Il diritto civile
Gli intensi nessi se non francamente sistematici, certamente organici che legano lo ius proprium della Serenissima con la tradizione romana, sono stati individuati, sul piano generale, nella redazione statutaria di Iacopo Tiepolo, con riferimento alle tendenze di politica del diritto che sottendono l'azione di questo doge (1). Questi stessi nessi sono testimoniati dalla disciplina propria di numerose figure e di fondamentali istituti del diritto privato. Ciò fu messo in luce adeguata da Enrico Besta. Accanto a questi, tuttavia, sussistono numerosi istituti che, in accordo con quanto dimostrato altrove (2), trovano fondamento nella tradizione consuetudinaria propria dell'esperienza giuridica lagunare.
la legittimità civile, la "legitima aetas"
In primo luogo noteremo che la connessione organica con la tradizione di matrice romana e specificamente con l'evoluzione che questa subì nell'esperienza di ius commune si desume dal silenzio delle fonti dell'ordinamento particolare su alcune figure e su alcune situazioni che assolvono ad un ruolo cardinale per la struttura del diritto: non una norma dello Statuto di Iacopo Tiepolo del 1242 (Statuto nuovo) o del Liber sextus di Andrea Dandolo del 1346 sono dedicate, per esempio, alla disciplina o comunque alla configurazione della soggettività giuridica e della conseguente capacità di essere titolare di situazioni giuridiche. Viceversa, come subito si vedrà, numerose norme regolano aspetti particolari di questa materia, ora rafforzando la disciplina di ius commune, ora derogandovi. Ne consegue che la soggettività giuridica è quella che si evince dallo ius commune, ossia essa coincide con la soggettività fisica dei nati liberi, o più precisamente dei nati da madre libera. Questa affermazione è confermata dall'argomento che si ricava dalla norma statutaria che, disciplinando la legittimazione per susseguente matrimonio, ne limita l'efficacia al caso del filius che sia nato da una libera (3).
Il capitolo dello Statuto che stiamo commentando è di singolare importanza. Esso reca la testimonianza più ricca di quale sia il diritto vigente nella Repubblica lagunare in una serie di istituti fondamentali, vale a dire in materia di soggettività giuridica e di status libertatis, di filiazione e in particolare della filiazione legittima e della legittimazione della filiazione naturale; infine esso indica la disciplina da applicare in materia successoria per le situazioni di legittimazione per susseguente matrimonio.
Inoltre questo cap. 28 del quarto libro dello Statuto nuovo, proprio per la sua formulazione, attesta come il regime della legittimazione per susseguente matrimonio non sia introdotto originariamente con la norma che esso contiene; infatti la sua giustificazione riposa sul fatto che esiste incertezza in ordine all'efficacia del matrimonio rispetto alla qualificazione della prole eventualmente concepita dagli stessi soggetti prima delle nozze: "affinché d'ora in poi non nascano questioni in proposito" - "ut autem nulla questio, sicut hactenus fiebat, ualeat de cetero suboriri" -, dichiara il legislatore essere la finalità per l'adozione del regolamento che si accinge a dettare. Dunque, se ne deve inferire che in linea di principio la filiazione si distingue in filiazione legittima e non, a seconda che essa sia generata o meno durante il matrimonio e che questo ha una efficacia di per sé legittimante (4). In tal modo il matrimonio mantiene nell'ordinamento del Commune Veneciarum la funzione di misura della legittimità che ha nell'esperienza di ius commune.
Tuttavia la norma riguarda soltanto i figli di soggetti che non siano rispettivamente vincolati da altre nozze (5); inoltre la legittimazione si produce esclusivamente nei confronti di un figlio di una libera, come abbiamo appena visto. Dinanzi a quest'ultima constatazione ci si deve domandare: sulla base di questa disciplina e contrariamente a quanto si possa ragionevolmente ritenere e comunque contrariamente a quanto ritiene la storiografia (6), forse che i figli di una schiava, non essendo appunto liberi, non sono nemmeno suscettibili di essere qualificati come figli legittimi, indipendentemente dallo stato coniugale dei loro genitori?
La portata della clausola finale del cap. IV, 28 dello Statuto è ovviamente più limitata di quanto si possa a tutta prima opinare. Per la sua comprensione è necessario avere presente tutto il sistema, così come risulta dalla collocazione di questa norma in un ambito che si articoli sulla base della disciplina di ius commune. Solo così si può pervenire alla sua corretta lettura. Invero, quella clausola vieta espressamente la legittimazione per susseguente matrimonio dei figli della schiava nati prima del matrimonio che essa abbia contratto con un libero. Non c'è dubbio, d'altronde, che, in ogni caso, i figli nati dall'unione di un libero e una schiava, anche se possono essere annoverati, soprattutto per effetto della disciplina canonistica, tra i figli legittimi, sono tuttavia serui (7). In caso contrario si realizzerebbe una conseguenza particolarmente eversiva per la struttura economico-sociale del tempo: vale a dire i figli di una schiava, in quanto legittimati per susseguente matrimonio, sarebbero appunto legittimati a succedere, alla pari degli altri eredi legittimi, al patrimonio del padre. In realtà la prole nata dal matrimonio tra un libero e una schiava, in quanto dipendente dalla condizione della madre, e dunque essa pure non libera, non può essere titolare di diritti e comunque di situazioni giuridiche soggettive in concorrenza con i liberi. In quanto tale essa non è qualificabile alla stregua della categoria della legittimità civile (8).
Questa conseguenza dipende dall'intera disciplina della materia che, come già sappiamo, non sta scritta nello Statuto veneziano, ma non lo è nemmeno nelle Decretali pontificie, bensì nei testi della compilazione giustinianea. Sia le Decretali, sia l'ordinamento di ius proprium evidentemente ne implicano l'esistenza e, quel che è più importante, la vigenza, in mancanza della quale, infatti, lo specifico precetto del cap. IV, 28 dello Statutum nouum non sarebbe propriamente comprensibile.
Da una simile disposizione, dunque, si ricava che nell'ordinamento veneziano, ancora nel XIII e nel XIV secolo, esistono soggetti che non godono dello status di liberi. Invero, significativa testimonianza in tal senso è data dagli atti di disposizione di schiavi che si trovano nei protocolli notarili coevi. Il 14 aprile 1311, per esempio, il notaio Domenico, prete di San Maurizio, roga una carta relativa alla donazione di una schiava che Phylippus Quintauale de confinio Sancte Marine fa alla propria moglie Maria (9). Ancora lo stesso notaio il 13 gennaio 1311 redige un atto di compravendita che anche qui ha per oggetto una schiava (10). È interessante notare che in entrambi i casi qui esemplificati le donne ridotte in schiavitù sono di provenienza greca: da Salonicco proviene la prima, da Patrasso partibus Romaniae, la seconda. La posizione di queste persone ridotte allo stato servile oltre ad avere una rilevanza socioeconomica, è specificamente regolata dal diritto vigente. Questo attinge elettivamente alle norme del diritto romano, che disciplinano le situazioni nelle quali lo status libertatis assume rilievo formale.
Neanche la legittimità civile è espressamente disciplinata da norme di ius proprium, mentre norme di ius proprium intervengono per regolare questioni o procedure connesse con questa materia. Eppure la distinzione tra figli legittimi e figli che legittimi non sono appartiene all'esperienza giuridica della Serenissima, come dimostra il cap. IV, 28 dello Statuto del Tiepolo, che abbiamo commentato con riguardo al problema dello status libertatis.
Una determinata nozione di legittimità civile, d'altro canto, è evidentemente implicata dalle norme che disciplinano la successione ab intestato e segnatamente dal cap. IV, 23 dello Statuto del 1242. Questo capitolo, in verità, non qualifica mai i filii ammessi alla successione legittima; ma insieme col testo statutario è tramandata una cospicua glossa che espone la classificazione dei figli (11).
Tuttavia, prima di considerare analiticamente questo argomento, dobbiamo affrontare il problema di quale sia la nozione di legittimità civile implicata dalle norme statutarie sommariamente indicate.
Ancora una volta lo Statuto non fornisce la diretta disciplina di ciò che è filiazione legittima, ma, come ho già detto, la implica; o, meglio, ancora una volta, alcune specifiche norme di ius proprium implicano: a) l'esistenza di una discriminazione formale tra soggetti qualificati come figli legittimi e soggetti privi di una tale qualificazione, o destinatari di una qualificazione che si contrappone a quella di figli legittimi; di conseguenza, b) il riferimento ad un concetto determinato e specifico di filiazione legittima.
Si deve preliminarmente osservare che la qualificazione di figlio legittimo di un soggetto, che generalmente è trattata anche dalla storiografia sotto il profilo dei rapporti tra genitori e figli, è rilevante, specialmente negli ordinamenti dell'età medievale e moderna, per la struttura della soggettività giuridica, una volta che questa la si configuri non soltanto come capacità astratta e in certo senso ideale di essere titolare di situazioni giuridiche soggettive, ma come insieme concreto di situazioni giuridiche soggettivamente determinate. Essere o non essere figlio legittimo, specialmente negli ordinamenti corporativi dell'esperienza giuridica di ancien régime ha decisive conseguenze in ordine all'effettiva e attuale imputabilità di situazioni giuridiche che vanno dalla famiglia fino alla partecipazione alla vita pubblica. Vi sono intere situazioni giuridiche soggettive, la cui esistenza e sopravvivenza sono condizionate dalla loro trasmissibilità di padre in figlio. E questa è giuridicamente possibile, purché il figlio sia qualificato come legittimo. Tali situazioni, ancorché confinate dalla categorizzazione ius priuatum-ius publicum nella sfera dei rapporti tra privati, in realtà, pur mantenendosi all'interno della categoria formale del diritto privato, hanno rilevanza in ordine all'assetto della società e alla sua struttura, nonché alla conservazione e al perpetuarsi di tale struttura.
La testimonianza più cospicua della rilevanza della legittimità civile per l'intero ordinamento veneziano medievale è fornita, ancora una volta, proprio da quel cap. IV, 28 dello Statuto del 1242, relativo alla legittimazione per susseguente matrimonio, che abbiamo appena visto come testimonianza della disciplina vigente per la determinazione dello status libertatis (12). Anche da una superficiale lettura si potrà constatare che questo capitolo dello Statutum nouum assume la qualificazione di figlio legittimo come di colui che "è nato dopo che sia contratto il matrimonio"; ovvero come del "figlio nato da donna dopo che questa si sia unita ad un uomo in costanza di legittimo matrimonio", come si potrebbe dire parafrasando il testo dello Statuto. Infatti non legittimo, ma legittimabile è il figlio "nato da una donna prima che questa si sia unita ad un uomo in legittimo matrimonio": costui è suscettibile di legittimazione ipso iure, ossia immediatamente e direttamente per il fatto che "il padre abbia contratto legittimo matrimonio con la medesima donna"; sicché egli può essere computato tra i filii di esso padre "come se fosse nato dopo che siano state contratte le nozze". La conseguenza di questa linea argomentativa è che, per il legislatore veneziano, la disciplina di riferimento di ciò che è filiazione legittima è quella incentrata sul fatto che essa avvenga o meno durante il matrimonio legittimo. Insomma il figlio che nasce durante il matrimonio legittimo è figlio legittimo del proprio padre legittimo il quale a sua volta è tale poiché dall'ordinamento è indicato nel marito della madre.
Ma questa struttura della legittimità civile è evidentemente quella romanistica o meglio, considerando l'esperienza giuridica nella quale siamo situati, la struttura della legittimità civile e della filiazione legittima di ius commune. La troviamo delineata in due fondamentali testi della compilazione giustinianea, vale a dire Dig. 1, 6, 6 pr. (13) e Dig. 2, 4, 5 (14). Solo quelli che siano stati generati dopo che siano state contratte iustae nuptiae, vale a dire nuptiae conformi allo ius ciuile, sono designati formalmente filii (15). Soltanto questi saranno qualificati a succedere al padre che muoia senza aver redatto testamento - ab intestato -; soltanto questi saranno idonei a ricevere validamente le qualificazioni personali del padre, in particolare le dignitates e gli honores, come sancisce una cospicua serie di norme che regolano la trasmissione della dignitas senatoria di padre in figlio (16). L'importanza di questa normativa nell'ordinamento veneziano, con riguardo alla struttura della classe dirigente e al modo di formazione del maggior consiglio, è di immediata evidenza e difatti è rispecchiata da una glossa che correda il cap. IV, 24 dello Statuto nuovo, che così conclude: "Tutti questi illegittimi sono esclusi dalle pubbliche dignità e non partecipano alla successione" (17).
La struttura del cap. IV, 28 dello Statuto di Iacopo Tiepolo non solo assume esplicitamente come vigente una determinata disciplina della filiazione legittima, e precisamente quella che proviene dallo ius commune, con la quale interagisce sistematicamente; ma, coerentemente con questa, una tale struttura implica una altrettanto determinata disciplina del matrimonio. Questo istituto, del resto, costituisce propriamente il cardine di tutta la fenomenologia legata alla posizione del soggetto visto come insieme di situazioni giuridiche effettive, la misura della legittimità della prole, dunque della stessa familia.
L'istituto matrimoniale, d'altro canto, è certamente quello che più di altri risente del passaggio dall'esperienza storica romana, anche bassoimperiale, anche tardoantica, all'esperienza più specificamente - anche se ancora troppo genericamente - medievale; sicché si deve dire che la sua fisionomia nell'esperienza giuridica dell'età di ius commune non è certamente rispecchiata in modo soddisfacente da quanto troviamo scritto nei testi della compilazione giustinianea, anche se è in questi testi che lo sviluppo della dottrina affonda le sue più vitali radici.
È in considerazione di quest'ultima avvertenza che deve essere letta la citata gl. idem est iure del cap. IV, 28 dello Statuto del Tiepolo (18), che riferisce letteralmente parole e concetti delle Decretali pontificie e, in particolare, di X. 4, 17, 6, in ordine alla efficacia del matrimonio - alla sua uis - sui figli nati prima di esso. È dunque l'istituto matrimoniale quello che determina la conformità dei fatti di filiazione alla valutazione che l'ordinamento dà di un determinato assetto di interessi, considerato dall'ordinamento stesso come basilare: conformità resa sinteticamente con la locuzione ῾filiazione legittima'. D'altro canto, il riferimento alla norma canonica non deve ingannare: qui, come altrove, la uis del matrimonium legitimum è, dal diritto canonico, più constatata che statuita, poiché essa uis è sancita da norme quali quella di Inst. 1, 10, 13; di Inst. 3, 1, 2a; di C. 5, 27, 10 e infine di Nou. 74, 1, secondo l'enumerazione della medesima gl. idem est iure. Ma ancora una volta questo vuoi dire che tutta la struttura della filiazione legittima vigente nell'ordinamento veneziano è strettamente e sistematicamente collegata con la struttura dell'istituto matrimoniale, così come risulta nell'esperienza di ius commune, alla quale, con ogni evidenza, lo stesso ordinamento veneziano mostra di appartenere pienamente. Tanto che, per quanto costituisca il cardine di tutta questa materia, non una norma dello Statuto del 1242 o del successivo aggiornamento del Liber sextus di Andrea Dandolo ha per oggetto l'istituto matrimoniale al fine di disciplinarne anche solo qualche aspetto marginale e non essenziale.
La stessa norma del cap. IV, 28 dello Statuto, che sancisce la legittimazione dei figli per susseguente matrimonio non è, non ostante le apparenze, norma di ius proprium, bensì disciplina di squisito ius commune, cui l'ordinamento comunale mostra di adeguarsi definitivamente ed espressamente. Sicché, il rinvio, che il glossatore dello Statuto fa alle Decretali costituisce uno dei canali per mezzo dei quali si mantiene costantemente aperto, nella coscienza dei Veneziani del XIII e del XIV secolo, il flusso dell'esperienza giuridica di ius commune nel suo specificarsi come ordinamento particolare della Serenissima.
Il cap. 1 del libro secondo dello Statuto di Iacopo Tiepolo del 1242 fissa al compimento del dodicesimo anno l'età, al raggiungimento della quale si esce dalla tutela, senza tuttavia pervenire ad una situazione di piena capacità di agire (19):
Poiché nessuno validamente può stare in giudizio o può concludere contratti se non dopo aver raggiunto l'età legittima, è opportuno disciplinare quanto attiene al raggiungimento di tale età. Pertanto, stabiliamo che si ritiene aver conseguito l'età legittima chiunque compia dodici anni, sia esso di sesso maschile o femminile.
L'esegesi di questo capitolo non è così semplice come potrebbe ritenersi a prima vista e come mostra di ritenere Odofredo, cui è attribuita la gl. hoc est uerum che occorre considerare nella sua completezza (20):
Questo è vero conformemente al diritto longobardo, secondo il quale l'età legittima, sia per i maschi che per le femmine, è fissata al compimento del dodicesimo anno, come è scritto nella compilazione della Lombarda, al capitolo nullus. Diversa è la disciplina che discende dal diritto romano, poiché per questo l'età legittima si consegue non prima del compimento dei venticinque anni, come risulta da quanto è sancito a proposito di reintegrazione dei minori, beneficio che è negato a coloro che abbiano concluso contratti dopo il compimento di venticinque anni: v. la costituzione finale del titolo del Codex relativo a coloro che richiedono tale beneficio [C. 2, 44 [[45>>, 4>. Odofredo.
Ed invero la costituzione del Codice citata da Odofredo fissa testualmente la legitima aetas, o anche la perfecta aetas, esclusivamente - tantummodo - al compimento dei venticinque anni - quae ex uiginti quinque annorum curriculis completur -, salve le eccezioni previste da leggi specifiche.
D'altronde è altrettanto vero che l'editto di Rotari tra l'altro, dispone (21):
I figli conseguono l'età legittima dopo aver compiuto dodici anni.
Non entreremo nella controversia, che pure potrebbe avere una qualche rilevanza nella ricostruzione critica del diritto vigente a Venezia nei secoli XIII e XIV, relativa al valore innovativo, rispetto a questo capitolo dell'editto di Rotari, della disposizione contenuta nel successivo editto di Liutprando, e specificamente in Liutp. 19, secondo il quale la legitima aetas è elevata al compimento del diciottesimo anno di età e dal quale risulta con sufficiente chiarezza come questa legitima aetas consista nell'età a partire dalla quale si possono compiere atti di disposizione su beni del proprio patrimonio perfettamente validi ed efficaci. L'Expositio ad librum Papiensem, infatti, registra un'opinione, secondo la quale la disposizione di Liutprando si deve intendere come subordinata alla morte del padre (22). Non entreremo in tale questione, oltreché per i limiti intrinseci di questo contributo, perché più interessante e più utile alla ricostruzione dell'esperienza giuridica veneziana è un'altra questione: quella cioè di stabilire quale sia il significato dell'espressione legitima aetas, ovvero, il significato che questa espressione assume nella specifica esperienza del diritto che si svolge nelle lagune, persuasi come siamo che non è possibile ritenere che questa di dodici anni sia l'età in cui si acquista la piena capacità di agire, ossia di compiere di per sé atti di disposizione perfettamente validi ed efficaci sul proprio patrimonio.
Consideriamo questi dati: il 15 novembre 1263 una "parte" del maggior consiglio sancisce (23):
Si è deliberato da parte del consiglio dei quaranta che nessuno ne possa far parte prima di aver compiuto l'età di venticinque anni; si è deliberato anche che si debba aggiungere al capitolare del medesimo consiglio dei quaranta che colui che vi viene ammesso, al momento in cui giura l'osservanza di detto capitolare, deve dichiarare di aver compiuto i venticinque anni.
Il 25 marzo 1272 il principio era esteso ad un più vasto ambito, pur con qualche eccezione (24):
Si è deliberato che tutti gli ufficiali di Venezia devono aver compiuto almeno i venticinque anni di età, compresi gli avogadori della curia del proprio e gli avogadori di comun e salvo gli avogadori della curia del palazzo che devono aver compiuto almeno i venti anni. [...>.
Il 12 luglio 1274 il maggior consiglio approva questa pars che lo riguarda specificamente (25):
Si è deliberato di aggiungere al capitolare del maggior consiglio che a decorrere dal giorno di san Michele nessun giovane, che non abbia compiuto i venti anni di età, possa concorrere alle deliberazioni di alcuno dei consigli di Venezia, salvo i figli del doge, sia di quello attualmente in carica, sia di quelli futuri. [...>.
Il 20 novembre 1277 è adottata questa statuizione per i membri del minor consiglio (26):
Si è deliberato che coloro che non hanno compiuto venticinque anni di età non possono far parte del minor consiglio.
Infine, il 9 ottobre 1280 viene sancito un principio, espressamente rivolto ai figli del doge, ma di implicita rilevanza generale (27):
Si è deliberato che i figli del doge attualmente in carica e di quelli successivi, al compimento dei quattordici anni di età, facciano parte del maggior consiglio senza esservi eletti e che ogni anno, il giorno di san Michele, prestino giuramento al maggior consiglio.
Nella seconda metà del XIII secolo, vigeva, dunque, nell'ordinamento veneziano un generalissimo principio, secondo il quale si è ammessi ai lavori del maggior consiglio fin dal compimento del quattordicesimo anno di età, anche se prima del compimento dei venti anni non è possibile partecipare alle deliberazioni. Questa complessa norma risulta dal coordinamento delle disposizioni del 1274 e del 1280: quest'ultima, in quanto sanzionatoria del diritto dei figli del doge di esse de maiori consilio fin dal compimento dei quattordici anni senza esservi eletti, ribadisce implicitamente, come accennavo, il correlato principio, secondo il quale alla generalità era concesso di far parte del medesimo consiglio fin dal compimento della medesima età a séguito di apposita elezione. In altri termini, la norma speciale sancita dalla legge del 1280 riguarda soltanto l'appartenenza di diritto dei figli del doge al maggior consiglio e non istituisce un privilegio relativo alla loro età (28); lo dimostra non soltanto il tenore della norma, ma la sua giustapposizione con quella del 1274. Quest'ultima, col vietare ai minori di venti anni la partecipazione alle deliberazioni, dimostra, nel silenzio di altre disposizioni, che si poteva essere eletti in maggior consiglio sicuramente prima dei venti anni e, argomentando dalla legge del 1280, dopo il compimento dei quattordici.
Tutto questo attesta una generale consuetudine ad anticipare notevolmente l'entrata dei giovani nella vita civile e ad attribuire loro responsabilità perfino di carattere pubblico. D'altro canto, tra il 1263 e il 1277 si mette in movimento una tendenza opposta, indirizzata a limitare l'esercizio di alcune pubbliche funzioni, da quella specificamente deliberativa in seno al maggior consiglio alla titolarità di veri e propri uffici, ad un'età più matura. Non mi sembra, tuttavia, ragionevole né prudente, in mancanza di prove in contrario, inferire senz'altro dalle norme appena richiamate, che limitano ai venti e ai venticinque anni l'esercizio o la titolarità di determinate funzioni pubbliche, addirittura il costume di attribuire tali cariche o funzioni ad adolescenti.
Invero, si deve ritenere che l'esigenza di emanare norme limitative sull'età di accesso a funzioni e cariche pubbliche sia il frutto di una più generale tendenza della classe dirigente veneziana ad una maggiore e rinnovata sensibilità nei confronti dell'esigenza di disporre di norme certe e incontrovertibili in ordine allo svolgimento della vita pubblica, da contrapporre a principi la cui indeterminatezza poteva mettere a repentaglio una ben ordinata convivenza civile. Assieme a questa tendenza, tuttavia, la serie di disposizioni sopra richiamate deve essere ritenuta l'indizio di un contegno della società veneziana favorevole all'accoglimento di criteri nuovi in ordine alla statuizione dell'età a partire dalla quale un soggetto è ritenuto legalmente capace di autodeterminarsi e dunque di porre in essere atti responsabili, sia in quanto produttivi di effetti nella propria sfera giuridica e patrimoniale, sia in quanto indirizzati ad incidere nella sfera della cosa pubblica.
In questo senso occorre ora accedere ad altre testimonianze: prima di tutto quella offerta dal Liber sextus (29). Il cap. 24 del Liber sextus (30) sancisce:
Desideriamo, per quanto ci è possibile, eliminare tutto quel che possa costituire minaccia ai beni dei minori e pertanto decretiamo che nessun soggetto di sesso maschile possa, d'ora in poi, uscire di tutela prima del compimento dell'età di quattordici anni.
Questa norma, se messa in relazione alla delibera del maggior consiglio del 1280 che abbiamo appena commentato, sembra indirizzata ad unificare la disciplina di diritto privato con quella pubblica; se messa in relazione con altre norme di rilevanza pubblicistica approvate dalla Serenissima tra il 1319 e il 1323 - dunque oltre venti anni prima la pubblicazione del Liber sextus -, dimostra una divaricazione difficile da interpretare, se non si procede ad un'analisi integrale della struttura della capacità di agire nell'ordinamento veneziano. Infatti, come del resto segnala lo stesso compilatore settecentesco dell'edizione del Liber sextus, il capitolo del Dandolo non interagisce soltanto con il cap. II, 1 dello Statuto del 1242, bensì anche con il suo cap. I, 38. L'analisi di tutto questo materiale normativo ci dovrebbe consentire di ricostruire una figura della capacità di agire sufficientemente completa nei suoi tratti fondamentali e di identificarne la struttura storica.
Il cap. I, 38 dello Statuto del Tiepolo (31) fissa a diciotto anni l'età necessaria agli orfani per il compimento di atti di disposizione e di amministrazione del proprio patrimonio, senza l'assistenza della curia dell'esaminador, lasciando inalterata un'età inferiore per la capacità di testare e di facere cartam repromissae.
Il 25 novembre 1319 (32) il maggior consiglio approvava una delibera che ammetteva l'estrazione a sorte dei minori di venticinque anni iscritti nel Liber quarantiae in quanto possint eligi in maiori consilio pro suis - ossia "possano essere eletti al maggior consiglio in quanto figli di membri del medesimo consiglio". La delibera non specifica l'età per la loro ammissione a questa procedura, ma, tenuto conto della delibera del 18 marzo 1414, si può congetturare che questa età fosse fissata al compimento del diciottesimo anno (33). Questa delibera stabiliva che, per potere essere ammesso in maggior consiglio, un discendente maschile di un suo membro doveva essere presentato dal padre agli avogadori di comun non prima del compimento dei diciotto anni. Tra i candidati così presentati si estraeva a sorte un numero limitato di giovani che in tal modo divenivano membri del consiglio. Gli avogadori dovevano, a loro volta, accertare di ufficio l'esistenza del requisito dell'età prima di ammettere questi giovani alla procedura. Il tenore di questa disposizione è tale da far ritenere per scontata l'età di diciotto anni come l'età minima per poter essere ammessi all'estrazione detta della balla d'oro per la festa di santa Barbara (che cade il 4 dicembre), ossia per conseguire l'ingresso al maggior consiglio prima del compimento della maggiore età, fissata classicamente ai venticinque anni. Sicché la congettura che i diciotto anni siano quelli cui tacitamente fa riferimento la delibera di circa un secolo prima - ossia quella del 25 novembre 1319 - sembra sufficientemente solida. Viceversa, l'età minima richiesta per l'ammissione privilegiata dei figli del doge vivente, indipendentemente da qualsiasi procedura, rimane evidentemente fissata a quattordici anni, visto che la disposizione del 1280 è inserita nel Libro d'oro vecchio, ossia nella compilazione delle leggi riguardanti il maggior consiglio ordinata da Andrea Gritti e pubblicata nel 1529 (34).
Ci troviamo quindi dinanzi ad una serie di disposizioni, tutte più o meno vigenti in un arco temporale che va dalla metà del XIII secolo alla metà del XIV, che impongono il compimento di differenti età per conseguire l'abilitazione allo svolgimento di differenziate attività giuridicamente rilevanti.
Per l'attività pubblica, eccettuato il privilegio relativo alla prole dogale, la tendenza che si manifesta tra il XIII e il XIV secolo è quella di innalzare l'età per conseguire una piena capacità a ricoprire cariche e funzioni, dai quattordici anni ai diciotto. Questa tendenza è confermata, tra l'altro, dal fatto che anche quest'ultima età minima sarà, sullo scorcio del XV secolo, elevata a venti anni con un provvedimento del consiglio dei dieci del 19 dicembre 1497 (35).
Discorso più complesso è quello che riguarda l'età al compimento della quale si acquista la piena capacità di autodeterminarsi sul piano dell'attività di diritto privato, ossia di gestire il proprio patrimonio: più complesso poiché questo tema necessariamente interagisce con la struttura della famiglia veneziana e dunque con le posizioni che l'ordinamento riserva ai suoi componenti nelle loro reciproche relazioni. Ma, pur tenuto conto di questa complessità, in prima approssimazione si può dire che l'età, al compimento della quale si acquista la piena capacità di agire, se non si è filiusfamilias, converge di fatto con quella richiesta per ricoprire cariche pubbliche, cioè con i diciotto anni per effetto della norma citata del cap. I, 38 dello Statutum nouum.
Tuttavia questo discorso vale, come si è avvertito, solo per una prima approssimazione, perché si deve riconoscere che la disciplina dell'età sembra essere la risultante d'un processo storico nel quale confluiscono diverse tradizioni, nonché le diverse posizioni personali del soggetto nell'ambito della familia.
Il cap. II, 1 dello Statutum nouum, che, come abbiamo visto, stabilisce al compimento dei dodici anni il raggiungimento dell'età legitima, come la definisce la norma statutaria, è ritenuto dal Besta appartenere al novero "di quelli aggiunti ex novo da Jacopo Tiepolo"; il Besta stesso peraltro aggiunge: "E forse non v'era precedentemente alcuna disposizione legale in proposito se quel doge affermava opportuno de metis aetatis aliquid diffnire" (36). Certamente, nelle redazioni statutarie redatte anteriormente a questa del Tiepolo del 1242, non si trova una norma analogamente specifica riguardante l'età al raggiungimento della quale si perviene ad una qualche capacità di agire. Si trova tuttavia una disciplina della materia, per quanto essa possa essere apparsa contraddittoria agli occhi del doge dugentesco.
Per poter identificare questa disciplina dobbiamo fare riferimento alla struttura che ha la famiglia nell'esperienza giuridica veneziana; una struttura che forse, ad un'analisi più approfondita, non risulterà peculiare a questa esperienza.
