Il design nel futuro
Crisi economica e significato del design
Il 2009 per molti evoca il 1929 a proposito della crisi economica in atto, anche se non è ancora possibile stabilire con quanta fondatezza. Non è evidente, infatti, quanto la crisi del 1929, con le sue prolungate conseguenze negli Stati Uniti e in molti Paesi del mondo, troverà un parallelo nelle vicende dei prossimi anni. In ogni modo, al di là dell’economia, si tratta di un anniversario significativo per il design. Proprio a partire dalla crisi del 1929 si individua il decollo della tendenza, già delineatasi negli Stati Uniti negli anni precedenti, a trasformarsi in progettazione seduttiva dei potenziali acquirenti: incentivare i consumi è l’imperativo che si afferma negli anni Trenta in America e che viene così spesso evocato anche oggi. Progetto come seduzione del consumatore (American style, streamline o linea aerodinamica) che investe, e riveste, automobili e treni, aspirapolveri e temperamatite. Styling che viene condannato dalla cultura progettuale europea e che trova nel critico Gillo Dorfles, negli anni Sessanta, la stigmatizzazione definitiva con il termine di cosmetica (Introduzione al disegno industriale, 1963, p. 124). È in questa fase che il rapporto tra ragioni tecniche, scientifiche, sociali ed elaborazione formale, in definitiva tra etica ed estetica, che fino allora aveva caratterizzato il design, costituendone il nucleo fondativo, inizia a incrinarsi.
Conviene ora cercare di analizzare quali siano le tendenze che hanno contraddistinto il design negli ultimi anni, per capire se e come continueranno a influenzare anche il prossimo futuro. Tutto ciò senza pretendere di avventurarsi in categoriche anticipazioni, oggi tanto più labili quanto più incerte appaiono le previsioni sulla crisi: come ha affermato anni or sono il sociologo francese Abraham Moles, l’unica nostra previsione che ha ragionevoli probabilità di successo, è che le nostre previsioni risulteranno errate. Quali sono state allora le tendenze del design negli ultimi anni? Quelle di cui si è maggiormente discusso possono essere così sintetizzate.
Una casa d’aste londinese, Philips De Pury & co., nel 2005 ha battuto il prototipo di un tavolo disegnato da Zaha Hadid per 297.000 dollari. E Larry Gagosian, il noto mercante d’arte, per la sua galleria di New York nel 2007 ha commissionato a Marc Newson una serie di oggetti con prezzi variabili dai 100.000 ai 400.000 dollari (A. Rawsthorn, The uses and misuses of ‘design art’, «The international herald tribune», October 5 2007; Lovell 2009). In primo luogo si parla diffusamente di un nuovo fenomeno, la design art.
Per converso si va diffondendo una nuova espressione, social design, nell’ambito della quale vengono accomunate varie direzioni di ricerca. La mostra Design for the other 90% (con riferimento al pensiero del designer Victor Papanek, e in particolare al suo libro Design for the real world del 1971), allestita nel 2007 al Cooper-Hewitt National Design Museum di New York, ha presentato, per es., una serie di progetti ideati per affrontare, con soluzioni semplici ed economiche, i drammatici problemi che investono molte aree del pianeta. Cresce inoltre, a livelli impensabili, l’attenzione verso il cosiddetto ecodesign o design per la sostenibilità ambientale.
Intorno a queste due tendenze, che si mostrano un po’ schematiche nella loro categoricità, si è sviluppato un grande dibattito. Entrambe pongono un interrogativo: dove va il design? Si ricordi che il termine inglese design significa «progetto», e che anche il progetto d’architettura è oggetto di allarmati dibattiti relativi al tema degli architetti star e delle loro opere, da Dubai a Milano, sulla scia aperta da Frank O. Gehry con il Guggenheim Museum (1997) di Bilbao. Architetture spesso eccessive, ridondanti, ‘mediatiche’ (ma già si assiste a una battuta d’arresto: molti dei progetti più eclatanti, in vari Paesi del mondo, sono stati sospesi a causa della crisi economica). D’altro canto, nel 2008 alla Triennale di Milano si è tenuta la mostra Casa per tutti e, per la Biennale di architettura di Venezia dello stesso anno, il curatore Aaron Betsky ha dichiarato di voler parlare di architettura al di là degli edifici reali, per affrontare i temi centrali della nostra società (V. Ticino, Aaron Betsky. Oltre gli edifici, 2008, http://www.exibart.com/notizia.asp/IDNotizia/22272/IDCategoria/54; 18 genn. 2010). Quindi, anche in questo caso ci si può chiedere: dove va l’architettura?
In definitiva sembra che l’interrogativo sia: dove va il progetto, o anche, cosa significa progettare oggi? In realtà ci si trova di fronte al modificarsi delle modalità e del senso del progettare in rapporto a una situazione storica che appare radicalmente mutata: a testimonianza di quanto, senza accorgersene del tutto, si è da tempo entrati in una fase nuova. Il contesto di riferimento, lo scenario globale contemporaneo, è infatti molto diverso rispetto a quanto si riteneva un paio di decenni fa, quando la formula postmodern sembrava aver chiarito il senso delle nuove trasformazioni. Oggi questo termine, almeno nel mondo del design, è scomparso. Si parla invece ancora molto di postmodernità, anche se si cerca di definirla, per quanto possibile, in modi meno ambigui, non sempre con successo. Si pensi a ‘modernità liquida’, la brillante quanto tautologica formula di Zygmunt Bauman (Liquid modernity, 2000; trad. it. 2002), dove la liquidità, a ripercorrere i titoli successivi dell’autore, è diventata il suo logo, oltre che un passe-partout idoneo a definire tutto, l’amore, la vita, la paura, il mondo stesso. Si parla ancora di seconda modernità (M. Castells, Società dell’autonomia, «Internazionale», 2007, 713, p. 17), modernità riflessiva (U. Beck, A. Giddens, S. Lash, Reflexive modernization, 1994; trad. it. 1999) e di terza fase della rivoluzione industriale (per molti storici dell’economia). Ma lo scenario si va sempre più chiarendo nei suoi reali tratti costitutivi: la terza fase della rivoluzione industriale, caratterizzata dalla mondializzazione, dalla rivoluzione informatico-digitale, dalle profonde novità delle scoperte scientifiche e delle loro applicazioni (presumibili o già in atto), è qualcosa di cui solo ora ci si comincia a rendere veramente conto. Non è un fenomeno che riguarda solo il design. Il problema è, appunto, cosa significa progettare oggi, in una società investita da profonde trasformazioni (ma occorre ricordare che interrogativi analoghi si sono posti, in modi ogni volta diversi, anche in ognuna delle precedenti fasi della rivoluzione industriale). Da un lato i processi di modernizzazione si estendono ormai a tutto il mondo; d’altro canto, svaniscono progressivamente permanenze, tradizioni, eredità, identità e appartenenze. Ci si trova così immersi in una ‘società progettante’, nel senso che il progetto diventa sempre più un’attività che permea la nostra esistenza: ognuno deve progettare tutto, dalle proprie vacanze al proprio lavoro alla propria vita, oltre al mondo che lo circonda.
