Il dibattito sulla teologia politica, prima e dopo Peterson
Fare di Erik Peterson (1890-1960) il perno del dibattito sulla teologia politica, all’interno di un’opera collettiva dedicata alla figura e al mito di Costantino, contiene una serie di problemi storiografici e teologici di notevole portata. Lo scritto di Peterson, volto alla liquidazione ‘teologica’ di ogni teologia politica, risale al 1935. Il referente polemico ‘teorico’ dello scritto di Peterson era un saggio di Carl Schmitt del 1922, rieditato tuttavia nel 1934, un anno dopo l’ascesa di Hitler al potere1. La risposta di Schmitt allo scritto di Peterson è del 1969, quattro anni dopo la morte di Peterson2. Il prima e il dopo sembrerebbero quindi chiaramente indicati. Ma questa sarebbe una periodizzazione miope ed estrinseca che prescinde dai contenuti e dalle motivazioni sui quali vertono gli scritti e dalle affinità di questi contenuti con altri scritti. Mi riferisco qui alla tesi centrale di Peterson, quella della «rottura con ogni ‘teologia politica’ che abusa dell’annuncio cristiano per giustificare una certa situazione politica»3. Questa tesi è meno isolata di quanto potrebbe sembrare a prima vista. Essa richiama, infatti, la negazione del nesso fra «teocrazia» e politica in un famoso scrittarello di Walter Benjamin, indebitamente titolato da Theodor W. Adorno come Frammento teologico-politico, che risale al 1920-1921: «L’ordine del profano non può essere costruito sul pensiero del regno di Dio, per questo la teocrazia non ha alcun senso politico, ma solo un senso religioso»4. Lo scrittarello di Benjamin tuttavia non entrava nel dibattito giacché non era noto né a Peterson né a Schmitt. Ma Johann Baptist Metz, nella sua proposta di una «nuova» teologia politica cita come autori «amici» sia Peterson sia Benjamin5. E se si può discutere della pertinenza della citazione di Peterson, non si può certamente farlo per il riferimento a Benjamin, costante in tutta l’opera teologica di Metz. E infine non bisogna dimenticare il libro postumo di Jacob Taubes su La teologia politica di San Paolo6, dove il riferimento a Schmitt è fondamentale. ‘Prima e dopo Peterson’ acquista quindi un significato che non è soltanto quello del riferimento a Schmitt (anche se lo è, come vedremo). E questo significato verte sulla portata esatta dell’interpretazione di Peterson, nonché del suo valore emblematico dove il riferimento a Costantino assume allora un carattere decisivo. Parliamo del riferimento e non di Costantino come tale. Giacché, mai espressa nelle pagine di Peterson, opera un’equazione che è la seguente: Costantino sta a Eusebio come Hitler sta a Schmitt.
Nelle pagine che seguono è nostra intenzione quella di individuare il nodo del problema in una prospettiva teologica. Infatti la brillante replica (trentaquattro anni dopo) di Schmitt a Peterson, se non manca di una sottile riduzione della portata effettiva dello scritto di Peterson (e questo è, nascosto tra le pieghe di un’inoppugnabile disamina filologico-storica, il suo torto effettivo), ha il merito di collocare diversamente il problema, anche se per conto suo sceglie di ignorare quella collocazione che aveva avuto il merito di indicare come vera alternativa.
La figura di Costantino per Peterson si identifica con la funzione che Eusebio gli assegnò nella sua lettura della storia di Roma. Costantino, secondo Eusebio, è colui che ha portato a compimento l’unificazione del mondo iniziata da Augusto e ha realizzato nella forma del monoteismo politico le condizioni per un abuso dell’annuncio cristiano finalizzato alla giustificazione di una certa situazione politica, abuso teorizzato appunto da Eusebio. In questo, almeno secondo Schmitt7, Peterson si poneva sulla scia segnata da Jacob Burckhardt nella sua monografia su Il tempo di Costantino il Grande (edito per la prima volta nel 1853) che negava a Eusebio la dignità di uno storico serio e gli contrapponeva il Costantino della storia, politico spregiudicato e violento. Per Eusebio, inoltre, la pace annunciata dai profeti si era realizzata da quando i romani ottennero il dominio sul mondo, in coincidenza con la venuta del Salvatore. Peterson analizza soprattutto la Dimostrazione evangelica del vescovo di Cesarea. In quest’opera, infatti, sviluppando un motivo già presente in Origene:
Eusebio sostiene che come segno della venuta di Cristo era stata profetizzata la pace: la cessazione del pluralismo politico nella forma degli stati nazionali, l’abbandono del culto politeistico e demoniaco degli idoli e il pio riconoscimento che esiste un solo Dio creatore sopra tutti gli uomini. Per cui il monoteismo è iniziato in linea di principio con la monarchia di Augusto: all’impero romano che pone fine alle nazionalità, appartiene metafisicamente [corsivo nostro] il monoteismo. Ciò che però ha avuto, in linea di principio, inizio con Augusto è diventato realtà al tempo di Costantino: dopo la sconfitta di Licinio da parte di Costantino è stata restaurata la monarchia politica e contemporaneamente è stata assicurata la monarchia divina (Vita di Costantino II 19). Costantino stesso ha confutato (ivi, IV 29) in alcuni discorsi il paganesimo e ha trasmesso ai suoi ascoltatori la dottrina della monarchia divina. Egli per altro non ha solo trasmesso ma ha imitato nello stesso tempo, attraverso la sua, la monarchia divina. All’unico re sulla terra corrisponde l’unico re in cielo e l’unico nomos e Logos sovrano (Discorso per il trentennale, c. 3)8.