È forse opportuno ripetere un'ovvietà che tuttavia talvolta non è sufficientemente valorizzata nei suoi aspetti euristici, ossia che la familia nell'età dei comuni, ma generalmente in periodo premoderno, ha un orientamento fortemente patriarcale: ed è tale, essenzialmente, poiché essa risulta un'istituzione costruita intorno ad un patrimonio. Di questo patrimonio il paterfamilias è prima di tutto l'amministratore per così dire legale; per consentirgli di esercitare meglio una tale funzione, l'ordinamento gliene attribuisce anche la titolarità. Inoltre, per comprendere pienamente il quadro funzionale dentro il quale si muovono le varie figure giuridiche interessate, si deve aggiungere che questo patrimonio tende ad assumere, con variazioni che dipendono dai connotati delle diverse esperienze economiche e produttive, una configurazione anche immobiliare. Ciò vale anche per ordinamenti economici ai quali, per la loro forte impronta mercantile, siamo portati ad accreditare una vocazione essenzialmente mobiliare. In realtà, l'immobilizzazione dei proventi dell'esercizio dell'impresa mercantile assicura al mercante una solida base patrimoniale che lo mette al riparo dalle fluttuazioni delle vicende commerciali. D'altro canto, non vanno sottovalutate le implicazioni che sono legate alla proprietà immobiliare, soprattutto quando questa assume dimensioni territoriali consistenti, in ordine alle potenzialità che il titolare di tale patrimonio può esplicare sul piano politico in quanto produttore di beni di consumo essenziale per sé e la propria entità familiare, oltreché, talvolta, per l'ordinamento del quale è ciuis, oppure anche in quanto dominus di una numericamente significativa quantità di persone soggette. Queste gli sono inevitabilmente legate da un vincolo di fedeltà, sia perché suoi lavoratori dipendenti, sia perché soggetti che si trovano in posizione di servitù personale o almeno in una posizione vincolata al patrimonio fondiario di sua pertinenza.
La realizzazione di tutto questo passa per un processo di concentrazione dei patrimoni e quindi per un duplice binario: da un canto, la valorizzazione delle schiatte, delle gentes, ossia delle unioni tra le diverse famiglie patriarcali che si riconoscono per l'appartenenza ad una comune origine e tendono a mettere insieme le rispettive forze per conseguire finalità di potenza e di ricchezza; d'altro canto - e in stretta connessione con quanto appena detto - un'attenta politica matrimoniale, la quale si realizza pienamente con la scelta delle unioni più conformi agli interessi gentilizi e quindi mediante la stipula di strumenti dotali adeguati.
Nei termini peculiari che le sono propri, queste considerazioni possono valere anche per l'esperienza giuridica veneziana. Il Luzzatto (37) ha analizzato in modo inimitabile la struttura patrimoniale del patriziato, mettendo in luce una sua duplice configurazione, evidentemente legata alle origini delle singole schiatte. Famiglie, la cui base patrimoniale consiste in un'ingente proprietà fondiaria, si giustappongono a famiglie, la cui base ha natura eminentemente mobiliare. Il testamento di Giustiniano Partecipazio, che risale al IX secolo (38), e poi, in decorso di tempo, quelli di Sebastiano Ziani e del figlio Pietro del XII secolo (39) dimostrano come, per queste entità familiari, la proprietà immobiliare, sia urbana, sia fondiaria, intra ed extralagunare, costituisca una porzione più che significativa, sicuramente rilevantissima del patrimonio familiare. Ma, oltre al caso del Partecipazio, che può contribuire all'istruzione dello spinoso problema delle origini del patriziato (40), quel che risulta dalle indagini del Luzzatto è che, indipendentemente dalla loro formazione originaria, i patrimoni ingentissimi, dei quali qui si parla, trovano forme di impiego capitalistico essenzialmente di natura commerciale. Invero, non si può eludere la considerazione che lo stesso Luzzatto propone, secondo la quale, a prescindere dalla sua formazione originaria, la ricchezza di uno Ziani o di un Mastropietro (Malipiero), ha trovato, nell'esercizio diretto o indiretto del commercio internazionale, essenzialmente per via di mare, "la première et plus importante source de son accroissement" (41). La prova di ciò sta proprio nell'arco che sottende una struttura patrimoniale, quale quella rappresentata dal testamento di Giustiniano Partecipazio, e una struttura quale quella che si riflette nei testamenti di Sebastiano Ziani e di suo figlio Pietro e in altri atti coevi, che riguardano un ricchissimo esponente del patriziato come Orio Mastropietro (XII-XIII secolo). Questo arco può essere tracciato proprio perché, sebbene ci si trovi dinanzi a patrimoni per i quali l'elemento immobiliare si presenta particolarmente ingente, anche nel testamento del Partecipazio si fa espressa menzione di una partecipazione al commercio marittimo (42), tanto che il medesimo Luzzatto non può fare a meno di concludere che sin dalla metà del IX secolo risulta dimostrato come una delle forme di impiego capitalistico cui accede anche un grande proprietario terriero, nel momento in cui si trova a disporre di denaro liquido, è la partecipazione "aux risques et aux bénéfices du trafic maritime ", consistente nell'affidare il proprio denaro "ad negotiandum à qui entreprenait un voyage sur mer" (43).
A non diverse conclusioni si perviene ovviamente quando si prendano in considerazione, in un ambito cronologico più recente, patrimoni, i cui cespiti immobiliari rappresentano una porzione relativamente meno consistente. L'analisi del patrimonio di Ranieri Zeno del XIII secolo (44) o quella della struttura patrimoniale tipica del patriziato nel XIV secolo (45) dimostra come, sebbene la proprietà immobiliare urbana e anche quella rurale costituiscano uno degli impieghi preferiti dal ceto mercantile, esse, per differenti motivi, risalenti alle rispettive caratteristiche, non sono produttive di grandi entrate né costituiscono l'oggetto di cospicui investimenti. La funzione di questi impieghi è di natura assicurativa e di sussistenza in regime di economia naturale; inoltre, la collocazione dei fondi in terraferma, dunque in territorio straniero e spesso ostile, costituisce, ancora in questo ambito cronologico, un sicuro elemento di dissuasione per i proprietari ad investirvi capitali di grande entità (46).
Le fonti di reddito più feconde rimangono, oltre l'acquisto dei titoli del debito pubblico, l'esercizio diretto o la partecipazione al commercio internazionale, in primo luogo marittimo, e in misura sensibilmente minore, ma niente affatto trascurabile, per via di terra (47).
Dalle mirabili descrizioni del Luzzatto si evince chiaramente come una simile intensissima attività del ceto mercantile veneziano, che per lo più si identifica con il patriziato, anche se non si esaurisce con essa, non avrebbe potuto avere il respiro planetario e l'impulso di audacia e di continuità che conosciamo, se non si fosse verificato e non si fosse mantenuto un processo di accumulazione capitalistica potentemente favorito da strumenti giuridici adeguati alla concentrazione dei patrimoni.
Uno di tali strumenti è la configurazione che, a causa di determinati istituti, assume l'istituto familiare, visto essenzialmente nella sua funzionalità civile.
Il conflitto politico che sulla fine del XIII secolo divampa in seno al patriziato, ossia tra gentes che già dominano la vita politica della Serenissima, e che sfocerà nella cosiddetta Serrata del maggior consiglio, contrappone coloro che ritengono che la titolarità del potere spetti esclusivamente a chi già lo detiene a coloro che ritengono che l'accesso agli organi di governo debba continuare ad essere regolato dal sistema di nomine ed elezioni vigente. Ma questa dicotomia in realtà si deve tradurre, sul piano più ampiamente politico, nella posizione di chi punta sul mantenimento della distribuzione del potere nel novero delle casate che già lo detengono stabilmente, una distribuzione assicurata per legge, ma anche dalla legge disciplinata; e chi punta su di un processo di aggregazione dei gruppi al vertice del potere lasciato al libero gioco delle forze economico-sociali in campo. Non è detto che la seconda posizione possa essere misurata con il metro che oggidì usiamo per identificare un processo politico democratico rispetto ad un processo autoritario, e non è detto che la prima posizione possa essere, se non sbrigativamente, tacciata di autoritarismo. Infatti, basti pensare all'atteggiamento dei congiurati capeggiati da Baiamonte Tiepolo per nutrire dubbi in ordine alla liberalità del programma politico degli oppositori alla riforma del 1297, che sostanzialmente assicura il mantenimento dell'equilibrio di forze esistenti a detrimento di ogni tentativo indirizzato alla concentrazione del potere a favore di gruppi particolari. Viceversa, è opportuno richiamare l'attenzione sulla qualità del processo che con la legge sulla Serrata viene posto in essere e che, si esaurirà - per un segmento della sua storia - con le leggi del 1319 e del 1323. È vero che questo processo porterà ad identificare la legittimazione politica con la discendenza legittima dal novero di casate che risultano titolari di seggi nel consiglio nel quadriennio precedente il 1297, e che in tal modo si pone in piedi un edificio politico di tipo schiettamente aristocratico; ma è anche altrettanto vero che con tali interventi legislativi si dà vigenza ad una disciplina, di rango costituzionale, per mezzo della quale si introduce un regolamento giuridico del processo di trasmissione e di esercizio del potere, mentre precedentemente la relativa scarsità delle norme lasciava che questo fosse in balìa non già di quello che oggidì designeremmo come un libero gioco democratico, ma, come s'è già accennato, di un libero - quanto arbitrario - gioco delle forze economico-sociali in campo: un gioco, che, comunque, si esperisce tra pochi, rispetto alla generalità dei ciues, la quale risulta comunque esclusa, appunto nella sua generalità, dalla gestione della cosa pubblica. E tutto ciò in presenza di una disciplina dell'accesso al maggior consiglio esigua e sostanzialmente inadeguata. Il libero gioco degli interessi economico-sociali altro non è, infatti, quando è privo delle opportune discipline, se non l'arbitrio del più forte e del più spregiudicato in contrasto a una visione del governo della respublica basato sull'aggregazione equilibrata degli interessi, in funzione di un interesse comune, piuttosto che sul loro conflitto esasperato.
Quale che sia la valutazione che si voglia dare di questo processo politico che si realizza tra la fine del XIII secolo e la metà del XIV, è certo che esso costituisce un potentissimo fattore di concentrazione socioeconomica, poiché rappresenta l'esito, sul piano della struttura della costituzione della Serenissima, di un movimento già in atto da almeno un secolo, se dobbiamo dare ascolto alle testimonianze che ci provengono dalle norme, che nelle varie redazioni statutarie realizzate tra il XII e il XIII secolo sono introdotte per disciplinare la soggettività giuridica e la relativa capacità di agire, nonché la trasmissione dei beni, sia di quelli mobiliari, sia di quelli immobiliari.
Invero, la distribuzione del potere politico su un ampio numero di casate, suscettibile - forse più formalmente che non effettivamente - di incremento, per effetto della stessa legge della Serrata, comporta la necessità di porre in essere un corrispondente e inverso processo di concentrazione del potere economico. Questa concentrazione si realizza a livello familiare, sia valorizzando le potenzialità civili e particolarmente economiche della familia patriarcale, che tende ad uno sviluppo orizzontale, di tipo consociativo, consortile, sia potenziando l'aggregazione degli interessi con un'adeguata politica matrimoniale, che trova nell'istituto dotale uno dei suoi più efficaci strumenti.
Questo si può considerare uno dei più fecondi effetti del processo posto in essere con la legge sulla Serrata, che, per gli sviluppi che essa ha avuto nell'attuazione di ciò che in essa era in nuce con le leggi del 1319 e del 1323 (48), si può dire abbia realizzato una separazione formale molto chiara tra potere politico, inteso come potere di governo della respublica, vale a dire della generalità dei ciues, e potere economico. Uno dei risultati più interessanti delle analisi del Luzzatto è proprio quello, secondo il quale i patrizi non costituiscono, dal punto di vista economico, una classe privilegiata, in quanto la legislazione sul commercio non opera alcuna discriminazione a favore della nobiltà (49). Lo stesso Luzzatto non si nasconde certo che la posizione dirigente dei patrizi nella vita politica, tenuta in via esclusiva, riserva loro posizioni di comando che permettono di intessere ed intrattenere relazioni di affari di respiro più ampio, rispetto alla generalità dei consociati (50); ma questo beneficio non è che una conseguenza indiretta, che ha la sua ricaduta sulla generalità sia perché l'attività commerciale veneziana ha comunque un fortissimo connotato associativo - nel senso di corporativo -, cui concorrono famiglie di diversa estrazione sociale, sia perché a tutti è consentito, per mezzo della partecipazione finanziaria alle intraprese commerciali, di ricavare un utile che fino a tutto il secolo XIV è sicuramente di misura assai consistente.
La fisionomia patrimoniale della familia e, a sua volta, la fisionomia immobiliare del patrimonio che non è, e non è esperito dai consociati, come un patrimonio esclusivamente individuale, determinano la configurazione del paterfamilias, in conformità alla funzione che gli viene assegnata dall'ordinamento. Il paterfamilias, infatti, è titolare della funzione della conservazione attiva del patrimonio e della sua gestione al fine del suo incremento. Di qui discende una determinata struttura dei rapporti tra genitori e figli e della capacità di questi ultimi di compiere atti di amministrazione.
Una prova della natura funzionale della configurazione del paterfamilias e dei suoi poteri è datà dal cap. II, 14 dello Statuto del Tiepolo del 1242, che disciplina un'ipotesi di estrema patologia in ordine alla capacità del paterfamilias ad esplicare le proprie funzioni (51). Questo capitolo attribuisce la facoltà di testare al figlio unico del paterfamilias mentalmente alienato e dunque incapace di intendere e di volere, o in sua mancanza, al nipote diretto e unico di esso paterfamilias, privo di altri discendenti. Il figlio o il nipote, per poter esercitare tale facoltà, devono essere ancora assoggettati alla patria potestà e non avere acquisito, tramite la emancipazione, la piena capacità di agire. Il testamento così redatto non è il testamento del figlio o del nipote, ma proprio il testamento del pat rfàmilias mentecatto, sicché esso assume validità, oltreché naturalmente efficacia, solo dopo la di lui morte, mentre perde validità nel caso in cui il capo famiglia stesso riacquisti la sanità mentale.
Non c'è dubbio che ci troviamo dinanzi ad un'autentica fattispecie di surrogazione del filiusfamilias al padre incapace di intendere e di volere nell'esercizio della facoltà di testare. La testamenti factio attiva, ossia la facoltà di testare, almeno nell'esperienza giuridica romana sembra invece realizzare un diritto soggettivo personalissimo, inalienabile e forse indisponibile, del paterfamilias.
Diversa può essere una valutazione globale, se si considera la facoltà di testare avendo riguardo alla funzione socioeconomica del testamento. In tal modo si vede come questo costituisca uno degli strumenti per mezzo dei quali si attua il potere di gestione del patrimonio familiare. Il testamento, così, assume la sua fisionomia di strumento per mezzo del quale si trasmette la titolarità della gestione del patrimonio della famiglia dal momento in cui chi ne è titolare e lo amministra viene a mancare. Questa notazione costituisce la testimonianza più esplicita della natura funzionale dei poteri dello stesso padre.
La deroga da alcuni principi tipici della struttura che il testamento ha nel diritto romano implica la facoltà di porre in essere un'istituzione di erede, con tutto quel che comporta sul piano ideologico questo atto, relativamente ad un patrimonio del quale non si è titolari.
Si pensi al caso, evidentemente non infrequente, della premorienza del filiusfamilias al padre furiosus, seguita dalla morte di quest'ultimo. Se il filiusfamilias ha redatto il testamento ai sensi del cap. II, 14 dello Statuto, questo testamento, alla morte del padre, è in grado di esplicare tutti i suoi effetti come se le cose fossero andate diversamente, ossia come se per la morte del padre insano di mente il filiusfamilias gli fosse succeduto secondo le regole della successione legittima e in quanto successore avesse poi disposto per testamento. Viceversa, se il filiusfamilias non avesse testato e fosse premorto al padre, si sarebbe aperta una successione legittima di quest'ultimo, che avrebbe portato sicuramente ad una dispersione del patrimonio verso una direzione non desiderata, comunque verso una direzione sottratta al controllo dei diretti interessati.
Tale norma è la testimonianza più diretta e inequivocabile di una concezione dell'essere titolari di un patrimonio che non indulge ad individualismi, in quanto essere titolari significa essere depositari di un potere di gestione, del quale in certo senso si risponde in seno alla propria comunità, piuttosto che essere i signori esclusivi di tale patrimonio. Lo stesso testamento si trasforma da atto supremo di signoria, nell'interpretazione individualistica del dominium, in strumento di gestione. Solo in quanto gli si riconosca tale connotato è possibile comprendere come sia possibile sovvertire gli automatismi di un sistema successorio collaudato. L'attribuzione all'unico discendente diretto del furiosus del potere di testare in ordine ai beni familiari elimina dal gioco tutte le linee collaterali sia di tipo agnatizio, sia di tipo cognatizio, le quali potrebbero entrare nella successione legittima alla morte del padre, qualora, nell'ipotesi appena formulata di premorienza del filiusfamilias, questi non avesse potuto disporre del patrimonio familiare.
Ad un medesimo ordine di concetti appartiene la norma del cap. II, 8 dello Statutum nouum che attribuisce ai filiifamilias aetatem habentes - ossia dodici anni - il potere di amministrazione sui beni del padre furiosus. Questo potere viene distribuito congiuntamente a tutti i figli di età maggiore, i quali agiscono anche per conto degli eventuali minori: questi, tuttavia, al raggiungimento della maggiore età parteciperanno all'amministrazione previo rendiconto dei fratelli per l'amministrazione pregressa (52).
Anche qui il filiusfamilias viene ad esplicare poteri non suoi, in quanto, come correttamente fa osservare la glossa - ancora una volta siglata Odofredus -, i figli del mentalmente alienato sono sempre assoggettati alla patria potestà e non hanno il potere di amministrare il patrimonio di cui il padre è titolare (53). Né la posizione dei vari filiifamilias può essere tranquillamente assimilata a quella del tutor o del curator furiosi, che si danno, appunto, al furioso, e che agiscono in nome e per conto, ma anche e soprattutto, nell'interesse del medesimo. Qui si potrebbe parlare di una spersonalizzazione del patrimonio. Nelle norme che stiamo considerando, poste nella loro stretta correlazione, si potrebbe vedere una tensione verso la trasformazione del patrimonio del paterfamilias in patrimonio familiare; vale a dire, una tensione verso la separazione della massa patrimoniale rispetto alla figura del suo titolare. In tal modo la figura del filiusfamilias verrebbe ad assumere vieppiù i connotati di una figura funzionale, la cui posizione si giustifica in relazione alla sua azione positiva ai fini della salvaguardia e dell'incremento della struttura patrimoniale della famiglia. Ciò risulta dal fatto che questi figli amministratori sostituiscono il paterfamilias in tutti i poteri, che abbiano una rilevanza patrimoniale, di cui è titolare. Il cap. 8 del secondo libro dello Statuto del 1242 prosegue identificandoli tutti, anche quelli che, per una visione idealistica della famiglia, potrebbero essere ricondotti nel novero di poteri di natura personale o comunque della natura propria di un capo di famiglia, intesa come comunità sociale più che come organismo economico-patrimoniale. Invero, i figli maggiorenni del furioso possono dare l'assenso al matrimonio delle proprie sorelle nubili o delle nipoti discendenti dai figli in potestà; possono dotarle e anche avviarle alla vita religiosa, con la relativa dotazione, con il loro assenso e sentito il parere dei congiunti. Inoltre, ciascuno di loro può disporre del patrimonio paterno sia in funzione della dote della propria moglie, sia in funzione di investimenti commerciali per la quota a ciascuno spettante. Infine, lo Statuto sancisce che i filiifarnilias godono di tutti i poteri che spetterebbero al padre furioso se fosse sano.
Questa disciplina va immediatamente collegata con la norma del cap. 24 del Liber sextus (54), che eleva a quattordici anni l'età, al compimento della quale si acquista la piena capacità di agire (55). La norma, come ho già detto, è notevolissima per la sua efficacia pratica e per la deroga che costituisce nei confronti dei principi romanistici; ma essa è notevolissima anche per la testimonianza che fornisce dell'impianto schiettamente patrimonialistico che ha la familia nell'esperienza giuridica veneziana. Questa disciplina relativa ai poteri dei filiifamilias del padre furiosus, infatti, non è che un aspetto di un regolamento più generale dei rapporti patrimoniali familiari, che trova sue manifestazioni specifiche da un canto nella differenziazione dei figli in diuisi e indiuisi a patre; dall'altro nella costituzione di quella specifica figura della comunione tacita familiare che assume la forma della ῾fraterna compagnia' tra i fratelli indiuisi alla morte del paterfamilias (56).
Il primo problema da risolvere è quello relativo alla rilevanza della diuisio a patre nella costituzione della fraterna compagnia tra i discendenti. Nell'ordinamento veneziano, come in altri ordinamenti coevi, la posizione del filius può essere duplice: o questi è filiusfamilias, soggetto alla patriapotestas, è in una parola, alieni iuris, ossia non pienamente capace dal punto di vista della capacità giuridica e dunque solo atto ad esplicare un'attività giuridica che viene imputata al paterfamilias; oppure è emancipato, soggetto sui iuris, pienamente capace sia di essere titolare di situazioni giuridiche soggettive, sia di svolgere una attività giuridica valida ed efficace nei confronti di sé medesimo.
Della figura dei figli emancipati - che nella terminologia dello Statuto veneziano prendono il nome di fui diuisi a patre si occupa segnatamente il cap. IV, 24 dello Statuto del 1242 (57), che disciplina la successione ab intestato del paterfamilias. Questa disposizione, degna di grande attenzione per più di un verso, assume come rilevante per la determinazione quantitativa delle porzioni che vanno agli eredi legittimi la qualità di filius diuisus a patre (58):
[...> E se uno o più di essi figli siano emancipati dall'avo o dal padre o da altro ascendente e abbiano ricevuto beni del patrimonio di chi li ha emancipati, non parteciperanno alla successione per il valore della porzione dei beni già loro assegnati; e ciò quando i beni siano divisi tra i figli di sesso maschile [...>.
Il capitolo, nella sua integrità, non subisce modifiche da parte del Liber sextus, ma soltanto una interpretazione che ribadisce come nella successione del paterfamilias i nipoti, in mancanza dei figli, partecipano per stirpes, ossia partecipano non individualmente, ma nella misura nella quale avrebbero partecipato i rispettivi padri, in quanto a loro volta figli del defunto; regola, questa, che del resto regge la successione ab intestato (59). Questa specificazione può interessare il nostro attuale discorso soltanto nella misura nella quale ribadisce, ancora nel XIV secolo e per sempre, un principio che è indirizzato a favorire, per quanto è possibile, la concentrazione dei patrimoni; un principio che contrasta la loro dispersione tra i diversi soggetti chiamati alla successione in rappresentazione del loro ascendente diretto, dispersione che si realizzerebbe se ciascuno di questi fosse titolare di un diritto parcellizzato.
Torniamo dunque alla emancipazione - diuisio a patre -, come situazione rilevante nei rapporti patrimoniali tra i filii. Il figlio emancipato è colui, cui il padre liquida una porzione di patrimonio familiare, da computarsi in caso di successione intestata, e diviene sia titolare di un proprio patrimonio, sia pienamente capace di agire e dunque di compiere atti giuridici di amministrazione del proprio patrimonio - sui iuris -, perché si stacca dall'organismo familiare. In tal caso questo filius diuisus non parteciperà alla successione ai beni paterni se non nella misura eccedente la parte che gli è stata già attribuita dal padre al momento della diuisio. L'acquisto della qualità di soggetto sui iuris non è di per sé un premio, non configura necessariamente una posizione vantaggiosa, non è, insomma, un valore per sé, ma è il conseguimento di una funzione. Il soggetto in questione diviene soggetto di pieno diritto, capace di essere titolare diretto e immediato di situazioni giuridiche attive e passive - di diritti e di obblighi -, in quanto non gode più dello schermo del paterfamilias, in quanto si trova solo con il suo personale patrimonio; egli acquista, inoltre, per lo stesso motivo, la piena capacità di compiere atti giuridicamente rilevanti sul proprio patrimonio in modo diretto e immediato: essendo titolare di un patrimonio e dovendo amministrarlo non può non essere contestualmente reso abile in modo formale a compiere atti di amministrazione validi ed efficaci. I terzi, coloro, cioè, che entrano in relazione di affari con questo soggetto, devono conoscere esattamente a quale titolo egli agisca e quale ne sia la capacità patrimoniale, di quali mezzi effettivamente disponga e con quale libertà: insomma, devono essere pienamente informati della consistenza della responsabilità, che ancora una volta ha natura patrimoniale, che li garantisce.
La consumazione del distacco del filius diuisus è ben rappresentata dalla disposizione statutaria che sancisce la estraneità di questo figlio emancipato all'attività giuridica del padre: "Il figlio emancipato dal proprio padre non può essere chiamato a rispondere degli obblighi contratti dal padre, anche se questi ha contratto l'obbligazione insieme con i suoi eredi. I figli, eredi del padre, non emancipati, al contrario, rispondono con il padre per tali obbligazioni". In tal modo può essere parafrasata la disposizione dello Statuto del 1242 che disciplina queste situazioni: come si vede è una norma che non necessita di ulteriori commenti (60).
Ci limiteremo ad osservare come, nell'esperienza veneziana, che tuttavia non si differenzia dalle altre esperienze cittadine coeve, la diuisio determina una discriminazione radicale tra i figli: quelli emancipati, in modo più deciso di quanto non sembri raffigurare la disciplina risalente al diritto romano, escono dalla compagine familiare e interagiscono con essa soltanto in relazione al conguaglio che dovesse rivelarsi necessario al momento dell'apertura della successione legittima. Altre questioni, eventualmente, potranno sorgere in caso di successione testamentaria (61). Secondo il Besta, confortato in ciò dal cap. 9 del Liber sextus (62), l'emancipazione avviene con la forma della carta filialis subiectionis. Un esempio, in tal senso, è dato dalla carta che il notaio Domenico di San Maurizio roga il 13 aprile 1311, con la quale Lorenzo del confinio di San Samuele emancipa il figlio Ognobene: "Dispongo pienamente e irrevocabilmente lo scioglimento integrale dalla soggezione filiale di te Ognibene mio amato figlio [...>; e tu con gli altri tuoi eredi, riguardo a me e agli altri miei eredi sei diviso e soddisfatto in perpetuo, così come è stabilito da quanto dispone il diritto vigente [...>" (63). Interessante notare che il padre scioglie il figlio, con tutti gli eredi di questo, da ogni vincolo che derivasse da atti che esso figlio abbia compiuto durante il suo stato di filiusfamilias, con una forma amplissima, che coinvolge perfino "tutto ciò che possa essere pensato da essere umano, in qualsiasi modo, sia che sia stato redatto documento, sia che non sia stato redatto, sia che abbia agito in giudizio, sia fuori del giudizio, sia lecitamente che illecitamente [fuste quoque uel iniuste> dall'inizio fino ad oggi" (64).
Il medesimo Besta mette in risalto come doveva essere "comunissimo, che i figli rimanessero indivisi col padre" (65). La posizione di filiusfamilias, dunque, assume vieppiù i connotati di soggetto funzionale al mantenimento dell'unità della famiglia vista in una configurazione spiccatamente produttiva. Essa costituisce la struttura economica fondamentale del Commune Veneciarum, dell'ordinamento comunale, nella quale la posizione dei filiifamilias è quella propria di soggetti la cui attività si esplica non a titolo particolare, ma a beneficio della compagine familiare, sotto il coordinamento e le direttive del paterfamilias. Non è esatto, dunque, parlare di vera e propria soggezione dei filii rispetto al padre, se non nella misura nella quale questa assume un connotato tipicamente formale e funzionale; sarebbe più esatto parlare di una posizione di subordinazione indirizzata allo scopo dello sviluppo produttivo - nella sua estrinsecazione tipicamente commerciale - dell'ente familiare. Questa necessità di concentrazione, che, dopo la morte del padre, viene assicurata per due generazioni per mezzo della comunione tacita familiare o fraterna compagnia, che noi troviamo caratterizzare fortemente la disciplina dei rapporti tra genitori e figli, con netta prevalenza data alla linea agnatizia (66) e con la tendenziale esclusione delle donne dalla proprietà immobiliare (67), altro non è che la strutturazione economico-sociale a livello familiare di quel processo di segno inverso, ossia di segno distributivo tra le diverse schiatte, che viene ad affermarsi definitivamente dalla fine del XIII secolo sul piano politico. Questo processo trova conferma, tra l'altro, nelle numerose norme sulla procedura delle vendite di beni immobili e sulla prelazione immobiliare di schietta rilevanza familiare, che caratterizza la disciplina dei trasferimenti di beni fondiari urbani e rustici nella storia della Serenissima (68). Il fatto che tutta questa disciplina risalga al XIII secolo e non subisca radicali modifiche nel XIV da parte dell'aggiornamento di Andrea Dandolo è il segno di come essa sia perfettamente funzionale all'assetto che la società veneziana stava assumendo, vigendo un sistema distributivo del potere tra le famiglie più potenti, ossia all'interno della classe dominante, che è anche indubbiamente la classe più dinamicamente produttiva; un assetto che, per effetto delle norme sulla struttura della Repubblica emanate tra la fine del XIII e la prima metà del XIV secolo, si viene a consolidare definitivamente.
nello Statuto nuovo di Iacopo Tiepolo
I trasferimenti della proprietà immobiliare a Venezia, coerentemente con quanto si è venuto dicendo fin qui, assumono rilevanza sociale, e dunque i relativi atti sono assoggettati ad una pubblicità che si realizza per mezzo di un procedimento di tipo giurisdizionale.
È interesse dell'intera collettività sociale d'un ordinamento dato partecipare agli atti di trasferimento dei diritti che concernono beni economicamente strategici per la sua vita socioeconomica; la circolazione dei diritti su tali beni, infatti, non coinvolge soltanto i soggetti immediatamente e direttamente interessati - l'alienante e l'acquirente - ma riguarda tutti i consociati, e li riguarda in quanto è interesse generale che esista certezza in ordine alla titolarità dei diritti su tali beni e che questa titolarità goda di stabilità: una stabilità che deriva dal riconoscimento sociale di essa titolarità e dalla sua accettazione da parte della collettività. Per conseguire stabilità e certezza occorre, tra l'altro, che tutti i potenziali aventi diritto ad ingerirsi negli atti di trasferimento dei beni strategici per la vita socioeconomica d'un dato ordinamento possano esercitare questo loro diritto in forme appropriate e in modo tempestivo. Invero, la collettività in quanto tale ricava danni economicamente e, forse, soprattutto socialmente gravosi nel far fronte al contenzioso che può scaturire da un regime di circolazione di tali beni inadeguato. Ora, se si pensa all'importanza sociale ed economica che riveste la terra per le popolazioni insediatesi nella laguna veneta, un bene evidentemente straordinariamente limitato, eppur indispensabile per la realizzazione di due bisogni elementari, quali sono quello dell'abitazione e quello della coltivazione agricola in un regime economico di sussistenza, si comprende meglio la disciplina, che, fin dai primi decenni del secolo XIII, viene introdotta a regolarne gli atti di disposizione. Ancor meglio la si comprende se si pone mente a quanto s'è detto sopra, circa la tendenza alla concentrazione patrimoniale su base familiare in quanto funzionale ai bisogni economici e alle linee di sviluppo che caratterizzano la storia veneziana nel medioevo. Queste considerazioni, del resto, non sono estranee alle ragioni che in genere, anche negli ordinamenti moderni, stanno alla base di una disciplina degli atti di trasferimento della proprietà immobiliare che impone alcune particolari solennità e alcune forme di pubblicità specifica per far sì che essi siano pienamente efficaci nei confronti di tutti.
