettacolarizzazione. Basta guardare alla già citata telefonia mobile e all’iPhone di Apple, certamente non il solo modello a controllo tattile, anche se qui la superficie dell’oggetto è davvero veicolo di molteplici soluzioni, compendio di un iPod e di un dispositivo di navigazione web dove i tasti e le schermate compaiono e scompaiono a sfioramento; oppure al nuovo cellulare Serenata (2007), nato dalla collaborazione tra Bang & Olufsen e Samsung, dotato di tecnologia sensi-touch, in grado di cambiare colore a seconda dell’utilizzo.
Anche l’abitazione del futuro sarà permeata da dispositivi interattivi smart. I sistemi domotici, per es., allargano le possibilità di interazione dall’oggetto all’ambiente interno, percepito come una ‘pelle intelligente’. E solo per indicare una direzione di ricerca avanzata, sono stati sviluppati materiali ‘virtuali’ con cui realizzare una sorta di interior decoration, sostituendo pareti e pavimento: dalle piastrelle palpabili, in grado di interagire con la presenza di chi abita, alle superfici che, mediante un software, reagiscono al movimento e a gesti semplici compiuti nello spazio, veicolando le immagini proiettate, in modo da assimilare il digitale a un ‘oggetto’ calato nell’ambiente (per es., Sensitive Wall, 2007, e Sensitive Floor, 2007, di iO Agency), come avviene anche in alcuni videogiochi.
Materiali estremi
Ricerca e sviluppo tecnologico hanno coinvolto in modo consistente il mondo dei materiali artificiali (e in parte anche naturali), qualunque sia la loro destinazione d’uso. Dall’architettura agli artefatti tecnici, all’abbigliamento. Nel 2005 la mostra newyorkese Extreme textiles: designing for high performance (organizzata da Matilda McQuaid presso il Cooper-Hewitt National Design Museum) ha costituito un’ottima occasione per mettere a fuoco alcuni temi centrali: dal rapporto fra progetto e ricerca tecnologica, al ruolo specifico giocato dai materiali nello sviluppo di prodotti, servizi e sistemi innovativi. La ricerca sui tessuti, in particolare quelli high-tech, ben esemplifica questa modificazione. Se un tempo questi venivano considerati semplici superfici perlopiù decorative, capaci di ricoprire più o meno appropriatamente corpi e oggetti, oggi hanno assunto caratteri strutturali e sostanziali, trasformandosi in autentiche interfacce complesse dotate di performances fisiche, tattili e visive impiegabili nelle più svariate situazioni, soprattutto in quelle più avanzate, ma anche in una vasta ed eterogenea gamma di oggetti quotidiani.
Grazie ai tessuti high-performance, infatti, è stato possibile sviluppare prodotti di volta in volta più resistenti e leggeri, più pratici e sicuri, o in grado di rispondere nel modo più adeguato alle situazioni in cui vengono adoperati. Così le fibre e i compositi, derivati essenzialmente dallo sviluppo delle tecnologie dei polimeri, sono divenuti indispensabili ausili nella medicina – per es. nelle operazioni di ricostruzione vascolare o nervosa – ma anche nell’architettura, consentendo di rendere contemporaneamente più leggere e resistenti le strutture; sono utilizzati con notevoli vantaggi nella miniaturizzazione delle tecnologie informatiche e delle telecomunicazioni, come nell’ambito delle nanotecnologie. Tessuti in fibra di vetro, carbonio o Kevlar® sono adoperati nello sport, permettendo prestazioni sempre migliori. Emblematico esempio di ricaduta tecnologica sono anche le dotazioni di sicurezza: dalle tute e dai guanti, adattati dai programmi aerospaziali ai vigili del fuoco, alle missioni polari o al motociclismo, fino al prototipo di airbag usato nel 1997 per l’atterraggio della sonda Pathfinder su Marte.
Innovazione, cyber e visionarietà concreta
Il ruolo e le potenzialità della tecnologia nella configurazione di artefatti innovativi, dal punto di vista tipologico, funzionale, ‘filosofico’ (fino alla totale dematerializzazione e sparizione dell’oggetto/sistema/servizio), hanno dato adito a ‘visioni’, sperimentazioni ed esiti concreti che si muovono dentro scenari solo in prima istanza fantascientifici, ma che si propongono invece sempre più praticabili e realistici.
Evidentemente è impossibile ricostruire una casistica esaustiva di quanto avvenuto in questi ambiti di frontiera tesi a saggiare nuove potenzialità tecnologiche, ma soprattutto di relativa configurazione oggettuale, in relazione alle ricerche e scoperte scientifiche. In questa sede interessa indicare questi ‘territori’ come fra i più stimolanti per il disegno industriale, nella sua potenzialità e specificità di traduttore-configuratore dell’invenzione tecnica secondo modalità fruibili, in grado di generare reale innovazione.
D’altra parte alcune prefigurazioni progettuali, che hanno tratto ispirazione da tecnologie disponibili e/o auspicabili, già sono in grado di delineare panorami inediti e significativi per gli artefatti della contemporaneità e del futuro prossimo: dalle ricerche sui tessuti tecnologici interattivi a quelle sulle nuove sorgenti energetiche (come alcune recenti su apparecchi in grado di generare energia dalle maree), da quelle legate alle sperimentazioni a uso militare alla robotica e all’artificial intelligence.
Recente attenzione hanno suscitato, per es., veloci e minuscoli sistemi di identificazione automatica a distanza attraverso le RFID (Radio Frequency Identification Tags), etichette di identificazione via radio contenenti informazioni leggibili/scrivibili per un numero illimitato di volte che, non senza talune questioni legate alla privacy degli individui, sono applicate in vari settori industriali, come in campo tessile o alimentare, per arrivare fino all’impianto sottocutaneo. Tali chip sono destinati non solo a monitorare lo stato di salute del paziente, ma anche a facilitare attività quotidiane, eliminando, fra l’altro, chiavi di casa, carte di credito, documenti di riconoscimento.
Appaiono ancora più ricche di pressoché illimitati sviluppi le ricerche nell’ambito delle nanotecnologie, ramo della scienza applicata e della tecnologia che si occupa della materia su scala inferiore al micrometro e di progettare e realizzare dispositivi di tale dimensione. In sintesi, la capacità di manipolare la materia a livello atomico e molecolare sta portando a un modo radicalmente nuovo di realizzare oggetti con proprietà e funzionalità migliorate o inedite, e diverse da quelle degli oggetti macroscopici, poiché a dimensioni così ridotte emergono caratteristiche differenti da quelle consuete. Nanoparticelle sono già utilizzate per produrre, fra l’altro, cosmetici, vernici, tessili tecnici, articoli sportivi, materiali nanocompositi, hard disk per registrazione dati ad altissima densità, ridottissimi chip di memoria, sistemi per diagnostica medica; ma le sperimentazioni riguardano anche nanorobot autoreplicanti, sistemi per la somministrazione mirata di farmaci, protesi mediche con maggiore resistenza e con migliorata biocompatibilità, materiali avanzati per i mezzi di trasporto, sistemi di produzione e stoccaggio dell’energia.
Fuori da qualunque immaginario cyber o da retoriche attorno alla (supposta) funzione salvifica della tecnologia, in questi scenari ipotizzati o in via di configurazione la cultura del progetto può svolgere un ruolo decisivo, oltre che per lo specifico disciplinare, anche in termini di elaborazione e sviluppo di consapevolezza, responsabilità ed etica.
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