Il 2015 di Israele e soprattutto del suo primo ministro, Benjamin Netanyahu, si può collocare tra due discorsi. In marzo, alla vigilia delle elezioni anticipate, è stato invitato al Congresso americano, senza che il presidente Obama ne fosse informato, e lì ha tenuto il quarto discorso. Ha parlato, con molte ovazioni e qualche defezione, del suo tema preferito, l’Iran, anche perché i negoziati tra il P5+1 e Teheran erano ancora in corso e Netanyahu sperava di influenzarli. Poco dopo Netanyahu ha vinto le elezioni, di misura, e soprattutto ha formato un governo molto di destra con una base parlamentare di 61 voti su 120 seggi della Knesset. Rafforzata inoltre dall’appoggio di alcuni deputati di destra rimasti fuori ma soprattutto ha contato, costantemente, sui voti a favore o sull’assenza in aula dell’opposizione, i laburisti di Herzog o i centristi di Lapid. Mentre la Knesset passava leggi più dure per fermare la non dichiarata intifada che ha il suo perno a Gerusalemme Est e sulla spianata delle Moschee, la politica estera di Israele oscillava tra un grande attivismo e un grande vuoto. Netanyahu ha tenuto per sé l’interim degli esteri, nominando come sua vice Tzipi Hotovely (Likud), che discute di politica estera usando argomenti rabbinici e difendendo con zelo i coloni e il diritto degli ebrei a tutta la terra di Israele e ha inoltre parlato di annessione.
Ma è Netanyahu il protagonista. La base è, dagli anni Settanta, l’appoggio e aiuto americano, in ogni sede e con grossi aiuti militari, ma nonostante le molte affermazioni contrarie, il rapporto tra Netanyahu e l’amministrazione Obama, attivo in ininterrotto parallelo dal 2009, non è buono. Di recente, Obama ha rifiutato di impegnarsi a usare di nuovo il veto americano in sede di Consiglio di Sicurezza per bloccare eventuali risoluzioni contro Israele. Il 2016 sarà l’ultimo anno della presidenza Obama, e sono possibili colpi di coda a sfavore di Israele. Inoltre, è paradossale che Netanyahu si consideri grande conoscitore della politica americana ma non valuti i profondi cambiamenti in atto, demografici e politici. La tradizionale roccaforte repubblicana sta cambiando, deputati giovani, minoranze crescenti, minore legame anche generazionale con Israele, al di là della tattica elettorale e strategica della politica americana. Netanyahu ha anche cercato sponde altrove, Russia, ma soprattutto Cina, India, soggetti che vedono però Israele come marginale alle proprie politiche, anche se stipulano contratti per forniture militari. Inoltre, l’insistenza di Netanyahu a parlare sempre di Iran e Medio Oriente, e assai poco di palestinesi lo indebolisce. Come sono rapporti di realpolitik, e di difficile gestione, quelli con paesi come l’Egitto o l’Arabia Saudita, interessati al terrorismo ma ostili o scettici verso Netanyahu.
Il rapporto più complesso è quello con l’Europa, intesa come Unione e come singoli stati, con politiche verso Israele non univoche. Ancora una volta il passare del tempo, inutilmente, sul versante di veri negoziati palestinesi, nuove generazioni che alla simpatia per Israele aggiungono la condanna per la politica di occupazione, e una certa esasperazione per il modo in cui i governi Netanyahu (da febbraio 2009 a oggi) si pongono in politica estera ma anche interna, nuociono al tradizionale legame tra uno stato ebraico e il continente dove gli ebrei sono stati perseguitati e massacrati per millenni. Per non parlare della sproporzione che si percepisce in quello che è sia un piccolo paese, ma anche una potenza militare regionale che vuole contare molto, e un cliente di politiche occidentali di favore che però spesso non ricevono adeguato riscontro.
La politica europea ha due palcoscenici. Uno è quello dell’Un, dove negli ultimi anni, in sede di votazioni dell’Assemblea Generale, parecchi stati europei hanno modificato il loro tradizionale atteggiamento. Ad esempio, il riconoscimento della Palestina come stato non-membro nel 2012. Paesi da sempre a favore di Israele, Italia compresa, si sono astenuti, mentre altri hanno votato contro Israele. Una slavina che da allora si muove. Nell’aprile 2015, 16 ministri degli esteri, Italia compresa e Germania astenuta, hanno chiesto di accelerare la procedura per richiedere a Israele l’etichettatura delle merci provenienti dai Territori occupati (ovvero West Bank, Gerusalemme Est e Golan) e in settembre il Parlamento europeo, a stragrande maggioranza, ha votato in questo senso.
C’è da parte di Israele un’incomprensione e una sottovalutazione dei poteri e della forza dell’Eu e dei suoi regolamenti. Di solito Israele conta sull’appoggio di paesi chiave, come la Germania, ma anche questi rapporti si stanno usurando, nel tempo. La solidarietà che da sempre ha legato lo stato di Israele alle comunità della diaspora sta cambiando. Da sempre i governi di Israele tendono a considerare la diaspora una piattaforma di solidarietà indiscussa, ma la politica di occupazione, che nel 2017 compirà 50 anni, suscita critiche crescenti e dilanianti perché spesso sopite. Le nuove generazioni di ebrei, negli Stati Uniti e altrove, vorrebbero una pace che dia sicurezza a due stati, non la semplice gestione dell’occupazione sine die. Il discorso di Netanyahu all’Assemblea dell’Un in ottobre riassume l’isolamento di Israele: ha parlato di Iran, di palestinesi che non vogliono negoziati, in un’aula quasi vuota, mentre nella West Bank si sparava. Solo una forte iniziativa internazionale, forse francese e con avallo americano, può costringere le parti a trattare, e con tempi precisi, soprattutto ora che i giovani palestinesi ricorrono di nuovo alla violenza.