Quanto la terra abbia avuto importanza nella storia sociale, economica e giuridica italiana risulta, oltre che da testimonianze di natura schiettamente politico-economica, dal fatto che in genere, nei vari ordinamenti particolari, i trasferimenti dei beni immobiliari sono assoggettati ad un regime tale da assicurarne la pubblicità o, comunque, ad un regime vincolato al conseguimento, da parte del venditore o dell'acquirente, o di entrambi, di atti di autorizzazione dell'autorità pubblica, di solito di organi di natura giudiziaria (69). Certamente la terra assume rilievo vitale per le donne e gli uomini, per lo più aggregati in nuclei familiari. Questi, come sappiamo, più che condurre una lotta con le acque lagunari, intrattennero con esse, per poter disporre di fondi coltivabili in misura sufficiente alla sussistenza ed edificabili in misura idonea alla soddisfazione di bisogni crescenti, quel rapporto dialettico, che è testimoniato dal mirabile equilibrio che imperò nella laguna fino all'età moderna. Si comprende così con relativa facilità perché la proprietà fondiaria ed edilizia, che pure non sembrerebbe di per sé funzionale al tipo di economia cui la società veneziana, precocemente dedita al commercio internazionale, ha affidato il proprio sviluppo e la propria potenza, viene assoggettata ad un tipo di disciplina che ne denuncia quella qualità di bene strategico che qui le attribuiamo.
La funzione economica e produttiva dei beni fondiari, dunque, interagisce con quella della struttura familiare: infatti la funzione dei beni fondiari è strumentale alla vita familiare e ne costituisce il supporto necessario. Ciò risulterà dalla disciplina dei trasferimenti dei beni fondiari, che è funzionale, tra l'altro, alla tutela degli interessi dei componenti della famiglia e li privilegia rispetto al resto dei consociati; ma risulta con particolare evidenza dalle restrizioni generali, cui sono assoggettati gli acquisti, per effetto della prescrizione acquisitiva, di alcune categorie di beni fondiari, o perché destinati al sostegno economico della famiglia o per particolari situazioni in cui versino i titolari. Quest'ultima ipotesi se, da un lato, soddisfa la necessità di tutelare soggetti in stato di incapacità, è, d'altro canto, testimonianza di una destinazione di supporto economico della famiglia, che è attribuita, nella cultura materiale coeva, ai beni fondiari, ed è ulteriore testimonianza del fatto che le esigenze familiari non si esauriscono nella sfera dei singoli componenti di una contingente situazione in cui versi la compagine familiare, vista come entità economico-produttiva, ma si proiettano nella famiglia vista come entità permanente e destinata a perpetuarsi al di là delle singole generazioni nelle quali s'invera.
Il Bertaldo, nell'esporre la disciplina dell'acquisto della proprietà sui beni immobili per prescrizione - sotto la quale figura egli riunisce sia il fatto della prescrizione acquisitiva propriamente detta, sia il fatto dell'usucapione - e nell'identificare la causa di tale effetto nel possesso continuato che si protragga oltre trenta anni, indica le categorie di beni che sono sottratti a tale disciplina, per i quali, dunque, un possesso continuato e ultratrentennale non produce acquisto del dominio a favore di chi lo eserciti. Tra questi beni spiccano, per il discorso che andiamo svolgendo qui, i beni dotali e quelli che il marito reca in contraddote: per questi la prescrizione è sospesa per la durata del matrimonio; i beni pupillari fino al compimento della maggiore età ovvero fino alla nomina del tutore; i beni degli incapaci di intendere e di volere fino a che il titolare non riacquisisca la relativa capacità (70).
È, tuttavia, il regime del trasferimento della proprietà immobiliare che presenta i maggiori tratti di interesse, perché questo regime, qualificato come usus nouus nel testo statutario promulgato dal doge Pietro Ziani nel 1226 (71), costituisce uno dei tratti caratteristici dell'esperienza giuridica lagunare. Esso prevede un vero e proprio procedimento, che si svolge dinanzi alla curia dell'esaminador. Nell'ambito di tale procedimento tutti gli interessi potenzialmente in gioco - quello dell'alienante, quello dell'acquirente, quelli dei portatori di situazioni preferenziali in ordine all'acquisto - possono trovare il legittimo spazio di realizzazione e di rispettivo contemperamento.
Già gli statuti di Ranieri Dandolo risalenti al 1204 avevano introdotto una significativa anticipazione di tale disciplina, stabilendo una procedura di vendita da svolgersi dinanzi alle pubbliche autorità (72), ma solo la sistemazione che risulta dal testo statutario del 1226 si presenta con caratteri di organicità. Proprio l'esistenza di un diverso, alternativo regime nella vendita delle possessiones, risalente al 1204 (73), che attribuisce un ruolo centrale alla curia del doge e ai giudici dell'esaminador (74), con la funzione di garantire certezza e pubblicità alla vendita, anche al fine della tutela degli interessi dei congiunti, cui l'ordinamento attribuisce una specifica rilevanza, e di eventuali terzi aventi diritto, permette di comprendere perché già poco più di venti anni dopo, nella redazione statutaria del doge Ziani e poi nello Statuto nuovo del 1242 del Tiepolo questo regime prenda il nome di usus: usus nouus, come abbiamo visto. Il che, senza qui ulteriormente sviluppare questo spunto, ci impone di interrogarci sul reale significato del termine usus nelle fonti medievali.
In primo luogo va rilevato che la procedura di vendita in questione è, fin dalle sue origini, del tutto volontaria, potendo l'alienante non assoggettarvisi (75); ma in tal caso egli si espone ad alcune conseguenze, - segnatamente una situazione di instabilità del proprio atto di vendita - che possono protrarsi addirittura per un trentennio, ossia fino al consumarsi della prescrizione acquisitiva. Tale procedura è caratterizzata dal fatto di svolgersi tutta sotto la direzione del giudice dell'esaminador, che la assume per mandato del doge. Essa prende impulso da un atto dell'alienante che adisce il doge e i giudici dell'esaminador, esternando formalmente con una sua ceduta, vale a dire un atto scritto - un'istanza -, la sua intenzione di vendere un determinato bene immobile (76). L'istanza dell'alienante deve essere indirizzata e consegnata al doge, che provvederà a trasmetterla ai giudici (77).
L'attività del giudice non consiste solo nella direzione del procedimento e nel controllo della correttezza del suo svolgimento, ma è, fin dall'inizio, determinante: egli, infatti, deve, in primo luogo, stimare il bene posto in vendita. Questa stima costituisce uno dei cardini di tutta la procedura, poiché è su di essa che si andranno a commisurare le posizioni economiche di tutti coloro che interverranno nel procedimento. Compiuta la stima del bene, questo diviene oggetto di un'offerta pubblica al valore stimato, mediante proclami da pubblicarsi la domenica seguente a San Marco e nei successivi giorni, dal lunedì al mercoledì, a Rialto. A partire da questo momento, e precisamente dopo il primo proclama - stridatio -, decorre il termine di trenta giorni entro il quale chiunque vi abbia interesse può intervenire nel procedimento, notificando ai giudici la propria intenzione di acquistare il bene offerto, costituendo un pegno in oro o in argento del valore corrispondente al dieci per cento del valore di stima.
Il giudice provvederà poi all'assegnazione, che costituisce una vera e propria aggiudicazione, tenendo conto di un ben preciso ordine di preferenze.
Tra gli interessati all'acquisto spiccano i discendenti diretti del venditore: qui sunt de prole uendere uolentis, ossia coloro che appartengono alla linea di discendenza diretta di sesso maschile di colui che intende vendere (78). Di un diverso grado di tutela godono i congiunti consanguinei del venditore che, sebbene discendenti diretti, non ne sono discendenti di sesso maschile ossia de prole. Coloro che non sono discendenti diretti della linea maschile (agnati), ossia coloro che non sono de prole, sono posposti addirittura a coloro che nello Statuto sono designati come lateranei (79). Una glossa, che reca la sigla di Iacobus Bertaldus, asserisce: "la figlia [del venditore>, invero, non appartiene alla linea di discendenza diretta", ossia, per usare le parole del testo della glossa, la figlia non est propinquior de prole rispetto al padre venditore, mentre lo è il fratello del venditore, che sarebbe da preferire alla figlia se questa non fosse tutelata da un'apposita norma statutaria, quella del cap. III, 22, la cui rubrica così suona: "La figlia del venditore sia preferita, nell'acquisto, agli altri congiunti de prole". Tuttavia questa tutela agisce nei confronti della figlia soltanto se il padre non ha figli de prole, vale a dire figli di sesso maschile (80).
I discendenti diretti del venditore, tuttavia, non esauriscono il novero dei soggetti, cui deve essere data preferenza, poiché lo Statuto prevede una notevole serie di figure, organizzate secondo un ordine di preferenza, cui il bene deve essere assegnato - o più propriamente, aggiudicato - prima che ad altri. Anzi, proprio la tutela degli interessi di queste figure giustifica l'uso di una procedura di vendita così articolata. O, meglio, l'introduzione di una procedura di vendita pubblica assume un senso socioeconomicamente interessante se la si riguarda sotto il profilo cui si è accennato sopra: l'interesse dell'ordinamento, prima ancora che a tutelare particolari soggetti, è rivolto ad assicurare la pace tra i consociati e la stabilità degli atti di disposizione che questi fanno dei propri beni. Questo interesse assume un particolare rilievo quando l'attività giuridica dei consociati abbia per oggetto beni che per la collettività organizzata in ordinamento giuridico rivestano un'importanza economica particolare. Ed invero, il cap. 19 del terzo libro dello Statutum nouum sancisce l'ordine che regola le preferenze tra i congiunti intenzionati ad acquistare i beni messi in vendita secondo la procedura qui descritta. L'ordine di preferenza si accompagna con una diminuzione percentuale del prezzo di acquisto rispetto al valore di stima: l'aliquota percentuale di sconto diminuisce man mano che si scende nella scala delle preferenze; sicché coloro che godono di una preferenza più alta acquistano anche a condizioni più vantaggiose di coloro che si trovano su un gradino preferenziale più basso (81). Il principio generale sancito dalla norma è che "coloro che si trovano in un grado di consanguineità più vicino al venditore in linea ascendente sono preferiti nell'acquisto a tutti gli altri ascendenti (82), e a questi (83) sono preferiti coloro che si trovano nella linea discendente" (84). Il risultato di ciò è che sono preferiti, con uno sconto dell'otto per cento sul valore di stima, i figli maschi del venditore, subito dopo vengono i fratelli germani del venditore e tutti gli ascendenti con un grado di preferenza maggiore quanto maggiore è il grado di prossimità con il venditore: anche questi godono di una riduzione pari all'otto per cento del valore di stima. Il figlio del fratello germano del venditore e i suoi discendenti fino al secondo grado incluso sono collocati in un livello di preferenza inferiore e godranno di uno sconto del sei per cento. I discendenti di questi acquisteranno con lo sconto del quattro per cento e comunque, al di là di questi, qualsiasi ascendente, discendente o collaterale gode di preferenza rispetto a qualsiasi altro intenzionato all'acquisto. In assenza di un congiunto diretto di sesso maschile o qualora nessuno di questi intenda esercitare la propria prelazione, sono ammessi, a preferenza di qualsiasi altro, i collaterali con uno sconto del quattro per cento rispetto al valore di stima; dopo di questi e alle stesse condizioni sono preferiti i collaterali della linea femminile (85). Esaurito questo ordine di preferenze, "al venditore, sia esso di sesso maschile o femminile, è lecito vendere liberamente a chiunque" (86).
Dunque, questa disciplina non si limita a stabilire una serie di prelazioni, che, ovviamente, possono essere esercitate anche al di fuori di questa procedura, qualora il congiunto si trovi, al momento del bando, fuori di Venezia, come subito si vedrà, ma è evidentemente strumentale alla tutela di situazioni economicamente rilevanti nell'ambito familiare, in quanto la prossimità parentale al venditore costituisce non solo il diritto alla prelazione, ma anche il diritto di poter eseguire l'acquisto ad un prezzo inferiore al valore di stima del bene. Questa riduzione di prezzo evidentemente costituisce lo sconto di quell'attività di collaborazione all'andamento dell'economia familiare che si è incorporata nel valore del bene e che il congiunto acquirente recupera al momento del trasferimento di esso bene dal patrimonio del congiunto venditore. Inoltre lo sconto costituisce anche un efficace strumento teso a facilitare il mantenimento del bene immobile nell'ambito della stirpe cui appartengono venditore e compratore, invogliando all'acquisto gli appartenenti ad essa stirpe, e tutela, comunque, insieme con il diritto alla preferenza, l'interesse a mantenere il bene nell'ambito della compagine familiare di coloro che hanno partecipato alla formazione del relativo patrimonio.
Queste situazioni costituiscono le figure del retratto familiare o gentilizio, ossia le figure che tutelano la prelazione, che nelle vendite immobiliari è stabilita a favore di coloro che appartengono ad uno stesso nucleo familiare, inteso in un'accezione piuttosto ampia, come abbiamo mostrato, tanto da confluire in una vera e propria gens. Questi soggetti, come hanno diritto ad essere preferiti nell'acquisto - prelazione -, così hanno diritto a rivendicare l'assegnazione a sé medesimi di un immobile che sia stato venduto in violazione delle posizioni di preferenza di cui godono - retratto -: nei loro confronti è irrilevante il diritto del terzo acquirente, il cui interesse è sacrificato a quello dei titolari di un diritto di prelazione (87).
Queste figure, sia detto qui una volta per tutte, costituiscono deroghe al principio tipico del diritto romano e ripreso nel Codex giustinianeo, che individua come propria del dominium, ossia come propria del diritto di proprietà, la facoltà, per il titolare di tale diritto, di vendere liberamente a chiunque, senza riguardo per situazioni di preferenza (88). Invero, la disciplina veneziana impone varie limitazioni al diritto di proprietà e alle facoltà del dominus. In primo luogo gli vieta di determinare liberamente a chi vendere il bene e in secondo luogo gli impedisce di stabilirne liberamente il prezzo di vendita, che non è concordato sulla base di un libero consenso delle parti, ma è determinato autoritativamente dapprima dai giudici con la stima e, sulla base di questa, dall'entità degli sconti imposti dalla legge.
La posizione del familiare è tutelata anche nel caso in cui questi, vantando una causa di preferenza, ma essendo assente dalla città, non abbia potuto avere cognizione del fatto che il bene immobile sia stato posto in vendita: nei suoi confronti, evidentemente, i pubblici proclami - la stridatio in San Marco e a Rialto - non possono costituire idonea forma di pubblicità dell'intenzione del proprietario di alienare l'immobile, sicché per il familiare assente non vale il termine di trenta giorni dai proclami, entro il quale far valere il proprio diritto. Ma, prima di descrivere la tutela predisposta per i congiunti assenti da Venezia al tempo del pubblico proclama, occorre considerare come si sviluppa la procedura di assegnazione dell'immobile, una volta che l'avente diritto alla prelazione abbia depositato presso la curia dei giudici dell'esaminador il proprio pegno.
Infatti, mentre il trasferimento della proprietà avviene tramite un normale atto di compravendita - carta uendicionis -, che il venditore deve stipulare con il compratore determinato per effetto della procedura fin qui descritta, il trasferimento del possesso - ossia l'attribuzione della piena disponibilità materiale del bene venduto - si realizza per mezzo di un'ulteriore procedura. Anche questa procedura è caratteristica dell'esperienza giuridica veneziana e si realizza in due fasi: una prima fase consiste in un'investitura per così dire provvisoria del possesso da parte del venditore in favore del compratore e prende il nome di inuestitio sine proprio; mentre la piena e definitiva attribuzione della disponibilità materiale dell'immobile - inuestitio ad proprium oppure inuestitio cum proprio - si compie in una seconda fase, decorso il termine di un anno dall'investitura provvisoria.
Anche l'investitura, provvisoria o definitiva che sia, è un atto di natura giurisdizionale ed è eseguita da un messo della curia - un riparius o, genericamente, ministerialis - alla presenza di due testimoni; il messo deve essere stato a sua volta investito del relativo potere dal doge. La procedura consiste nella deposizione simbolica di una manciata di paglia e nell'apposizione di una tabula scripta - guffia - presso l'immobile, e nella compilazione di un processo verbale che deve essere redatto dal notaio entro trenta giorni dalla deposizione simbolica, e dall'apposizione della guffia; questa, detta così dal termine longobardo wifa o wiffa, svolge evidenti funzioni di pubblicità, e deve contenere il nome dell'investito (89).
Entro il termine di un anno dall'investitura provvisoria o sine proprio, gli assenti possono, come già si è accennato, proporre reclamo - clamor. Lo Statuto sancisce che è ricevibile solo il reclamo di colui che al tempo dei proclami, con i quali si dava pubblicità del fatto che un immobile era stato posto in vendita e fino alla data dell'investitura provvisoria, era assente da Venezia. In mancanza di reclamo, si procede, con le stesse forme di quella provvisoria, all'investitura definitiva o ad proprium, ovvero cum proprio (90). Colui che fa opposizione all'investitura provvisoria, motivando tale opposizione con la propria assenza, perché il procedimento abbia séguito, deve comunque preventivamente depositare presso la curia dell'esaminador un pegno del valore del dieci per cento del valore di stima dell'immobile (91). Il congiunto che avanza questa opposizione, se titolare di un diritto di prelazione di grado superiore a quella di colui che ha conseguito l'assegnazione, è reintegrato pienamente in tale suo diritto, sicché l'atto di vendita già concluso è revocato. Il venditore deve stipularne uno nuovo con l'opponente, praticandogli lo sconto di sua pertinenza (92). Tuttavia il procedimento di investitura non si reitera, sicché il congiunto sopravvenuto succede senza ulteriori formalità al congiunto cui era stato investito il bene (93).
Non solo i congiunti ma anche qualsiasi terzo può opporsi alla vendita intervenendo in questo complesso procedimento con un proprio reclamo, disciplinato dal cap. III, 13 dello Statuto nuovo, che riguarda proprio il caso di colui che, sia esso un estraneo, sia un congiunto, intenda opporsi, vantando un diritto diverso da quello che gli deriva da una situazione di preferenza di carattere familiare. In tal caso si apre, all'interno di quello qui esaminato, un procedimento contenzioso volto a determinare se la pretesa del terzo sia fondata. Lo Statuto richiama espressamente l'ipotesi del creditore del venditore, che evidentemente teme la perdita della garanzia patrimoniale, ma ammette che l'opposizione possa essere esperita per qualsiasi altra causa diversa dalla posizione agnatizia o cognatizia, in quanto quest'ultima rientra nelle norme che abbiamo appena illustrato: "Colui che, sia estraneo sia congiunto in linea diretta o collaterale, voglia opporsi a causa dell'esistenza di un debito, o per qualsiasi altra causa, alla investitura, purché non si tratti di opposizione per causa di parentela, può opporre reclamo, secondo la consuetudine della terra [...> " (94). In tal caso il giudice accerterà sommariamente che l'opposizione non sia stata proposta per motivi manifestamente fraudolenti; se questi appaiono tali, l'opponente dovrà prestare un rituale giuramento detto de calumnia, che costituisce uno strumento cautelare risalente all'esperienza processuale romana, ma di notevole importanza anche per quella dell'età medievale, per mezzo del quale si costituisce, a carico di colui che lo viola, una specifica responsabilità processuale. Chi agisce in giudizio deve, infatti, essere portatore di un sia pur controverso diritto, perché se si accerta che la sua azione giudiziaria è animata dal mero intento di impedire o far ritardare ingiustamente alla controparte l'esercizio o il godimento dei propri diritti, deve risarcirle i danni che con il proprio comportamento illecito le ha arrecato (95). Il processo, infatti, da strumento vòlto alla tutela dei diritti non può e non deve essere utilizzato, in modo esattamente contrario ai suoi fini istituzionali, per impedire o ritardare, a chi ne sia titolare, l'esercizio di diritti non controvertibili: chi se ne serve per danneggiare altri deve subire la responsabilità che deriva da tale azione antigiuridica.
L'opposizione del terzo alla investitura definitiva determina una situazione di incertezza, che lo Statuto definisce "non quieta": in tal caso è ammessa la risoluzione consensuale della vendita e la revoca dell'investitura; se tuttavia manca questo consenso le parti devono comunque adempiere le rispettive obbligazioni, anche se una delle due non voglia (96). La situazione non quieta può trovare definizione anche se l'opponente rinunci ai suoi reclami (clamores) e si dichiari soddisfatto. Ciò risulta, per esempio, da un documento del 1312, che contiene appunto un atto di rinuncia di Marcus de Meço a tutti i reclami interposti relativamente "ad una investitura sine proprio [...> che aveva per oggetto quattro immobili posti nei confinii di Santa Maria Formosa, San Severo e Santa Trinita". L'investitura era stata eseguita da Petrus Donusdeo ecclesie Sancti Pauli presbiteri et notarii, su richiesta di Maria Tron, vedova di Tommasino Tron. Si tratta evidentemente dell'opposizione di un terzo che vanta propri diritti patrimoniali nei confronti del venditore; infatti Marcus de Meço dichiara di rinunciare all'opposizione avendo conseguito tutti i suoi diritti, che "avrebbe potuto conseguire per effetto dei suoi reclami", sicché dà atto a Maria Tron di poter considerare decaduti i clamores, come se "questi fossero stati soddisfatti per effetto di provvedimento giudiziario" (97).
Può accadere che l'immobile messo in vendita non trovi acquirenti: in tal caso il Commune Veneciarum stesso è tenuto all'acquisto, con lo sconto del venti per cento sul valore di stima. Eseguito l'acquisto, il comune stesso è abilitato a vendere il bene in questione senza le formalità richieste per i privati e che abbiamo esaminato fin qui. È evidente la funzione di questa norma, che costituisce un'ulteriore testimonianza del valore strategico dei beni fondiari nella struttura dell'economia veneziana. L'intervento obbligatorio del comune sul mercato dei beni fondiari - "il Comune di Venezia è tenuto ad acquistare con lo sconto di venti libbre per cento rispetto al valore di stima", recita il cap. 26 del terzo libro dello Statuto nuovo (98) - è motivato da un chiaro intento antispeculativo e calmieratore su beni considerati essenziali. Poiché comunque il comune acquista con lo sconto del venti per cento sul valore di stima, è evidente che il prezzo dell'ulteriore vendita di tale bene praticato da esso comune, nel momento in cui lo ricolloca sul mercato, subirà una riduzione rispetto allo stesso valore di stima e dunque rispetto all'originario prezzo di vendita, al quale il medesimo bene non aveva trovato acquirenti, nemmeno tra quei soggetti titolari di un diritto di prelazione, che si somma, come abbiamo visto, al diritto a vedersi riconosciuto uno sconto. Il comune, tuttavia, non può rivendere l'immobile ad un prezzo inferiore a quello al quale lo ha acquistato, secondo quanto testimonia indirettamente il cap. 33 del Liber sextus di Andrea Dandolo. La piena libertà che il comune ha nel vendere il bene a chicchessia costituisce una valvola di compensazione al regime vincolato di circolazione dei beni fondiari appena descritto. Non ci si deve però nascondere il fatto che questa libertà apre la possibilità, per il medesimo comune, ossia per chi ne domina la vita politico-amministrativa, di favorire i gruppi al potere senza alcun controllo formale, eccettuato quello di natura politico-sociale proprio di aggregati politici relativamente ristretti. Infatti lo stesso cap. 26 del testo statutario del Tiepolo sancisce che nessuno è legittimato ad opporre reclamo contro l'investitura che il comune esegua nei confronti di colui, cui ha venduto il bene acquistato forzosamente e poi messo liberamente in vendita: "è lecito allo stesso comune vendere l'immobile a chiunque voglia e a nessuno è lecito opporre reclamo ai giudici relativamente all'investitura da farsi in favore di colui cui il comune abbia venduto tale immobile". Inoltre, l'intervento del comune sul mercato immobiliare può prestarsi ad illeciti, consistenti nel concedere al venditore una stima del bene superiore al suo valore sul mercato. In tal modo l'immobile, in quanto artificialmente sovrastimato, non troverà acquirenti, e sarà, in adempimento dell'obbligo derivante dalla norma del cap. 26 che stiamo commentando, obbligatoriamente acquistato dal comune ad un prezzo comunque superiore, non ostante lo sconto del venti per cento, a quello di mercato, facendo conseguire al venditore un guadagno improprio. Il comune, però, non potendolo rivendere ad un prezzo inferiore a quello di acquisto, non riesce a recuperare nemmeno in parte l'esborso subito per effetto dell'adempimento dell'obbligo di legge. Il malcostume porta quindi il venditore a cercare di conseguire una sovrastima e, se non la ottiene, a differire la vendita, fino a che non ottenga una stima che lo porti a realizzare un intento speculativo ai danni del comune, illecito quanto sicuro, per l'innestarsi del meccanismo appena descritto. A questo malcostume l'ordinamento reagirà vietando l'acquisto, da parte del comune, dei beni invenduti per rifiuto del venditore: "quando qualche venditore non sia soddisfatto della prima stima ottenuta, il bene in questione non sarà acquistato dal comune per i successivi dieci anni" (99).
nella "Summula statutorum" e nel "Liber sextus" di Andrea Dandolo
Tutta questa disciplina subisce, nel corso della seconda metà del XIII secolo e nel secolo seguente, alcune riforme significative, ma non tali da stravolgerne la fisionomia. Semmai, l'intento perseguito sembra proprio quello di rafforzare sia la presenza dell'ordinamento pubblico sul mercato dei beni fondiari, sia la tutela degli interessi che già trovano protezione nel regime che risulta dallo Statuto del Tiepolo, sul quale ci siamo soffermati fin qui.
Spicca, fra tutte, una disposizione approvata dal maggior consiglio nel 1279, che vieta ai notai di comporre rogiti di vendita aventi per oggetto beni fondiari secondo l'usus uetus, ossia, come sappiamo, senza ricorrere alla procedura dinanzi ai giudici dell'esaminador (procedura che, come si ricorderà, assume il nome di usus nouus), se non si siano provvisti di un'apposita autorizzazione - licentia - da parte della medesima curia dell'esaminador (100); anche se la pratica dell'usus uetus non si estingue, come dimostra un documento dell'8 ottobre 1311, che contiene una quietanza relativa ad un residuo prezzo di vendita che il compratore doveva al venditore di una possessio posta nel confinio di Santa Fosca appunto venduta ad usum ueterem (101). L'autorizzazione deve avere la forma scritta e, così come s'inferisce dal testo della disposizione, consiste nella sottoscrizione apposta dai giudici all'atto. La disposizione ha efficacia generale per tutto il Dogato, sicché allo stesso modo che i giudici sottoscrivono gli atti rogati dai notai realtini, quelli rogati dai notai degli altri luoghi saranno sottoscritti dai relativi podestà. La rilevanza generale di questa norma sta a dimostrare quale importanza l'ordinamento veneziano annetta ai trasferimenti dei beni immobili e alla tutela degli eventuali aventi diritto, sicché una tale disposizione assume senz'altro la fisionomia di una norma di ordine pubblico.
Solo che, a quanto risulta da alcuni concordanti indizi, che andrebbero ulteriormente indagati, l'interesse prevalente al quale si vuole prestare protezione non è tanto quello della preferenza all'acquisto da parte dei familiari, quanto quello della tutela dei creditori. Se questo è vero, si può dire che, pervenuti a questo stadio della storia veneziana, i beni fondiari hanno esaurito la funzione eminente di bene produttivo, strategico per un'economia di sussistenza, e costituiscono una delle forme di garanzia patrimoniale per lo svolgimento dell'attività commerciale.
I trasferimenti di beni dotati di tale funzione devono essere improntati ad alcune minime regole di pubblicità che proteggano i creditori dell'alienante dall'eventualità che questi sottragga beni che costituiscono la garanzia per gli affari conclusi. Come sappiamo, la tutela degli interessi di soggetti diversi dai familiari, e in particolare dei creditori, già aveva un suo strumento nella disposizione del cap. III, 13 dello Statuto del 1242, che aveva legittimato chiunque a opporre reclamo, per debito o per qualsiasi altra ragione, all'investitura provvisoria nella procedura di vendita ad usum nouum.
La protezione di coloro che vantano diritti sui beni che sono oggetto di atti di disposizione viene ora generalizzata e resa operativa indipendentemente dal tipo di procedimento adottato dal titolare per il compimento di tali atti. Anche se egli non si assoggetta alla procedura di vendita dell'usus nouus o anche se egli compie atti di disposizione che integrino una vendita vera e propria, la possibilità stessa del compimento di questi atti viene subordinata ad una condizione, che incide sull'attività del notaio. Questi così assume una veste di rilievo pubblico particolarmente spiccata. Tale strada viene percorsa dall'ordinamento veneziano fino in fondo con una disposizione di respiro generale del 1288, deliberata dal medesimo maggior consiglio. Il notaio non può, in forza di questo precetto, dare efficacia esecutiva - roborari - ad "alcuna carta con la quale si trasferisca, si conceda o comunque si conferisca ad un altro la proprietà, il possesso, in alcun modo e sotto qualsiasi forma, in perpetuo o a tempo determinato, liberamente o in modo condizionato [di un bene immobile>, se non dopo che almeno due dei giudici dell'esaminador vi abbiano apposto la loro sottoscrizione". Questa sottoscrizione è subordinata "all'indagine accurata di tali giudici che accerti che il negozio relativo non sia stato posto in essere allo scopo di sottrarre ad alcuno le proprie ragioni" (102). Non manca, in questa disposizione, il riferimento ai congiunti che possano vantare diritti di prelazione sull'immobile, ma è evidente che questi sono posti su di un piano comune a quello degli altri potenziali interessati. In altre parole, l'angolo visuale di una tale disposizione ha subìto una significativa duplice modificazione. Non solo i congiunti e tutti gli altri aventi diritto sono posti su di uno stesso piano, ma questa medesima disposizione sancisce che i beni interessati non sono soltanto quelli cittadini, bensì anche quelli siti in tutto il Dogato.