Abbiamo sottolineato l’avverbio metafisicamente, giacché a nostro avviso, il nesso metafisico tra l’idea dell’unico sovrano e l’unico Dio creatore era adombrato più volte nello scritto di Schmitt sulla Teologia politica9. Il Costantino eusebiano rappresentava quindi il primo «esempio desunto dalla storia»10 di quell’abuso dell’annuncio cristiano per giustificare una certa situazione politica, che Peterson denunciava sia nella premessa che nella considerazione finale del suo scritto. Il riferimento polemico era chiaro: lo scritto sulla Teologia politica, che non solo sviluppava un concetto di sovranità come capacità di decidere nello stato di eccezione per creare una situazione nuova, ma vedeva nella figura del sovrano l’incarnazione del supremo legislatore del mondo, in base all’idea che:
tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati, non solo in base al loro sviluppo storico, poiché essi sono passati alla dottrina dello Stato dalla teologia, ma anche nella loro struttura sistematica, la cui conoscenza è necessaria per una considerazione sociologica di questi concetti. Lo stato di eccezione ha per la giurisprudenza un significato analogo al miracolo per la teologia11.
Peterson nel suo scritto del 1935, da teologo rifiutava il nesso stabilito da Schmitt, o meglio vedeva in questo nesso, nel riferimento del decisionismo del sovrano teorizzato da Schmitt alla figura del Dio sovrano del mondo, una corruzione della fede cristiana, frutto dell’Illuminismo. Infatti era stato l’Illuminismo europeo che dalla fede cristiana nel Dio trino aveva estrapolato e risparmiato solo il monoteismo «il quale è tanto problematico nel suo contenuto teologico quanto nelle sue conseguenze politiche»12. A dire il vero l’argomentazione di Schmitt, sul piano storico, affermava esattamente la stessa cosa: il moderno concetto di Stato era ultimamente frutto del deismo (per il quale Dio non si cura del mondo), corretto dall’idea teistica che Dio può intervenire nel corso degli eventi. Ma deismo e teismo sono la reazione alla crisi europea suscitata dalle dilacerazioni del XVI secolo13. Per il cattolico Peterson (aveva aderito alla Chiesa cattolica nel 1930) che già da protestante nel 1925 aveva, in una presa di posizione polemica verso la teologia dialettica di Karl Barth, difeso l’imprescindibilità del dogma per la fede cristiana14, il dogma ortodosso trinitario implicava l’inaccettabilità teologica della posizione di Schmitt, che veniva attribuita a una tradizione ereticale il cui primo antecedente era da collocarsi nell’esempio di Eusebio, un teologo che aveva avuto difficoltà ad accettare la fede di Nicea e aveva mostrato simpatie per l’eresia di Ario. Un aspetto tuttavia era centrale nella posizione di Peterson: il dogma trinitario implicava la liquidazione teologica non solo della teologia politica di Eusebio, ma di ogni teologia politica intesa quale impiego della fede cristiana a giustificazione dell’esistente.
Resta oscuro il motivo per cui, trentaquattro anni dopo, in condizioni storiche lontanissime da quelle che determinarono la presa di posizione di Peterson, Schmitt abbia sentito il bisogno di rintuzzarne la critica15. Le motivazioni che egli offre non riescono a spegnere la curiosità, anche se qualcosa fanno pensare: Politische Theologie II è stata pensata come omaggio al canonista cattolico Hans Barion per i suoi settant’anni. Barion fu sostenitore del nazismo come Schmitt, polemico verso i concordati, critico del Vaticano II16. Ma le supposizioni che si possono costruire su questa base non portano lontano. Comunque la disamina che Schmitt fa dello scritto di Peterson è rigorosa. Va mantenuta come valida la sua valutazione secondo cui la forza della critica di Peterson a Eusebio non deriva dal motivo del monoteismo politico in quanto tale, quanto dalla confusione tra la pace promessa dai profeti con la pax romana e quindi da un’attenuazione della fede escatologica. C’è tuttavia qualcosa che egli non coglie o non vuole cogliere nello scritto di Peterson: la dimensione di testimonianza resa in un preciso momento storico della Germania. Ma su questo si tornerà più avanti.
Discutibile è invece il giudizio secondo il quale, la denigrazione del vescovo cristiano Eusebio a opera di Peterson rappresentava «la risposta politica alla questione politica che era risultata dalla crisi della teologia protestante negli anni 1925-1935. Peterson pensava di essersi sottratto alla crisi con il ritorno a un dogmatismo aproblematico e di aver ritrovato la purezza, resistente a ogni crisi, della teologia pura»17. Questo gli avrebbe impedito la comprensione scientifica della situazione attuale della Chiesa, dello Stato e della società.
Ma ciò che qui ci interessa, giacché a nostro avviso ci fa avvicinare al problema che è sotteso a ogni teologia politica, intesa tuttavia non nel senso negativo di Peterson come ‘abuso’ della fede, ma come semplice esplicitazione del rapporto tra la fede cristiana e l’ordine del ‘politico’, è l’approfondimento critico che Schmitt opera dell’affermazione di Peterson. Schmitt, in conclusione della sua disamina, pone, infatti, con forza particolare la questione su cosa esattamente intendesse dire Peterson con la sua tesi che il dogma ortodosso abbia costituito la liquidazione teologica del monoteismo come problema politico (sottolineature nell’originale).
Schmitt intravede una duplice risposta a questa domanda18. La prima possibilità è quella d’intendere l’affermazione nel senso che il monoteismo politico è un problema politico e non teologico e per questo motivo non compete al teologo. Ma l’affermazione può voler dire anche che: sebbene esso sia un problema politico, tuttavia (in quanto res mixta) sottostà anche al giudizio del teologo e, per questo motivo può anche, da un punto di vista teologico, essere eliminato come problema politico. Nel primo caso si tratterebbe di pura teologia da teologi, i quali liquidano l’intrusione dei non teologi come ‘teologia politica’ nel senso di una teologia per laici, ideologia, pubblicistica politica, retorica o propaganda. Nel secondo caso si tratterebbe invece di un argomento teologico valido come tale nella sfera stessa del ‘politico’. Dal prosieguo dell’argomentazione, Schmitt sembra preferire questo secondo significato, per svelarne le aporie. A noi questa scelta sembra una svista e presuppone delle premesse che Peterson sarebbe stato alieno dal condividere, le premesse cioè di un’analogia strutturale tra dogma e diritto ‘secolarizzato’. La scelta del dogma e della sua dimensione giuridica in Peterson è, infatti, ben altra cosa dalla storicizzazione secolarizzata del dogma stesso. Ma è proprio questo il nerbo del ragionamento di Schmitt.