Riguardo al design, alcuni tendono a trascurare con sufficienza le tendenze sottolineate all’inizio, non considerandole novità significative; si può invece ritenere che esse siano indicative del nuovo scenario, anche se certo non lo esauriscono. Da un lato, oggetti di design vengono proposti con nuove modalità: per i prezzi, per il fatto di essere commissionati da un gallerista, possibilità prima riservata solo agli artisti, per essere collocati negli spazi espositivi dell’arte. Per un artista-teorico delle avanguardie storiche come Marcel Duchamp, tutto ciò sarebbe stato sufficiente per affermare che di arte si tratta. Questo processo tende ad agire come traino per quel design che propone consumi di lusso. Dall’altro lato, invece, il design cerca di recuperare un suo scopo, una sua necessità, un senso etico, anche se a volte, come si vedrà in seguito, ciò avviene in modi impropri e non condivisibili, a prezzo della rinuncia a una concezione complessa e complessiva di progetto. Etica ed estetica: il loro rapporto, anzi il loro dissociarsi, sembra essere uno dei temi più significativi nella situazione odierna.
Etica ed estetica nel design
L’ipotesi prima formulata è che il rapporto tra etica ed estetica costituisca il nucleo fondativo del design e che possa essere utile muovere da esso per indagare come il design vada collocandosi nei nuovi scenari della contemporaneità. D’ora in poi, quando si parlerà di estetica, ci si riferirà non solo e non tanto alla riflessione sull’arte e sul bello, quanto al significato etimologico della parola che implica la percezione e l’esperienza degli aspetti e dei valori delle cose.
Design significa progetto, termine che deriva dal latino tardo proiectare, frequentativo di proicere, che vuol dire «gettare in avanti». In questo senso, il progetto implica scelte sul nostro futuro. Ma è utile fare riferimento più in generale alla nozione greca di techne, cui corrisponde quella latina di ars: il design è una techne (una ars) che, secondo la definizione aristotelica, «riguar-da la produzione, e il cercare con l’abilità e la teoria co-me possa prodursi qualcuna delle cose che possono sia esserci sia non esserci e di cui il principio è in chi crea e non in ciò che è creato; infatti l’arte (la techne) non riguarda le cose che sono o che si producono necessariamente, né per natura, in quanto queste hanno il loro principio in sé stesse» (Etica Nicomachea, VI, 1140 a).
Il principio è in chi crea, non è nel prodotto e non è nella natura: è nelle scelte dell’artefice, artigiano, artista, progettista/designer nel nostro caso. Si pone così il tema delle scelte progettuali, che sono scelte etiche ed estetiche. Assumere la definizione di design come techne è certo un’ipotesi di lavoro. Ma va ricordato come sarebbe interessante approfondirla di fronte a interrogativi come quello posto dallo storico dell’arte Arturo Carlo Quintavalle (Enzo Mari, 1983, p. 34) che non considera utile la definizione di industrial design – posizione ripresa più recentemente in modi diversi da Andrea Branzi (2008, pp. 10-11) – affermando che forme di produzione industriale e seriale sono sempre esistite. Il vero problema, però, sembra essere un altro: da quando la produzione industriale è diventata il tratto dominante della nostra formazione economico-sociale? Ciò sembra essere avvenuto a partire dalla metà del Settecento, con la prima fase della rivoluzione industriale. E in secondo luogo: società industriale non significa solo un sistema di produzione, ma anche di distribuzione, consumo, comunicazione. È in questo quadro che i designer si trovano a operare.
Ma l’ipotesi prima formulata circa il nocciolo costitutivo del design, permette di ragionare su un altro aspetto della questione. La techne (il progetto) e, in particolare, la figura del progettista si sono modificate radicalmente con l’avvento del capitalismo e soprattutto della rivoluzione industriale. Il designer, a differenza dell’artigiano, si è collocato al di fuori del processo produttivo e con ciò teorie e metodi del progetto non solo si sono modificati progressivamente, ma hanno aderito sensibilmente ai caratteri delle successive fasi della rivoluzione industriale. Non si è trattato di sostituire senza residui, di fase in fase, un nuovo modello di design a quello in essere nella fase precedente. In ognuna delle fasi, il modello prima dominante è stato sostituito da nuove modalità di manifestazione del design, mentre permangono modalità precedenti inglobate nel nuovo scenario (che quindi aumenta progressivamente in complessità, cosicché è sempre più difficile parlare di una o di alcune tendenze dominanti, in particolare di quelle stilistiche).
Un nuovo sistema internazionale e la design art
Negli anni passati, antiquari e case d’asta hanno in buona parte esaurito le testimonianze del Liberty e dell’Art déco; è cresciuto così l’interesse verso gli oggetti di design appartenenti alla prima metà del Novecento, sempre più spesso battuti nelle aste a partire da cifre di centinaia di migliaia di euro e più.
In seguito, antiquari e mercanti d’arte hanno visto la possibilità di creare un nuovo mercato per gli oggetti degli anni Ottanta, quando è dilagata la tendenza alla progettazione di pezzi singoli e di piccole serie d’autore. Novità ulteriore è che negli ultimi anni vengono commissionati oggetti d’arredo ad hoc, non solo dalle gallerie e non solo ai designer. Per fare qualche esempio, al Salone del mobile del 2006 a Milano, Dolce & Gabbana hanno presentato a prezzi rilevanti poltrone-scultura commissionate a Ron Arad. Ma, di converso, la Carpenters workshop gallery, galleria d’arte di Londra, ha commissionato panche e tavoli di marmo non a un designer, ma a Marc Quinn, uno degli esponenti più interessanti della Young British art. Nel frattempo sono nate nuove gallerie, per es. a Berlino, dedicate alla vendita di limited editions di design. Infine Gagosian ha aperto nella sua galleria di New York una mostra di pezzi unici direttamente commissionati a Marc Newson. E una dormeuse in alluminio di Newson, la Lockheed lounge, è diventata un’icona anche per essere apparsa in un video di Madonna (Rain, 1998): in questo caso, come si vede, la circolarità mediatica diventa esemplare.
Si assiste all’intreccio di una serie di rimandi tra gallerie e case d’asta, aziende di moda, multinazionali del lusso, musei, artisti e designer. Un nuovo sistema internazionale all’interno del quale i clienti sono in buona parte i nuovi ricchi dei Paesi emergenti o esponenti dello star system internazionale.
Sul mercato, quindi, si presentano oggetti di design come una nuova ‘merce estetica’, valutata con cifre tipiche del mercato dell’arte. È la design art, presente in fiere, saloni, gallerie e mostre: dalla fiera Design Miami/Basel alla FIAC (Foire Internationale d’Art Contemporain) di Parigi, dalla London art fair ai musei di Shanghai. Tra i designer più quotati, oltre ai già citati Newson (n. 1963), Hadid (n. 1950) e Arad (n. 1951), Marcel Wanders (n. 1963), Ross Lovegrove (n. 1958), Tom Dixon (n. 1959), i fratelli Ronan (n. 1971) ed Erwan (n. 1976) Bouroullec, Tord Boontje (n. 1968), Jasper Morrison (n. 1959). È un fenomeno che appartiene al mondo del furniture design, ma non solo. In architettura, negli ultimi anni, si è affermata la progettazione delle archistar: architettura degli effetti speciali, brand architecture e così via, secondo le definizioni dei media. Sono arredi e architetture firmate, ‘stimoli visuali’ che cercano l’impatto comunicativo proponendo l’insolito, l’anomalo, l’eccedente, oggetti dall’espressività accentuata o, al contrario, dal minimalismo ostentato, che si propongono come icone di una nuova spettacolarizzazione del quotidiano, capaci di ‘bucare lo schermo’ della società delle ipermerci (Carmagnola, Ferraresi 1999). In questo ambito la tradizione delle avanguardie riemerge, ma esclusivamente per l’impatto visivo, svuotata dei suoi significati etici, di protesta, di polemica, di simbolismo esoterico: in gran parte si tratta della tradizione espressionista di Bruno Taut, di Hans Scharoun, di Hermann Finsterlin, di Michael de Klerk, che tra gli anni Dieci e i Venti del secolo scorso aveva rappresentato il contraltare alla tendenza razionalista.