Che la tutela dei diritti di prelazione dei congiunti non sia il principale obiettivo perseguito da queste ultime disposizioni è confermato dal fatto che la protezione di questi interessi tende ad attenuarsi. Il cap. 35 del Liber sextus di Andrea Dandolo abolisce lo sconto per gli acquisti dei congiunti eseguiti nell'esercizio del loro diritto ad essere preferiti ai terzi (103). Il capitolo in questione si propone espressamente l'emendamento del cap. 19 del terzo libro dello Statuto del 1242, specificamente per la parte in cui accorda lo sconto ai congiunti acquirenti con prelazione: " [...> I consanguinei e i congiunti in linea retta o laterale d'ora in poi non godano più nell'acquisto dei beni fondiari di alcuna prerogativa o di alcun beneficio per quel che attiene il minor prezzo che loro dovrebbe essere praticato, con ciò rimanendo inalterate le altre disposizioni del cap. 19 del terzo libro dello Statuto" (104).
Ulteriore indizio dell'attenuazione della tutela degli interessi dei congiunti dei venditori rispetto a quelli dei terzi è dato dal cap. 39 sempre del Sextus, che li assoggetta alla prestazione del giuramento di non procedere all'acquisto dei beni fondiari, evidentemente approfittando della propria posizione di preferenza, allo scopo di frodare terzi aventi diritto (105). In realtà, questa disposizione costituisce un emendamento aggiuntivo al cap. 44 del terzo libro dello Statuto del 1242, che già imponeva a colui che adiva il giudice per richiedere in proprio favore, in forza di un documento, l'investitura nel possesso di un bene fondiario, o che opponeva reclamo contro altra investitura, o che richiedeva al giudice l'emanazione di provvedimenti di natura possessoria - ossia provvedimenti finalizzati ad ottenere la tutela del possesso - su un determinato bene fondiario, di giurare che la propria azione non era indirizzata altro che alla realizzazione di un proprio diritto e non al fine di frodare altri (106). Da quella disposizione evidentemente rimanevano fuori gli atti di acquisto compiuti dai propinqui, atti che altrettanto evidentemente potevano essere compiuti in combutta con un congiunto al solo scopo di sottrarre un determinato bene ai creditori. La posizione di preferenza accordata dalla legge agli appartenenti al medesimo gruppo familiare sia nella procedura dell'usus nouus, sia qualora il bene fosse stato venduto direttamente secondo il cosiddetto usus uetus, impediva agli estranei di inserirsi per far valere le proprie ragioni o, almeno, costituiva un formidabile intralcio.
È evidente che il pendolo della bilancia della politica legislativa del comune non pende più, in questo XIV secolo, così decisamente a favore degli interessi familiari, verso la configurazione di una economia nella quale la familia esercita una decisiva forza centripeta, qual è testimoniata dal regime in vigore nel secolo precedente. Gli interessi di terzi estranei alla famiglia assurgono ad un rango almeno pari a quello degli appartenenti al nucleo familiare e spingono verso una più trasparente circolazione di beni che comunque mantengono una importanza decisiva per la struttura dei patrimoni e per la configurazione della garanzia che il loro possesso consentiva di offrire ai soggetti impegnati negli affari. D'altra parte lo sviluppo di questi porta alla costituzione di patrimoni fondiari consistenti che, come abbiamo visto commentando le considerazioni del Luzzatto, assolvono, appunto, alla funzione di un'immobilizzazione produttiva dei capitali con finalità di garanzia.
Questo processo, come è facile ritenere, non riguarda più soltanto i beni siti nel territorio urbano, ma quelli che stanno su tutto il territorio del Dogato. Sicché sorge la necessità di assoggettare la circolazione dei beni fondiari ad un unico regime, indipendentemente dal luogo dove questi siano collocati, purché evidentemente siano sottoposti alla giurisdizione della Repubblica. Di qui la ragione delle disposizioni contenute, come si è visto, nelle delibere del 1279 e del 1288 recepite nella Summula statutorum, che coinvolgono i podestà e i rettori dei vari ordinamenti del dominio, da Grado fino a Cavarzere - a Grado usque ad Caput Aggeris -, i quali acquistano il potere di condizionare la facoltà dei notai di redigere o dar efficacia esecutiva a carte contenenti atti di disposizione di beni fondiari, un potere del tutto analogo a quello attribuito ai giudici dell'esaminador per gli atti rogati dai notai cittadini.
Tutto ciò non implica una crisi del ruolo esplicato dalla familia nella struttura dell'economia veneziana, né una modificazione sostanziale di tale ruolo, e si è ben lungi dall'eliminazione di quei diritti di prelazione così analiticamente esaminati più sopra. Ma tutto ciò comporta un maggiore equilibrio nella tutela degli interessi familiari rispetto a quello generico di una più libera circolazione di beni comunque fondamentali e rispetto a quello specifico di soggetti, coi quali si siano conclusi rapporti di affari, tendente a mantenere le garanzie patrimoniali sulla base delle quali tali rapporti sono stati posti in essere. Inoltre, l'eliminazione dello sconto introduce un elemento liberistico - o elimina un elemento vincolistico - nel commercio dei beni fondiari perché l'interesse del congiunto ad essere preferito perde quel rafforzamento derivante da un elemento di natura squisitamente economica, che esplica la sua funzione su di un terreno, sul quale altri soggetti intendono concorrere a parità di condizioni. Se è vero che la riduzione di prezzo, come ho suggerito, probabilmente compensa il contributo che ogni congiunto ha fornito alla formazione di quel patrimonio immobiliare in un regime a base rigorosamente familiare, dall'eliminazione di questo beneficio si deve inferire che la struttura familiare perde un poco della sua integrazione quale unità economico-produttiva, a favore di forme di aggregazione dei capitali che si realizzano su di un terreno di maggiore autonomia da strutture sociali elementari basate sul vincolo di sangue naturale o acquisito. È con il XIV secolo che inizia l'affermazione di strutture associative su base non più, o non soltanto, personale, ma a più spiccata vocazione capitalistica, nelle quali, seppure la famiglia gioca un ruolo ancora decisivo, prendono piede aggregazioni di interessi trasversali all'assetto familiare della società.
D'altro canto, con la Serrata del maggior consiglio e con le leggi successive si instaura un regime a struttura gentilizia nel governo della cosa pubblica; ne consegue che, affermatasi sul piano politico, la forma gentilizia di governo può parzialmente attenuarsi sul piano dell'organizzazione economico-produttiva dell'ordinamento veneziano e concedersi all'apertura di legami che trovano la loro ragion d'essere in puri scopi commerciali e produttivi.
Pur considerato tutto ciò, il Liber sextus conserva e ribadisce le norme poste a tutela della prelazione gentilizia nella circolazione dei beni fondiari e anzi rafforza alcune posizioni, in particolare proprio quella della linea maschile a detrimento della discendenza in linea femminile.
Si è visto sopra come, qualora il venditore sia privo di discendenti maschili, vengano preferite sia agli altri discendenti della linea maschile (nipoti), sia ai collaterali e comunque a qualsiasi altro congiunto, le figlie eventuali che dichiarino la loro volontà di acquistare il bene posto in vendita (cap. 22 del terzo libro degli Statuti del Tiepolo) (107). Una riforma del 1329, raccolta nel Sextus al cap. 37, elimina questa posizione di preferenza e sancisce che "se il venditore non ha figli di sesso maschile, ma ha nipoti, vale a dire figli dei figli o anche di un solo figlio, o altri discendenti della linea maschile, tali nipoti o ulteriori discendenti siano preferiti alle figlie del venditore se intendano acquistare l'immobile" (108). Una simile disposizione non fa che irrigidire la struttura familiare, sotto il profilo della sua rilevanza come ente economico, sull'asse della discendenza maschile in linea retta, con sostanziale rafforzamento della rilevanza della configurazione gentilizia assunta dalla classe dirigente (109). D'altra parte il capitolo successivo (eccettuato, come già si è visto, lo sconto) conferma l'ordine di preferenze sancito dal cap. III, 23 dello Statuto del 1242, relativo alla graduazione dei collaterali, anche se l'acquisto riguarda solo una porzione dell'immobile (110).
Già il Besta (111) ha ampiamente dimostrato come "nel regolamento giuridico delle obbligazioni tenne specialmente il campo il diritto romano, in questi rapporti prevalso pur là dove l'influenza germanica s'era esplicata con la maggior forza" (112). In particolare, quel che mi preme mettere in luce è che, al di là dei rapporti con il diritto romano o germanico che si possano stabilire per particolari strutture contrattuali o, più in generale, negoziali, l'esperienza degli affari veneziana dei secoli XIII e XIV in genere sembra improntata alla più ampia libertà formale. Essa, come del resto non potrebbe essere altrimenti e comunque conformemente ad una caratteristica saliente dell'esperienza giuridica comunale, è specialmente protesa ad un notevole pragmatismo e al conseguimento di una effettività che assicuri un ordinato sviluppo non solo dei traffici, ma anche di una normale vita di relazioni economico-sociali.
Sono peraltro da respingere, proprio con riferimento a quanto qui si viene dicendo, quelle tesi che, constatatane l'ampia libertà formale, portano a ricostruire l'esperienza negoziale veneziana come del tutto svincolata dal rispetto di qualsiasi forma e come, per così dire, in balia dell'arbitrium iudicis, in virtù dei poteri delle corti che dirimevano le controversie secundum iustitiam (113). Tutto ciò avrebbe portato alla possibilità di dare rilevanza giuridica al pactum nudum (114), ossia a quell'accordo che, per essere privo di forma e per non richiamarsi espressamente ad alcun fine, per la cui realizzazione l'accordo è concluso, non poteva, secondo la disciplina romanistica, produrre alcuna obbligazione tutelabile dinanzi al giudice, ammettendosi soltanto la sua rilevanza come eccezione per paralizzare una pretesa altrui. La differenza tra corti giudiziarie per rationem e corti per iustitiam è differenza che attiene al modo di procedere, secondo, del resto, quanto messo in evidenza dalla storiografia più recente (115), sicché si può dire che le corti che giudicano per iustitiam sono quelle che procedono sommariamente - sine strepitu et figura iudicii, secondo la terminologia corrente - e senza essere strettamente legate al formalismo processuale proprio delle corti che giudicano per rationem. Tutto ciò, per quel che concerne l'indubbio nessò che vincola l'attività negoziale e la sua forma al procedimento giudiziario di tutela dei diritti, in conseguenza del condizionamento che questo impone ad essa attività negoziale, significa, a favore dell'organo giudicante che è chiamato ad applicare la iustitia piuttosto che la ratio, una certa libertà nell'assumere le prove e soprattutto, come mise in evidenza magistralmente il Cassandro, una maggiore importanza, che assume nei processi dinanzi a queste, che sono propriamente delle corti di equità, la prova testimoniale rispetto alla prova documentaria, facendo perfino astrazione dalla sua esistenza (116).
Se ciò è vero, si deve subito dire che libertà formale nell'attività negoziale non significa assenza di forme e che anche la forma orale di conclusione dei negozi, benché possa essere tra quelle più agili e più correntemente usate nella quotidiana attività di affari, è pur sempre una struttura che, se non si riveste di solennità particolari com'è il caso dell'antica stipulatio romana, della quale, come rileva il Besta (117), si è persa, ai tempi qui considerati, la memoria stessa -, deve comunque, pur nella sua esiguità, ubbidire a una logica interna, che ne consenta la riconoscibilità e deve essere conforme alla funzione assegnatale dall'ordinamento sociale e giuridico.
Una norma costituisce la chiave di lettura dell'esperienza negoziale veneziana, tanto che essa si pone in singolare assonanza con alcune arenghe che ritualmente vengono inserite nella documentazione. Si tratta del cap. I, 33 dello Statuto del 1242 (118):
Chiunque si obbliga con un altro, è tenuto ad osservare l'obbligazione conformemente a quanto ha formalmente promesso. Nelle obbligazioni che scaturiscono dalla vendita di un immobile, il venditore è tenuto ad adempiere alla sua promessa di difendere il compratore [da tutti coloro che ne mettano in questione l'acquisto>, eccetto che nei confronti del congiunto o del collaterale che vantino sull'immobile diritti in ragione del rispettivo rapporto di parentela o di collateralità.
La locuzione qui usata "è tenuto ad osservare l'obbligazione conformemente a quanto ha formalmente promesso" traduce le parole del capitolo "obseruabit textum promissionis"; ho così attribuito un significato più generale ad una formulazione che indubbiamente, dato l'uso della parola textus, sembra riferirsi in modo specifico ad una promissio contratta in forma scritta. Questa interpretazione non è indebita, poiché, per quel che si vedrà meglio subito, se è vero che il promittente è tenuto ad osservare fedelmente il testo di un'obbligazione contratta con lo scritto, tanto più sarà tenuto ad osservare con non minore fedeltà un'obbligazione contratta oralmente: in tutti i casi - secondo quanto implica una norma formulata come quella del cap. I, 33 in questione -, ci si deve attenere a quanto è stato promesso, sicché, se è stata adottata la forma scritta, deve essere dato adempimento pieno a quanto è stato specificato nel documento. D'altro canto, una simile interpretazione converge con il contenuto della glossa sulla parola obseruabit del cap. I, 33 in questione, che chiarisce come il precetto contenuto in questa disposizione statutaria sia conforme al diritto romano: "infatti nei contratti, nei testamenti e nelle leggi non è dato recedere dalle parole usate, ammenoché non risulti una diversa intenzione dei contraenti, del testatore o del legislatore", ossia - per quel che qui interessa - ammenoché le parole con le quali fu contratta l'obbligazione non travisino la reale volontà dei contraenti che risulti (appareat) altrimenti.
La disposizione del cap. I, 33 dello Statuto del 1242 fornisce una chiave di lettura particolarmente preziosa per capire la fisionomia dell'esperienza negoziale veneziana del XIII e del XIV secolo e costituisce la confutazione più sicura di quelle ricostruzioni che tendono ad attribuire ai giudici un potere amplissimo di disattendere il contenuto della obbligazione, così come questo risulta, per sostituirgli una valutazione equitativa basata su considerazioni di giustizia per così dire distributiva o perfino sostanziale. In realtà, soprattutto se il negozio è stato concluso nella forma scritta, questa costituisce il punto di riferimento costante ed ineliminabile che non sopporta di essere disatteso, se non, per stare al precetto identificato dalla glossa, in funzione di una più precisa identificazione della volontà dei contraenti. Chi promette, dunque, dovrà adempiere a quanto ha promesso, senza possibilità di elusione dell'obbligazione così assunta, salvo le deroghe stabilite dalla legge, ossia, quelle che derivano dall'esistenza di diritti di terzi prevalenti rispetto al diritto del promittente di disporre di un determinato bene in modo pieno ed esclusivo. Questi casi, però, non costituiscono eccezione al precetto sancito con il cap. I, 33 dello Statuto del Tiepolo, perché l'obbligo del venditore di garantire il bene venduto contro le pretese di un terzo, se è eliminato in quanto tale, si trasforma inevitabilmente nella responsabilità per i danni che il compratore avrà subìto per effetto di un comportamento del venditore che, nel vendere l'immobile, ha ignorato i diritti che il terzo vantava in ragione della prelazione di natura familiare. Il venditore, dunque, non è totalmente esentato dal rispondere al compratore; solo non potrà esercitare il proprio dovere nella specifica forma della difesa di questo, perché il diritto del compratore di non essere turbato nel suo acquisto deve cedere al diritto del congiunto ad essere preferito, come abbiamo visto ampiamente più sopra.
La disposizione del cap. I, 33 dello Statuto del 1242 è in singolare consonanza, come si è già accennato, con alcune arenghe contenute in documenti redatti in Venezia, e relativi alla conclusione di contratti: "quando si fa una donazione a qualcuno, oppure quando si trasferisce un bene ad altri, è opportuno rafforzare la promessa redigendola per iscritto. Per questo io Filippo Quintavalle, del confinio di Santa Marina, anche per conto dei miei eredi, dono e trasferisco di mia propria e libera volontà a voi, Maria, mia sposa diletta e a tutti i vostri successori, una mia schiava, greca di Salonicco, di nome Maria [...>" (119). Allo stesso modo viene data giustificazione dell'adozione della forma scritta in un contratto di locazione del 9 maggio 1312. Anzi, in questo secondo esempio, si afferma qualcosa di più. Si afferma, in limine all'atto, che sebbene per l'effettiva e valida conclusione del contratto sia sufficiente uno scambio verbale del consenso, tuttavia si delibera di adottare la forma scritta solo allo scopo di evitare future contestazioni dovute all'incertezza che ne deriverebbe per la mancanza di un preciso dato di riferimento: "Quantunque un negozio possa concludersi in modo certo ed efficace anche soltanto con lo scambio verbale del consenso, tuttavia, per evitare che, con il decorso del tempo, sorgano questioni o controversie su quanto si è effettivamente stabilito, è necessario rafforzare il negozio con il vincolo della scrittura [...>" (120).
Queste testimonianze stanno a dimostrare che, in qualsiasi forma l'obbligazione sia stata contratta, l'obbligato deve osservarla conformemente alla promessa, così come risulta o dalle parole che esso obbligato abbia pronunciato o dal documento che sia stato redatto in proposito: ossia obseruabit textum promissionis, secondo il disposto che ben conosciamo del cap. I, 33 dello Statuto nuovo.
La statuizione di questo principio in quanto tale non elimina il problema del rapporto tra le parole per mezzo delle quali l'obbligazione è stata contratta - risultino esse da un documento scritto o da una testimonianza - e l'effettiva volontà dell'obbligato, rapporto che, come abbiamo visto sopra, è affrontato nelle glosse che commentano il cap. I, 33 dello Statuto, e risolto nel senso secondo il quale "[...> nei contratti [...> non è dato recedere dalle parole usate, ammenoché non risulti una diversa volontà dei contraenti [...>" (121).
Non possiamo, tuttavia, essere sicuri che questo atteggiamento sia stato costante nella storia dell'esperienza giuridica veneziana; anzi si potrebbe dubitare del fatto che in un periodo più antico possa essere stata data prevalenza ai uerba piuttosto che ad una uoluntas che risulti altrimenti diversa in qualche misura dai uerba e che questo maggior rispetto della uoluntas sia proprio di una tendenza più recente. Invero, la posizione di aderire alle parole per mezzo delle quali è stata contratta l'obbligazione, ossia il precetto secondo il quale si deve dare applicazione precisa alla dichiarazione formalisticamente intesa, facendo astrazione da un'effettiva volontà che la sorregga, potrebbe essere riferita alla stratificazione più antica della legislazione statutaria veneziana. Lo Statuto di Enrico Dandolo (che, come sappiamo, risale al 1204) ha un capitolo che può essere considerato l'archetipo del cap. I, 33 dello Statuto del Tiepolo. E il cap. 67 che dispone (122):
Chiunque si obbliga con un altro, è tenuto ad osservare l'obbligazione conformemente a quanto ha formalmente promesso. L'obbligazione del venditore di difendere il compratore di un immobile vale [nei confronti di chiunque> eccetto che nei confronti del congiunto o del collaterale.
La norma in questione - nella versione del 1204 così come in quella del 1242 - va vista nella sua complessità, che risulta dall'intera struttura delle obbligazioni veneziane, come l'abbiamo sia pur parzialmente esaminata fin qui. Invero, il precetto che stiamo commentando - secondo quanto risulta dalla testimonianza fornita dalla glossa sulla parola obseruabit commentata sopra - è sicuramente letto e applicato, nella seconda metà del XIII secolo, nel senso di non dare esclusiva rilevanza alla dichiarazione, ma nel senso che quest'ultima deve essere messa in diretta e formale relazione con la effettiva volontà del dichiarante che si obbliga, se questa risulti provata: a quest'ultima, in particolare, deve essere data prevalenza in caso di contrasto con la dichiarazione. Non possiamo essere certi che questa lettura sia riferibile ad un tempo più antico, per esempio al 1204, data di redazione della raccolta di Enrico Dandolo. Tuttavia occorre pur riconoscere che il testo della proposizione iniziale del cap. 67 dello Statuto del 1204 è perfettamente sovrapponibile con quello della proposizione iniziale del cap. I, 33 dello Statuto del 1242 (123). In realtà, ad una più attenta analisi, la funzione di questa norma non è riducibile a quella di una riaffermazione del principio di una formalistica aderenza alla dichiarazione, anche quando risulti una diversa volontà; la funzione del precetto qui analizzato è, proprio all'opposto, quella di affermare il principio, secondo il quale l'obbligazione che scaturisce da una promessa e dalla dichiarazione che la contiene, non va accertata facendo astrazione dall'intero contesto del diritto oggettivo vigente nell'ordinamento; sicché, quantunque chi vende un immobile si obblighi a difendere il compratore nei confronti di chiunque ne metta in discussione l'acquisto, tuttavia questa obbligazione, che tenendo conto esclusivamente della dichiarazione, sembrerebbe estendersi nei confronti di tutti, senza eccezioni, non potrà effettivamente esplicarsi nei confronti dei congiunti o dei collaterali del venditore che vantino un diritto preferenziale nell'acquisto. Ecco dunque che il textus promissionis, ossia "quanto il promittente ha formalmente promesso", ossia il contenuto formale della dichiarazione, dalla quale l'obbligazione scaturisce, non assume valore assoluto, ma relativo, coerentemente all'intera struttura dell'ordinamento. In altre parole, una simile norma, letta nella sua interezza, può costituire, presa da sola, la testimonianza della vigenza, nell'ordinamento veneziano, di un generale principio che obblighi non al rispetto formale e generalizzato del contenuto della dichiarazione, così come questa risulta nel suo tenore letterale per esempio dal documento, ma ad un'interpretazione di essa dichiarazione che tenga conto di tutti gli elementi, da qualsiasi parte provengano, volti a determinare l'effettiva volontà del dichiarante e la sua liceità alla stregua dell'ordinamento.
D'altro canto, si deve anche considerare che dare maggior rilevanza alla uoluntas a detrimento della dichiarazione, ossia a detrimento del textus promissionis nella quale si sostanzia la forma per mezzo della quale si è contratta l'obbligazione, significa attribuire al giudice un più intenso potere di accertamento. In virtù di tale potere, il giudicante può integrare l'efficacia probatoria del documento - quando questo esista - con altri mezzi di prova, in particolare con la testimonianza. È ciò che sembra attuarsi nelle corti che dirimono le controversie sulla base, non della sola ratio, bensì anche della iustitia. Ma ciò non vuoi dire che il giudice possa dirimere le controversie sulla base dell'arbitrium. Questo può consistere perfino nel potere di assumere con la più ampia libertà i mezzi di prova idonei all'accertamento dell'obbligazione, ma non può spingersi al punto di disattendere ciò che è stato provato e di attribuire la ragione e il torto prescindendo dal rispetto di ogni norma predeterminata al giudizio. Ciò sarebbe possibile solo se si ammettesse che l'arbitrium iudicis fosse stato, nell'ordinamento veneziano, fonte del diritto.
Una simile interpretazione presupporrebbe che si traducesse un termine tecnico - arbitrium -, che è anche una forma giuridica, con il lemma italiano ῾arbitrio', che è termine che nell'esperienza linguistica d'oggidì designa proprio la negazione stessa della giuridicità di un ordinamento sociale.
D'altro canto, la tensione tra una linea indirizzata a limitare il potere di accertamento del giudice al testo del documento, ossia al testo della dichiarazione intesa nella sua formale e rigida consistenza, e una linea tesa a far coincidere il contenuto effettivo dell'obbligazione con l'intenzione del dichiarante, indipendentemente dalla forma della dichiarazione, è testimoniata da un capitolo della Summula statutorum di Andrea Dandolo, composta, come sappiamo, intorno al 1336-1337 (124). Il cap. 5 del titolo sesto del primo libro della Summula (125) affronta espressamente il problema che risulta sollevato da due capi del consiglio dei quaranta, Marco Badoer e Bassino Baseggio, i quali propongono di deliberare una norma che limiti il potere di tutti i giudici, "affinché non possano, d'ora in poi, dare altro significato agli atti scritti, diverso da quello che risulti dal significato letterale del testo" (126). Contro questa proposta sta quella di un altro partito, che vuole si osservi il contenuto di un parere di tre sapientes, ossia Giacomo Zorzi (Georgio), Marco Badoer e Nicolò Querini, i quali si sono espressi nel senso che l'accertamento dell'obbligazione non può essere compiuto esclusivamente sulla base della dichiarazione, vista nella sua formale e letterale consistenza, ma nemmeno altrettanto esclusivamente sulla base dell'intenzione del promittente, pur essendo necessario che anche di quest'ultima sia tenuto il debito conto. La proposta di limitare al significato letterale della scrittura il potere di accertamento del giudice è, infatti, da respingere pro eo quod esset contra iusticiam, così come sarebbe troppo sbilanciato un accertamento basato ex toto su ciò che è l'intenzione, ossia la volontà dell'autore della scrittura o di colui che ne chiese la redazione (intencio uel uoluntas auctoris scripturae siue illius qui fecit fieri). La conclusione della commissione dei saggi è che si rimanga a ciò che richiede l'ordo iuris, anche in considerazione del fatto che questo è osservato universalmente da parte di tutti - uniuersi de mundo tenuerunt et teneant - e che questo medesimo ordo è seguito da sempre nell'ordinamento veneziano - et nosmetijsi ab antiquo secuti sumus et transiuimus per uiam istam -: questo ordo vuole che i giudici esaminino i documenti e comunque accertino il contenuto delle obbligazioni "in buona fede e senza intenti fraudolenti" - bona fide sine fraude, secondo la locuzione corrente nei testi coevi. Il contenuto del parere della commissione dei saggi viene trasfuso in una specifica delibera del maggior consiglio, datata dalla Summula al 1301, secondo la quale "nei casi sui quali sono chiamati a pronunciarsi, i giudici e in genere gli ufficiali della Repubblica si lascino ispirare da Dio e si avvalgano del parere di esperti, procedendo in modo conforme all'ordine stabilito dal diritto" (127).
La norma, sebbene presenti caratteri di contraddittorietà, è oltremodo interessante poiché sembra senz'altro fondare da un canto un principio di libero convincimento del giudice e dall'altro un invito ad avvalersi dell'aiuto di sapientes. Quanto quest'ultimo invito abbia a che vedere con il ricorso al consilium sapientis iudiciale, ossia a quell'istituto che prevede che in taluni casi una controversia o un suo specifico capitolo, di particolare difficoltà giuridica, sia rimesso dal giudice ad un esperto, affinché col suo parere determini il giudizio (128), è arduo stabilire; bisogna tuttavia notare che il principio del libero convincimento del giudice mal si armonizza con quello di affidare la risoluzione di un quesito giuridico ad un esperto e d'altra parte la storiografia dominante tende ad escludere che l'istituto del consilium sapientis iudiciale abbia trovato generalizzata applicazione nell'ordinamento veneziano; né questo è il luogo per affrontare questi problemi, che devono rimanere per il momento aperti alle soluzioni che possano pervenire da specifiche indagini (129). Infine, la norma appena esaminata, tràdita dalla Summula statutorum, pone il problema storiografico del significato da attribuire a ciò che è ordo iuris nell'esperienza giuridica veneziana: un ordo iuris, che qui è detto conforme a quanto "ha osservato e osserva tutto il mondo" (130). Non entreremo in questa complessa problematica, ma ci limiteremo a sottolineare come da quanto si è venuto fin qui analizzando risulti l'importanza che ha acquisito la forma scritta nel procedimento di formazione delle obbligazioni e nella prova di esse, ma anche che, quantunque importante, quantunque redatto da notaio, il documento è ben lungi dall'assumere la funzione di prova legale, visto che la sua efficacia probatoria viene a costruirsi nel processo, in interazione dialettica con altri mezzi di prova idonei all'accertamento dell'effettiva volontà negoziale, la cui valutazione è rimessa al giudice.
Pur dentro questi specifici limiti, che peraltro non sono caratteristici dell'esperienza giuridica veneziana, dalle fonti documentarie sopra citate emerge una certa rilevanza del documento come mezzo di prova dell'obbligazione, il che giustificherebbe, come abbiamo visto, l'adozione della forma scritta. Ed invero, in tal senso vanno guardati i due documenti redatti dal notaio Domenico, prete di San Maurizio, che nelle rispettive arenghe dichiara appunto l'opportunità che una donazione sia confermata col vincolo della scrittura (131) e che un'obbligazione, sebbene validamente ed efficacemente conclusa con una apposita dichiarazione, è comunque necessario che venga confermata anche con il vincolo della scrittura al fine di prevenire le controversie che possano sorgere in decorso di tempo (132). Le arenghe premesse ai due documenti richiamati, del resto, sono assai risalenti nel tempo, secondo quanto testimonia, per esempio, un documento di permuta del 1107, cui è premesso: "Il vincolo di un atto scritto è necessario per il trasferimento o la permuta di un bene" (133). In quest'ultimo esempio, in realtà, l'arenga sembra implicare qualcosa di più, vale a dire che la validità stessa dell'atto di trasferimento o di permuta può essere subordinata alla forma scritta (134). Ma, senza entrare in questo ordine di considerazioni, è certo che il modello dell'arenga del XIV secolo trova riscontro già nella documentazione del XII, anche se poi tale modello viene adattato alla natura dell'atto e alle circostanze in cui esso è concluso. Se ne può concludere che la forma scritta nella conclusione degli affari è socialmente considerata come il mezzo opportuno per conseguire quella stabilità delle varie obbligazioni - che in tal modo vengono poste in essere -, e per precostituire un mezzo di prova da esibire qualora sorgano controversie.
La grande varietà di negozi attestata dal protocollo del prete Domenico, che abbiamo assunto a testimone emblematico della fenomenologia negoziale veneziana nel XIV secolo, trova la sua spiegazione in quanto abbiamo appena detto. L'insieme documentario tramandato da questo notaio racchiude atti di notevole consistenza economica insieme con atti di più evidente esiguità; atti nei quali le obbligazioni che ne scaturiscono sono abbastanza complesse da giustificare a prima vista l'adozione della forma scritta insieme con atti connotati da una maggiore linearità.
In particolare, nel protocollo in questione risulta tramandata una non indifferente quantità di documenti che si riferiscono a contratti di mutuo, ma che formalmente sono riconoscimenti scritti del mutuatario, nei confronti del mutuante, di un debito derivante appunto dall'aver ricevuto a mutuo una somma di denaro. Tali documenti, per lo più, contengono non solo il riconoscimento del debito, ma anche la promessa di pagamento alle condizioni che risultano preventivamente pattuite e le relative sanzioni in caso di inadempimento (135). Più analiticamente, alcuni di questi atti mantengono la forma della dichiarazione di quietanza liberatoria della somma che era stata mutuata e restituita. Interessante è il caso di "Dolce, vedova di Simeone d'Aldigero del confinio di San Gregorio", che dà "piena e irrevocabile quietanza, anche a nome degli eredi, a Stefano Coiarella del confinio di San Samuele, anche nei confronti degli eredi" suoi "e di quelli di Caterina", che fu sua moglie, "per la somma di dieci soldi grossi", che Dolce aveva mutuato a Caterina. La mutuante qui si dichiara totalmente soddisfatta in ogni sua pretesa: "Ora, invero, poiché mi è stato integralmente restituito quanto mi era dovuto, vi dichiaro che più nulla mi dovete e che nulla posso pretendere da voi" (136).