Accettare, infatti, che la teologia abbia il diritto di dire la sua sulla politica (ma era questa l’intenzione di Peterson?) presuppone un medium per il confronto, una condizione di possibilità per la comunicazione vicendevole. Questa condizione di possibilità può essere data solo da un concetto di scienza – vicendevolmente compatibile – e da concetti fondamentali congruenti nella loro struttura. Non esiste, infatti, una ripartizione scientifica di competenze senza concetti che siano in una certa misura ugualmente strutturati. Nessuno affermerà mai che la dottrina teologica della Trinità sia in grado di liquidare un problema matematico riguardante i numeri. E l’affermazione contraria della matematica, di poter liquidare la dottrina della Trinità, sarebbe ugualmente senza senso, giacché essa vuole dire soltanto che la teologia non è una scienza.
Secondo Schmitt nella posizione di Peterson è cioè in questione la stessa struttura concettuale di teologia e politica. La teologia non è la stessa cosa della religione o della fede o di una paura numinosa. La teologia vuole essere scienza e rimane tale fino a quando a un concetto totalmente diverso di scienza non riesca di liquidare la religione e la sua teologia come anacronismo o nevrosi.
Ma in che modo va declinato il rapporto tra teologia e scienza nel caso specifico della politica? Non mediante l’appello alla metafisica che rimane oscuro, e nemmeno a quelle che secondo lo stesso Peterson sono «le più problematiche di tutte le scienze, le scienze dello spirito». Non resta quindi che la scienza sorella della teologia: la scienza giuridica non ancora dissolta nella storiografia, così come si è sviluppata nel Medioevo cristiano, da pura casuistica in scienza sistematica. Del resto Peterson, così come appare dal suo Was ist Theologie del 1925 conosce perfettamente che il diritto è strettamente legato al Nuovo Testamento. Egli afferma, infatti, che il dogma e il sacramento sono termini della lingua giuridica perché sia l’uno che l’altro sono l’attuazione (Vollzug) della Parola di Dio incarnata e qualcosa di più della sola predica e dell’esegesi. Si tratta cioè di un «tratto essenziale nel carattere della rivelazione neotestamentaria». Dogma e teologia non sono soltanto una conclusione, così come l’incarnazione fu una conclusione dell’Antico Testamento, ma sono nello stesso tempo qualcosa che tutte le parole profetiche non furono, un’attuazione. […] In breve, è straordinaria la chiarezza con la quale qui si riconosce e si esprime che il decisionismo e il precisionismo appartengono all’attuazione della Parola di Dio e che l’uomo, qualora rifiutasse la giuridizzazione ivi richiesta, trasformerebbe l’immediatezza del carisma in una irrazionalità suicida.
Solo alla luce dell’antitesi teologico-giuridico l’affermazione
«Il monoteismo politico è teologicamente liquidato» ha un senso scientificamente preciso. Come può una teologia che si sgancia in maniera decisa dalla politica, liquidare teologicamente una grandezza o una istanza politica? Se ‘teologico’ e ‘politico’ sono due domini contenutisticamente separati, allora una questione politica può essere liquidata solo politicamente. Il teologo potrebbe pronunciare il suo verdetto sulle faccende dell’ambito politico in maniera degna di considerazione solo a patto di costituirsi come grandezza politica con istanze politiche. Se egli impartisce una risposta teologica a una questione politica, questo rappresenta o una semplice rinuncia al mondo e all’ambito del ‘politico’, oppure è il tentativo di riservarsi direttamente o indirettamente interventi o conseguenze per l’ambito del ‘politico’. Si tratta quindi o di una rinuncia a ogni competenza teologica sulle questioni politiche (il teologo si mantiene puro nel suo elemento puro), oppure dell’apertura di un conflitto di competenze, di un contenzioso. L’affermazione che «il monoteismo politico è teologicamente liquidato» implica allora la pretesa di un potere decisionale del teologo anche nell’ambito politico e la pretesa di un’autorità nei confronti del potere politico, una pretesa che acquista un’intensità politica maggiore nella misura in cui l’autorità teologica pretende di stare su una posizione più elevata di quella del potere politico. Ciò tuttavia secondo Schmitt porta a una situazione conflittuale tra l’istanza teologica che ha preso forma in una determinata istituzione e le corrispondenti forme che incarnano le istanze del ‘politico’19.
Il conflitto delle competenze, quando i due partners non si ‘concordano’ in un vicendevole accordo, necessariamente finisce così come sono finite le guerre civili confessionali del XVI e del XVII secolo: o con una risposta precisa all’enorme questione Quis iudicabit, oppure con un’altrettanto precisa Itio in partes, cioè con una delimitazione spazialmente chiara, sia territoriale sia regionale, con un Cuius regio eius religio. Nello stadio e nel tempo intermedio della mescolanza sporca dell’ambito teologico e di quello giuridico, i partners del conflitto si rimandano senza posa e vicendevolmente ai confini della loro competenza e si gridano l’un l’altro: Silete in munere alieno!
