Dal 2010, in Afghanistan e nelle cancellerie occidentali prevale l’idea che la soluzione militare al conflitto sia inefficace, e che sia indispensabile perseguire la via del dialogo politico tra il governo di Kabul e il fronte anti-governativo, in primis i Talebani, il principale gruppo di opposizione armata. Gli sforzi compiuti finora non hanno però generato risultati significativi, nonostante nel corso del 2015 si siano registrati diversi segnali promettenti, di cui due rilevanti. Il primo risale al 15 luglio, quando sul sito dell’Emirato islamico d’Afghanistan è stata pubblicata una dichiarazione attribuita al mullah Omar, con il quale la guida suprema dei Talebani ha legittimato il tentativo di trovare una soluzione pacifica al conflitto, pur ribadendo il diritto al jihad contro le truppe di occupazione. Il secondo risale al 7 luglio, quando a Munree in Pakistan si è tenuto il primo incontro formale tra rappresentanti del governo afghano ed esponenti del movimento talebano, preceduto da colloqui informali in Cina, Qatar, Norvegia.
L’incontro di Munree, al quale hanno partecipato come osservatori anche diplomatici cinesi e statunitensi, oltre ad alcuni generali dell’Inter-Services Intelligence, potente servizio segreto del Pakistan, è stato ampiamente pubblicizzato da Islamabad per guadagnare credito nei confronti dei partner internazionali, in primo luogo Cina e Stati Uniti, che continuano a giudicare inconsistente la pressione esercitata dal ‘paese dei puri’ sui Talebani. La pubblicità ha però indispettito i membri dell’Ufficio politico dei Talebani a Doha, che hanno disertato l’incontro. L’Ufficio di rappresentanza – inaugurato nel giugno 2013 e poi chiuso in seguito alle rimostranze del governo afghano – ha sede in Qatar per garantire ai Talebani maggiore autonomia decisionale rispetto allo ‘sponsor’ pakistano. La partecipazione a un incontro sotto l’egida di Islamabad avrebbe compromesso la strategia di affrancamento dei membri dell’Ufficio politico, in dissidio con la shura (consiglio) di Quetta, una delle tre principali ‘cupole’ del potere talebano insieme alla shura di Peshawar e a quella di Miran Shah, che rappresenta il network Haqqani, affiliato ai Talebani ma con ampi margini di autonomia finanziaria e operativa. I dissidi interni al fronte talebano, già emersi alla vigilia delle elezioni del 2014 tra la fazione che intendeva sabotare militarmente il processo elettorale e quella che voleva servirsene per avvicinarsi al governo di Kabul, sono riaffiorati a fine luglio 2015, quando è stata annunciata la morte dell’Amir Al-Momineen, la ‘guida dei fedeli’, il mullah Omar. La notizia, resa nota il 29 luglio, due giorni prima del secondo incontro negoziale previsto dopo Munree, ha paralizzato l’embrionale processo di pace e approfondito le fratture interne alla galassia dei militanti islamisti. La nomina a nuovo leader del mullah Akhtar Mohammad Mansour – già responsabile del Consiglio della leadership, il massimo organo di rappresentanza politica dei Talebani – è stata contestata da alcuni esponenti di peso, come Abdul Qayum Zakir, già a capo della Commissione militare, estromesso nell’aprile 2014, e Tayyeb Agha, abile negoziatore, che nell’agosto 2015 ha lasciato la carica di responsabile dell’Ufficio politico di Doha.
Oggi ci si chiede se la nuova ‘guida dei fedeli’ abbia o meno la capacità di tenere insieme un fronte anti-governativo disomogeneo, che soffre, oltre alle spinte centrifughe interne, quelle provenienti dalla crescente minaccia dello Stato islamico (Is) in Afghanistan. E se le aperture di una parte della leadership politica al negoziato non rischino di alienare il sostegno dei combattenti talebani sul terreno, favorendo un ulteriore frammentazione e il reclutamento dell’Is, un gruppo che ha radici ideologico-dottrinarie e obiettivi molto diversi ma che è riuscito a dirottare su di sé parte delle risorse che i tradizionali sponsor regionali riservavano un tempo ai Talebani. A giudicare dai comunicati ufficiali e da alcuni segnali informali, sembra che il mullah Mansour intenda puntare nel breve termine a presentarsi come un leader alieno ai compromessi, ma che una volta conquistata la fiducia dei suoi uomini possa tornare a dare voce all’anima più pragmatica e conciliante. Sul fronte governativo, va segnalato l’attivismo del presidente Ghani, che sin dal suo insediamento nel settembre 2014 ha adottato una politica di significativo avvicinamento al governo pakistano, nell’ambito di una più ampia politica di riconfigurazione degli equilibri regionali. L’opzione strategica di Ghani – convinto che al cuore del conflitto ci sia, prima della ribellione talebana, l’antagonismo interstatale tra Afghanistan e Pakistan – gli è però costata una considerevole perdita di capitale politico nel suo paese, dove è forte il sospetto verso il governo pakistano. Il risentimento rischia di approfondirsi, se nel 2016 non arriveranno risultati concreti o, come molti si augurano, un vero e proprio cessate il fuoco.