La struttura della documentazione relativa ai mutui risente della natura particolare di questo contratto, che, come si sa, è un contratto reale, ossia si conclude perfettamente ed efficacemente con il mero trasferimento della somma mutuata dal mutuante al mutuatario. Per la sua prova, dunque, possono sussistere problemi, ammenoché la consegna del denaro - o di quei beni che sono possibili oggetti di un mutuo, come tutte le cosiddette cose fungibili, quali, per esempio, granaglie (137) - avvenga dinanzi a testimoni. Ma anche in questo caso possono sorgere problemi non solo in ordine al contenuto stesso dell'obbligazione che il mutuatario ha contratto ricevendo la cosa mutuata, bensì anche relativamente alle condizioni che possano accompagnare il mutuo e che riguardano sia la corresponsione di eventuali interessi, sia le modalità e i termini per la restituzione della somma mutuata, sia, infine, le eventuali garanzie e le altrettanto eventuali sanzioni in caso di inadempimento. Di qui la necessità che contestualmente alla consegna della somma mutuata il mutuatario rilasci una dichiarazione, nella quale riconosca appunto il proprio debito e prometta tutti gli adempimenti accessori con le modalità e condizioni pattuite. Un perspicuo esempio è quello del documento del 27 aprile 1312 nel quale Lorenzo, cerchiaio del confinio di San Gervasio, dichiara di aver ricevuto da Nicolò Venier, nobil uomo del confinio di San Samuele, dieci soldi di denari veneziani grossi a titolo gratuito, da restituire entro la fine del successivo mese di agosto. La restituzione deve avvenire o da parte del medesimo mutuatario o da parte di un suo incaricato in Rialto, nelle mani del mutuante o di un suo incaricato. A tal fine si costituisce fideiussore del mutuo Bertuccio, del confinio di Santa Maria a lubanico. All'atto prestano testimonianza alcuni preti (138).
A questo proposito, merita di essere messo in risalto come la quasi totalità dei mutui sono confessati come contratti a titolo gratuito, vale a dire senza la pattuizione di interessi, o, per usare la terminologia testimoniata dai documenti qui esaminati, causa amoris et dilectionis. È lecito dubitare della veridicità di questa rappresentazione di una pratica finanziaria che sembra così generalizzata? E difficile dare una risposta fondata a questa domanda. E forse possibile, infatti, che il caso or ora esaminato di Lorenzo sia effettivamente rappresentativo di un negozio senza fine di lucro (se non fosse che il mutuante, Nicolò Venier, sembra esercitare la professione di prestatore di denaro, visto che compare piuttosto di frequente in tale veste negli atti rogati dal prete Domenico di San Maurizio in questo torno di anni, come si vedrà tra breve). È, tuttavia, doveroso domandarsi se non dissimuli un lucro il documento del 20 settembre 1312, nel quale Ranieri Paradiso, del confinio di San Vitale, dichiara il proprio debito per un mutuo, anche qui qualificato come concesso causa amoris et dilectionis in meis utilitatibus peragendis, di una considerevole somma, ossia sei libbre di denari grossi veneziani, da restituire entro i tre mesi successivi (139). La ricorrenza, che assume la caratteristica della tipicità, della specificazione in meis utilitatibus peragendis, serve ad escludere espressamente ogni partecipazione del mutuante all'impiego che del bene mutuato farà il mutuatario, e dunque anche ad escludere che il mutuante partecipi al rischio del perimento del bene mutuato per caso fortuito, al quale sarebbe assoggettato se si trattasse di un negozio di finanziamento di tipo partecipativo, qual è, per esempio, la commenda (che nell'esperienza negoziale veneziana prende il nome di colleganza). Nel caso qui in esame, che comunque indica un paradigma di una prassi pressoché costante, e nel quale, è doveroso metterlo in evidenza, peraltro non esiste la garanzia di un fideiussore, è pattuita una penale del doppio in caso di inadempimento e inoltre è pattuito che, dalla data di scadenza, qualora il capitale non venga restituito, corra un interesse de quinque sex all'anno secundum usum, ossia del venti per cento (140); questo interesse risulta gravare, sulla scorta di altri documenti, sia sul capitale, sia sulla somma del doppio del capitale dovuta a titolo di pena. Queste clausole si possono considerare tipiche, sicché si trovano in pressoché tutti i contratti di mutui concessi causa amoris et dilectionis, ossia, ancora una volta, a titolo gratuito, con la precisazione che "il capitale e la pena del doppio rendano un interesse in ragione di cinque unità per sei mutuate per anno" (141). In un solo caso è pattuito un interesse contestualmente alla conclusione del mutuo: è quello in cui il mutuatario è il comune di Arbe. Il mutuante è Leonardus Butiglario de confinio Sancti Paterniani e la somma ascende a duecento libbre ad paruos, mutuata per un anno ad utilità del comune per un interesse non superiore al quindici per cento annuo da determinarsi da parte di Andrea Mocenigo, che deve precisare il saggio di interesse sulla base di quello da lui stesso praticato nella sua azienda di credito a parità di rischio (142).
Si può ritenere che, nella pratica negoziale tra privati, gli interessi, stante il generale disfavore che circonda la remunerazione del prestito di denaro nel medioevo (143), siano stipulati a parte in una documentazione destinata a rimanere riservata e non inserita nei protocolli notarili; oppure si può ritenere ancor più fondatamente che il tipo di clausole penali e di garanzia sopra esaminate dissimuli la stipula degli interessi e fosse destinato a funzionare in modo tale da garantire comunque un corrispettivo al mutuante. Non si può in questa sede sciogliere questo nodo, ma soltanto rilevare come la clausola della pena del doppio - che rientra nello schema classico della stipulatio duplae (144) - nonché quella dell'interesse che inizia a correre in caso di ritardata restituzione della somma mutuata, sono considerate generalmente lecite (145), mentre fiorente era la pratica di concedere, a fronte di una somma mutuata, un fondo agricolo, col diritto di trarne, in tutto o in parte, i frutti, a remunerazione del capitale mutuato e fino alla sua restituzione: si tratta del contratto di anticresi (146), del quale abbiamo pure un esempio nel protocollo del prete Domenico qui considerato.
Questi ci tramanda la testimonianza di due distinti documenti, il primo dei quali è relativo al trasferimento da parte di Marco Badoer (Baduaro) del confinio di San Paterniano a favore del cognato Nicolò Contarini (Contareno) del confinio dei Santi Apostoli dei diritti di uso e di sfruttamento di cui Marco è titolare "sulle acque, terre e possedimenti siti in Butinico, nel distretto padovano e relative pertinenze", dietro il corrispettivo di cinque libbre di denari veneziani grossi, con l'obbligo di garantirne il quieto sfruttamento, contro la pena di cinque libbre d'oro. Da notare che il trasferimento di tali diritti - che implicano, tra l'altro, non solo quelli di una normale coltivazione agricola, ma anche quelli di caccia e pesca e di sfruttamento delle paludi - è qui pattuito in perpetuum: "Per la qual cosa io Marco Badoer, anche per conto dei miei eredi, faccio piena e irrevocabile promessa formale a te Nicolò Contarini, cognato mio, anche nei confronti dei tuoi eredi, che potrai rimanere sicuro in perpetuo sia per i diritti e le ragioni che ti trasferisco, sia per il prezzo che ne ho ricavato, poiché non ho null'altro da pretendere da te per quanto riguarda questo negozio" (147). A fronte di questo irrevocabile e perpetuo trasferimento di diritti, sta il documento che segue, contenente l'atto di Nicolò Contarini, con il quale, considerata la cessione che Marco Badoer ha eseguito a suo favore dei diritti di uso e di sfruttamento dei possedimenti siti in Butinico, per il corrispettivo di cinque lire di grossi, dichiara:
prometto di corrispondere a te Marco d'ora in poi fino al primo di gennaio prossimo venturo e da tale data per due anni, consegnandola a te o ad un tuo incaricato, la metà dei fitti e dei redditi derivanti dalle acque, dalle terre e dai possedimenti di cui sopra. Inoltre prometto che, se a decorrere dal primo gennaio prossimo venturo, entro due anni mi restituirai le cinque lire di grossi qui in Rialto, io a mia volta ti renderò e ti restituirò tutti i diritti e le ragioni che tu mi hai ceduto relativamente ai possedimenti siti in Butinico. Mentre se, entro i detti due anni, non mi darai le cinque lire di grossi di cui sopra, questo presente atto si deve intendere come nullo. Se tenterò di andar contro questa mia promessa, pagherò una penale di mille lire di denari veneziani piccoli […> (148).
Ho riportato questo ampio stralcio perché nulla è più eloquente di questo documento per determinare l'interezza dell'affare concluso tra Marco e Nicolò: quest'ultimo, evidentemente, ha mutuato a Marco la somma di cinque lire di grossi per due anni e mezzo circa, ad un saggio di interesse pari alla metà del valore dei frutti derivanti dai possedimenti che Marco ha in Butinico; possedimenti che Marco trasferisce a Nicolò sia a titolo di garanzia reale del mutuo concesso, sia al fine di permettergli la percezione dell'interesse pattuito. Stando così le cose, non si possono non confermare i dubbi sulla veridicità della rappresentazione offerta dalle carte relative a mutui gratuiti per valori analoghi a quelli qui implicati, o perfino maggiori.
Non si può fare a meno dall'osservare, in via di prima approssimazione, che, mentre il capitale mutuato da Nicolò a Marco, per quanto rilevante, non sembra davvero ingente, le somme che saranno corrisposte a titolo di interesse - la metà dei fitti e dei redditi derivanti da una proprietà immobiliare che, sulla carta, sembra piuttosto consistente - appaiono piuttosto elevate, anche se è doveroso sospendere il giudizio in mancanza di dati quantitativi più certi di quelli qui approssimativamente desunti. Comunque, se il prestito di cinque lire di grossi dà luogo alla prestazione di una garanzia reale dell'entità di quella descritta nella documentazione or ora esaminata e alla corresponsione di un interesse annuo pari alla metà dei redditi derivanti dalle proprietà date in garanzia, mi sembra non sia da prestare eccessiva fede all'ingenua testimonianza del documento del 20 settembre 1312, secondo il quale Francesco Minio avrebbe dato a mutuo a Ranieri Paradiso sei libbre di grossi del tutto gratuitamente e senza alcuna garanzia (149). Lo stesso ordine di dubbi offrono mutui del valore di quello ricevuto da Pietro del fu Demetrio - cinquantatré soldi di grossi (150) -, o quello che sempre Nicolò Venier concede a Rosso Mantovano - tre libbre di grossi (151). Proprio la ripetuta ricorrenza di alcuni nomi tra i mutuanti, quali quelli di Francesco Minio o di Nicolò Venier (152), non può non confermare i più fondati dubbi sull'effettiva gratuità nell'esercizio dell'attività finanziaria che questi personaggi sembrano esercitare con una certa continuità. Invero, poco credibile è che per esempio il Minio, per quanto si faccia prestare una garanzia reale, mutui gratuitamente cinquanta soldi di grossi all'orafo Clario l' 11 ottobre 1312 (153). Infine, per spiegare la fenomenologia qui esaminata e a conclusione di questo lungo discorso relativo ad uno dei contratti più frequenti attestati dal prete Domenico, citeremo il caso del mutuo che Magdalena Nadal, monaca del convento di San Lorenzo, concede a fra Fantino, priore dell'ospedale Domus Dei di Venezia, del valore di ben undici libbre e tredici soldi di grossi ad utilità dell'ospedale. Il priore, peraltro, dichiara che il mutuo fu erogato causa amoris et dilectionis già da un anno e che dovrà essere restituito entro i tre mesi successivi alla data del documento, con la pena del doppio e dell'interesse del venti per cento sul totale in caso di inadempimento (154).
Scorrere il protocollo del prete Domenico di San Maurizio è oltremodo istruttivo e, se ci si lascia guidare nella descrizione che questo notaio dà della vita quotidiana di una città tra le più vive e dinamiche dell'Europa del tempo, si può ricavare un quadro sufficientemente rappresentativo di quanto vi fossero ricchi e variegati gli affari, intesi come espressione di quella vita sociale che assume rilevanza giuridica. Ciò, del resto, non deve sorprendere: soltanto la lettura delle sentenze è paragonabile ad un protocollo notarile per l'attitudine a fornire gli elementi necessari a ricostruire come si svolga la vita della società. La lettura di un complesso documentario, tuttavia, non è certamente immediata, in quanto la forma che viene impressa agli atti e quella che presiede alla formazione dei singoli documenti rappresentano un dato intermedio che necessita dell'intervento dell'interprete. L'abbiamo visto a proposito dei documenti relativi al contratto di mutuo, forma negoziale che dà struttura al traffico di denaro, il quale a sua volta costituisce evidentemente una delle attività più praticate nella Venezia del XIV secolo. Ma, appunto, quella forma contrattuale, nella sua tipicità di contratto a titolo gratuito, ché tale era nell'esperienza romana, se non subisce un processo di traduzione, darebbe una rappresentazione della realtà fallace e incompleta.
Dalla documentazione conservata nel protocollo del prete Domenico di San Maurizio ricaviamo la conferma che nell'ordinamento veneziano il fideiussore non gode del cosiddetto beneficio dell'escussione preventiva del debitore principale, in favore del quale la fideiussione è prestata, in base al quale egli potrebbe essere chiamato a rispondere e potrebbe essere richiesto di prestare la propria garanzia soltanto dopo che si fosse rivelato inutile e infruttuoso l'attacco ai beni del debitore principale. Il fatto che a Venezia il commercio del denaro costituisca una delle attività più fiorenti è dimostrato anche dalla regola, secondo la quale il creditore veneziano per esigere la riscossione di un credito assistito da fideiussione può invece decidere liberamente se rivolgersi al creditore o al fideiussore e soddisfarsi sui beni prestati in garanzia dall'uno o dall'altro, secondo la sua convenienza. Il fideiussore a Venezia non poteva dunque pretendere la preventiva escussione del debitore principale e doveva sottostare all'azione del creditore. Lo sancisce esplicitamente una disposizione raccolta nella Summula statutorum, con la quale "chiunque si costituisca garante personale per qualcuno deve essere considerato come debitore principale, senza eccezioni". Del carattere derogatorio di questa norma, rispetto ai principi comuni, è consapevole il legislatore veneziano il quale dispone anche che "coloro che ricevono la garanzia personale sono tenuti ad avvertire di questa regola coloro che si costituiscono fideiussori" (155). Rimane salvo, secondo i principi generali, il diritto del garante di rifarsi su colui in favore del quale aveva prestato garanzia personale. Testimonianza di ciò è data dal documento del 14 settembre 1312; qui, ancora una volta
Francesco Minio - sulla cui attività finanziaria non dovrebbero sussistere ormai dubbi - prende possesso dei beni di Matteo Gradonico, nella proprietà dei quali, data la morte di questo, è ormai succeduto il figlio Marco, essendo stato, esso Matteo, fideiussore in favore di Marino Leocari, cui il Minio aveva prestato venticinque soldi di denari veneziani grossi; in particolare, il Minio dichiara di appropriarsi di tali beni in esecuzione di una sentenza dei giudici del mobile, per un valore pari appunto al doppio del capitale e tenuto conto dell'interesse del venti per cento sul capitale e sulla penale, a causa dell'inadempimento del debitore; nel far ciò, rilascia appunto a Marco Gradonico, in qualità di erede di Matteo, una quietanza liberatoria (156). A riprova di quanto si è detto, in tutto il documento non è fatta alcuna menzione dell'inutile escussione di Marino Leocari.
Del commercio del denaro abbiamo una notevole testimonianza, anche per la presenza, sempre nel protocollo del prete Domenico, di almeno un contratto di cambio (157), nel quale Nicolò Sagredo del confinio di Santa Trinita s'impegna a pagare a Pantaleone Michiel la somma corrispondente a quarantasei soldi e due grossi, ricevuti da Micheletto Michiel del confinio di San Severo, "in denari nuovi della zecca o in tornesi, secondo il valore dei grossi nuovi della zecca, qualora non fosse possibile trovare i denari nuovi della zecca"; la somma dovrà essere corrisposta "a Corone o a Modone nelle mani di Pantaleone o di un altro agente di Micheletto, entro otto giorni a decorrere dal giorno in cui Pantaleone Michiel avrà esibito la richiesta di pagamento di Micheletto". In tal modo il Sagredo poteva impiegare i quarantasei soldi e due grossi per commerciare fino a quella data, e Micheletto poteva avere la disponibilità della somma corrispondente sulla piazza di Corone per far fronte, a sua volta, alle proprie necessità di liquidità (158).
Naturalmente nel protocollo del prete Domenico non mancano altri contratti, relativi ad attività diverse dal commercio del denaro.
Non sorprenderà che relativamente frequenti siano gli atti di compravendita che hanno per oggetto imbarcazioni. Spesso il commercio di questi beni si svolge tra Veneziani e forestieri, o anche tra forestieri, sulla piazza di Venezia. Così, per esempio, Giovanni de la Galinela e Marcuccio di Nicola, entrambi di Fano, vendono a Francesco Massaro, del confinio di Santa Trinita, un natante di nome ῾Santa Lucia' - unum nostrum lignum coopertum cum cantarata uocatum ῾Sancta Lucia' - con tutti i suoi corredi e attrezzature. In particolare, l'atto specifica che le attrezzature appartengono per i tre quarti a Giovanni e per il restante quarto a Marcuccio. Il prezzo di vendita è di ventotto lire di grossi, che i venditori dichiarano di aver già ricevuto, sicché questi ne rilasciano piena quietanza (159).
Non è infrequente, anzi è quasi una regola, che sui navigli gravino diritti di più soggetti. Se la situazione di condominio si crea per un atto volontario - un acquisto in comune di una quota o di un intero naviglio -, il rapporto che intercorre tra i condomini della nave costituisce un rapporto di società di fatto, ammenoché la partecipazione non prenda una determinata forma societaria di origine negoziale. Si tratta, com'è del tutto evidente, di beni produttivi di una certa complessità strutturale, dotati di una notevole capacità di produrre reddito, in quanto beni strumentali per l'esercizio del commercio marittimo; ma si tratta anche di beni, che proprio per questi impieghi, sono assoggettati ad un certo grado di rischio sia di deterioramento sia di perimento totale o parziale, che implica il rischio della perdita totale o parziale del capitale che vi è investito. La partecipazione collettiva nella tenuta di questi beni permette la distribuzione del rischio su più soggetti e quindi un sostanziale aumento del rendimento del capitale investito a parità di investimento sul medesimo tipo di bene.
Questo è, probabilmente, il caso che riguarda la compravendita di una quota della metà di urta barca marciliana, avvenuta il 31 agosto 1312. Venditori sono la vedova Donata e Bono di Pellestrina, nonché Antonio, precone, del confinio di San Gimignano; compratori sono Marco Boali e Bertone, suo figlio, del confinio di San Maurizio. La quota comprende anche la corrispondente porzione degli accessori e delle pertinenze. Il prezzo convenuto è di cinque lire e dodici soldi e mezzo di grossi (160), il cui pagamento è dilazionato in due rate, ciascuna della metà del prezzo convenuto. La dilazione di pagamento, in realtà, costituisce un vero e proprio negozio di finanziamento che intercorre tra i venditori della quota della marcigliana e i compratori. Difatti, all'atto della compravendita della quota del natante seguono due altri documenti. Con il primo i compratori s'impegnano a saldare il prezzo convenuto entro due scadenze: entro il 25 dicembre successivo - "metà dei suddetti denari saranno pagati di qui alla festa della Natività di nostro Signore prossima ventura" -, la prima; entro un anno dalla data di stipula della vendita - "e la rimanente metà da ora fino ad un anno" -, la seconda (161) Questa dilazione di pagamento, tuttavia, non è senza prezzo, perché lo stesso giorno Marco Boali e Bertone suo figlio, nell'altro dei due documenti, dichiarano di aver ricevuto dagli stessi venditori della marcigliana cinquanta soldi di denari grossi veneziani, come al solito a titolo gratuito, da restituire entro il giorno di Natale, ossia contestualmente alla data di versamento della prima rata di pagamento della quota della barca ceduta (162). Non è ovviamente impossibile che quanto è testimoniato dalla sequenza documentaria qui descritta sia la fedele rappresentazione dei fatti, sicché se ne dovrebbe concludere che la vendita della quota del natante sia stata stipulata insieme con un normale contratto di mutuo e che i due affari - vendita e mutuo - costituiscano due atti contestuali, ma indipendenti e autonomi l'uno dall'altro. L'ipotesi più probabile e più verosimile, però, mi sembra essere che il terzo degli atti tràditi dal protocollo del notaio Domenico prete di San Maurizio non sia altro che l'atto con il quale gli acquirenti si impegnano a corrispondere ai venditori della quota della metà della marcigliana gli interessi relativi alla dilazione di pagamento loro concessa, che, riguardando un capitale di più di cinque lire e mezzo di grossi, non è certamente di trascurabile entità. La stipula degli interessi della dilazione, dunque, è dissimulata da un contratto di mutuo gratuito simulato per il valore corrispondente: ma a fronte di tale contratto non è avvenuta alcuna materiale provvista di denaro da parte dei venditori agli acquirenti. Volendo eseguire qualche calcolo, sia pur sbrigativo, si potrebbe dire che il finanziamento relativo al pagamento del bene ceduto ha reso ai venditori più del quarantaquattro per cento del capitale implicato dalla vendita e dunque dalla dilazione. Questa somma, che riguarda il rendimento totale dell'affare, ammesso che nelle pieghe dei documenti qui considerati non si celino elementi che impediscono un'analisi quantitativa più precisa, non è tuttavia immediatamente indicativa del saggio d'interesse annuo, perché, se è fondata la congettura che costituiscano l'interesse corrisposto per la dilazione, i cinquanta soldi, di cui gli acquirenti si dichiarano debitori per causa di mutuo, sono dovuti per il finanziamento sia di due lire, sei soldi e un quarto fino al Natale successivo - per un totale di tre mesi e venticinque giorni -, sia per il finanziamento delle residue due lire, sei soldi e un quarto fino all'anno successivo, per un totale di dodici mesi. A chiusura di questo esame della sequenza documentaria relativa all'acquisto della marcigliana si deve notare che il fatto della dilazione del pagamento non implica alcun privilegio dei venditori sul bene venduto. Non solo questi, fatta menzione della stipula dell'atto relativo ai termini di pagamento, rilasciano integrale quietanza liberatoria nello stesso atto di vendita agli acquirenti, ma, a loro volta, questi ultimi, nel secondo atto, si impegnano ad eseguire i due pagamenti dilazionati, promettendo, in caso d'inadempimento, il pagamento di una pena del doppio - con la maturazione del relativo usuale interesse del venti per cento sul totale -, garantita da tutti i beni immobili e mobili di loro proprietà. E abbiamo visto appena più sopra, come un finanziatore professionale (Francesco Minio) faccia valere questa garanzia nei confronti di un proprio debitore inadempiente.
Questa agilità operativa nell'utilizzazione della funzione di finanziamento è testimoniata anche da un altro interessante contratto intercorso tra Rigus, tinctor de confinio Sancti Paterniani, e le monache del monastero di San Marco di Amiano, in persona delle dominae Biatrix Viiari e Constantia Fuscareno, stipulato il 18 maggio 1311 (163). In questo caso ci troviamo dinanzi ad un episodio di realizzazione di una fattispecie relativamente complessa e del tutto atipica, ossia non immediatamente riconducibile alle figure contrattuali che connotano una esperienza giuridica - il mutuo, la vendita, ecc. -, in quanto i rispettivi interessi del tintore e delle monache trovano composizione originale in una specifica pattuizione. Questa, però, non rimane nella sfera del semplice accordo privo di un riferimento causale e di un rivestimento formale, ma viene fatta confluire in uno specifico contratto, dotato di una sua causa - di una sua determinata funzione di scambio o, se si vuole, di realizzazione ponderata di interessi diversi - e della forma scritta che raccoglie le rispettive dichiarazioni dei contraenti.
Nel contratto in questione, il tintore Rigo dichiara di aver ricevuto dalle monache in due riprese la somma totale di cinquanta lire e otto soldi di grossi per la fabbricazione di un mangano, ossia di una macchina per la lavorazione dei tessuti; la realizzazione del mangano è stata eseguita nella casa di residenza del tintore a sua cura, ma nel nome e nell'interesse delle monache. Con tale mangano Rigo dichiara di voler esercitare la propria professione nella detta casa per due anni completi a decorrere dal primo giorno del mese di febbraio dell'anno 1310. In relazione a ciò, il tintore Rigo s'impegna a versare alle monache la metà di quanto lucrerà dall'uso di tale mangano, trattenendo l'altra metà. Durante tale periodo, tuttavia, il rischio di deperimento del macchinario, che egli qui dichiara espressamente essere di proprietà delle monache - uestrum suprascriptum manganum -, per caso fortuito e, nominativamente, per l'incendio o il furto, grava comunque in capo alle monache. Infine, allo scadere dei due anni, al tintore è riconosciuto il potere di liquidare alle monache l'intera somma di cinquanta lire e otto soldi di grossi e di trattenere il mangano, con i suoi accessori, come proprio. In caso di inadempimento, Rigo s'impegna per una penale di cinquanta lire; il pagamento della pena, ovvero il suo mancato pagamento, al solito, non rendono nullo il contratto così stipulato, che rimane in tutta la sua efficacia. Segue l'indicazione dei testi (164).
Si deve, prima di tutto, sciogliere l'interrogativo derivante dalla datazione della carta, che differisce da quella di conclusione del contratto, quale risulta dal tenore della carta medesima. Da questa si evince che l'accordo è stato concluso in una data anteriore al primo febbraio 1309, che in realtà corrisponde al primo febbraio 1310, tenuto conto del fatto che nel documento si fa uso dello stile di datazione veneziano. Comunque il contratto ha validità dal primo febbraio 1310 al 31 gennaio 1312; allo scadere del contratto Rigo o restituisce il mangano alle monache o esercita il proprio potere di riscatto, pagando cinquanta lire e otto soldi. La carta, tuttavia, è datata al 18 maggio 1311, ossia circa un anno e tre mesi dopo l'entrata in vigore della convenzione, ma circa otto mesi prima della data della sua scadenza, ossia della data alla quale il tintore deve esercitare il potere di riscatto del mangano. Se ne deve concludere che il 18 maggio 1311 costituisce la data di redazione del documento in mundum, su richiesta del tintore, che si accinge evidentemente ad esercitare il potere di riscatto, tanto è vero che il notaio scrive in calce al documento: "Ho consegnato la carta soprascritta a Rigo tintore" (165).
Non è questa la sede per una particolareggiata analisi della struttura contrattuale qui implicata. Si deve però mettere in evidenza nella maniera più elementare possibile la configurazione delle rispettive obbligazioni. Le monache, con il contratto in questione, a fronte dell'erogazione delle cinquanta lire e otto soldi, stipulano due obbligazioni con Rigo: con la prima, che rientra pienamente nello schema del mandato, il tintore assume la cura della fabbricazione del macchinario, che come tale, come bene strumentale per l'esercizio della lavorazione dei tessuti, è di generalizzata utilizzazione e dunque costituisce un investimento capitalistico di notevole portata; con la seconda, che realizza una tipica locazione di cosa mobile, ottengono che per i successivi due anni questo macchinario sia immediatamente utilizzato dal tintore contro un corrispettivo pari al cinquanta per cento dei suoi utili. Dal punto di vista economico-finanziario, con la prima obbligazione le monache realizzano un investimento di denaro contante in un bene strumentale: il denaro si trasforma nella proprietà del mangano. Con la seconda ottengono che tale bene non rimanga inutilizzato nemmeno per un giorno, ma inizi a produrre reddito non appena lo strumento è in grado di funzionare. L'investimento iniziale dunque si prospetta come particolarmente redditizio. Il tintore, d'altro canto, è vero che si obbliga a curare la realizzazione di un mangano che sarà di proprietà delle monache, ma può disporre dello strumento per il proprio lavoro ed è tenuto al pagamento di un corrispettivo che dipende dalle entrate effettive che deriveranno dall'esercizio dell'impresa.
Da questa sommarissima analisi possono ricavarsi due diverse interpretazioni della natura del contratto in questione. Una prima interpretazione va nella direzione di dare la prevalenza ai tratti partecipativi che pur sono presenti nel rapporto posto in essere con il contratto in questione. Tali tratti di partecipazione, tuttavia, non esauriscono la fattispecie contrattuale posta in essere. Sicché già fin d'ora si deve concludere che questo contratto è un contratto squisitamente atipico. Che le monache partecipino in una certa misura al rischio dell'impresa del tintore discende dal fatto che la remunerazione dell'investimento è rapportata agli utili - "vi corrisponderò la metà di quanto ho guadagnato dall'uso di questo vostro mangano", ossia "ex omni eo quod cum ipso uestro mangano lucratus fuero dabo uobis [...> medietatem" - e, dunque, il corrispettivo della locazione del mangano consiste in una partecipazione agli utili. Il lucrum è sicuramente il guadagno, ossia il ricavo detratte le spese, ossia il frutto netto dell'investimento. Che il lucrum sia l'utile netto risulta dal significato corrente di questo termine: valga per tutti la carta di colleganza datata 27 luglio 1364, tratta dal protocollo di un altro notaio (Nicola de Boateriis), che così specifica la ripartizione dei risultati dell'affare gestito in comune: "Et totum lucrum quod [...> consequitur [...> diuidi debeat in duas partes equales, quarum unam habere debeam ego suprascriptus Nasimbenus pro lucro et utilitate dictorum meorum denariorum [...>", che non potrebbe tradursi altrimenti che così: "E tutto il guadagno che deriverà [...> deve essere diviso in due parti uguali, una delle quali mi spetta quale utile per l'investimento dei miei denari [...>" (166) Questa formulazione è tipica, nella documentazione tràdita, e, per la sua generale utilizzazione, ci rende certi dell'identificazione del lucrum con l'utile netto. Essa, comunque, è confermata da alcune testimonianze di origine dottrinale. Per esempio, Sigismondo Scaccia, nel suo trattato sul commercio e il cambio, definisce il lucrum, "ciò che il mercante acquisisce di nuovo dalla sua attività imprenditoriale" (corsivo, ovviamente, mio) (167). Un altro giurista di ius commune, Giacomo Menochio, riferendo tra l'altro l'opinione di Bartolo da Sassoferrato, osserva che quando il figlio svolge affari con denaro paterno, tra padre e figlio "ogni lucro [lucrum> e ogni perdita [damnum> devono essere divisi secondo un'equa ripartizione" (168). Lucrum e damnum, dunque, si contrappongono: l'uno identifica l'utile netto, l'altro le perdite; se il lucrum fosse l'intero ricavo lordo, l'opinione ripresa dal Menochio non avrebbe alcun senso; né avrebbe senso la precisazione dello Scaccia sulla natura del lucrum, quale entità qualificata dalla novità - ossia dalla sopravvenienza - rispetto alle risorse che l'imprenditore ha impiegato nell'esercizio dell'industria: è nuovo ciò che esorbita dal mero rientro nelle spese.