Riteniamo questa riformulazione della tesi di Peterson a opera di Schmitt estremamente provocatoria, giacché essa ci fa avvicinare al vero nodo del problema, e sviante al tempo stesso. La questione del rapporto tra fede cristiana e la polis è ineludibile e ha avuto tante risposte lungo la storia del cristianesimo già all’interno del Nuovo Testamento, ogni volta determinate dalle circostanze storiche: dall’apaisement delle Lettere pastorali alla drammatica dialettica tra coloro che sono segnati con il «marchio della Bestia», cioè del potere della polis, e coloro che invece recano scritto sulla fronte il nome dell’Agnello e il nome del Padre suo (cfr. Ap 13,1-14,5), propria delle comunità della fine del I secolo di cui parla l’Apocalisse di Giovanni. Ha gioco facile Schmitt quando, contro la critica di Peterson, gli ribatte che la propria teologia politica «non si riferisce ad alcun dogma teologico, ma pone soltanto un problema di teoria scientifica e di storia del concetto: l’identità di struttura dei concetti teologici e delle argomentazioni e conoscenze giuridiche»20. Questa difesa della propria posizione, formulata quasi all’inizio della replica a Peterson, e ripresa alla sua conclusione, non regge più. Il decisionismo del sovrano non fu semplicemente un concetto giuridico che scavava nella crisi in cui era precipitata la Germania nel periodo della Repubblica di Weimar, e non era soltanto una possibilità offerta dal famoso articolo 48 della sua Costituzione21. Questa poteva essere ancora il senso della prima versione dello scritto di Schmitt nel 1925. Ma come lo stesso Schmitt notava nella sua premessa del 196322, l’argomentazione concettuale del 1925 era solo l’inizio di una serie di legittimazioni che avrebbero accompagnato anche la storia degli anni successivi, soprattutto degli anni Trenta. E la pretesa analogia strutturale tra un concetto teologico e un concetto giuridico si trasformava in legittimazione teorica forte, che dispiegava in una dogmatica giuridica la pretesa di un’interna logica necessità, legittimazione ultima del sistema politico sorto dalla decisione del sovrano (…Hitler).
Purificato tuttavia dalla tragica drammaticità degli anni nei quali scrivevano Peterson e Schmitt, il problema della teologia politica resta proprio in quell’alternativa di significato posta alla tesi di Peterson: la liquidazione teologica del ‘politico’ (che ultimamente è una dichiarazione di incompetenza) o la sottomissione del ‘politico’ al giudizio teologico e quindi la rivendicazione di una supervisione da parte della teologia e delle istanze storiche nelle quali la fede cristiana prende forma, con il presupposto di una congruenza tra teologia e diritto.
Il monoteismo è un’esigenza politica, una parte della politica dell’Impero. Nel momento in cui il concetto della monarchia divina, che era soltanto il riflesso dell’immagine della monarchia terrena dell’Impero romano, entrava in contrasto con il dogma cristiano della Trinità, la disputa su questo dogma doveva necessariamente tradursi in lotta eminentemente politica. Se il monoteismo, infatti, nel concetto di monarchia divina nel senso in cui lo aveva formulato Eusebio, non era teologicamente sostenibile, allora non era neppure garantita la continuità dell’Impero romano; di conseguenza Costantino o i suoi successori non potevano più essere considerati come realizzatori di quanto Augusto in principio aveva fondato. Ma con ciò era minacciata l’unità dell’Impero romano, che era nella sua maggioranza ancora pagano. Il cristianesimo allora doveva manifestarsi come ‘rivoluzione’ sia nell’ordine metafisico sia in quello politico, come era stato chiaramente predetto da Celso. Si comprende così, come fosse un’urgenza politica a spingere in un primo momento gli imperatori da parte degli ariani, e come, d’altro canto, gli ariani dovessero diventare i teologi della corte bizantina. La dottrina ortodossa della Trinità minacciava seriamente la teologia politica dell’Impero romano23. Storiograficamente questa posizione di Peterson risulta molto debole24. I teologi di corte sono stati anche teologi perfettamente ortodossi e persino la dottrina trinitaria può fungere da supporto al potere politico, come è storicamente avvenuto quanto questo è stato ripartito fra tre differenti soggetti25. Ma il giudizio storiografico non esaurisce il significato della posizione.
Questa va anzitutto collegata alla vicenda personale e teologica di Peterson26: dall’esperienza della conversione alla fede nel 1910 che lo porterà a un avvicinamento al pietismo, alla conoscenza di Søren Kierkegaard e di Max Scheler, alla critica della teologia liberale e di quello che egli considerava il puro biblicismo barthiano e la pura dialettica tra Dio e uomo, con la scoperta della dimensione dogmatica della rivelazione cristiana e con il definitivo approdo alla Chiesa cattolica. Ma illuminante risulta soprattutto il confronto con un altro scritto, successivo allo scritto sul monoteismo, che rappresenta l’attacco più diretto contro uno Stato totalitario: Testimoni della verità del 193527. Il dogma qui si accompagnava a Kierkegaard e veniva, a nostro avviso, esplicitato il senso ultimo del saggio sul monoteismo. Già Schmitt aveva notato come il peso effettivo dell’argomentazione di Peterson, fosse non tanto il chiarimento del nesso che lega l’ortodossia trinitaria al rifiuto di un atteggiamento teologico politico, quanto il collegamento tra l’interpretazione eusebiana della pace messianica, identificata alla pax romana, con la sua acquiescenza politica. Nel saggio sui Testimoni della verità il motivo veniva ripreso e veniva esplicitato inoltre il nesso tra escatologia e martirio nella figura stessa dell’apostolo. Il martire è infatti legato alla predicazione escatologica del cristianesimo primitivo quale si esprime nella missione degli apostoli. Non solo, ma nel martire appare appunto il senso ultimo di eresia e ortodossia.
Se il messaggio di Gesù fosse una pura filosofia su cui discutere per anni e secoli, non avremmo dei martiri; e qualora singoli uomini venissero a morte per una siffatta filosofia di Cristo – essi non sarebbero martiri nel senso cristiano della parola […] Non sono convinzioni o opinioni umane, anzi in termini ancora più forti: non è lo zelo umano per la fede che fa i martiri. (Giacché si dà martirio solo per il corpo mistico di Cristo, gli eretici che sono separati da questo corpo non possono, secondo la dottrina della chiesa, diventare martiri anche se fossero privi di zelo per la fede). È Cristo stesso che chiama al martirio e fa quindi del martirio una grazia particolare: questo Cristo che viene annunciato nell’evangelo della chiesa, viene offerto nel sacrificio e il cui nome sono obbligati in coscienza a confessare pubblicamente quanti sono battezzati nel nome di Gesù28.