La design art è certo fenomeno di nicchia: sarebbe però interessante analizzare cosa essa rappresenti per il ridefinirsi del sistema dell’arte, l’allargamento del suo mercato e, in definitiva, della nozione stessa di arte. Si prenda brevemente in esame un altro aspetto della questione. Anni fa sono nate le ‘finanziarie del lusso’, molto attente e attive anche sul terreno dell’arte. Tra queste, PPR (Pinault Printemps Redoute con Gucci, McQueen, Saint Laurent ecc.) di François Pinault, che possiede la casa d’arte Christie’s e utilizza l’arte come legittimazione del lusso: proprietario dal 2005 di Palazzo Grassi a Venezia, che ospita la sua collezione d’arte contemporanea, ha acquisito nel 2007 i diritti di Punta della Dogana, sempre a Venezia, creando un nuovo Centro d’arte contemporanea firmato da Tadao Ando e inaugurato nel 2009. Esiste poi l’altro polo, LVMH Moët Hennessy-Louis Vuitton (profumi, orologi ecc.) promotore del Prix science pour l’art e del LVMH Young artists award. Così l’intreccio fra arte, architettura, moda, design, sotto la cupola del lusso, agisce a livello internazionale.
Ma esiste un altro livello di funzionamento del sistema di cui tener conto. A tale livello operano una serie di aziende design oriented, in particolare quelle italiane di arredamento, sollecitate a cercare spazio sui nuovi mercati globalizzati. In media sono piccole, hanno capitali insufficienti ad affrontare la nuova sfida, con i costi di distribuzione, comunicazione, e non solo, che ciò comporta. In questo trova spiegazione il nuovo interesse delle società finanziarie, che ritengono il made in Italy un logo spendibile sui mercati mondiali, cosa che le singole aziende hanno difficoltà a fare.
Le finanziarie e le loro aziende mirano a presentarsi sui mercati internazionali con oggetti i cui alti prezzi ricevono legittimazione dal fatto che i designer delle aziende di furniture design sono in parte gli stessi presenti sui mercati della design art. Così le aziende più note collaborano spesso con quei designer dello star system i cui oggetti vengono battuti nelle aste. Le poltrone di Arad per Dolce & Gabbana vengono tradotte in versione di serie, ai prezzi del mercato dei ‘mobili di design’, da una nota azienda, Magis. E Tokujin Yoshioka (n. 1967), vincitore nel 2007 del premio come designer dell’anno al Design Miami (nella cui sede ha progettato un visionario allestimento), ha lavorato per industrie italiane come Driade e Moroso, dopo essere stato il progettista degli show-rooms dello stilista Issay Miyake.
Esiste un’altra tendenza a questa collegata. Le aziende di arredamento si rendono conto del valore dei loro pezzi ‘storici’ più singolari che, usciti di produzione, sono comparsi nei negozi del cosiddetto modernariato: tendono così a rimetterli in produzione, spesso come edizioni limitate. Più in generale molti oggetti, cellulari, orologi, lettori di musica digitale tendono a essere prodotti e presentati come oggetti di design limit-ed edition e, in quanto tali, come oggetti di lusso, luxury design. Così, per poter competere sui mercati globalizzati, gli oggetti vengono investiti in modo crescente dai processi di estetizzazione attivati dal design. Estetizzazione del quotidiano in cui si esprime, e forse si spegne, il sogno delle avanguardie di far coincidere arte e vita: mentre si generalizza quell’idea del design come cosmesi, alla quale si è accennato in precedenza.
Del resto il settore più protetto sui mercati internazionali è quello del lusso, terreno sul quale sembra possibile evitare la concorrenza internazionale e (forse) rimanere al riparo dalla crisi. E le aziende italiane design oriented, in grande maggioranza, hanno sempre operato su livelli alti e medio-alti del mercato. Lo slittamento ulteriore verso il lusso, ossia quella fascia del mercato dove ciò che conta è l’impatto visivo ed è il prezzo che garantisce il ‘valore’, ha però bisogno di legittimazione, e questa può fornirgliela l’arte. Tutto ciò agisce particolarmente sui mercati e sulle élites emergenti nei Paesi di nuovo sviluppo, come la Russia, la Cina, l’India, gli Emirati Arabi.
Parallelamente si assiste alla crescente importanza dei musei, che tendono a diventare emergenze estetiche come nuovi catalizzatori territoriali e urbani (da Bilbao a Dubai). E cresce, non solo in Italia, la tendenza ad aprire nuovi musei per l’arte contemporanea, contenitori ideali anche per quella che è stata definita nuova merce estetica. L’attenzione dei musei per il design è notevolmente cresciuta e non solo da parte di grandi istituzioni come la fondazione Solomon R. Guggenheim, il MoMA (Museum of Modern Art) di New York o il Centre Georges Pompidou di Parigi, ma di tutta una serie di musei nel mondo: il nuovo Museum of Arts and Design (MAD) e il Cooper-Hewitt National Design Museum, entrambi a New York, ma anche altri situati un po’ ovunque, da Copenaghen a Shanghai, da Reykjavik a Pechino.
In definitiva stiamo assistendo al combinarsi di due fenomeni di segno opposto. Sembra vero, infatti, che il ‘depotenziamento’ dell’arte nella contemporaneità, e parallelamente l’estetizzazione del quotidiano promossa dal design, comportino in modo crescente un dominio del visuale, a conferma di quello che anni fa diceva il grande storico dell’arte Martin Kemp: «L’arte, nelle sue manifestazioni consuete, farà parte di un contesto molto più ampio, nel quale essa diviene quasi una sotto categoria appartenente a una enorme varietà di manufatti creati per fornire stimoli visuali» (Towards a new history of the visual, 1990; trad. it. 1999, p. 20). Ma c’è un secondo aspetto di cui tener conto. L’arte conserva, nell’immaginario collettivo, quel prestigio a cui allude Catherine Millet, quando scrive che l’arte contemporanea è «un polo di attrazione, verso cui tendono oggi il design, la moda, la comunicazione, tutte attività che tentano di acquisire lo stato di arte» (2006; trad. it. 2007, p. 144). E Quintavalle osserva come «un collezionismo privato trainato dalle gallerie, dalle aste a queste collegate e dai musei […] fa sì che la fotografia, nata come suggeriva Benjamin per distruggere l’aura che circonda l’opera d’arte […] diventa merce d’élite» (L’obiettivo della fotografia: diventare merce d’élite, «Corriere della sera», 5 genn. 2008, p. 41). L’arte, così, diventa legittimazione di un design inteso come ‘merce d’élite’, il cui valore si misura sulle cifre iperboliche con cui sono pagati pezzi unici di designer o oggetti prodotti, per lo più in piccole serie, dalle aziende più esclusive design oriented.
Il design e i design
Si cercherà ora di approfondire il panorama odierno del design, in questa difficile contemporaneità, ancor più difficile da decifrare in quanto segnata dalla crisi in atto. Tradizionalmente il design veniva classificato mediante un aggettivo qualificativo: i casi erano pochi, fondamentalmente industrial design e product design, quasi sinonimi, e visual design; oppure con un complemento di specificazione: car design, furniture design e così via. Oggi il design, riprendendo una classificazione introdotta da Arthur C. Danto per l’arte contemporanea in After the end of art (1997; trad. it. 2008), può essere classificato secondo due aspetti. Il primo si può definire connotativo (o ‘intensionale’): si parla di design art, luxury design, strategic design, design for all, e-design, human-centered design, design for sustain-ability, social design e molto altro. Vi è poi l’aspetto denotativo (o ‘estensionale’), che si articola in molte direzioni. Ecco le principali.