Ne risulta, dunque, confermata la struttura dei rispettivi obblighi e rischi, nonché dei diritti che nascono dal contratto tra le monache di San Marco di Amiano e Rigo, tintore. Se le monache hanno diritto a ricevere la metà degli utili annui derivanti dall'industria del tintore, vuoi dire che questi ha diritto a detrarre le spese, perché, solo dopo la depurazione di queste dalla somma introitata ogni anno, si può stabilire quale sia il lucro, ossia l'utile netto. Ma poiché un utile potrebbe anche mancare, se l'impresa non è redditizia, ne consegue che esse monache rischiano di non vedersi consegnato lecitamente alcunché a fronte dell'investimento eseguito, ossia partecipano dello stesso rischio del tintore imprenditore. Questa compartecipazione al rischio ci rende certi della natura partecipativa del contratto in questione che abbiamo così analiticamente esaminato. Tuttavia questa prima interpretazione non può essere soddisfacente.
Si può infatti dubitare che la fattispecie posta in essere dal contratto in questione debba essere fatta rientrare in quella del tipo della commenda, nella quale un soggetto affida una somma di denaro o delle merci ad un altro soggetto perché ne faccia commercio al fine di dividerne gli utili. Infatti la "commenda è un istituto sorto e sviluppatosi in seno al traffico mercantile"; anzi, con maggiore precisione, essa "è essenzialmente e originariamente [...> un istituto del traffico marittimo" (169). Il fatto che le monache convengano a che il canone della locazione del mangano sia riferito agli utili dell'impresa introduce però un elemento partecipativo che costituisce il tratto causale proprio della commenda (170), anche se tra questa e la locazione non esiste alcun tipo di relazione, sicché si può affermare che la circostanza della pattuizione di un canone partecipativo non è sufficiente di per sé a stabilire nessi di ardimentosa definizione. Tuttavia, che lo schema della commenda, che a Venezia prende elettivamente il nome prevalente di collegantia, sia presente agli occhi del notaio che roga l'atto, il quale dunque contribuisce a dar forma giuridica alla composizione degli interessi che le monache da una parte e il tintore dall'altro mettono in gioco in questa transazione di affari, risulta dalla clausola che statuisce che il rischio di furto e incendio gravi sulle monache. Questa è propriamente una clausola tipica di stile nelle carte di colleganza sia di questo notaio (171), sia di altri (172), che addirittura la sottintendono in una formula abbreviata (173); sicché quando si pattuisce diversamente lo si dichiara espressamente (174), Del resto questa disciplina di riparto del rischio risale ad un uso inveterato, cui fa espresso riferimento lo stesso Statuto del i 242 (175). Mentre questa clausola manca nelle carte contenenti contratti di locazione puri e semplici. Ma la caratteristica saliente di tutte queste fattispecie di partecipazione è il fatto che la consegna al mercante di alcuni beni determinati implica non solo il rischio di incendio e di furto - o di naufragio o di rapina - di colui che conferisce, ma anche il rischio d'impresa, che costituisce comunque elemento strutturale del negozio. Rischio d'impresa che coinvolge non la sola remunerazione del capitale investito, ma lo stesso capitale, che può andar perduto in tutto o in parte, oltreché a causa di eventi calamitosi - veri e propri sinistri -, ossia per il caso fortuito, anche per un cattivo esito squisitamente economico dell'affare.
Nulla di tutto questo accade in seguito al contratto concluso dal tintore Rigo e le monache di San Marco di Amiano. Non solo il mangano rimane di piena ed esclusiva proprietà delle monache, ma se esse rischiano di non ricevere alcuna remunerazione per il suo uso da parte di Rigo per l'esercizio della sua impresa, qualora non realizzi utili, non rischiano altro. Se l'impresa fallisce, il tintore risponderà con i suoi beni e solo con questi, e, restituito il mangano alle monache, che quindi non costituisce la garanzia patrimoniale per i creditori del tintore o se si vuole dell'impresa, dovrà far fronte alle obbligazioni assunte per la sua attività industriale esclusivamente con il suo patrimonio. Egli eviterà solo di dover pagare alle monache alcunché, poiché la sua obbligazione a versare a costoro un corrispettivo per l'uso del mangano sorge solo se si realizza il lucrum, ossia, come abbiamo visto, l'utile netto.
In realtà, occorre ricordare che il diritto di Rigo all'uso della macchina deriva dal fatto che tra questi e le monache è stato concluso, tra l'altro, un contratto di locazione di una cosa mobile, il cui canone non è predeterminato contrattualmente in misura assoluta, ma è funzione degli utili derivanti dall'esercizio dell'impresa, anzi, forse con maggiore precisione, è funzione dei guadagni che derivano al tintore specificamente dall'uso di essa macchina: "vi corrisponderò [...> la metà di quanto ho guadagnato dall'uso di questo vostro mangano", ossia "ex omni eo quod cum ipso uestro mangano lucratus fuero dabo uobis [...> medietatem" (corsivi naturalmente miei); la natura partecipativa del canone, se introduce un elemento atipico nella struttura del contratto di locazione, non ne modifica la natura.
Il discorso potrebbe chiudersi qui se l'atto che stiamo esaminando, come già sappiamo, non contenesse un ulteriore elemento convenzionale relativo al potere di Rigo di trattenere il mangano, alla fine del periodo contrattuale che è un biennio - in capite dictorum duorum annorum -, dietro il pagamento delle cinquanta lire e otto soldi di grossi che costituiscono, come si ricorderà, la somma che il tintore dichiara di aver ricevuto dalle medesime monache per la fabbricazione del macchinario. Questo elemento negoziale costituisce l'autentica originalità della struttura posta in essere tra tintore e monache e imprime all'intera convenzione un'impronta del tutto originale. Esso, invero, inserisce una causa di natura finanziaria che modifica integralmente, rendendola singolarmente complessa, l'intera fattispecie realizzata dalle parti.
Invero, la fattispecie posta in essere da Rigo tintore e dalle monache di San Marco di Amiano va vista nella sua integrità. Se, infatti, l'individuazione analitica delle diverse figure contrattuali che vi giocano ognuna il loro ruolo è necessaria per l'identificazione delle diverse obbligazioni, e dei relativi titolari, per comprendere la reale natura e funzione dell'intera fattispecie negoziale posta in essere, è necessario guardare alla sua complessiva struttura come ad un organismo contrattuale finalizzato ad uno scopo unitario; la vera e specifica causa di questo contratto non è, infatti, una causa fiduciaria - il mandato -, una causa locativa (integrata da una causa di partecipazione) e una causa di compravendita, ma una causa finanziaria, sicché tutto si configura come un'operazione di finanziamento compiuta a favore del tintore dalle monache.
È, tuttavia, indispensabile evitare suggestioni che possono condurre ad anacronismi che cagionerebbero confusione. E, sulla base di questa considerazione, si dovrà dire che è oltremodo probabile che la fattispecie contrattuale in questione costituisca una simulazione di una realtà materiale ben diversa. Insomma, si può ben sospettare che dietro questa convenzione si celi l'aggiramento del divieto del patto commissorio (divieto sancito da una costituzione di Costantino inserita in C. 8, 35[34>, 3). Il patto commissorio è quel patto in base al quale il creditore pignoratizio può trattenere come proprio il bene sul quale si è costituito il pegno, qualora il debitore non adempia. L'aggiramento del divieto potrebbe essere stato consumato con il secco riconoscimento da parte del tintore della proprietà del mangano alle monache, riconoscimento che elimina in tal senso ogni possibilità di contestazione. Se così stanno le cose, la corresponsione della metà degli utili altro non è che la corresponsione dell'interesse in forma partecipativa e il potere di riscattare il macchinario alla fine del periodo contrattuale, altro, a sua volta, non potrebbe essere che la previsione della restituzione del capitale, cui conseguirebbe per il tintore la riacquisizione di un mangano originariamente suo proprio.
Una ricostruzione di una realtà sottostante, alternativa rispetto a quella rappresentata dalla struttura dell'atto qui così ampiamente analizzato nulla toglie, però, ad una constatazione che non può essere disattesa dallo storico - e non solo dal giurista - che si trovi a studiarla. Questa constatazione consiste nel riconoscere che, al di là della materialità dei rapporti, la struttura contrattuale posta in essere dalle parti è connotata da una grande originalità e da una non meno notevole padronanza delle categorie giuridiche implicate. Questa padronanza porta alla confezione di uno strumento formale singolarmente idoneo a dare risposte equilibrate agli interessi coinvolti. Che la struttura contrattuale sia riconducibile a figure negoziali quali quella della locazione finanziaria ante litteram, ovvero che si debba procedere con cautela nell'interpretazione della fenomenologia qui rappresentata, è indubitabile che la fattispecie che qui si è commentata, per la sua atipicità e per la sua singolarità, ma anche per la sua spregiudicata agilità nel conseguire una composizione tra interessi diversi, va segnalata come una manifestazione di modernità davvero significativa.
Ad un'ultima considerazione ci induce questo documento. Il fatto di ammettere che la fattispecie posta in essere dalle monache di San Marco di Amiano e Rigo, tintore, con il concorso decisivo del notaio Domenico, prete di San Maurizio, prospetta in una forma sua propria e autonoma rapporti economici e materiali radicalmente diversi da quelli che essa forma, presa per così dire alla lettera, rappresenta, ci deve indurre a ragionare sulla natura di ciò che è appunto forma giuridica di rapporti socioeconomici. Tale ragionamento ricaverà indubbi benefici dalla considerazione della specificità della realtà giuridica, che è realtà dotata di una sua autonomia concettuale: essa risponde, in quanto tale, esclusivamente alle regole che sono proprie dell'esperienza giuridica. La continuità di questa con l'esperienza materiale non si può stabilire per passaggio diretto, ma necessita di un lavoro di decodificazione, senza il quale si rischia di non ricostruire in modo fedele e soddisfacente l'intera realtà storica.
È sulla base di una tale considerazione che mi accingo ad illustrare l'ultimo reperto documentario che ho scelto come testimonianza atta per contribuire a delineare una fenomenologia dell'esperienza giuridica propria della società veneziana del XIV secolo. L'interpretazione di questa testimonianza, se condotta senza quell'operazione, cui si accennava, di decodificazione della struttura propria dell'atto che la contiene, può condurre a conclusioni diametralmente opposte a quelle che si possono raggiungere se invece si rispetti la specificità dell'atto e la forza della testimonianza che esso ci fornisce di una realtà sociale singolarmente dinamica e attraversata da fermenti di notevole civiltà intellettuale e materiale.
Si tratta del documento, datato 22 giugno 1312, con il quale Nicoletto Rosso assume un'obbligazione negativa, vale a dire, un'obbligazione di non fare. Egli, più specificamente, promette formalmente alla propria moglie Biancofiore di non più percuoterla, contro la pena di cinquanta libbre di denari veneziani piccoli, da pagare ogni volta che la cosa si ripeta, e con la garanzia dei suoi immobili e comunque di tutti i suoi averi. L'obbligazione non è assoluta, perché è sempre ammesso uno ius corrigendi et castizgandi di Nicoletto nei confronti della consorte, qualora ella non obbedisca ai suoi ordini, ma, pur con tutti i limiti che derivano dal costume e dalla struttura della società coeva, è, questo, un caso di notevole interesse, che merita di essere messo in risalto. E forse utile riportare nella sua interezza il testo del documento (176):
Io, Nicoletto Rosso del confinio di San Simeone Profeta, avendo percosso te Biancofiore, mia moglie, in modo scomposto e disdicevole, per la quale causa tu mi hai abbandonato e ti sei trasferita presso tuo padre a Treviso; desiderando che il rapporto con te rimanga fermo, tranquillo e pacifico fintantoché vivrai, come del resto si conviene, per tutte queste ragioni mi sono indotto ad assumere questa obbligazione, anche a nome dei miei eredi, così com'è contenuta in questo documento. Per la qual cosa, io soprascritto Nicoletto Rosso, volendomi obbligare, prometto, anche a nome dei miei eredi, a te Biancofiore, moglie mia diletta, e ai tuoi successori che d'ora in avanti, per la durata della tua vita e per il tempo in cui rimarrai in concordia con me, non ti fustigherò mai più, né mai più ti percuoterò o ti procurerò lesioni per mia colpa. Ammenoché tu non disobbedirai ai miei precetti e alle mie disposizioni, nel qual caso dichiaro che mi sarà lecito infliggerti un moderato e conveniente castigo. Pertanto, se tenterò di contravvenire a questa formale promessa, ovvero se non mi atterrò a quanto è sopra scritto, sarò obbligato, insieme con i miei eredi, a pagare a te e ai tuoi successori a titolo di pena cinquanta libbre di denari veneziani piccoli per ogni volta che ti percuota o ti fustighi, come è detto sopra; la pena è garantita dalle terre e dalle case di mia proprietà e comunque da tutti i miei averi. Pagata o meno che sia la pena pecuniaria, questa promessa formale così come contenuta in questa carta rimarrà in tutto il suo vigore [...>.
Non c'è dubbio che alla sensibilità dell'odierno lettore di questo documento risulti oltremodo duro ammettere non solo che si possa conseguire il rispetto per l'integrità della persona fisica di una donna, nonché per la sua dignità personale, da parte del marito solo per mezzo di un'apposita obbligazione di diritto privato; ma anche che questa integrità e questo rispetto non siano assoluti, illimitati, ma condizionati: l'inosservanza dei precetti del marito legittima la riserva, in capo a questo, di uno ius castigandi, che risulta insopportabile, ancorché moderato e conveniente - michi esse licitum te corrigere et castigare moderate et decenter (177).
Tuttavia, dinanzi ad un reperto di tal fatta, ci si deve porre senza lo schermo di una sensibilità che è l'esito di un lungo e sicuramente faticosissimo percorso storico. Una società che ammette che ci si possa obbligare, così come si obbliga Nicoletto Rosso, e che considera oggetto possibile e lecito di un negozio l'assunzione di un'obbligazione di non compiere atti, ai quali, proprio per effetto di tale obbligazione, viene confermato un sicuro connotato di illiceità, è certamente una società che mostra un'oggettiva necessità di restituire ai rapporti tra coniugi un equilibrio, del quale evidentemente fino ad allora erano venuti meno i precisi contorni.
Inoltre, questo documento ci dice come la posizione della donna, nell'ambito del matrimonio, tenda ad assumere una dignità, alla quale Biancofiore ritiene di non poter rinunciare e, proprio per questo, essa non solo abbandona il tetto coniugale, ma, anche in virtù di questa decisione, acquista la forza necessaria, che nella fattispecie qui realizzata assume una specifica forza contrattuale, per indurre il marito ad assumere un impegno formale, appunto negozialmente sancito. L'abbandono della casa, tra l'altro, non è stigmatizzato nella parte narrativa del documento, ma è valutato dallo stesso marito promittente come un comportamento necessitato dai suoi stessi eccessi. Lo stesso ritorno della donna alla vita in comune è evento che entra a far parte dell'obbligazione assunta, ma non ne condiziona l'efficacia: "prometto [...> a te Biancofiore, moglie mia diletta [...> che d'ora in avanti, per la durata della tua vita e per il tempo in cui rimarrai in concordia con me, non ti fustigherò mai più". L'apparente subordinazione dell'obbligazione alla persistenza del rapporto personale e della coabitazione vale in realtà come ammissione implicita della possibilità, ritenuta sempre immanente, che la moglie possa sottrarsi agli abusi del marito. Questo elemento della dichiarazione di Nicoletto costituisce la rappresentazione di un rapporto materiale, nel quale la posizione della donna, vista nella struttura sociale storicamente determinata della quale ci occupiamo, si contorna di una relativamente notevole energia. Biancofiore non è succuba passiva del comportamento del marito, ma è consapevole del proprio diritto di non essere maltrattata. Lo stesso concetto di maltrattamento va collocato nel contesto dei costumi coevi. È tale quello che non trova una causa rationabilis, ossia la disubbidienza ai precetti maritali, e che, dentro questa causa, si concreta in manifestazioni smodate, tecnicamente inordinatae, ossia tali da violare l'ordo, la struttura dei rapporti e la funzionalità del potere correttivo al fine di una proficua e pacifica, ma anche dignitosa, vita familiare.
Infine, questo documento costituisce una forte testimonianza della riconduzione sul piano giuridico, quindi formale e dunque oggettivo, delle posizioni soggettive, che spettano rispettivamente ai coniugi nell'ambito del rapporto matrimoniale. È vero che esiste un potere del marito di diramare direttive, potere che, in quanto tale, non entra in discussione e risulta, dal contesto, come perfettamente conforme alla struttura dei rapporti coniugali: tanto forte è tale potere da essergli assegnato un corrispondente potere di reazione all'atteggiamento renitente della moglie che gli è soggetta. E si dovrà anche aggiungere che è pure vero che questo potere spicca per la sua unilateralità: uno solo è il soggetto coniugale che può dare direttive, l'altro essendo a tali direttive assoggettato. Tuttavia, tale potere non si colloca esclusivamente in un mero ambito di rapporti di forza, ma assume una specifica veste giuridica e deve essere conforme al diritto, potendosi non solo prevedere una reazione di difesa di colei che vi è assoggettata, ma anche la formalizzazione di una sanzione a carico del marito, se questi ne abusa. Si può dubitare che, in assenza dello specifico negozio di Nicoletto, esista una forma di reazione dell'ordinamento - sotto il profilo penale - volta a ricondurre il potere correttivo del marito nella legalità e a reprimere l'abuso; questo dubbio denuncia quanto lunga sia ancora la strada che deve essere percorsa prima di arrivare ad un soddisfacente equilibrio delle posizioni coniugali all'interno del rapporto matrimoniale. Ma un documento come questo ci dice pure che questa strada è stata imboccata, perché le diverse posizioni di Biancofiore e di Nicoletto, in relazione alle rispettive posizioni soggettive anche di subordinazione, con questo atto vengono delimitate oggettivamente, in quanto lo sono giuridicamente: l'abuso del marito, infatti, non si presenta come rilevante sul puro piano sociale e del costume, piano dai contorni talvolta oltremodo incerti se non evanescenti, ma si colloca definitivamente su quello giuridico e può essere validamente oggetto di controllo giudiziario al fine della applicazione della relativa sanzione pecuniaria alla quale Nicoletto si è obbligato. Un giudice potrà sempre stabilire, in forza della formale obbligazione contratta da Nicoletto nei confronti della moglie Biancofiore, se questi mantiene il proprio comportamento nell'ambito di ciò che gli è consentito o se ha abusato del potere che gli deriva dalla sua veste di marito. E questo giudice, di volta in volta, dovrà, qualora accerti la violazione della promessa, condannare Nicoletto al pagamento della non indifferente somma di denaro promessa.
Un'ultima considerazione merita di essere formulata. Se Nicoletto Rosso si obbliga - e, si potrebbe inferire da questo documento, se Biancofiore ottiene questa carta a tutela non solo della propria persona, ma anche della propria dignità di sposa - è evidentemente anche perché egli ritiene di non potersi sottrarre alla statuizione di una rigida norma di comportamento che delimiti in modo sufficientemente preciso il confine oltre il quale si realizza un abuso, se vuole mantenere un rapporto corretto con Biancofiore (e magari con la famiglia di lei, con tutte le implicazioni, anche di ordine economico, che connotano il rapporto matrimoniale per mezzo della dote). È, invero, indispensabile evitare che questo atto trascolori nel pittoresco, ma, memori dell'insegnamento del Bloch (178), che venga eretto in tutta la sua emblematicità. Il fatto che esso appaia come una sorta di unicum - non ne ho trovati di altri né nel medesimo protocollo del notaio Domenico, prete di San Maurizio, né in altri protocolli coevi editi - non deve ingannare, perché se quella promessa è assunta, e se è assunta per essere rispettata e perché possa esplicare la funzione regolatrice assegnatale dal promittente, ciò accade perché è conforme alle tensioni che attraversano la struttura dei rapporti tra coniugi e che trovano in un simile negozio l'espressione istituzionale. In questo senso, la singolarità della promessa di Nicoletto si spiega in quanto potrebbe costituire una delle possibili risposte a quelle tensioni che ho postulato, delle quali, a sua volta, rende testimonianza.
D'altro canto, che la società veneziana del XIV secolo si caratterizzi per un indiscutibile dinamismo risulta da tutto quanto si è venuto dicendo fin qui e segnatamente dalla ricca congerie, non soltanto di attività, ma anche delle forme nelle quali queste attività si realizzano, la rappresentazione delle quali è così ben fornita dal protocollo del notaio Domenico, prete di San Maurizio. Sorprendente sarebbe se un capitolo così socialmente importante quale è quello dei rapporti personali tra donna e uomo, che trova nell'ambito del rapporto matrimoniale la sua sede elettiva, rimanesse impermeabile a tale dinamismo.
1. V. Andrea Padovani, La politica del diritto, nel vol. II di questa Storia di Venezia, pp. 303-329.
2. Enrico Besta, Il diritto e le leggi civili di Venezia fino al dogado di Enrico Dandolo, Venezia 1900, p. 53. V. anche le considerazioni di A. Padovani, La politica del diritto, pp. 323 ss.
3. Gli Statuti veneziani di Jacopo Tiepolo del 1242 e le loro glosse, a cura di Roberto Cessi, Venezia 1938 (Memorie del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 30), IV, 28, p. 208, Qui filius natus ante legitimum matrimonium legitimus reputetur et heres sit in bonis paternis, si pater eius eam legitime acceperit in uxorem: "[...> Et hoc intelligatur de filio, qui de soluto et soluta, que sit libera, natus est". Cf. Giorgio Zordan, Le persone nella storia del diritto veneziano prestatutario, Padova 1973, pp. 32 e n. 29, 33 e n. 34.
4. "Ecce quanta est uis matrimonii, ut illegittimos faciat legittimos [...> ", recita la gl. idem est iure, nr. 176, p. 208, rinviando, tra l'altro, a X. 4, 176, che appunto aveva sancito, con più severo atteggiamento oggettivo: "Tanta est uis matrimonii, ut qui antea sunt geniti post contractum matrimonium legitimi habeantur. [...>".
5. Conformemente a quanto sancito nella seconda parte di X. 4, 17, 6.
6. Cf. G. Zordan, Le persone, pp. 31 ss.; E. Besta, Il diritto, p. 53.
7. È il precetto che si ricava dal commento del Cardinal Ostiense Enrico da Susa alle Decretali: Hostiensis Super Quarto Decretalium, X. 4, 17, 6, Qui filii sint legitimi, Venetiis 1581 (riprod. anast. Torino 1965), c. 36, nr. 5.
8. Ciò, del resto, è definitivamente detto dalla gl. non ergo ancilla: "[...> si quis nascatur ex patre libero et matre ancilla, seruus est [...>", in Gli Statuti veneziani di Jacopo Tiepolo del 1242, IV, 28, gl. nr. 177, p. 208.
9. Domenico prete di S. Maurizio, notaio in Venezia (1309-1316), a cura di Maria Francesca Tiepolo, Venezia 1970 (Fonti per la Storia di Venezia, sez. III, Archivi notarili), nr. 11, p. 23.
10. Ibid., nr. 52, p. 53.
11. Si tratta della gl. dic legittimos qui, nr. 139, p. 201.
12. Eccone il testo: "Ut autem nulla questio, sicut hactenus fiebat, ualeat de cetero suboriri, decernimus statuentes quod filius natus ex muliere, antequam mulier sit uiro matrimonio legittimo copulata, si pater eius cum eadem muliere legittimum contraxerit matrimonium, legittimus computetur filius ipso iure et heres sit in bonis paternis, ac si post contractum matrimonium natus esset. Et hoc intelligatur de ilio, qui de soluto et soluta, que sit libera natus est". Cf. supra, n. 3. Sulla legittimazione per subsequens matrimonium per effetto di questo capitolo dello Statuto tiepolesco v. Gli statuti civili di Venezia anteriori al 1242 editi per la prima volta, a cura di Enrico Besta-Riccardo Predelli, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 1, 1901, p. 99 (pp. 5-117; 205-300).
13. Dig. 1, 6, 6 pr.: "Filium eum definimus, qui ex uiro et uxore eius nascitur. [...>".
14. Ibid. 2, 4, 5: "[...> pater uero is est quem nuptiae demonstrant".
15. Come risulta sia da ibid. 1, 6, 6 pr. sia, per esempio, da Inst. 3, 1, 2: "Sui autem heredes existimantur, ut et supra diximus, qui in potestate morientis fuerunt: ueluti filius filia [...>. Nec interest, utrum naturales sunt an adoptiui [...>", dove naturales si deve intendere per legitimi, come opportunamente precisa una glossetta dell'apparato accursiano, appunto sulla parola naturales di Inst. 3, 1, 2: "Idest legitimi". La precisazione risale agli strati più antichi dell'esegesi alle Istituzioni, perfino agli strati precedenti alla scuola di Bologna: cf. la gl. et legitimi tràdita dalla Glossa di Poppi: La Glossa di Poppi alle Istituzioni di Giustiniano, a cura di Victor Crescenzi, Roma 1990 (Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Fonti per la Storia d'Italia, 114), p. 367, nr. 1; cf. anche la gl. qui ex iustis tramandata dal manoscritto Sessoriano: La Glossa di Casamari alle Istituzioni di Giustiniano, a cura di Alberto Alberti, Milano 1937, p. 109, nr. 811.
16. Cf. Dig. 1, 9, 5 con la gl. scilicet et legitimus sulle parole qui naturalis est, nonché Dig. 1, 9, 10 con la relativa gl. et legitimi, sulla parola naturales.
17. Gli Statuti veneziani di Jacopo Tiepolo del 1242, IV, 24, gl. dic legittimos qui, p. 201, nr. 139: "[...> Et omnes tales illegittimi ab honoribus repelluntur et in nullo succedunt [...> ". Sulla disciplina della trasmissione della qualità di patrizio, che vale a dire del diritto di far parte del maggior consiglio cf. Victor Crescenzi, Esse de Maiori Consilio. Legittimità civile e legittimazione politica nella Repubblica di Venezia (sett. XIII-XVI); Roma 1996.
18. Gli Statuti veneziani di Jacopo Tiepolo del 1242, IV, 28, gl. nr. 176, p. 208; v. supra, n. 4.
19. Ibid., II, 1, p. 102, Quod tam masculus quam femina post duodecim annos completos etatem habeant: "Quoniam nullus idoneus intelligitur in iudiciis uel contractibus, nisi legitimam etatem compleuerit, optimum esse decreuimus de metis etatis aliquid diffinire. Ideoque sanctimus quod quicumque, siue masculus siue femina fuerit, post duodecim annos completos etatem congruam habere censeantur". Preferisco la lezione di E. Besta, Il diritto, p. 72, rispetto a quella di Cessi: "de mentis etate".
20. Gli Statuti veneziani di Jacopo Tiepolo del 1242, II, 1, p. 102, nr. 1 di séguito alla gl. sed solet queri, ma sulle parole post duodecim annos: "Hoc est uerum iure Langobardorum, ut post duodecim annos masculi et femine etatis legittime censeantur, ut in Lombarda, c. nullus. Secus iure romano, quia legittime etatis censeantur uigintiquinque et non antea, quantum ad restitutionem denegandam de hiis, que post uigintiquinque annos contrahuntur, ut C. de his qui ueniam etatis impetrauerunt, 1. finali [C. 2, 44 [[45>>, 4>. Odofredus".
21. Rothari 155, in M.G.H. Leges, IV, 1868, p. 36: "Legitima aetas est postquam filii duodecim annos habuerint".
22. M.G.H. Leges, IV, p. 323: "[...> in hac lege [scil.: Roth. 155> debemus intelligere uiuente patre, in ipsa aero mortuo; et quod in ipsa lege [stil.: Liutp. 19> mortuus esset pater, potest uideri in hoc quod dicit: ῾excepto si pater eius debitum dimiserit'". Sull'Expositio, v. Giovanni Diurni, L'Expositio ad Librum Papiensem e la scienza giuridica preirneriana, Roma 1976 (Biblioteca della Rivista di Storia del Diritto Italiano, 23).
23. Deliberazioni del Maggior Consiglio di Venezia, a cura di Roberto Cessi, II, Bologna 1931 (R. Accademia dei Lincei, Atti delle Assemblee costituzionali italiane dal medio evo al 1831, ser. III, Parlamenti e Consigli Maggiori dei Comuni italiani, sez. I, Deliberazioni del Maggior Consiglio di Venezia), p. 76, nr. 5, Quod Quadraginta non possint esse minores uigintiquinque annorum: "Capta fuit pars inter XL quod nemo debeat esse XL, nisi habeat a XXV annis supra, et iungatur in suo capitulari quod quando iurat dictum capitulare teneatur dicere si habet XXV annos".
24. Deliberazioni, II, p. 101, nr. 65, De offialibus, qui debent esse a uigintiquinque annis supra: "Capta fuit pars quod omnes officiales de Veneciis sint de XXV annis uel rode supra, preter Aduocatores curie palacii, qui debeant esse de XX annis uel rode supra, exceptis Aduocatoribus de proprio et Aduocatoribus comunis, qui debeant esse de XXV annis, uel rode supra. Et consilium captum per X et omnia alia consilia, qui essent contra, sint reuocata quantum in hoc".
25. Deliberazioni, II, p. 85, nr. 26, Quod pueri minores uiginti annis non possint capere partem in Maiori Consilio: "Pars fuit capta quod addatur in capitulari Maioris Consilii, quod a sancto Michaele in antea aliquis puer, qui sit minor XX annis, non possit nec debeat capere partem in aliquo Consilio de Veneciis, exceptis filiis domini Ducis, qui est et qui erunt per tempora [..> ".
26. Deliberazioni, II, p. 37, nr. 71, Quod nullus possit esse Consiliarius domini Ducis, nisi habeat XXV annos: "Capta fuit pars quod aliquis de cetero non possit esse Consiliarius domini Ducis, nisi habuerit XXV annos completos".
27. Deliberazioni, II, p. 98, nr. 52, Quod filii Ducis sint de Consilio sine electione: "Capta fuit pars quod filii Ducis, qui nunc sunt, fuerunt et erunt per tempora, sint de Maiori Consilio, sine quod eligantur, postquam compleuerint quatuordecim annos, et iurent semper Maius Consilium quolibet anno ad sanctum Michaelem. Et si consilium est contra sit reuocatum quantum in hoc".