La confessione del martire è quindi il luogo in cui l’annuncio diventa trasparente. E giacché il martire è in opposizione al potere idolatrico, sono la confessione e la testimonianza a costituire la forma della resistenza della verità cristiana a ogni potere estraneo a questa verità. Non è allora lo zelo religioso il segno della testimonianza della verità, il segno del ‘dogma’, ma quella confessione che avviene come manifestazione della distanza escatologica da questo mondo. Qui il rifiuto del monoteismo politico non è pura operazione teologica, ma coinvolge un altro piano dell’esistenza credente in cui diventa impossibile ogni comunicazione con il piano del ‘politico’ e del suo diritto costitutivo. Ma allora l’analogia strutturale richiesta da Schmitt per un dialogo tra ‘teologico’ e ‘politico’ viene a dissolversi e appare la necessità di una ricollocazione del problema di ‘ogni’ teologia politica, proprio nel senso che Schmitt sembra scartare, quello dell’indifferenza costitutiva della teologia cristiana rispetto al politico in quanto tale. Indifferenza che è ben lontana dall’essere neutrale, giacché essa serve a delineare la differenza di uno spazio dentro la storia, alternativa a quella del ‘politico’, ma altrettanto reale29.
Jurgen Moltmann ritiene che Peterson non abbia inteso affatto la liquidazione di ogni ‘teologia politica’30, anzi ne ritiene possibile una formulazione rigorosa a partire dalla stessa fede nella Trinità31. A nostro avviso, a prescindere dalla legittimità della sua proposta, egli non presta sufficiente attenzione, come invece giustamente ha fatto sia pure soltanto intravedere Schmitt, alla qualificazione teologica della tesi di Peterson: la liquidazione di ogni teologia politica è di natura teologica. Come mostra il saggio sui Testimoni della verità si tratta non di negazione di un nesso dialettico tra cristianesimo e politica, ma prima ancora di una dichiarazione di diversità costitutiva tra due ambiti, per cui ogni rapporto che non rispettasse questa diversità è teologicamente irricevibile. Non è mio compito approfondire questo problema. Mi è sufficiente l’indicazione del vero nodo del problema stesso, supportandola con il rimando a due scritti, rispettivamente di Walter Benjamin e di Jacob Taubes. Il Frammento teologico politico di Benjamin è stato redatto prima dello scritto di Peterson (e di quello di Schmitt), La teologia politica di San Paolo è stata pensata molto tempo dopo e mai scritta, ma solo pronunciata da Taubes poco prima di morire, nel 1987. La funzione del rimando a questi due scritti non è quella di riaprire la discussione sul loro significato, discussione quanto mai ricca e ancora molto aperta. Oltretutto sono molto diversi. Quello che invece vorrei notare è come essi siano rappresentativi di un pensiero in cui la differenza tra teologia e politica è radicale, senza che questa differenza radicale instauri una neutralità qualsiasi, che anzi accentua la dialettica.
Benjamin sceglie un termine, quello di Glück/felicità, caro alla tradizione cristiana, almeno a partire da Agostino che impiega quello analogo di beatitudo, per indicare il passaggio stretto e dialettico tra storia e regno, o meglio l’asintoto, giacché la linea che parte da questa storia si avvicina senza mai toccarlo al regno. Il Frammento32 contiene tre considerazioni fondamentali, di diversa ampiezza: la prima sulla differenza radicale tra storia e regno messianico; la seconda, che costituisce il vero cuore dello scritto, sul loro nesso; la terza sulla politica identificata al nihilismo. A noi qui interessa brevemente la prima, ma soprattutto la seconda. La prima stabilisce la differenza tra storia (profana) e regno messianico. Benjamin con regno messianico indica quella precisa energia che percorre la storia proprio attraverso i movimenti messianici che si rifanno alla tradizione di Israele. Ora, rispetto al regno, la storia profana è incapace da sé stessa di porre un rapporto positivo. Come preciseranno le tesi Sul concetto di storia33, essa è la storia dei vincitori che accumulano macerie per costruire la propria vittoria. Solo l’energia messianica è in grado di portare effettivamente a compimento la storia, ma essa si alza dalle rovine, non dalla ricostruzione dei pezzi rimasti che ne fa il vincitore. Da questo punto di vista il sogno della teocrazia, di un regno del solo Dio su tutti gli uomini, non ha alcun significato politico.
Tuttavia nella sua seconda considerazione Benjamin cerca di stabilire un nesso dialettico tra storia (profana) e regno. E lo fa in due modi. Riconducendo anzitutto il dinamismo della realtà profana a quello della ricerca della felicità (Agostino). Ma disegnando al tempo stesso la storia come un campo di forze contrapposte: la tendenza alla felicità e l’energia messianica. Queste due forze si muovono in direzione contrapposta, ma il campo di forze resta pur sempre lo stesso. E, come accade in un campo di forze, accade che proprio la direzione opposta delle due energie serva a far sì che l’energia dell’una, proprio mentre tende a sfuggire alla forza d’attrazione dell’altra, di fatto l’acceleri. La conseguenza può sembrare in contraddizione con la precedente affermazione della differenza radicale tra storia (profana) e regno: «Anche se il profano non è una categoria del regno, è tuttavia una categoria, anzi una delle più appropriate, del suo leggerissimo avvicinarsi (seines leisesten Nahens)»34. Il motivo di quest’apparente contraddizione è fatto risiedere da Benjamin nella natura stessa dell’aspirazione alla felicità, che muove il dinamismo ultimo della realtà profana. Infatti la felicità tende a una fine, a un declino (Untergang). Non è facile l’interpretazione di questo passo. Moltmann ad esempio lo interpreta nel senso di un «autosuperamento», Selbstaufhebung, in un altro ordine e quindi «redenzione». Noi non siamo così certi. Benjamin, infatti, contrappone l’aspirazione alla felicità che tende al suo declino alla «intensità messianica del cuore, del singolo uomo interiore, che attraversa la sofferenza»35. Ci sembra in altri termini che mentre l’aspirazione alla felicità si nutre del proprio realizzarsi e tende quindi a estinguersi, l’energia messianica che è mossa dall’assenza e dalla privazione sia dotata di una capacità di resistenza che l’altra non ha. Ma ciò non toglie che questo «estinguersi» (Vergehen-Vergängnis) che costituisce il compimento ultimo dell’energia del profano «acceleri» proprio la potenza messianica. Esiste come una ‘corrispondenza’ tra l’energia profana e l’energia messianica. In ultima analisi la felicità incapace di sopravvivere e l’energia della resistenza che si alza dalle rovine e dai morti accumulati lungo la storia generano un campo di forze intermedio, un sottile filo che impedisce di separare i destini e che richiama un ultimo comune sforzo per accelerare l’avvenire del regno.