Si è molto parlato dell’estensione tipologica del design, stimolata dalle esigenze di competizione sui mercati mondiali. In Italia, almeno dopo gli anni Sessanta del secolo scorso, quando è iniziata la crisi delle industrie di elettrodomestici, di macchine da scrivere e da calcolo e così via, si è inteso per design principalmente il furniture design. Ma oggi i designer, in Italia e nel mondo, progettano mobili e automobili, motociclette e imbarcazioni, cellulari e lettori di musica digitale, packaging e occhiali (e si veda l’importanza dell’industria degli occhiali nel nostro Paese), e molto altro.
Si osservi, inoltre, la crescita di arredi e allestimenti per spazi interni e centri di vendita multifunzionali, alberghi, luoghi di accoglienza, culturali, di svago, fiere e loro padiglioni. La distanza tra furniture, interior ed exhibit design tende a scomparire nella progettazione di quegli spazi interni attrezzati che sempre più caratterizzano la vita associata e collettiva nelle aree urbane. Quegli stessi spazi all’interno dei quali risiede dal 2008, per la prima volta nella storia, più della metà della popolazione mondiale.
L’intensificarsi della ricerca di qualità visiva, fino alla spettacolarizzazione, investe non solo gli oggetti, ma gli ambienti e gli scenari della vita quotidiana. Design quindi significa oggi progettazione di artefatti tridimensionali, ma non soltanto di prodotti industriali-seriali in senso stretto. Non bisogna dimenticare, però, che mai come in questo inizio di secolo si è assistito alla crescita dell’industria a livello mondiale, e non solo nei Paesi emergenti, dall’India alla Cina ai Paesi dell’ex Unione Sovietica. Persino in alcuni Paesi africani, grazie all’intervento massiccio di capitali in buona parte cinesi, è in aumento la realizzazione d’infrastrutture e d’imprese industriali. Quindi la progettazione di prodotti industriali è ancora tema di grande rilievo.
Infine design significa progettazione di artefatti visivi, grafica editoriale, artefatti per il web, informativi, comunicativi, virtuali. E la distanza tra progettazione di artefatti tridimensionali e progettazione di artefatti visivi tende a scomparire: è nel rapporto tra comunicazione visiva e materialità del prodotto che si gioca ormai la competitività. Acquista quindi importanza determinante la progettazione della corporate image per aziende ed enti, privati o pubblici, e come strategia per la valorizzazione delle risorse territoriali. Anche in questo gli anni Ottanta del secolo scorso sono stati determinanti. Hanno visto le aziende della moda imporsi con nuove strategie comunicative in cui la sfilata, trasformata in evento-spettacolo, ha acquistato un ruolo centrale; successivamente, l’uso delle esposizioni d’arte e la ripresa forte della brand architecture (per es., Prada), sono diventati elementi fondamentali della costruzione dell’identità aziendale. D’altro canto, negli anni Ottanta si sono affermate alcune strategie in grado di imporre un’immagine vincente di aziende nuove o in trasformazione (Mendini per Alessi o Swatch) sul mercato internazionale. È cresciuto quindi il ruolo del designer come progettista capace di coordinare un’attività complessa che si sviluppa in modo processuale dal marchio ai fonts, dal packaging agli stand nelle fiere, dai cataloghi alla fotografia, dalla grafica alla pubblicità, ai prodotti stessi (che devono essere in rapporto con l’immagine complessiva dell’azienda o del territorio interessato): fino all’ideazione di eventi, che diventano il nucleo propulsore della comunicazione complessiva. Così, artefatti tridimensionali e artefatti visivi sono sempre più interconnessi, e la progettazione dei nuovi scenari visivi si intreccia con l’arte, la fotografia, il video, il web.
Corporate image e design strategico
I progetti di corporate image si sono sviluppati nel corso del 20° sec. fondamentalmente all’interno della cultura del design, dalle esperienze di Peter Behrens per l’AEG in Germania nel primo decennio del secolo, fino alle straordinarie pratiche messe in atto da Adriano Olivetti e dalla scuola di Ulm negli anni Cinquanta e Sessanta. Dagli anni Ottanta si è però affermato il concetto di design strategico che, in varie accezioni, è diventato uno dei temi forti del periodo contemporaneo. La progettazione di corporate image ha sicuramente aperto al tema del design strategico, ma quest’ultimo ha proposto un’idea di programma differente, terreno di frontiera e combinazione tra design, marketing e management. Tale pensiero ha avuto grande influenza in Italia, sia per le caratteristiche specifiche del nostro Paese, sia per l’emergere negli ultimi anni di innumerevoli corsi universitari di design. Si sta assistendo a un progressivo aumento del numero dei designer nei vari Paesi del mondo. In Italia, l’introduzione dei molti corsi di laurea in design, insieme alla crescita delle scuole private, ha moltiplicato il numero dei designer. Si è passati da una professione d’élite, caratterizzata da un ristretto numero di progettisti, in gran parte architetti nelle città del Nord, a una nuova situazione di diffusione di giovani progettisti, distribuiti in modo assai meno squilibrato tra il Nord e il Sud. Si tratta di una tendenza non solo italiana, quanto di un aspetto della terza fase della rivoluzione industriale. Scrive Manuel Castells: «Nel mondo del lavoro […] la capacità autonoma di produzione, innovazione e gestione sta diventando il capitale principale delle aziende. Nel caso delle piccole e medie imprese, quello che conta è l’iniziativa individuale e la capacità di innovare. Ma anche le grandi aziende sempre più spesso cercano il ‘talento’. Avere talento non equivale a essere qualificati. Il talento comporta qualcosa di più, una scintilla d’innovazione, la capacità di gestire in autonomia i diversi progetti dell’impresa e di crearne di nuovi». E aggiunge che proprio per questo oggi «scuola e università hanno soprattutto il compito di contribuire a formare personalità autonome in grado di trovare ed elaborare le informazioni necessarie per qualsiasi progetto professionale, ma anche personalità con dei valori – pochi, ma saldi – per essere in grado di gestire i costanti e complessi cambiamenti degli stili di vita» (Società dell’autonomia, «Internazionale», 2007, 713, p. 17). Il punto è proprio questo. I territori, in particolare in una situazione come quella italiana, hanno risorse produttive (la rete di piccole e medie industrie), turistiche, culturali, enogastronomiche da valorizzare; molto spesso, però, né le imprese né tanto meno gli enti pubblici sono provvisti del know-how necessario per valorizzare tali risorse. Oggi ciascun territorio è sempre più un nodo di una rete mondiale e deve riuscire a interagire con essa e a connettersi con gli altri suoi nodi; altrimenti finisce per deperire o per continuare in una nostalgica contemplazione delle proprie potenzialità, senza valorizzarle. La crescente presenza di giovani designer è uno degli strumenti principali che può permettere di valorizzare le risorse di un territorio, aiutandolo a inserirsi nella rete mondiale.
Esiste però un forte rischio: la concezione di design strategico e la formazione scolastica relativa sembrano abbandonare progressivamente il terreno del progetto per concentrarsi su tecniche di tipo organizzativo- manageriali con un’ottica ‘operazionista’, nel senso che il progetto viene ridotto all’elenco delle operazioni che sarebbe necessario mettere in atto per raggiungere l’obiettivo fissato. Il rischio è quello che si formi una generazione di nuovi designer con qualche esperienza nella mappatura dei dati e nell’organizzazione delle operazioni in diagrammi di flusso, ma con la tendenza a non raggiungere mai il momento progettuale, e nemmeno quello metaprogettuale (se questo viene inteso come organizzazione di dati finalizzata al progetto): una sorta di nuovi funzionari territoriali, meno preparati dei laureati in scienze socioeconomiche, meno esperti tecnicamente dei laureati in informatica. Potranno essere probabilmente di qualche utilità in funzione di ricambio della obsoleta burocrazia esistente, ma appaiono privi delle competenze necessarie per agire come designer all’interno di gruppi di specialisti, o come registi di gruppi di competenze di vario tipo. Questo sempre nell’ottica che l’obiettivo del design sia quello di elaborare progetti basati sulla complessità che il termine implica: complessità capace di tenere insieme quel rapporto tra etica ed estetica sul quale si è insistito.