28. Anche se quella norma diverrà la fonte d'un duplice privilegio, ossia quello dell'appartenenza in ragione della carica del padre, e quello dell'età dopo le successive riforme intervenute nella disciplina dell'esse de maiori consilio: segnatamente della riforma del 1506-1526. Lo dimostra, in ultima analisi, l'inserimento della delibera del 1280 nel Libro d'oro vecchio, insieme con l'altra del 2 agosto 1473 che, pur riconfermando il diritto dei figli del doge, uiuente domino duce, a far parte del maggior consiglio e del consiglio dei pregadi, ma per quest'ultimo dopo il compimento dei trent'anni, ne vieta l'elezione a qualsiasi carica: A.S.V., Maggior Consiglio, Libro d'oro vecchio, c. 34v.
29. Liber sextus additionum et correctionum conditarurn super Statutis et legibus Venetorum per excellentissimum dominum Andream Dandulo [...>, cum aliis reformationibus predecessorum suorum diuersis temporibus editis, per eundem sub diligenti ordine locatorum, qui Liber sextus est nuncupatus, in Nouissimorum Statutorum ac Venetarum legum uolumen duabus in partibus diuisum, Venetiis 1729. Si tratta del contributo che Andrea Dandolo doge, nel 1346, dette all'aggiornamento della legislazione statutaria, sul quale v. da ultimo Girolamo Arnaldi, Andrea Dandolo doge-cronista, in La storiografia veneziana fino al secolo XVI. Aspetti e problemi, a cura di Agostino Pertusi, Firenze 1970, pp. 147 s. (pp. 127-268) e la bibliografia ivi citata.
30. Liber sextus, cap. 24, c. 8iv, Quod minores non possint exire de tutoria, nisi excesserint decimum quartum annum: "Optamus (in quantum est nobis possibile) malitiis obuiare et minoribus ac conseruationi bonorum suorum fauorabiliter subuenire. Et propterea iusta consideratione decernimus quod nemo masculus deinceps de tutoria possit exire, nisi 14 annum excesserit etatis sue". A margine del cap. è scritto: "Vide cap. 1 lib. 2 et e. 38 lib. 1".
31. Gli Statuti veneziani di Jacopo Tiepolo del 1242, I, 38, p. 70, Qualiter fieri deberent carte per orphanos infra tempus XVIII annorum constitutos: "Item de orphanis statuimus, tam de masculis quam de feminis, quod, si quis ab anno domini MCCXXXIII, indictione VI mense madii in antea cartam fecerit infra tempus XVIII annorum nullius ualoris existat, nisi unus de examinatoribus in ea subscripserit, sicut extitit constitutum. Et qui a modo fecerit infra tempus XVIII annorum, similiter non ualeat, nisi duo de examinatoribus in ea subscripserint; tamen carta repromisse uel testamenti, quamcumque fecit uel a modo fecerit, uolumus quod ualeat, sicut hactenus ualuit".
32. A.S.V., Maggior Consiglio, Deliberazioni, Liber Fronesis, c. 43v; Libro d'oro, III, c. 187.
33. Ivi, Maggior Consiglio, Deliberazioni, 21, Liber Leona, c. 24iv: "[...> Nemo scribi facere possit aliquem iuuenem ad ballotam aureatam pro ueniendo de nostro Maiori Consilio in festo sancte Barbare, nisi pater dicti talis, qui scribi debebit ad ipsam ballotam, sit uel fuerit de nostro Maiori Consilio et in scribendo modus talis de cetero obseruetur: quod pater dicti iuuenis, si tunc uixerit et erit in ciuitate Venetiarum teneatur presentare dictum talem eius filium ad officium Aduocatorum nostri Communis. Et si filius non esset Venetiis det pater noticiam de infrascriptis, constituendo se in quolibet casu plecium et fideiussorem pro dicto tali eius filio de libris ducentis, quod sit etatis annorum XVIII complectorum. [...> Et [...> teneantur et debeant duo ad minus Aduocatorum Communis inquirere per uiam inquisitionis, diligenter et caute inuestigare utrum talis scriptus fuerit legittimus et legittime nationis et subsequenter si talis extiterit XVIII annorum complectorum [...> ". Nel Libro d'oro la delibera reca questa rubrica: Modus seruandus in scribendis filiis ad probam Maioris Consilii. La rubrica tuttavia così prosegue: qui posthac debebit seruari in non habitantibus hic Venetiis prout in parte Consilii Decern sub die ultima augusti 1506; del resto il Libro d'oro vecchio la conserva con la medesima rubrica a c. 29. Infatti, dopo la riforma del 1506 queste disposizioni troveranno una limitata applicazione nei confronti di coloro che non risiedevano a Venezia; su tutto questo cf. V. Crescenzi, Esse de Maiori Consilio, pp. 317-369.
34. Victor Crescenzi, Il modello veneto. Il libro d'oro delle leggi del maggior consiglio (secc. XVI-XVIII), in L'educazione giuridica, V, Modelli di legislatore e scienza della legislazione, a cura di Alessandro Giuliani - Nicola Picardi, II, Napoli 1987, pp. 161 ss. (pp. 161-169). Cf. supra, n. 28.
35. A.S.V., Consiglio dei Dieci, Parti miste, reg. 27 (1495-1498), CC. 7iv-72: "[...> Et quoniam ipsa experientia cognitum est quod ista scriptio et probatio nobilium nostrorum de annis XVIII ad ballotam fuit et est causa introductiua hiusmodi disordinum, captum propterea et auctoritate huius consilii statutum sit, quod de cetero nemo possit scribi ad illam nisi habuerit et legitime probauerit coram Aduocatoribus Communis etatem annorum uiginti completorum; sic quod quando sibi obuenerit sors ballote aureate in festo sancte Barbare, intelligatur remansisse et posse uenire ad nostrum Maius Consilium sine alia probatione [...>". La delibera è inserita ivi, Maggior Consiglio, Libro d'oro, IX, c. 29V, sotto la rubrica Correctio partis suprascripte circa etatem que debet esse annorum uiginti et quod filii absentes non possint scribi. Cf. anche la pars del consiglio dei dieci del 23 dicembre 1497, ivi, Consiglio dei Dieci, Parti miste, reg. 27, c. 175, che riferendosi alla precedente decisione del 19 dicembre ne precisa l'ambito di applicazione alle probationes a venire.
36. E. Besta, Il diritto, p. 72. Cf. anche G. Zordan, Le persone, pp. 266 s.
37. Gino Luzzatto, Studi di storia economica veneziana, Padova 1954.
38. Id., Les activités économiques du Patriciat vénitien (Xe-XIVe siècles), "Annales d'Histoire Economique et Sociale", 1937, ora in Id., Studi di storia economica veneziana, Padova 1954, p. 126 (pp. 125-165).
39. Ibid., p. 130.
40. Problema che Luzzatto stesso ritiene sostanzialmente insolubile a causa di una inconsistenza delle fonti in proposito. Più interessante è certamente il problema storiografico che si propone di capire, per mezzo della documentazione effettivamente disponibile, quale sia il rapporto tra capitale mobiliare e immobiliare: ibid., pp. 125 s.
41. Ibid., p. 131.
42. Ibid., p. 126.
43. Ibid., p. 127.
44. Id., Il patrimonio privato di un doge del secolo XIII, "Ateneo Veneto", 47, 1924, ora in Id., Studi di storia economica veneziana, Padova 1954, pp. 81-87.
45. Id., Les activités, p. 137.
46. Ibid., pp. 139-141.
47. Ibid., pp. 142-144, 149 ss.; Id., Il patrimonio privato, pp. 85-87.
48. Su queste problematiche v. V. Crescenzi, Esse de Maiori Consilio, pt. IV, cap. I.
49. G. Luzzatto, Les activités, pp. 161-163.
50. Ibid., p. 163.
51. Gli Statuti veneziani di Jacopo Tiepolo del 1242, II, 14, p. 118, Quod filius mentecapti possit facere testamentum: "Volumus etiam quod, si mentecaptus habet tantum unum filium uel nepotem unum ex filio et non plures, uel non habet alios descendentes, et ipse filius uel nepos, completis XX annis, facere possit testamentum etiam uiuente mentecapto, ita tamen quod testamentum non ualeat nisi post mortem mentecapti. / Item, si mentecaptus ueniat ad sanam mentem, similiter non ualeat testamentum. / Et hoc dicimus de filio siue nepote, qui est sub potestate patris uel aui, quod liceat ei condere testamentum de bonis patris uel aui".
52. Ibid., II, 8, p. 115, Quod filii mentecapti, etatem habentes, equalem administrationem habeant in bonis paternis: "Sed quoniam plerumque accidit quod mentecaptus filios habeat, qui duodecim annorum etatem compleuerint, siquidem omnes sint maioris etatis, omnes habeant equalem administrationem in bonis paternis, et etiam talem, qualem pater eorum haberet, si sanus esset. Sed, si quidam ex filiis hiis minores fuerint, ille uel illi, qui sunt maiores, bona patris fatui ministrent uel administrent, ut superius dictum est, ita tamen quod, postquam unus uel plures de fratribus ad etatem uenerit duodecim annorum, iste, qui administrauit, uel isti qui administrauerint, ei uel eis faciant rationem administrationis et omnes insimul administrent, ut supra dictum est. Et quod diximus in fratribus inter se, idem per omnia obseruetur in nepotibus et omnibus masculis descendentibus a filio uel filiis ùel aliis descendentibus per masculos a mentecapto. [...> ".
53. Ibid., II, 14, p. 118, gl. nr. 25: "Secus iure romano, quia filii furiosi uel mentecapti non liberantur a patria potestate, nec habent bonorum patris administrationem, sed patri furioso uel mentecapto datur tutor, qui debeat administrationem facere et filiam uel filias dotare et neptes secundum quantitatem patrimonii, ut D. de hiis qui sui uel alieni iuris sunt, le. patre furioso [Dig. 1, 6, 8>; et C. de episcopali audientia, le. tam dementis [C. I, 4, 28> et C. de nuptiis, 1. si furiosi parentis [C. 5, 4, 25> Odofredus".
54. Fatto compilare, come si è già detto sopra, dal doge Andrea Dandolo nel 1346; v. supra, n. 29 e relativo testo.
55. Liber sextus, cap. 24, c. 8iv, Quod minores non possint exire de tutoria, nisi excesserint 14 annum: "Optamus (in quantum est nobis possibile) malitiis obuiare, et minoribus, ac conseruationi bonorum suorum fauorabiliter subuenire. Et propterea, iusta consideratione decernimus, quod nemo masculus deinceps de tutoria possit exire, nisi decimumquartum annum excesserit etatis sue".
56. Cf. E. Besta, Il diritto, p. 82; Giorgio Zordan, I vari aspetti della comunione familiare di beni nella Venezia dei secoli XI-XII, "Studi Veneziani", 8, 1966, p. 134 (pp. 127-194). Gli Statuti veneziani di Jacopo Tiepolo del 1242, III, 4, p. 124, Capitulum de fraterna compagnia. "Volumus quod, mortuo patre, fratres maneant in fraterna compagnia, quamdiu diuisi fuerint. Idem in germanis consanguineis filiis fratrum inter se et cum patruis, et non procedat ultra fraterna compagnia. / Sorores autem inter se et cum fratribus non sint in fraterna compagnia, sed faciente inter se sorores rationes eorum tantum, que habuerunt a patre uel auo uel aliquo alio de superioribus masculis per lineam ascendentem, et etiam cum fratribus; sed fratres inter se remaneant in fraterna compagnia, nisi et ipsi diuisionem fecerint. Sed si pater uel aliquis de ascendentibus aliqua specialiter dimiserit filio uel alicui de inferioribus, illud non erit in fraterna compagnia". L'istituto della comunione tacita familiare è probabilmente di quelli che si iscrivono nella categoria della lunga durata, essendo uno strumento regolatore di rapporti ancora nel mondo agricolo d'oggidì, secondo usi in continua evoluzione; cf. Michele Giorgianni - Attilio Parlagreco - Antonio Palermo, La comunione tacita familiare in agricoltura, Roma 1971; anche se è doveroso domandarsi quali nessi di continuità e quali fratture segnino l'esperienza attuale da quella propria della vita giuridica medievale.
57. Gli Statuti veneziani di Jacopo Tiepolo del 1242, IV, 24, pp. 200 ss., Qualiter filii, filie et nepotes et ceteri propinquiores de prole, descendentes et ascendentes, bona defuncti al intestato debent succedere et hereditare.
58. Ibid., p. 204: "[...> Et si aliquis uel aliqui eorum [stil.: filiorum> diuisus uel diuisi fuerint uel fuerit ab auo uel patre uel ab alio de ascendentibus et de bonis eius aliquid habuerint uel habuerit, tantum minus percipient uel percipiet in parte sua; et hoc quando bona inter masculos diuiduntur. [...> ". La gl. nr. 155 di p. 204 collocata sulle parole uel aliqui alii, non si riferisce a questo punto del testo dello Statuto. Il tenore della glossa - "Scilicet auus, proauus, attauus; ceteri ascendentes maiores dicuntur" nonché le parole del lemma ne obbligano la collocazione sulle parole et patres uel aui uel aliqui alii de ascendentibus della penultima riga del testo dello Statuto di p. 204, poco prima della gl. nr. 156.
59. Liber sextus, cap. 51, c. 90v, Quod filii ueniant ad partem patris in legatis, sicut in successionibus, non in capita sed in stirpem: "Optantes dubia declarare, sana deliberatione censemus, quod cum ex forma statutorum in cap. 24 quarti libri in successionibus filii filiorum ueniant ad partem in persona patris et ad illam partem admittantur, quam haberet pater, si uiuerit, et in legatis diuerse opiniones reperiantur, uolumus quod de cetero in legatis filii filiorum admittantur et ueniant ad partem quam habuisset pater, si uiueret, non in capita sed in stirpem, ut in successionibus obseruatur". V. anche i capp. 52 ss.
60. Gli Statuti veneziani di Jacopo Tiepolo del 1242, I, 40, p. 71, Qui facit cartam alicui, filius eius diuisus nihil respondebit; filius autem eius non diuisus semper tenebitur: "Cum aliquis habens filium diuisum a se et fecerit cartulam alteri cum suis heredibus, filius, qui est ab eo diuisus, non tenebitur per cartam illam. Ceteri heredes indiuisi a patre tenebuntur".
61. Sull'emancipazione dei filii v. E. Besta, Il diritto, pp. 90 ss.; G. Zordan, I vari aspetti, pp. 160 s.
62. Liber sextus, cap. 9, c. 75v, Quod dictus tempus tredecim annorum non preiudicet cartis fraternis compagnie, neque cartis filialis subiectionis.
63. Domenico prete di S. Maurizio, nr. 71, p. 65. In tal modo mi sembra sia da tradurre la locuzione usata nel documento: "Die terciodecimo intrante. Plenam et irreuocabilem facio ego Laurencius cerclarius de confinio Sancti Samuelis cum meis heredibus tibi Ognobene dillecto filio meo et tuis heredibus de tota filiali subiectione et de quantocumque michi subiacuisti [...>; et quietum et tu cum ceteris tuis heredibus a me ceterisque meis heredibus diuisus et diffinitus sis imperpetuum, ut postulat iuris ordo [...>".
64. Ibid.: "[...> per uniuersas raciones et inquisiciones seu capitula quecumque homo cogitare uel dicere posset per modum aliquem uel ingenium, cum cartis et sine cartis, per curiam et extra curiam, iuste quoque uel iniuste, ab initio usque modo".
65. E. Besta, Il diritto, p. 91.
66. Ibid., p. 93.
67. Ibid. Cf., per esempio, la norma contenuta nel cospicuo capitolo dello Statutum nouum, IV, 24 (p. 200 dell'ediz. citata), p. 203: "Si uero defunctus reliquit filium et filiam, unum et unam uel plures, uolumus quod, si filia non fuit nec est uxorata, in bonis mobilibus patris equaliter succedat cum filio defuncti et nihil habeat de immobilibus, si mobilia sibi sufficiunt ad talem dotem, cum qua possit uxorari [...>; quod, si manifestum est, quod pars mulieris mobilium non sufficit uel propinqui seu iudices dixerint eam partem non sufficere et dotem statuerint congruam; idem etiam, quando nihil est de mobilibus, uolumus quod in potestate filii sit, si etatem habuerint, utrum uelint totam dotem dare, quando nihil est de mobilibus, seu supplere dotem, quando aliquid est de mobilibus, et omnia immobilia sibi retinere, uel cum filia defuncti, sorore sua, omnia tam mobilia quam immobilia diuidere equaliter. Et si ctatem non habuerint, hoc in discretione iudicum remaneat [...>". L'indirizzo è radicalmente confermato dal Liber sextus, capitolo 51, c. 90v, Quod in immobilibus appellatione heredum intelligantur masculi, in mobilibus masculi et femine: "Volumus, cum de hereditate uel legato uel aliquem extraneum relicta uel relicto agitur, appellatione heredum tam masculi, quam femine intelligantur. Et dicimus extraneum quemlibet qui non est de prole. Cum uero de hereditate seu legato a patre uel alio de prole relicta uel relicto mentio fit in immobilibus, appellatione heredum solum masculi intelligantur, saluo si nullus masculus superesset, quod tunc intelligi debeant mulieres. Sed in mobilibus, tam masculi quam femine intelligi debeant et haberi".
68. Si tratta di un complesso di disposizioni del terzo libro dello Statutum nouum; qui di séguito le rubriche dei relativi capitoli: III, 19 (p. 135 dell'ediz. citata), Qualis ordo debeat in propinquis emere uolentibus obseruari; III, 20 (p. 136), Si propinquiores sibi ad inuicem deferre noluerint, omnes ad emendum pariter admittantur; III, 21 (p. 137), De mulieribus possessiones suas uendere uolentibus; III, 22 (p. 137), Quod filie uenditoris ceteris propinquis de prole preponantur ad emendum; III, 23 (p. 137), Qualiter liceat lateraneo possessionem uenalem habere; III, 24 (p. 138), Qualiter ille de prole uendentis si in proximiori gradu fuerit quam ille, qui possessionem iam inuestiuerit, debeat possessionem ipsam habere, licet tempore stridationis fuerit extra Venecias; III, 25 (p. 138), Quod propinquus de prole huiusmodi socio ad emendum preponatur. Queste disposizioni culminano con la norma del capitolo dello Statuto del 1242, III, 26 (p. 139), che, nel caso di scioglimento della comunione, qualora nessuno dei consanguinei o dei discendenti in linea retta intenda vendere, attribuisce al Commune Veneciarum l'obbligo di acquistare ad un prezzo determinato le possessiones che nessuno dei confinanti intenda comprare, al fine di venderle a qualsiasi acquirente, in deroga alle norme sulla prelazione e sulla procedura sulla inuestitio altrimenti vigenti: Qualiter Commune Veneciarum tenebtur possessionem uenalem emere. Cf. anche Gli Statuti veneziani di Jacopo Tiepolo del 1242, IV, 14 p. 190, Si relicta est possessio, ut quis eam emat pro certo pretio, liceat propinquo uel propinquiori eam emere, et precium detur illi, cui defunctus reliquit, excepta quantitate, quam eam soluere uoluit.
69. Per quel che qui interessa basterà rinviare a Francesco Schupfer, Il diritto delle obbligazioni in Italia nell'età del risorgimento, II, Torino 1921, pp. 15 s.
70. Jacobi Bertaldi Splendor Venetorum civitatis consuetudinum, a cura di Francesco Schupfer, in Bibliotheca >uridica Medii Aevi, III, Bononiae 1901, col. 123a; Gli Statuti veneziani di Jacopo Tiepolo del 1242, III, 53, pp. 163 s. V. anche J. Bertaldi Splendor, col. 123b. La figura della longi temporis praescriptio affonda le sue radici, in ogni caso, nel titolo De praescriptione triginta uel quadraginta annorum del Codice giustinianeo (C. 7, 39). Sulla procedura di acquisto secondo l'usus uetus v. anche J. Bertaldi Splendor, col. 148b, De presentacionibus secundum ueterem usum iure propinquitatis uel lateranitatis.
71. Gli statuti civili di Venezia anteriori al 1242, pp. 285 ss. Si tratta di ventuno capitoli che recano la data del 18 giugno 1226 e che il doge Pietro Ziani promulga cum nostris iudicibus et sapientibus et collaudatione populi Veneciarum. Cf. Antonio Pertile, Storia del diritto italiano dalla caduta dell'Impero romano alla codificazione, IV, Storia del diritto privato, Torino 1898 (riprod. anast. Bologna 1966), p. 240. Il primo cap. (p. 285) reca questa rubrica: Qualiter possessiones uendi possunt secundum usum nouum.
72. Gli statuti civili di Venezia anteriori al 1242, p. 243, Noue constituciones siue leges que a domino Rainerio Dandulo filio domini nostri Henrici Dandoli incliti Veneciarum Dalmatie atque Chroacie ducis, cuius uice fungitur dignitatis, cum suis iudicibus et sapientibus conscilii minoris atque maioris collaudatione populi institute sunt; cap. 21, p. 254, Si quis possessiones suas uendere uoluerit cognitum faciat duci. Sull'apporto di Ranieri Dandolo alla legislazione statutaria veneziana v. ibid., p. 49; sulla disciplina della vendita introdotta da questo segmento dello Statuto veneziano v. ibid., p. 59. Si deve dunque in tal senso anticipare la data postulata da A. Pertile, Storia del diritto italiano, p. 240 sulla scorta della Andreae Danduli Chronica per extensum descripta aa. 46-1280 d.C., a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, 1, 1938-1958, p. 290.
73. Sui problemi di stratificazione del testo statutario anteriore alla redazione del 1226 e sull'attribuzione a Ranieri Dandolo dei capitoli qui in questione v. Gli statuti civili di Venezia anteriori al 1242, pp. 41 s.
74. Cui deve attribuirsi, nel silenzio della norma statutaria, la competenza nella procedura di vendita, giusta quanto risulta dal successivo sviluppo della disciplina e conformemente a quanto è sostenuto ibid., p. 52. Del resto nella A. Danduli Chronica, p. 281, l'istituzione della curia dell'esaminador è senz'altro attribuita a Ranieri Dandolo, "figlio del doge, del quale fa le veci" (natus ducis, eius uicem fungens).
75. Già lo Statuto di Ranieri Dandolo, cap. 21, intitolato Si quis possessiones suas uendere uoluerit cognitum faciat duci (in Gli statuti civili di Venezia anteriori al 1242, p. 254) prevedeva: "Censemus etiam obseruandum quod, si quis possessiones suas uendere uoluerit, duci et legi, si uoluerit, cognitum facere debeat [...>". La norma è reiterata nello Statuto del Tiepolo: cf. Gli Statuti veneziani di Jacopo Tiepolo del 1242, III, 31, p. 143, Si quis noluerit in uenditione suarum possessionum usum nouum seruare, uendat ut consuetum est.
76. Gli Statuti veneziani di Jacopo Tiepolo del 1242, III, 10, pp. 130 s. V. anche ibid., la gl. ad euidentiam eius, sulla parola presentiam, che contiene la descrizione dell'atto introduttivo del procedimento.
77. Ibid., p. 131, gl. ad euidentiam eius.
78. Ibid.: "[...> Quicumque ipsam emere uoluerit, secundum quod in statuto terre legitur, tam illi, qui sunt de prole uendere uolentis, quam alii, infra triginta dies, postquam prima stridatio facta fuerit [...> uadant ad presentiam iudicis [...>".
79. "Nota quod lateranei preponuntur propinquis, qui non sunt de prole. lacobus Bertaldus", recita una glossa sul cap. III, 23, ibid., p. 137. La rubrica del cap. III, 23 dello Statuto del Tiepolo è Qualiter liceat lateraneo possessionem uenalem habere.
80. Ibid., III, 22, p. 137, Quod filie uenditoris ceteris propinquis de prole preponantur ad emendum. La glossa del Bertaldo commenta proprio questo capitolo ed è collocata sulle parole da item statuimus alle parole infra filia ipsa (nr. 108, p. 137). L'interpretazione di Bertaldo è restrittiva (ma sistematica, tenuto conto del cap. III, 23, ibid., pp. 137 s.), e precisa che il capitolo commentato vale a tutelare la posizione della figlia del venditore rispetto al fratello di quest'ultimo solo se esso venditore non ha altri figli maschi. Al contrario, se questi ha altri figli maschi e nessuno di questi o nessuno dei discendenti di questi intendano acquistare, anche se il venditore ha una figlia che voglia acquistare, l'immobile deve essere aggiudicato al fratello del venditore interessato all'acquisto: "[...> Habes per hoc capitulum quod filia ceteris propinquis debet preponi; in contrarium habes, quod dari debet fratri, quia est propinquior et est de prole. Dicas quod frater debet eam habere et non filia, quia uenditor habet filium, licet nolit eam emere, sed ex quo non uult eam emere, ueniet ad propinquiorem de prole. Filia autem non est propinquior de prole. Et hoc statutum loquitur, ubi uenditor non habet filium. Iacobus Bertaldus".
81. Ibid., III, 19, pp. 133 s., Qualis ordo debeat in propinquis emere uolentibus obseruari.
82. Come precisa la gl. scilicet ascendentibus sulla parola ceteris, ibid., p. 136.
83. Così precisa la gl. scilicet ascendentibus masculis siglata Odofredo, sulle parole et hiis, ibid., p. 136.
84. Ibid., p. 136: "[...> ita quod ille uel illi, qui sunt uendenti in proximiori gradu in linea ascendenti, preponatur ceteris ad emendum, et hiis preponantur illi, qui sunt in linea descendenti [..> ".
85. Ibid., III, 23, pp. 137 s.
86. Ibid., p. 138: "Si uero lateraneus ipsam [possessionem> habere noluerit, tunc liceat uenditori tam masculo quam femine eam uendere cuicumque ipse uenditor uoluerit"; sulla parola uenditori esiste una glossa siglata Odofredo che così commenta la norma statutaria (nr. 112, p. 138): "Secus iure romano, quia regulariter potest quis uendere cuicumque uoluerit, uelint consortes eam emere uel non, ut C. de contrahenda emptione, l. penultima [C. 4, 38, 141. Odofredus".
87. Questo argomento, che si presta a notevoli equivoci, è stato assoggettato recentemente ad una radicale discussione da Severino Caprioli, Visioni e revisioni storiografiche, in Prelazione e retratto, Seminario coordinato da Giuseppe Benedetti-Lucio Moscarini, Milano 1988, pp. 637-699, dove si può trovare l'ampia bibliografia in materia; v. anche, nel medesimo volume (pp. 4-38), il saggio introduttivo di Giuseppe Benedetti, Appunti storiografici sul metodo dei privatisti e figure di giuristi. Sulla funzione non individualistica della proprietà v. Paolo Grossi, ῾Un altro modo di possedere'. L'emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, Milano 1977. Una rassegna sulle origini del diritto di prelazione in età bassoimperiale, con riferimento alla formazione della prelazione dei congiunti in Manlio Bellomo, Il diritto di prelazione nel Basso Impero, "Annali di Storia del Diritto. Rassegna Internazionale", 2, 1958, pp. 186-228.
88. Tale facoltà trova sanzione nel Codice giustinianeo in C. 4, 38, 14, ma anche, più in generale, in C. 4, 35, 21; cf. supra, n. 86, nonché S. Caprioli, Visioni, pp. 654 ss. La consapevolezza dell'efficacia derogatoria della disciplina statutaria veneziana rispetto a tali principi risulta anche dalla gl. secus iure romano, al cap. III, 12 dello Statuto nuovo del Tiepolo, in Gli Statuti veneziani di Jacopo Tiepolo del 1242, p. 132, nr. 74.
89. Ibid., III, 34, p. 152; cf. A. Pertile, Storia del diritto italiano, IV, p. 242 e nn. 61 e 62, che rinvia al Bertaldo; cf. anche Adriana Campitelli, Contumacia civile. Prassi e dottrina nell'età intermedia, Napoli 1979, pp. 72 s. dove si possono trovare numerosi esempi di inuestitio cum proprio o sine proprio analiticamente descritti. V. anche, sempre di Ead., Attività processuale e documentazione giuridica. Aspetti e problemi del processo civile nel medio evo, Bari 1991, pp. 43 ss.
90. Gli Statuti veneziani di Jacopo Tiepolo del 1242, III, 15, p. 134; cf. A. Pertile, Storia del diritto italiano, IV, p. 243 e n. 64. Sulla proclamacio e sulla figura del clamor, con le relative specificità che questi atti assumono nel processo veneziano v. A. Campitelli, Contumacia civile, pp. 76 ss., nonché Ead., Attività processuale, pp. 43 ss.
91. Gli Statuti veneziani di Jacopo Tiepolo del 1242, III, 12, p. 132.
92. Ibid., 24, p. 138.
93. È questo il senso che si deve, con tutta probabilità, attribuire alla seconda parte di ibid., il cui testo si presenta notevolmente sconnesso.
94. Ibid., 13, p. 133.
95. Sul giuramento de calumnia nel diritto romano v. Vincenzo Arancio Ruiz, Istituzioni di diritto romano, Napoli 1934, p. 149; sul concetto di calumnia, come fatto illecito v. Pietro Bonfante, Istituzioni di diritto romano, Milano 1925, p. 507. Sulla importanza del giuramento di calunnia nell'esperienza processuale dell'età intermedia v. Antonio Pertile, Storia del diritto italiano dalla caduta dell'Impero romano alla codificazione, VI, Storia della procedura, pt. II, Torino 1902 (riprod. anast. Bologna 1966), pp. 76 ss.
96. Gli Statuti veneziani di Jacopo Tiepolo del 1942, III, 14, pp. 133 s.
97. Domenico prete di S. Maurizio, nr. 200, p. 157, 1312, 17 giugno. Altra rinuncia dello stesso genere troverai ibid., nr. 226, p. 174, 1312, 29 luglio.