Riteniamo che un ulteriore chiarimento dell’opposizione fra teocrazia e politica venga da un altro scrittarello di Benjamin, Notizen zu einer Arbeit über die Kategorie der Gerechtigkeit, pubblicato nei Tagebücher di Scholem e da far risalire al 191636. Si tratta di un periodo in cui Benjamin, con l’aiuto di Scholem con il quale aveva da poco stretto amicizia, cerca di riappropriarsi del ‘centro’ della cultura ebraica. Si tratta ancora degli anni in cui una cerchia variegata di intellettuali ebrei tentano, dopo la crisi della cultura dell’assimilazione, di elaborare un pensiero effettivamente alternativo a quello dell’Occidente rappresentato per loro soprattutto dalla cultura tedesca. Ciò che è a nostro avviso illuminante in quello scrittarello, al di là della legittimità filologica dell’interpretazione biblica (ma la mediazione è quella del Talmud), è una distinzione tra giustizia e diritto. Giustizia è infatti la «condizione di un bene che non può essere un possesso» ed è «lo sforzo di fare del mondo il sommo bene»37. La giustizia non è in relazione con la buona volontà del soggetto, non è una virtù, ma fonda una nuova categoria etica. La giustizia alla fin fine può solo essere, come stato del mondo o come stato di Dio. Essa è la categoria di ciò che esiste. Tra diritto e giustizia si spalanca un immenso baratro, analogo a quello tra il possesso, sia pure temporaneo, e la garanzia che il mondo e Dio hanno in quanto sfuggono al possesso.
Non è facile interpretare queste affermazioni che stanno in un testo che pone oltretutto dei notevoli problemi filologici. Inoltre in esso si stabilisce un nesso tra la richiesta del regno nel Padre nostro e la richiesta della giustizia (anche qui il testo non è chiaro). Ciò che pare di poter affermare è tuttavia la percezione che emerge da queste righe di una originarietà dell’ambito del divino (che certamente per gli ebrei Benjamin e Scholem non è quello trinitario, ma della teocrazia) che genera una tensione rispetto all’ambito del diritto, dove è raccolto il senso del ‘politico’. La teologia politica di Jacob Taubes ha avuto sempre come punto di riferimento Carl Schmitt. In qualche modo Taubes si è sempre mosso tra Scholem e Schmitt38. Basti qui riportare un brano dove sono per così dire sintetizzati tutti i motivi del contrasto con Schmitt. Un contrasto che parte dalla comune attenzione al motivo apocalittico del kat-echon, la forza capace di trattenere il mondo dalla caduta nel caos finale, ma che diverge proprio nella concezione del kat-echon:
Schmitt è guidato da un unico interesse: che il partito, che il caos non venissero a galla, che permanesse lo Stato. A tutti i costi. Per teologi e filosofi ciò è difficilmente accettabile, ma per il giurista vale un’unica regola: finché è possibile trovare anche solo una formula giuridica, non importa con quale artificio, è necessario applicarla, altrimenti il caos dilaga. Il giurista è ciò che egli in seguito chiama kat-echon, colui che trattiene, che impedisce al caos di emergere. Non è questa la mia concezione del mondo, né la mia esperienza. Come apocalittico immagino che direi: vada pure a fondo. I have no spiritual investment in the world as it is. Ma capisco che un altro possa investire in questo mondo, e, qualunque ne sia la forma, veda nell’apocalisse l’avversario, facendo di tutto per soggiogarla e sottometterla, poiché c’è il rischio che da essa si sprigionino forze che non siamo in grado di controllare. Capite che cosa volevo da Schmitt? Volevo mostrargli che la divisione tra potere terreno e potere spirituale è assolutamente necessaria e che senza questa delimitazione l’Occidente esalerà il suo ultimo respiro. Questo volevo che capisse, contro il suo concetto totalitario39.
L’apocalittica, con l’interpretazione del messianismo che ne è elemento essenziale40, per Taubes costituisce la vera teologia politica, quella che cioè pensa in maniera corretta i rapporti tra il Regno annunciato dai profeti e la storia ‘profana’. La dimostrazione di questo assunto, volto contro Schmitt, ma al tempo stesso contro tutti i tentativi di cercare una qualche mediazione tra Regno e storia, è stata formulata in un drammatico seminario, condotto mentre il cancro era ormai allo stadio terminale. Al centro del confronto con Schmitt c’è l’interpretazione di Paolo. La riassumiamo in breve. Paolo scrive la sua Lettera ai Romani come espressione dell’opposizione irriducibile, ancorché passiva, dei cristiani allo Stato. La Legge, nella Lettera ai Romani, sta per il nomos che reggeva il mondo di allora, il potere dei Cesari. Ma Paolo può pensare questo perché, da ebreo, ha accettato il fallimento del messia Gesù. In questo accoglimento del messia crocifisso egli vede il senso stesso del messianismo apocalittico, come necessaria interiorizzazione dell’attesa, proprio di fronte alla smentita che la storia concreta fa di essa. Il messia, legittimamente messo a morte secondo la legge, rappresenta la fine della legge stessa e dà origine all’Israele vero, quello interiore, secondo lo Spirito.