Diversa, più articolata, ricca e interessante, ma non esente dai rischi cui si è accennato, è la tendenza che emerge sia da Utrecht manifest-Biennial for social design, nata nel 2005, sia da Doors of perception (dal titolo del famoso libro di Aldous Huxley del 1954), il network internazionale di progettisti diretto da John Thackara, nato nel 1993 come indagine sul futuro del design. Tra i temi discussi quello riassunto da Thackara nei seguenti termini: «I sistemi mondiali relativi al cibo sono un esempio estremo di quelle rovinose attività economiche che esemplificano lo svantaggio della globalizzazione. Il trasporto, la lavorazione, il packaging e la distribuzione del cibo, consumano dieci volte l’energia che entra nei nostri corpi come nutrimento» (http://www.doorsofperception.com/juice/archives/_home_news/doors_9_press_release.php; 18 genn. 2010). Si nota qui la posizione tendenzialmente no global e la tensione di Thackara verso forme complesse di design strategico (o di strategie per il design). Ma qui sembra anche ripresentarsi l’illusione di un design che, sostituendosi alla politica, si faccia demiurgo di una nuova strategia dello sviluppo capitalistico, o anticapitalistico che dir si voglia. Tale illusione sembra rafforzata da una paradossale lettura della crisi in atto come catarsi collettiva, che condurrà inevitabilmente a una riorganizzazione economico-sociale basata su valori di ecosostenibilità e di anticonsumismo comunitaristico.
Di diverso tipo, ma forse non di diverso segno, sono quelle ricerche in corso che assegnano al designer il ruolo di organizzatore o sostenitore di comunità ‘creative’, gruppi di persone che affrontano le peripezie della quotidianità mettendo in atto comportamenti eco e sociosostenibili per quanto riguarda le energie alternative e la cosiddetta economia verde, il car sharing, il co-housing, le reti di coproduttori. Qui il ruolo assegnato al designer è quello di facilitator di gruppi che certo di facilitators hanno bisogno (data la loro frequente instabilità o difficoltà a ‘fare comunità’): ruolo che però sembrerebbe più adatto a esperti di psicologia di gruppo, di economia territoriale o di sociologia ambientale. Certo, un designer può essere visto anche come un elaboratore di soluzioni: queste però, il più delle volte, non vanno al di là di proposte di tipo organizzativo, mentre sarebbe più opportuno se in queste situazioni un designer operasse con gli strumenti progettuali che gli sono propri. In ogni modo, sarebbe importante non ritenere il designer una professione che, ‘creativa’ per definizione, è adatta a risolvere ogni problema. L’affermarsi di questa concezione finirebbe per avere conseguenze deleterie anche sugli orientamenti nell’ambito della formazione scolastica.
Come si vede, ci troviamo ancora una volta di fronte a ricerche nutrite di tensione etica, ma poco credibili nella loro possibilità di incidenza concreta sulla realtà. In ogni caso anche qui, come negli aspetti del design strategico al quale si è prima accennato, la tendenza è quella di formare figure professionali, o professional-politiche, con un’idea di design come strategia di tipo organizzativo-manageriale, che appare rinunciare alla complessità del progetto, specialmente per quanto riguarda le sue componenti estetiche, figurative, comportamentali, sensibili, ‘costruttive’ (che, del resto, alle altre appaiono ovviamente connesse).
Ecodesign
Esiste un’ulteriore vocazione alla quale abbiamo accennato all’inizio: si tratta dell’ecodesign o design per la sostenibilità ambientale. È una tendenza sempre più diffusa, almeno per due ordini di motivi. Da un lato essa risponde all’esigenza di recuperare senso alla progettazione, con una scelta di impegno etico in direzione della nuova sensibilità ai problemi ambientali, sempre più diffusa. Dall’altro, essa appare oggi orientare le scelte di molte aziende sia, si spera, per reale acquisizione di responsabilità, sia perché si tratta di un argomento largamente spendibile in termini di pubblicità e di marketing. Occorre quindi considerare caso per caso, per poter distinguere quanto consista in scelte reali dettate da consapevolezza ambientale, e quanto in strategie di vendita. Il ricorso ad argomenti ecologici si va talmente diffondendo che in molti casi (come a volte nella moda) si parla di ecochic o di fashion-green. In ogni modo, il tema della progettazione di prodotti ecocompatibili è oggi molto presente e il design per la sostenibilità ambientale è al centro di diversi settori di ricerca, convegni, mostre, corsi universitari. Ma se cresce l’attenzione alla progettazione di manufatti ecocompatibili, cresce anche la tendenza all’elaborazione di strategie che in molti casi rinunciano al design di artefatti, presentando anche qui un forte rischio. Mentre si fa strada un’aspirazione etica che, in modi diversi e contraddittori, ha sempre permeato la storia del design, molti degli orientamenti di cui si sta parlando, specialmente sul terreno ecologico o comunitario, puntano a recuperare di quella storia soprattutto la tradizione antindustriale e antiurbana (a partire dalle nostalgie antilluministe e antimoderne ottocentesche di John Ruskin). In una non trascurabile parte del panorama culturale odierno riaffiora la tradizione della cultura romantica, antitecnica, antindustriale e antiurbana, centrata sul concetto di ‘comunità identitaria’. Sono posizioni che, se estremizzate, corrispondono a quell’utopia espressa da William Morris nel suo libro News from nowhere (1890), dove s’immagina un’Inghilterra liberata dallo sviluppo tecnico indotto dalla rivoluzione industriale, senza treni, né ponti, né città, organizzata in villaggi-comunità.
È una temperie culturale diffusa, critica tout-court della mondializzazione in atto più che dei modi con cui essa si sviluppa, negativa verso la tecnologia e la velocità con cui essa va modificando il mondo e la vita quotidiana, in ultima analisi antilluministica e antiscientifica, tesa al recupero di valori comunitari, identitari, affettivi e sentimentali, secondo la tradizione romantica. Essa esprime in particolare il rifiuto della modernizzazione nei suoi aspetti di dissoluzione delle relazioni basate sulle comunità: Missing community si intitola un libro di Bauman (2000). Già tempo fa Tomás Maldonado osservava una tendenza secondo cui «si ripudia in blocco il modello di sviluppo delle società industriali. Ma taluni vanno oltre e arrivano a negare qualsiasi forma di sviluppo» (Disegno industriale. Un riesame, 1976, p. 88). Una teorizzazione che si muove in questa direzione è quella dello storico Serge Latouche che in una serie di saggi si batte per una ‘decrescita serena’ e dà istruzioni su come sopravvivere allo sviluppo. Uno dei suoi lavori si intitola Survivre au developpement. De la décolonisation de l’imaginaire economique à la construction d’une société alternative (2004; trad. it. 2005) e indica, come alternativa allo sviluppo, la decrescita condivisa e il localismo. Decolonizzazione dell’immaginario come lotta al capitalismo che costringe i consumatori a trasformarsi in macchine desideranti inutili bisogni; stop alla crescita prodotta dall’ossessiva ricerca di innovazioni tecnologiche, con relativo devastante impatto ambientale; ritorno a comunità locali con identità condivise che aderiscano a un’idea di decrescita condivisa. Non è chiaro come si possano convincere non solo i Paesi ricchi, ma anche i Paesi di nuovo sviluppo, o quelli poveri con speranza di uscire dalla povertà, a ritornare alla situazione precedente, ad auspicare una ‘decrescita condivisa’. Si domanda Carlo Formenti come si possa «invertire il flusso del tempo», «‘rilocalizzare’ economia e politica contenendole nei limiti di entità spaziali omogenee», «immaginare che il processo di globalizzazione […] possa essere ricacciato nella bottiglia» (La dittatura ecologista auspicata da Latouche, «Corriere della sera», 22 marzo 2008, p. 41). Forse soltanto con l’imposizione, con forme di ‘ecototalitarismo’, che però anche Latouche auspica si possano evitare, insistendo sulla necessità che i nuovi obiettivi debbano essere condivisi.
Social design
All’inizio si è accennato a quella tendenza che va sotto il nome di social design. Secondo il sociologo Harvey Molotch «per gran parte degli oggetti, la soluzione è quella di costruirli in modo da distruggere meno natura, in circostanze socialmente accettabili e con una obsolescenza ecocompatibile» (2003; trad. it. 2005, p. 300). E Victor Margolin sottolinea: «possiamo considerare social design quello che contribuisce al bene sociale […]. Così uno degli obiettivi del social design è di raggiungere coloro che attualmente non beneficiano del design. Un altro è di produrre beni e servizi che evitano gli effetti negativi di gran parte di ciò che attualmente produciamo» (http://www.changingthechange._org/blog/category/newsletter_01/; 18 genn. 2010).
In molte tendenze di oggi, e nella serie di progetti a esse correlate, sembra emergere una ricerca, sempre più presente tra i giovani, tesa a definire i criteri per ridare senso al progettare contemporaneo, al di là dei processi di estetizzazione in atto.
La ricerca della semplicità. In alternativa ai processi di estetizzazione, secondo alcuni non si può non prendere atto di fenomeni dal crescente successo, come l’IKEA. Come ha detto Ellen Lupton, curatrice per il design contemporaneo del Cooper-Hewitt National Design Museum di New York, IKEA ha arredato le case della fascia economica dei consumatori dall’Europa alla Corea al Brasile, contribuendo «a far accettare la modernità nella casa […] più che il resto del mondo del design nel suo insieme» (J. Turrentine, The Swede smell of success, «Washington post», 24 febbr. 2005). Una rivista cult come «Icon» ha pubblicato una lista di ventuno oggetti, aziende e persone più influenti nel dar forma al design odierno, e IKEA è risultata al primo posto (21 most influential, «Icon», 2005, o21). E Lupton aggiunge: «IKEA porta il moderno design alle persone di mezzi modesti. È l’ideale del Bauhaus divenuto realtà». Di quest’ultima proposizione si può dubitare, soprattutto se si pensa al Bauhaus riassunto da Walter Gropius nella formula ‘arte e tecnica’. Un po’ più plausibile essa appare se si pensa alla formula che pone il design come ‘economia × funzione’, proposta da Hannes Meyer, successore di Gropius alla direzione del Bauhaus (1928), che però aveva ben diverse finalità politico-culturali. In ogni modo, il problema posto in evidenza dalla Lupton è reale. E si tenga conto che IKEA, con un fatturato che vale quello di una buona ditta di design italiano moltiplicato duecento volte, non si limita a produrre in Svezia e vendere nel resto del mondo. Persegue sempre più la politica di produrre vicino al luogo dove distribuisce: e un numero crescente di aziende italiane di mobili lavorano per IKEA, che nel 1995 ha proposto un suo manifesto in cui si autodefiniva ‘design democratico’. In Cina è stata attaccata come imperialist design, ma la realtà è più semplice. IKEA agisce da tempo sul mercato mondiale, e il suo target economico è basso o medio-basso (pur riuscendo a interessare anche consumatori più sofisticati), mentre il target delle aziende italiane di design è alto o medio-alto. Ne derivano strategie di prodotto differenti, ma è solo una questione di target, non di diversa ricerca di qualità per futuri diversi. E sia design imperialista sia design democratico sono formule di marketing indovinate, parallele a quella che dice: «IKEA takes Bauhaus to your house». Si parla di mercato e di strategie aziendali, non di avanguardie o di costruzione di futuri possibili.
È necessario però esaminare anche una serie di ricerche che sembrano voler prendere le distanze dall’elaborazione formale intesa come espediente per sedurre i consumatori e ‘bucare’ i media. Si tratta di ricerche che tendono a una riduzione della forma per far riemergere il senso del progetto; forse si può definire un ritorno di attenzione alla semplicità negli oggetti e nei progetti.
Vale la pena accennare ad alcune mostre che cercano di orientare il discorso in questa direzione. Nel 2004 Paola Antonelli, curatrice del dipartimento di Architettura e Design del Museum of Modern Art di New York, ha curato la mostra e la pubblicazione a essa correlata Humble masterpieces, ovvero umili capolavori; fra questi compaiono un pallone da calcio, il codice a barre, il Post-it, il bicchiere di carta usa e getta, i mattoncini Lego, il Tampax, la puntina da disegno, la cerniera zip, il coltellino svizzero, il Walk-man e lo Swatch. E i designer Jasper Morrison insieme a Naoto Fukasawa hanno curato la mostra Supernormal. Sensations of the ordinary, allestita prima a Tokyo nel giugno del 2006, successivamente a Londra e nel 2007 a Milano, dove hanno esposto oggetti anonimi o tanto «anonimamente usati tutti i giorni, da risultare invisibili», come afferma lo stesso Fukosawa (N. Fukosawa, J. Morrison, Supernormal, 2007), oggetti che prescindono dal loro impatto visuale mentre appartengono ampiamente alla quotidianità: la Moka Bialetti, la clip metallica per i fogli, la penna Bic o il cesto per la biancheria.
Parlando poi di progetti, molto diverso dallo slogan di IKEA è il concetto di ‘design democratico’ presente in un’iniziativa della catena di distribuzione Coop, promossa da Giulio Iacchetti con la partecipazione di un altro gruppo di giovani designer, che dal 2005 presenta nei suoi negozi una collezione di oggetti d’uso quotidiano molto economici, dalla molletta per i panni alla bacinella per il bucato. Iacchetti ha poi sviluppato ulteriormente il progetto ed è stato quindi incaricato di coordinarlo. Per i giovani designer si delinea la possibilità di trovare un senso per il loro operare, al di là della generale tendenza all’estetizzazione degli oggetti sul mercato del lusso. È una strada interessante, soprattutto perché nasce dalla collaborazione tra designer e una grande azienda e, senza grandi illusioni, riapre un discorso in cui la semplicità degli oggetti corrisponde a un’attenzione per la funzione e per i materiali. È certo un tentativo che attende una verifica, anche dal mercato. Ma vi si può leggere una tendenza presente nel design odierno: l’esercizio di un pragmatismo progettuale che abbandona le utopie delle avanguardie del 20° sec. per concentrarsi sulla reale fattibilità di progetti utili a molti, con la riaffermazione della volontà di progettarli senza rinunciare alla qualità formale. Rifiutando quindi un’idea per cui l’etica si dissocia dall’estetica in nome delle esigenze dei meno abbienti, per i quali la qualità estetica sarebbe inutile, mentre dovrebbe restare patrimonio dei consumatori dei Paesi di più antica industrializzazione o di fascia alta.