Costantino rappresenta, nel dibattito sulla teologia politica, solo una figura. Esso sta non solo per tutti i dittatori, ma anche per tutti i ‘vincitori’ della storia, siano essi soggetti individuali o collettivi. Peterson ha avuto il merito di costruire un ideal-tipo, quello della ‘teologia politica’ come abuso della fede volto alla giustificazione del vincitore di turno. Lo ha fatto sulla base di un’affermata estraneità radicale della confessione della verità cristiana al ‘politico’ in quanto tale, estraneità che genera una dialettica feconda proprio nella impossibilità di una qualche utilità politica della confessione della verità, della sua Unzweckmässigkeit. Il problema che egli ha posto non sta nella legittimità del sintagma della ‘teologia politica’ in quanto tale e non dipende dalla plausibilità storiografica dell’esempio scelto. Nella sua «testimonianza alla verità» il problema appare nella sua vera luce: quello dell’alterità radicale tra il regno atteso dai credenti e la storia costruita da coloro che la ‘posseggono’, che vi agiscono da vincitori. Testimoni diversi da Peterson, rappresentanti della cultura ebraica che nel Novecento si riappropria del proprio ruolo sulla scena del teatro pubblico della storia occidentale, hanno intravisto la stessa verità.
1 C. Schmitt, Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre der Souveränität, München-Leipzig 1922. Qui si farà riferimento alla traduzione italiana, Teologia politica, condotta sulla II edizione del 1934, contenuta in Id., Le categorie del ‘politico’. Saggi di teoria politica, a cura di G. Miglio, P. Schiera, Bologna 1972. Dovrebbe essere inutile notare che nel 1934, dopo l’ascesa di Hitler al potere, lo scritto di Schmitt aveva ben altra pregnanza che nel 1922.
2 Si distingue qui tra la data di pubblicazione della Politische Theologie II. Die Legende von der Erledigung jeder politischen Theologie, Berlin 1970, e la data della composizione, portata a termine, secondo l’indicazione dello stesso Schmitt, nel dicembre 1969: ivi, p. 11.
3 E. Peterson, Il monoteismo come problema politico, Brescia 1983. Ci si riferirà sempre a questa traduzione italiana, alla quale abbiamo premesso un editoriale: G. Ruggieri, Resistenza e dogma. Il rifiuto di qualsiasi ideologia politica in Erik Peterson, ivi, pp. 5-26.
4 W. Benjamin, Theologisch-politisches Fragment, in Gesammelte Schriften, hrsg. von R. Tiedemann, H. Schweppenhäuser, Frankfurt a.M. 1980), II/1, pp. 203-204. Sul carattere problematico del titolo dato da Adorno, giustamente insiste G. Bonola, Antipolitica messianica. La giustizia di Dio come critica del diritto e del «politico» nel filosofare comune di G. Scholem e W. Benjamin (1916-1920), in Fenomenologia e società, 23 (2000/2002), pp. 3-36, in partic. 3.
5 J.B. Metz, Kirche und Welt im Lichte einer «politischen Theologie», in Zur Theologie der Welt, München 1968, p. 106, rispettivamente alle note 5 e 6 (trad. it. Sulla teologia del mondo, Brescia 1969). Per il richiamo della nuova teologia politica, sia protestante sia cattolica, a Peterson, cfr. B. Nichtweiss, Erik Peterson. Neue Sicht auf Leben und Werk, Freiburg-Basel-Wien 1992, pp. 828-830.
6 Si tratta in realtà della trascrizione delle lezioni tenute da Jacob Taubes alla Forschungsstätte della Evangelische Studiengemeinschaft di Heidelberg nel febbraio 1987. Qui si terrà presente l’edizione italiana: J. Taubes, La teologia politica di San Paolo, Milano 1997.
7 C. Schmitt, Politische Theologie II, cit., pp. 69-70, 86-87.
8 E. Peterson, Il monoteismo come problema, cit., p. 60
9 Si veda ad esempio, ivi, pp. 61 e soprattutto 69.
10 Ivi, p. 29.
11 J. Taubes, Teologia politica, cit., p. 61.
12 E. Peterson, Il monoteismo come problema, cit., p. 29.
13 J. Taubes, Teologia politica, cit., pp. 68-74.
14 E. Peterson, Was ist Theologie, in Theologische Traktate, Munich 1951.
15 Ma il confronto Schmitt-Peterson è più esteso di quello qui ricordato. Si veda una presentazione ampia di tale confronto in M. Nicoletti, Erik Peterson e Carl Schmitt. Ripensare un dibattito, in Erik Peterson. La presenza teologica di un outsider, a cura di G. Caronello, Città del Vaticano 2012, pp. 517-537, con la giusta sottolineatura del ruolo che in tale confronto ha giocato Zeuge der Wahrheit di Peterson (cfr. E. Peterson, Zeuge der Wahrheit, Leipizig 1937).
16 Politische Theologie II, cit., pp. 9-11.
17 Politische Theologie II, cit., p. 85. Le motivazioni profonde della posizione di Peterson sono state ricostruite in maniera convincente da B. Nichtweiss, Erik Peterson. Neue Sicht auf Leben und Werk, Freiburg-Basel-Wien 1992.
18 Riassumeremo di seguito le pagine pp. 96-108 di Politische Theogie II, cit. Le indicazioni citate tra parentesi nel testo si riferiscono a queste pagine.