Design e tecnologia. Sempre all’inizio si è accennato alla mostra del 2007 presso il Cooper-Hewitt Nation-al Design Museum di New York, intitolata Design for the 90% of the world, con riferimento al libro citato di Papanek (Design for the real world, 1971). Con essa è riemersa una tendenza che ha avuto in Papanek (1925-1999) il suo più autorevole esponente. Egli riteneva, con grande ottimismo, che i designer fossero in grado di produrre profondi cambiamenti nel mondo. La mostra ha presentato una serie di progetti per le aree del pianeta afflitte da gravi problemi, dalla sopravvivenza all’inquinamento o alla scarsità d’acqua, fino alla necessità di rafforzare elementi germinali di sviluppo potenziale. Tra questi progetti è possibile individuare due tendenze progettuali.
La prima, vicina alle indicazioni di Papanek, vede progetti di semplice utilità, realizzati con materiali e tecniche elementari (un contenitore a ruota, quindi trainabile con facilità, per trasportare l’acqua; una pompa d’irrigazione a pedali fatta di bambù; filtri per purificare l’acqua e così via). Sono progetti ingegnosi e interessanti, realizzati con l’utilizzo di tecnologie povere, ma non si capisce chi e con quali mezzi possa provvedere alla loro produzione e diffusione nelle diverse comunità, se non facendo affidamento sull’operosità delle situazioni locali, probabilmente da contattare e conquistare all’operazione. Questo è un serio problema, che rischia di lasciare tali progetti al livello di testimonianza o di denuncia così come è accaduto negli anni Novanta con i volenterosi progetti di giovani designer italiani che hanno visto delinearsi la possibilità di trovare un senso al loro operare lavorando sul riciclaggio: Paolo Ulian ha disegnato una lampada (1998) dove le bottiglie di plastica schiacciate fanno da diffusore e Massimo Varetto un lampadario (1997) assemblando pentolini-giocattolo in plastica colorata. Poiché questi progetti costituiscono metafore del tema del riuso piuttosto che proposte concretamente orientate a cercare soluzioni, sono rimasti oggetti da esposizione presenti, più che altro, nelle mostre e nei saloni. Del resto, già nel 1962, Papanek aveva disegnato una radio che funzionava senza batterie, fatta di lattine usate, da produrre a basso costo nei Paesi in via di sviluppo: seppur ridicolizzato come ‘il designer delle lattine prese dall’immondizia’, è stato da molti considerato il più importante esponente del ‘design etico’. Non si può dire che le sue proposte, nate sull’onda dei movimenti di contestazione sociale e del marxismo critico della scuola di Francoforte, abbiano incontrato particolare successo. Ma è forse impietosa la valutazione di Bernhard E. Bürdek che scrive: «Le sue proposte di un design per il Terzo Mondo risultarono […] afflitte da un’ingenuità dilettantesca» (B.E. Bürdek, Design. Geschichte, Theorie und Praxis der Produktgestaltung, 1991; trad. it. 1992, p. 113).
Una seconda ipotesi emersa alla mostra del Cooper-Hewitt Design Museum riguarda la possibilità di adottare tecnologie avanzate in situazioni arretrate: per es., un proiettore di microfilm a batterie solari, che diventa una libreria portatile, permettendo di studiare in case senza illuminazione, eliminando il trasporto dei libri. Oppure borse di stoffa con pannelli fotovoltaici incorporati per catturare i raggi del sole di giorno e illuminare le case di notte.
Come si vede, da questo primo panorama preso in esame emerge un’idea di social design connesso al rapporto con le tecnologie. Il confronto con la tecnologia, l’innovazione e le sue direzioni, i vantaggi che essa realmente arreca (al di là di quelli sempre invocati dalle aziende per vincere la concorrenza sui mercati mondiali), è un argomento diventato centrale.
Infatti il tema che sempre di più caratterizza la nostra epoca è quello costituito dall’accelerazione degli sviluppi della tecnologia, che vanno trasformando il nostro orizzonte di vita a tutti i livelli. Oggi si vede in tutta chiarezza che il futuro sarà caratterizzato dagli sviluppi delle tecnoscienze, dalla robotica alle nanotecnologie, dalle staminali agli organismi geneticamente modificati. E mentre la comunicazione visiva diviene comunicazione digitale integrata, l’evoluzione dell’informatica e delle logiche digitali permette di visualizzare e strutturare il progetto con le capacità del computer, e probabilmente in questo modo viene trasformandosi il modo stesso di pensare il progetto.
Le nuove tecnologie
Si apre a questo punto un ampio terreno di confronto sui nuovi scenari. Per es., ci si chiede su quale versante della discussione sulla scienza, sulla tecnica, sulle tecnoscienze, il design e i designer intendono collocarsi. A favore dell’uso ragionato delle scoperte tecnico-scientifiche o contro di esse? A favore di un’idea ‘riflessiva’ di innovazione, e cioè critica, che si interroga sulle sue finalità, o per lo status quo? Nell’ottica di una ‘scienza negata’ dalla «proliferazione di immagini negative della scienza e della razionalità», come direbbe Enrico Bellone, e quindi da «punti di vista basati sull’opinione che la scienza sia, di per sé stessa e non per certi suoi usi dissennati, nemica dell’umanità?» (La scienza negata. Il caso italiano, 2005, pp. VIII-IX). Ciò è importante perché oggi, come già più volte ripetuto, si avverte, tra nostalgie comunitaristiche e messa sotto accusa della scienza da parte di fondamentalismi ambientalistici, un desiderio di ritorno agli stili di vita medievalcomunitari che Ruskin auspicava nell’Ottocento, quando inveiva contro gli sviluppi dei treni e della tecnica.
Intanto, sui temi del rapporto tra progetto e tecnologie si vanno misurando ampiamente laboratori di ricerca e aziende: si pensi all’esteso uso di materiali innovativi nei tessuti sia per lo sport sia, più in generale, per la moda. Materiali intelligenti, sensibili, interattivi è il titolo di un libro (Cardillo, Ferrara 2008) che documenta i materiali smart che configurano scenari di una nuova realtà: vernici che cambiano colore con la temperatura, fluidi che diventano istantaneamente solidi, effetti visivi che si materializzano nell’aria, teli che tramutano la luce del sole in energia. L’universo dei materiali intelligenti costituisce una nuova sfida per il progetto, come già aveva intuito l’architetto tedesco Gottfried Semper (1803-1879) di fronte all’avanzare di nuovi materiali all’epoca della Great exhibition di Londra del 1851.
Sempre in riferimento alle aziende, solo per citare alcuni esempi, si pensi alle esperienze che va conducendo la Philips sull’ambiente e sul corpo. Da un lato studiando gioielli-tatuaggio, ossia gli skin-tattoos, che appaiono sulla pelle solo in determinate situazioni emotive in rapporto ai nostri segnali biometrici. Così, se i vestiti con i nuovi materiali possono diventare luminosi, i gioielli appaiono dal niente come disegni sulla pelle o cambiano colore. D’altro canto con l’ambient experience design si ragiona sull’integrazione di architettura e tecnologia, creando spazi personalizzabili, con il controllo di illuminazione, suono, visioni, RFID (Radio Frequency Identification), fino alla scelta di visioni da proiettare. Ciò appare particolarmente interessante nel settore della salute, dove l’obiettivo è aiutare il paziente a sentirsi a suo agio. Altro progetto è Off the grid. Sustainable habitat 2020, realizzato da Philips design, bioarchitetture in cui la superficie esterna dell’edificio è una ‘pelle’ con particolari ‘fiori’ capaci di catturare l’acqua piovana e la luce del sole, mentre il vento viene canalizzato per il condizionamento dell’aria, i rifiuti organici trasformati in energia di biogas, utilizzabile nel circuito chiuso della casa per il riscaldamento dell’aria e dell’acqua.