19 Per il concetto di forma che Schmitt riprende da Weber, cfr. C. Schmitt, Teologia politica, cit., pp. 52-54.
20 Politische Theogie II, cit., p. 22.
21 Ai fini della teoria di Schmitt sulla sovranità e sul suo contenuto teologico secolarizzato, è importante quella parte dell’art. 48 che recita «Il presidente può prendere le misure necessarie al ristabilimento dell’ordine e della sicurezza pubblica, quando essi siano turbati o minacciati in modo rilevante, e, se necessario, intervenire con la forza armata. A tale scopo può sospendere in tutto o in parte la efficacia dei diritti fondamentali stabiliti dagli articoli 114, 115, 117, 118, 123, 124 e 153».
22 Cfr. il testo in C. Schmitt, Teologia politica, cit., pp. 89-10.
23 E. Peterson, Il monoteismo come problema, cit., pp. 69-70. Per una dettagliata presentazione del trattato di Peterson sul monoteismo cfr. B. Nichtweiss, Erik Peterson, cit., pp. 763-830.
24 Si vedano le osservazioni critiche e pertinenti di Schmitt in Politische Theologie II, ma soprattutto gli atti di un seminario ad hoc riprodotti in A. Schindler, Monotheismus als politisches Problem? Erik Peterson und die Kritik der politischen Theologie, Gütersloh 1978.
25 Cfr. nel volume di Schindler, soprattutto il saggio di E.L. Fellchner, in particolare pp. 58-59. Su questo punto ha perfettamente ragione G. Agamben, Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo, Torino 2009, anche se la sua critica (addirittura taccia di antisemitismo Peterson) si limita al libro sul monoteismo e non prende in considerazione Zeuge der Wahrheit e ancor meno la vicenda personale di Peterson. Su quest’ultimo aspetto è molto utile il saggio di Ph. Chenaux sui rapporti con Maritain: Erik Peterson e Jacques Maritain – un’amicizia discorde, in Erik Peterson, a cura di G. Caronello, cit., pp. 551-561; Agamben non merita invece la critica ingenerosa alla sua interpretazione da parte di Ch. Schmidt, Il ritorno del Katechon. Giorgio Agamben contro Erik Peterson, ivi, pp. 562-582. Molto articolata è invece la monografia di Kurt Anglet, che mette a raffronto diretto Benjamin e Peterson e vede in Peterson la risoluzione nell’escatologia della dialettica messianica che agita la storia: K. Anglet, Messianität und Geschichte. Walter Benjamins Konstruktion der historischen Dialektik und deren Aufhebung ins Eschatologische durch Erik Peterson, Berlin 1995.
26 Cfr. anzitutto F. Bolgiani, Dalla teologia liberale all’escatologia apocalittica: il pensiero e l’opera di E. Peterson, in Rivista di storia e letteratura religiosa, 1 (1965), pp. 1-50, e poi, più estesamente, B. Nichtweiss, Erik Peterson, cit.
27 E. Peterson, Zeuge der Wahrheit, cit., e poi in Id., Theologische Traktate, cit., pp. 165-224, da dove sono tratte le citazioni.
28 E. Peterson, Zeuge der Wahrheit, cit., p. 176. La frase tra parentesi, oltretutto difficilmente condivisibile perché svela un’esasperazione di ortodossia che ignora il valore della coscienza soggettiva, è la nota 5 di p. 220.
29 B. Nichtweiss, Erik Peterson, cit., a nostro avviso non tiene conto sufficientemente di questo aspetto del problema.
30 J. Moltmann, Trinità e regno di Dio. La dottrina su Dio, Brescia 1983, p. 205.
31 Vedi le note principali di siffatta teologia politica, ivi, pp. 211-212.
32 Il testo del Frammento teologico politico a cui si fa riferimento è quello pubblicato nelle Gesammelte Schriften, cit., III/1, pp. 203-204; III/3, pp. 946-949.
33 Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola, M. Ranchetti, Torino 1997. Non è inutile ricordare che quest’opera fu scritta poco prima di morire, mentre il Frammento è un’opera giovanile.
34 Frammento teologico politico, cit.
35 Ibidem.
36 G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätze und Entwürfe bis 1923, I. Halbband 1913-1917, I, Frankfurt a.M. 1995, pp. 401-402. Lo abbiamo letto con l’aiuto di quanto ha scritto G. Bonola in Antipolitica messianica, cit. La curiosità ci è stata invece destata da G. Agamben, La povertà e il regno, in Cristianesimo nella storia, 32 (2012), pp. 117-125, in partic. 122-123.
37 G. Scholem, Tagebücher, cit.
38 Sulla polemica Taubes-Scholem, si vedano Th. Macho, Der intellektuelle Bruch zwischen Gershom Scholem und Jacob Taubes. Zur Frage nach dem Preis des Messianismus, in R. Faber, E. Goodman-Thau, Th. Macho, Abendländische Eschatologie. Ad Jacob Taubes, Würzburg 2001, pp. 531-543; G. Bonola, Taubes contro Scholem, in Humanitas, 60 (2005), pp. 1-2, 122-152. Sul rapporto fra Taubes e Schmitt cfr. J. Reipen, “Gegenstrebige Fügung”? – Jacob Taubes und Carl Schmitt, Abendländisce Eschatoloie, pp. 509-529.
39 J. Taubes, Teologia politica, cit., p. 186.
40 Per una prima introduzione alla discussione contemporanea sul messianismo ci si limita a rimandare a: P. Levinson, Il Messia nel pensiero ebraico, Roma 1997; Il messianismo nella storia, in Concilium, 1 (1993); G. Cunico, Messianismo, in Enciclopedia filosofica, VIII, Milano 2006, pp. 7332-7337; O. Aime, Il messianismo. Pensiero ebraico e teologia cristiana, in Archivio Teologico Torinese, 13 (2007), pp. 359-381; P. Bouretz, Testimoni del futuro. Filosofia e messianismo nel Novecento, Roma 2009. Ma il testo ‘classico’ resta la conferenza di Scholem sul suo messianesimo, che risale al 1959 ed è pubblicata in italiano nel libro di Scholem dedicato ai Concetti fondamentali dell’ebraismo, Genova 1986, pp. 105-147.