Molte sono le ricerche in questa direzione, che però tendono a migliorare le soluzioni anche dal punto di vista formale. Così Grow è un sistema per catturare energia dal sole e dal vento, ideato dal gruppo SMIT (Sustainably Minded Interactive Technology), disposto sulle pareti come una pianta rampicante costituita da foglie sottili di plastica riciclabile con un film fotovoltaico incapsulato che da lontano sembra una pianta. Mentre a Glasgow lo studio ZM Architecture ha progettato un metodo per catturare l’energia solare e fornire elettricità alla città. Si chiama Solar lily pads, sono ninfee artificiali che galleggiano nel fiume Clyde, assorbendo l’energia solare.
D’altro canto, tornando alle aziende, la Samsung ha istituito un premio per gli studenti delle scuole di design in Italia, il Samsung young design award, che nel 2008 aveva come tema Digital solutions for a sustain-able life. Si tratta di oggetti nuovi o tali da innovare funzioni tradizionali, capaci di interagire con l’uomo, registrando le esperienze della vita quotidiana, fornendo soluzioni per proteggere da minacce ecologiche, sanitarie, energetiche, sociali, aiutando a rendere piacevoli le attività nel tempo libero. E in un’altra mostra che P. Antonelli ha promosso nel 2008 al Museum of Modern Art di New York, dal titolo Design and the elastic mind, sono state presentate opere che mirano ad aiutare l’uomo ad affrontare i processi di cambiamento indotti dalle nuove tecnologie. Tipologie di oggetti collegati ai diversi aspetti e temi della salute, alle biotecnologie, fino alle evoluzioni prestazionali che stanno vivendo anche gli oggetti più comuni.
Altri possibili esempi vengono dalle università. Neil Gershenfeld del MIT (Massachusetts Institute of Technology) ha avviato con FAB LAB (FABrication LABoratory) un progetto che mira a far nascere, in quartieri o villaggi di tutto il mondo, attività produttive che utilizzano il rapid manufacturing, tecnologia volta a realizzare prototipi e già usata dalle industrie, in grado di permettere la produzione di piccole serie, ma anche di esemplari unici a bassi costi. Finora, in diversi posti del mondo, si è riusciti a realizzare piccoli apparecchi elettronici, occhiali da sole, pezzi di ricambio per auto, apparecchiature di comunicazione, per di più utilizzando energia solare. La tesi di Gershenfeld è che i personal computer saranno presto affiancati dai personal fabricator, stampanti tridimensionali in grado di assemblare vere e proprie macchine, portando la tecnologia dove non esiste e ricchezza alle popolazioni povere del globo.
Non sono estranee alle ricerche sulle nuove tecnologie le università italiane. Lo IUAV (Istituto Universitario di Architettura di Venezia) coordina una ricerca sulle applicazioni delle nanotecnologie. Non si propone di intervenire nel merito della ricerca scientifica quanto di collaborare, sulla base delle competenze nel campo del disegno industriale e dell’architettura, all’innovazione di prodotti industriali e di sistemi edilizi, e dei loro componenti. In particolare, si affrontano temi legati alle applicazioni delle nanotecnologie sul terreno medico, chirurgico, sanitario in generale. Come si vede, forte è l’attenzione ai temi della salute, in particolare per le aree depresse del mondo, come dimostrano anche i master organizzati dalla Design academy di Eindhoven.
Due progetti significativi
Ci sarebbe da aggiungere molto sul rapporto tra design e tecnologia: abbiamo accennato solo ad alcuni esempi tesi in generale a migliorare la qualità della vita dell’uomo. È in questo ambito che si misurerà in futuro il ruolo del design e la sua capacità di progettare, nel senso pieno del termine. Ma esistono due progetti sui quali vale la pena riflettere, per concludere un discorso tuttora aperto relativo al tema dell’assunzione di responsabilità da parte dei designer, alla possibilità che partecipino appieno alle trasformazioni in atto con le proprie specifiche competenze di progettisti.
Nella direzione di chi vuole affrontare i problemi con l’aiuto delle tecnologie avanzate si è mossa un’iniziativa avviata da Nicholas Negroponte del MIT e sviluppata con la consulenza di Design continuum. Nel 2005, al Forum economico mondiale di Davos, in Svizzera, Negroponte ha presentato il progetto di un computer portatile, al costo di cento dollari, con batteria ricaricabile anche a manovella per le zone prive di elettricità, perché ogni bambino del mondo possa utilizzare il web con i suoi contenuti informativi ed educativi. È nata così OLPC (One Laptop Per Child), un’associazione non-profit, alla quale partecipano economicamente Google e altre organizzazioni. Il primo esemplare è stato consegnato nel 2006 al presidente del Brasile Luiz Inácio Lula da Silva, e numerose richieste sono state avanzate da vari Paesi in America Latina, Asia e Africa. In ogni modo, l’ipotesi di una distribuzione di massa di computer a manovella per i bambini del Terzo mondo è molto interessante, anche se ha incontrato difficoltà non previste. Da qualche tempo è iniziata infatti la diffusione di computer a prezzi decrescenti anche nei Paesi avanzati. Con la mondializzazione si mira ora alla distribuzione di massa nei Paesi deboli dei computer, che più di una casa produttrice va proponendo a prezzi bassi. E la crisi economica in atto sta colpendo direttamente il progetto: Negroponte, infatti, ha dovuto, proprio per questo, dimezzare il personale di OLPC.
Esemplare è poi Solar bottle, progetto del 2006 di Alberto Meda con Francisco Gomez Paz, presentato alla mostra itinerante H2O. Nuovi scenari per la sopravvivenza (Milano 2006). Si tratta di una bottiglia in PET (polietilentereftalato) che utilizza la tecnologia SODIS (SOlar water DISinfection) per rendere potabile l’acqua attraverso i raggi UVA. Un’ampia porzione della popolazione mondiale non ha acqua potabile, con gravi conseguenze sulla salute. La bottiglia ha una faccia trasparente che lascia penetrare i raggi del sole, mentre l’altra faccia è alluminizzata per aumentare la temperatura. Con sei ore di esposizione al sole si distruggono gli agenti patogeni a costo zero. Il contenitore ha una forma piatta che favorisce sia la penetrazione dei raggi nella zona interna, sia il trasporto e lo stivaggio; la maniglia è studiata per inclinare la bottiglia e migliorarne l’esposizione al sole. Nel 2007, la Solar bottle ha vinto il primo premio dell’INDEX (INternational Design EXhibition): Design to improve life, organizzazione mondiale non-profit che si occupa di design per il miglioramento della vita umana. È un oggetto che aiuta a risolvere uno dei principali problemi delle popolazioni povere, senza spreco di energia e senza materiali inquinanti. C’è da aggiungere che l’attenzione ai particolari, come la maniglia-appoggio che permette le diverse inclinazione al sole, efficace e accuratamente disegnata, ma anche la forma piatta e la scelta cromatica, nel contrasto tra l’alluminio e l’azzurro della maniglia, definiscono un progetto per il quale si può certo parlare di social design, di consapevolezza tecnologica, di un’opzione etica che non esita a tradursi in una precisa definizione estetica dell’oggetto. Solar bottle non trova un produttore, probabilmente perché il vero problema, cui si è già accennato per i progetti della mostra al Cooper-Hewitt National Design Museum, è come pubblicizzare e distribuire il prodotto nelle zone e ai destinatari interessati. Certo, di ciò dovrebbero farsi carico enti e organizzazioni internazionali. Si spera che questo avvenga: ma con questa bottiglia, utile, semplice ed elegante, si indica una direzione di lavoro per il design del prossimo futuro.
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