98. Gli Statuti veneziani di Jacopo Tiepolo del 1242, III, 26, p. 139
99. Liber sextus, cap. 33, c. 84v, Quod si quis possessionem estimatam Communi dare noluerit, non possit usque ad decem annos ipsam dari Communi, nella parte narrativa della quale è analiticamente descritto il metodo seguito per alienare beni immobili secondo l'usus nouus ai danni del comune: "Poiché il nostro comune subisce un raggiro e un danno a causa dei beni immobili che sono posti in vendita secondo l'usus nouus, che si cagiona nel modo seguente, vale a dire: se il venditore constata che la stima eseguita dai giudici è elevata, secondo quanto a lui stesso venditore conviene, va avanti nella procedura; sicché, se l'immobile è acquistato dal comune e poiché questo non può vendere ad un prezzo inferiore a quello di acquisto, non si trovano acquirenti; mentre, se il venditore non gradisce la stima, differisce la collocazione del bene sul mercato finché non trovi un giudice che lo stimi in modo a lui gradito, e pone in essere tutti gli accorgimenti utili per conseguire un tal risultato; decretiamo, avuto riguardo a tutte le forme necessarie per una corretta compilazione dello Statuto, che quando qualche venditore non sia soddisfatto della prima stima ottenuta, l'immobile non sarà acquistato dal comune prima che siano trascorsi dieci anni; inoltre, ogni qual volta che qualche stima sia stata rifiutata dall'acquirente, essa non può essere modificata nei confronti del nostro comune prima che siano trascorsi dieci anni [...>".
100. Abbazia di Montecassino, ms. nr. 459 (Summula statutorum floridorum Veneciarum, pp. 35 s. [cc. 18 s.>): "Auctoritate Maiori nostro Consilio in MCCLXXVIIII, capitulari nostrorum notariorum de Veneciis inseri iubemus, quod non possint nec debeant facere aliquam cartam uenditionis ad usum ueterem sine licentia habita a iudicibus examinatorum uel maiore parte eorum et sic uendiciones que fiunt Clugie [capitulis> et in aliis terris, aquis et proprietatibus positis in districtu illorum locorum debeant fieri, ita quod, quemadmodum iudices examinatorum se subscribunt in istis que fiunt per notarios Riuoalti, sic se subscribant potestates ipsorum locorum et procedant in ipsis uendicionibus sicut suprascriptum est, quod in commissionibus rectorum poni mandamus". Sulla Summula statutorum v. infra, nn. 124 e 125.
101. Domenico prete di S. Maurizio, nr. 99, p. 80: "Io Morosina, moglie di Francesco Agadi, già abitante nel confinio di San Cassiano e ora del confinio di San Samuele rilascio anche a nome dei miei eredi a te Graziadeo Bon del confinio di San Marziale, anche per i tuoi eredi, piena e irrevocabile quietanza per le novantasei libbre e quattordici soldi ad grossos che mi dovevi come residuo di centocinquanta libbre ad grossos quale prezzo di vendita di una proprietà posta nel confinio di Santa Fosca che io stessa ho venduto ad usum ueterem a tua figlia Benvenuta [...> ".
102. Summula statutorum, pp. 37 s. (cc. 19 s.): "Stabili nostra lege sancimus ut in M.CC.LXXXVIII. in nostro Maiori consillio ordinatum fuit quod de cetero aliqua carta cuiuscumque maneriei condicionis uel generationis existat uel nominetur non possit nec debeat roborari per aliquem notarium Veneciarum per quem aliqua proprietas, tenuta uel possessio ipsius proprietatis perpetuo uel ad tempus libere uel condicionaliter in alium transferatur, concedatur uel conferratur aliquo modo uel ingenio nisi primo duo iudices examinatorum ad minus subscripserint in dieta carta. Et addatur in capitulare omnium notari⟨or>um de Veneciis quod non roborent dictas cartas nisi secundum ordinem supra dictum. Et si roborauerint aliter quam dictum est non teneat nec ualeat. Et addatur in capitulari iudicum examinatorum quod teneantur examinare et inquirere diligenter de predictis cartis si fuerit occasione tollendi rationem alterius et si uidebitur eis uel Maiori parti eorum quod diete carte non fiant occasione tollendi rationem alterius non debeant subscribere in eis. Et dicti iudices non debeant subscribere in eis uel in dictis cartis nisi primum fecerint notum propinquis et lateranis et aliis qui uidentur ius habere uel domibus eorum et in ecclesiis contractarum eorum in diebus duobus dominicis in scalis Riuoalti et in platea Sancti Marci. Et addatur in capitulare omnium iudicum palacii quod non debeant racionem facere de aliqua supradictarum cartarum, nisi duo iudices examinatorum ad minus subscripserint. Insuper addatur in capitulari seu commissioni⟨bu>s omnium rectorum a Grado usque ad Capud Aggeris qui de cetero elligentur et illis qui sunt ad pressens in dictis regiminibus mittat precipendo sub debito sacramenti quod teneantur obseruare et facere obseruari et fieri facere om⟨n>ia et singula suprascripta sicut teneantur iudices examinatorum Veneciarum declarantes quod dicti rectores stridari faciant in suis terris sicut iudices examinatorum in schalis Riuoalti in Sancto Ma⟨r>cho".
103. Liber sextus, cap. 35, c. 85v, Quod propinqui et lateranei non habeant prerogativam in possessionibus ratione minoris pretii.
104. V. supra, n. 81 e il relativo testo. Ecco l'intero testo di Liber sextus, cap. 35: "Examinato 19 capitulo tertii libri, cum de prerogatiuis, siue beneficiis competentibus consanguinei et lateraneis in uenditionibus possessionum et alienationibus uideatur facere mentionem, sic in predictis de cetero uolumus obseruari, quod omnia beneficia, que uidentur competere consanguineis, propinquis et lateraneis possessionum uenalium ratione et occasione minoris pretii, quod minus pretium acquirebant possessiones uenales, de cetero cesset et cessare debeat in omnibus capitulis statuti, que de talibus prerogatiuis uel beneficiis faciant mentionem. Ita quod consanguinei de cetero et propinqui et lateranei in acquirendo uel emendo possessiones nullam prerogativam aut beneficium habeant uel habere possint in facto minoris pretii, ipso 19 capitulo in omnibus aliis firmo manente".
105. Liber sextus, cap. 39, c. 86v, De iuramento prestando per propinquos et per lateraneos pro fraudibus in venditionibus euitandis.
106. Gli Statuti veneziani di Jacopo Tiepolo del 1242, III, 44, p. 158, De iuramento per illum faciendo, qui inuestitionem uel propria aut clamores petit, ne in fraude hoc faciat. Che il cap. 39 del Liber sextus incida sulla stessa materia del cap. III, 44 dello Statuto del 1242 risulta da una noterella marginale dell'edizione a stampa del Liber sextus da me consultata, di cui v. qui supra, n. 29.
107. V. supra, n. 80 e il testo relativo.
108. Liber sextus, cap. 37, c. 86v, De filiabus uenditoris non preponendis nepotibus et ceteris de linea masculina. Il capitolo, lo si deve segnalare, anche qui si propone di emendare consapevolmente alla norma del cap. 22 del terzo libro dello Statuto tiepolesco: "Circa il ventiduesimo capitolo del terzo libro degli statuti, contenente che, se il venditore di un immobile non abbia figli maschi e abbia soltanto figlie o una sola figlia, che voglia acquistare a titolo oneroso tale immobile, tale figlia debba essere preferita agli altri congiunti anche se discendenti di sesso maschile, stabiliamo, in aggiunta a tale disposizione, che se il venditore [...> ".
109. Sulla stessa linea si colloca la disposizione del cap. 36 del Liber sextus, c. 86v che stabilisce che se più congiunti vengano contemporaneamente all'acquisto di un bene immobile in virtù di un diritto di prelazione, siano ammessi alla comunione secondo le stirpi e non per capi, del tutto conformemente a quanto accade per la successione senza testamento.
1 10. Liber sextus, cap. 38, c. 86v, Quod lateranei habeant illam prerogativam in parte possessionis uendite, quam habent in tota.
111. Cf. E. Besta, Il diritto, pp. 139-167.
112. Ibid., p. 139.
113. Sono le tesi di Lamberto Pansolli, La gerarchia
delle fonti di diritto nella legislazione medievale veneziana, Milano 1970, pp. 123 ss., ma anche passim, il quale, affermata la integrale ripulsa da parte dell'ordinamento veneziano del diritto comune e dunque la sostanziale estraneità di esso ordinamento dall'esperienza che sul diritto comune si struttura -, perviene all'erezione dell'arbitrium iudicis a fonte formale del diritto, confondendo ciò che è fatto o atto di produzione del diritto come struttura oggettiva e ciò che sono i poteri propri di un ufficio, in quanto tali, prodotto di quel diritto. Per una corretta analisi differenziale tra ratio e iustitia e per una rigorosa configurazione dell'arbitrium nell'esperienza giuridica veneziana v. Giovanni I. Cassandro, La curia di petizion, "Archivio Veneto", ser. V, 66, 1936, nrr. 37-38, pp. 72-144, e 67, 1937, nrr. 39-40, pp. 1-210; per quel che qui concerne, v. le pp. 1 ss. della pt. II, cui si possono aggiungere con profitto le argomentate considerazioni di Karin Nehlsen-Von Stryk, "Ius commune", "consuetudo" e "arbitrium iudicis" nella prassi giudiziaria veneziana del Quattrocento, in Diritto comune, diritto commerciale, diritto veneziano, a cura di Ead. - Dietrich Nörr, Atti del Colloquio tenuto al Centro Tedesco di Studi Veneziani (Venezia, 20-21 ottobre 1984), Venezia 1985, pp. 107 ss. (pp. 107-139); v. in particolare, per quanto qui interessa, le pp. 130-134, nonché, più di recente, quelle piuttosto persuasive di Kenneth Pennington, Learned Law, Droit Savant, Gelehrtes Recht: The Tyranny of a Concept, "Rivista Internazionale di Diritto Comune", 5, 1994, pp. 197 ss. (pp. 197-209), con particolare riferimento alle note critiche di pp. 206 s. relativamente sia al testo qui citato del Pansoffi, sia del più recente lavoro di James S. Grubb, Firstborn of Venice: Vicenza in the Early Renaissance State, Baltimore-London 1988, pp. 31 s. e con le utili notazioni di p. 206 e specialmente di p. 207, che coinvolgono la vigenza nel tempo degli statuti del Tiepolo; da ultimo v. Andrea Padovani, Curie ed uffici, nel vol. II di questa Storia di Venezia, pp. 335 ss. (pp. 331-347).
114. Cf. K. Nehlsen-Von Stryk, "Ius commune", p. 115, che riconduce sorprendentemente la regula dell'efficacia obbligatoria dei patti nudi al cap. I, 33 dello Statutum nouum, nel quale troviamo riaffermato un principio esattamente opposto, come meglio si vedrà tra poco.
115. K. Nehlsen-Von Stryk, "Ius commune", pp. 130 s., nonché A. Padovani, Curie, pp. 339 s.
116. G.I. Cassandro, La curia di petizion, pp. 129 ss. della pt. II: "Anche a prescindere dalla procedura interdittale, dove la testimonianza era l'unico mezzo di difesa, nella procedura, diremo così, ordinaria, quella, cioè, che si iniziava con la ῾querimonia' dell'attore, si doveva ricorrere, in molti casi, a questo mezzo di prova [testimoniale> e contentarsene. Patti, contratti commerciali, crediti verso commissarie, sorti sul fondamento della ῾bona fides', non avevano o avevano difficilmente prove scritte precostituite. Senza dire che, a volte, e non solo per l'interdetto, si voleva appunto invalidare l'atto scritto".
117. E. Besta, Il diritto, pp. 138 s.
118. Gli Statuti veneziani diJacopo Tiepolo del 1242, I, 33, p. 65, Qui facit promissionem, semper textum promissionis seruare debet. Nel testo ho dato la traduzione del cap. I, 33, collocando tra parentesi quadre alcune parole essenziali alla sua comprensione che si possono ritenere come virtualmente sottintese, tenuto conto del contesto in cui il capitolo si colloca: "Cum aliquis facit promissionem alteri, obseruabit textum promissionis. In promissione uero descendens super possessione emptam, defendet quod promisit preter a propinquo et lateraneo ratione propinquitatis et conlateranitatis". V. anche la segnalazione, imputata ad Odofredo, nella gl. istud est contra, nr. 190, della divergenza di questa disciplina rispetto a quella di diritto romano: "Il che è contro il diritto romano, poiché [il venditore> deve difendere [l'acquirente> anche nei confronti dei congiunti, i quali non possono prevalere, secondo quanto dispone Dig. 18, 1, 80". V. anche ibid., I, 42, p. 72 e la gl. ego credo quod, nr. 222.
119. Il documento appartiene al protocollo di Domenico prete di S. Maurizio, nr. 11, p. 23, 1310, 14 aprile: "[...> Cum aliquid alicui donatur uel aliqua tradicione alicui conceditur, dignum est ut scripture uinculo confirmetur. Quapropter ego quidem Phylippus Quintauale de confinio Sancte Marine cum meis heredibus propria uoluntate et libera do, dono atque transacto uobis namque Marie dilecte uxori mee et uestris successoribus una meam sclauam nomine Mariam Grecam de Salonichi [...>".
120. Ibid., nr. 188, p. 144, 1312, 9 maggio: "Certa et uera securitas atque promissio quamuis solis posset subsistere uerbis, tamen ne post decurrencia tempora per ea que rode statuuntur aliqua rode oriatur occasio siue replicatio, necessarium est ut scripture uinculo confirmetur [...>".
121. Gli Statuti veneziani diJacopo Tiepolo del 1242, I, 33, p. 65, gl. nr. 189; v. supra n. 118 e relativo testo.
122. Gli statuti civili di Venezia anteriori al 1242, p. 239, cap. 67, Qui facit promissionem semper testum obseruabit: "Qui facit promissionem alteri obseruabit testum promissionis. In promissione uero defendens super possessionem emptam, defendet quod promiserat preter a propinquo et lateraneo".
123. V. supra, nn. 118 e 122.
124. Luigi Genuardi, La ῾Summula Statutorum Floridorum Veneciarum' di Andrea Dandolo, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 21, 1911, pp. 436-467; G. Arnaldi, Andrea Dandolo, pp. 136 s. e la bibliografia ivi citata; sull'uso effettivo della Summula v. Mario Poppi, Ricerche sulla vita e cultura del notaio e cronista veneziano Lorenzo de Monacis, cancelliere cretese (ca. 1351-1428), "Studi Veneziani", 9, 1967, pp. 153-186; v. in partic. p. 167 con i riferimenti al Chronicon de rebus Venetis (ab urbe condita, ad annum 1354), Venetiis 1758, appunto del de Monacis.
125. Tramandata da un unico codice manoscritto, conservato presso l'Abbazia di Montecassino, la cui edizione è in corso di preparazione; v., per il passo qui in questione, le cc. 9-10.
126. Così traduco l'espressione di Summula statutorum, pp. 17 s. (cc. 9 s.): "Cum poneretur una pars per Marcum Baduario e Bassinum Baseio, qui faciunt capita de Quadraginta, uidelicet, quod addatur in capitulari omnium iudicum et officilium de Veneciis quod non possint amodo dare aliquam intelligenciam scripture nisi secundum quod fuerit scripta, secundum textum [...> ".
127. Ibid., p. 19 (c. 10): "[...> quando occurrerint casus, iudices et officiales nostri habeant Deum ante oculos sue mentis et perquirant consilium a sapientibus et boni iuris, procedendo pro ut ordo iuris postulat et requirit".
128. Sull'istituto del consilium sapientis v. Woldemar Engelniann, Die Wiedergeburt der Rechtskultur in Italien durch die wissenschaftliche Lehre, Leipzig 1938, pp. 243ss.; Guido Rossi, Consilium sapientis iudiciale. Studi e ricerche per la storia del processo romano-canonico, I, (secoli XII-XIII), Milano 1958; da ultimo v. anche Paolo Mari, Contributo allo studio della giurisprudenza consiliare. Un consiglio collegiale dei dottori pavesi nel primo Quattrocento, Roma 1991 (Biblioteca della Rivista di Storia del Diritto Italiano, 31).
129. G. Rossi, Consilium, p. 2, invero afferma che "nella giurisprudenza secolare dei tribunali dello Stato della Chiesa e di Venezia [...> la influenza della pratica del consilium fu accentuatamente limitata".
130. Sul problema della struttura delle fonti dell'ordinamento veneziano v. Victor Crescenzi, Questioni di storiografia giuridica veneziana: la struttura delle fonti e l'arbitrium iudicis, "Bullettino dell'Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano", in corso di stampa.
131. V. supra, n. 119 e relativo testo.
132. V. supra, n. 120 e relativo testo.
133. Il documento è tratto dall'archivio della Famiglia Zusto (1083-1199), edito a cura di Luigi Lanfranchi, Venezia 1955 (Fonti per la Storia di Venezia, sez. IV, Archivi privati), nr. 4, p. 17, 1107, marzo: "[...> Quicquid datur uel commutatur oportet ut scripturae uinculo adnotetur [...>". La traduzione data nel testo di questa proposizione fortemente ellittica è senz'altro assai libera e tende a dare senso tecnico ed intensivo all'ellissi che appunto presiede alla formulazione del principio contenuto nell'arenga; va sottolineato il significato tecnico del termine "adnotare" che non rimanda ad una mera attività di annotazione, ma significa specificamente "redigere per iscritto", ossia comporre una ῾nota', quella stessa che è il prodotto della funzione di documentazione propria dei ῾notarii'.
134. Quest'arenga ha come referente la fattispecie di C. 4, 21, 17 pr. che, nel sancire la piena libertà formale nella conclusione dei contratti di compravendita o di permuta, dispone che, qualora le parti abbiano deliberato di adottare la forma scritta per la stipula di tali contratti, questa forma, in conseguenza di tale decisione delle parti, vale come forma necessaria alla validità ed efficacia dello specifico contratto che si va a concludere, ossia deve essere adottata, in quello specifico contratto, a pena di nullità. Nel caso qui documentato, per l'appunto, le parti dimostrano di aver deliberato di adottare la forma scritta e dunque questa propriamente oportet che venga seguita per la valida ed efficace conclusione della permuta.
135. Cf. per es. Domenico prete di S. Maurizio, nr. 117, p. 93, 1312, 18 gennaio; nr. 134, p. 103, 1312, 16 febbraio; nr. 138, p. 105, 1312, 6 marzo; nr. 147, p. 112, 1312, 30 marzo; nr. 162, p. 127, 1312, 19 aprile; nr. 178, p. 139, 1312, 27 aprile; passim.
136. Ibid., nr. 162, p. 127, 1312, 19 aprile: "Plenam et irreuocabilem securitatem facio ego Dolce relicta Symeonis d'Aldigero de confinio Sancti Gregorii cum meis successoribus tibi Stefano Coiarella de confinio Sancti Samuelis et tuis heredibus et successoribus Caterine condam uxoris tue et uestris heredibus et successoribus de soldis decem grossorum quos ego mutuaui suprascripte Caterine condam uxori tue [...>. Nunc autem quia in omnibus et per omnia ac eciam desuper omnia sum bene appacata et perfecte deliberata, amodo exinde securi et quieti maneatis imperpetuum, quia nichil remansit unde uos amplius requirere aut compellere ualeam [..>".
137. Un vero e proprio mutuo di grano è quello stipulato il 7 gennaio 1279 come risulta dai protocolli di Leonardo Marcello, notaio in Candia (1278-1281), a cura di Mario Chiaudano - Antonino Lombardo, Venezia 1960 (Fonti per la Storia di Venezia, sez. III, Archivi notarili), nr. 12, p. 9.
138. Domenico prete di S. Maurizio, nr. 178, p. 139, 1312, 27 aprile. Un glossario dei nomi di mestieri e professioni recepite nel protocollo del prete Domenico di San Maurizio troverai nella recensione di Paolo Zolli all'edizione qui utilizzata di Maria Francesca Tiepolo, "Studi Veneziani", 12, 1970, pp. 627 ss. (pp. 625-635).
139. Domenico prete di S. Maurizio, nr. 245, p. 187, 1312, 20 settembre: "Manifestum facio ergo Raynerius Paradiso de confinio Sancti Vitalis quia cum meis heredibus recepi a te Francisco Minio de eodem confinio et tuis heredibus libras sex denariorum uenecialium grossorum completas, quos michi mutuasti causa amoris et dilectionis in meis utilitatibus peragendis amodo usque ad tres menses proxime uenturos. Ad ipsum autem terminum uel antea debeam per me uel per meum missum dare et deliberare tibi uel tuo misso hic in Riuoalto omnes suprascriptos tuos denarios saluos in terra sine omni periculo et occasione aut ullis interpositis capitulis. Hec autem et cetera, sub pena dupli. Et inde in antea de quinque sex per annum, secundum usum [...> ".
140. Cf. A. Pertile, Storia del diritto italiano, IV, p. 607 n. 67. Questa maniera di determinare il saggio d'interesse indica che su cinque unità di conto di capitale mutuato, ogni anno ne devono essere restituite sei, delle quali cinque a titolo di restituzione del capitale iniziale e una di interesse, per un saggio appunto del venti per cento.
141. Se questa precisazione manca, per esempio, nel doc. citato supra, n. 139, essa è presente, anche qui per esempio, in quello di cui al protocollo di Domenico prete di S. Maurizio, nr. 223, pp. 172 s., 1312, 22 luglio: "[...> Hec autem et cetera, secundum usum, sub pena dupli. Et inde in antea ipsum capitale et duplum laborent de quinque sex per annum [...> ".
142. Domenico prete di S. Maurizio, nr. 189, pp. 146-148, 1312, 18 maggio. Il mutuo è contratto da alcuni procuratori del comune di Arbe i quali, tra l'altro, per quel che qui interessa, dichiarano: "[...> Et tunc uel in antea dictum comune debeat aut nos debeamus per suum uel nostrum missum dare et deliberare tibi uel tuo misso hic in Riuoalto su prascriptos tuos denarios cum tali parte prodis et dampni, qualem proiecerint denarii uolte Andree Mocenigo de confinio Sancti Cassiani, non ascendendo ipsum prode ultra libras quindecim pro centenario in racione anni, credendo de ipso prode et dampno simplici uerbo dicti Andree Mocenigo sine sacramento uel alfa testium probatione. Tamen suprascriptum tuum habere esse debet in tali periculo, quali erunt denarii dicte uolte dicti Andree Mocenigo [...>". Vale a dire non devono avere, da parte del comune, un impiego più rischioso di quello che avrebbero se fossero affidati all'azienda del Mocenigo.
143. Sul problema del prestito del denaro ad interesse e sul divieto degli interessi - che nella terminologia tecnica medievale, oltreché romana, sono detti usurae - v. F. Schupfer, Il diritto delle obbligazioni, pp. 170 ss.; da ultimo v. Umberto Santarelli, Mercanti e società di mercanti. Lezioni di storia del diritto, Torino 1989, pp. 151 ss. e la bibliografia essenziale citata a p. 166; cui si aggiunga Giovanni I. Gassandro, Un trattato inedito e la dottrina dei cambi nel Cinquecento, Napoli s.d. [ma 1962>, Introduzione, ristampata, sotto il titolo La dottrina dei cambi nel Cinquecento, in Id., Saggi di storia del diritto commerciale, Napoli 1974, pp. 125 ss. (pp. 125-208); v. in particolare i paragrafi 13 ss., pp. 183 ss. Tutto il problema del traffico del denaro è oggetto di grandi dibattiti, che trovano nell'istituto del contratto di cambio la sedes materiae (essendo la figura contrattuale che più si avvicina al mutuo e che più si presta per un'eventuale simulazione), soprattutto da parte della trattatistica moralistica e teologica; una sintesi sulla dottrina del cambio, e dunque sulla natura dell'interesse, troverai oltreché nel testo del Cassandro ultimo citato, in Luciano delle Molle, Il contratto di cambio nei moralisti dal secolo XIII alla metà del secolo XVII, Roma 1954, pp. 161 ss. Un contratto di cambio, nel protocollo di Domenico prete di S. Maurizio, è quello di cui al nr. 224, p. 173, 1312, 26 luglio.
144. La stipulatio duplae normalmente era pattuita nei contratti di compravendita, ma si generalizza come clausola penale. V. P. Bonfante, Istituzioni di diritto romano, p. 469; V. Arangio Ruiz, Istituzioni di diritto romano, pp. 327 s.; Giovanni I. Cassandro, La tutela dei diritti nell'alto medioevo, Bari 1950, pp. 224 ss., e da ultimo Giovanni Diurni, Le situazioni possessorie nel medioevo. Età longobardo franca, Milano 1988. Ha esaminato la struttura della stipulatio duplae nelle carte altomedievali con riferimento a specifici problemi monetari, Alessia Rovelli, Circolazione monetaria e formulari notarili nell'Italia altomedievale, "Bullettino dell'Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano", 98, 1992, pp. 117 s. e n. 19 (pp. 109-144)
145. Cf. F. Schupfer, Il diritto delle obbligazioni, pp. 181 s.
146. Ibid., pp. 183 s.
147. Domenico prete di S. Maurizio, nr. 221, pp. 170 ss., 1312, 19 luglio: "Manifestum facio ego Marcus Baduario de confinio Sancti Paterniani quia in Dei et Christi nomine cum meis heredibus do, uendo atque transacto tibi Nicolao Contareno de confinio Sanctorum Apostolorum cugnato meo et tuis heredibus omnia mea iura et raciones quas et que habeo uel habere uideor seu quocumque modo ad me pertinent uel pertinere uidentur et pertinere possent de omnibus aquis, terris et possessionibus positis in Butinicho, Paduano districtu, et in pertinentiis ipsius Butinici [...> cum liberis ingressibus et egressibus, adiacentiis, coherentiis et pertinentiis suis et cum uiis, anditis, tramitibus et iuribus ac iurisdictionibus suis et cum paludibus, piscationibus, uenationibus, aucupationibus omnique honore, iurisditione et signoria, iure et actione, usu, requisitione, commodo et utilitate pertinentibus ad predicta uel ad aliquod predictorum de iure uel de facto [...>"; p. 171: "Pretium autem placitum et diffinitum inde a te habui et recepi libras denariorum uenecialium grossorum quinque. Quapropter plenam et irreuocabilem securitatem facio ego suprascriptus Marcus Baduario cum meis heredibus tibi suprascripto Nicolao Contareno cugnato meo et tuis heredibus quatenus quam de suprascriptis omnibus iuribus et racionibus, quam de suprascripto earum precio securus et, quietus permaneas imperpetuum, quia nichil inde remanisti unde te amplius requirere aut compellere ualeam per ullum ingenium siue modum".
148. Ibid., nr. 222, pp. 171 ss., 1312, 19 luglio: "[...> promitto ego suprascripto Nicolaus Contareno cum meis heredibus tibi suprascripto Marco Badoario et tuis heredibus quod amodo usque ad primam diem mensis ianuarii nuper uenturi et inde usque ad duos annos ego dabo siue dari faciam tibi uel tuo misso medietatem tocius fictus siue redditus suprascriptarum aquarum, terrarum et possessionum. Et insuper eciam si a prima die mensis ianuarii nuper uenturi infra duos annos tu michi dederis siue dari feceris libras quinque grossorum hic in Riuoalto, ego reddam et restituam tibi omnia illa suprascripta iura et raciones quas et que tu michi uendi⟨di>sti de suprascriptis aquis, terris et possessionibus positis in suprascripto Butinico cum omnibus suis priuilegiis et cartis quas michi uendidisti et cum earum uigore et robore, iure et actione. Et si infra suprascriptos duos annos tu non dederis michi suprascriptas libras quinque grossorum, ex tunc in antea uolo quod presens instrumentum sit nullum et cassum. Si igitur umquam contra hanc promissionis cartam ire temptauero, tunc emendare debeam cum meis heredibus tibi et tuis heredibus pro pena et nomine pene libras mille denariorum uenecialium paruorum il".
149. Ibid., nr. 245, p. 187, 1312, 20 settembre; si tratta del doc. citato supra, n. 139.
150. Ibid., nr. 138, p. 105, 1312, 6 marzo. Sulla struttura della divisa circolante a Venezia in questo torno di anni basterà qui rinviare a Louise Buenger Robbert, The Venetian Money Market, 1150-1229, "Studi Veneziani", 13, 1971, pp. 3-94; per l'unità monetaria detta grosso e il suo rapporto con il denarus paruus, v. le pp. 39 ss. In particolare, si avverta che un grosso vale due solidi ovvero 24 denarii; v. anche Giulio Mandich, Delle prime valutazioni del ducato d'oro veneziano (1285-1346), "Studi Veneziani", n. ser., 16, 1988, pp. 15-28; Andrea Saccocci, La moneta nel Veneto medievale (secoli X-XIV), in AA.VV., Il Veneto nel Medioevo. Dai comuni cittadini al predominio scaligero nella Marca, Verona 1991, pp. 245-262.
151. Domenico prete di S. Maurizio, nr. 223, p. 172, 1312, 22 luglio.
152. Cf., per esempio, ibid., nr. 344, p. 241, 1313, 25 agosto; nr. 352, p. 247, 1313, 8 novembre; nr. 359, p. 251, 1314, 2 gennaio. Francesco Minio, in particolare, compare nel documento del 14 settembre 1312, nel quale dichiara di impossessarsi, sulla base di una sentenza dei giudici del mobile, dei beni di Matteo Gradonico.
153. Ibid., nr. 250, p. 191, 1312, 11 ottobre.
154. Ihid., nr. 332, p. 236, 1313, 29 luglio.
155. Summula statutorum, p. 46 (c. 23v): "Per partem captam seu approbatam in nostro Maiori Consilio in MCCLXI, publicamus quod quicumque steterit plezius pro aliquo, habeatur pro principali, sine aliqua questione; et hoc addatur in capitulari omnium qui recipiunt plezariam, quod tenenatur dicere illis qui steterint plecis". Sull'obbligo della preventiva escussione del debitore principale, quale principio derivante dal diritto romano e sulle eccezioni, che accomunano Venezia, per esempio, a Pisa, Roma e San Marino v. A. Pertile, Storia del diritto italiano, IV, p. 508 e nn. 57 ss.
156. Domenico prete di S. Maurizio, nr. 244, p. 186, 1312, 14 settembre.
157. Ibid., nr. 224, p. 173, 1312, 26 luglio.
158. Ibid.: "Manifestum facio ego Nicolaus Sagreto de confinio Sancte Trinitatis quia cum meis heredibus recepi a te Michaleto Michael de confinio Sancti Severi et tuis heredibus soldos quadraginta sex grossorum et grossos duos in meis utilitatibus peragendis. Quos quidem denarios debeam per me uel per meum missum dare et deliberare Pantaleoni Michaeli in Corono uel Mothono uel alio tuo misso, infra octo dies postquam tue litere siue comissio apparuerint in manibus suprascripti Pantaleonis Michaelis uel alterius tui missi, silicet in denarios nouos de la çecha uel in tornesiis secundum ualorem grossorum nouorum da la çecha, si denarii noui da la çecha non inuenirentur, saluos in Corono uel Mothono sine omni periculo et occasione aut ullis interpositis capitulis. Hec autem et cetera, sub pena dupli et de quinque sex per annum. Testes [...> ". Sul contratto di cambio v. Giovanni I. Cassandro, Vicende storiche della lettera di cambio [1955> ora in Id., Saggi di storia del diritto commerciale, pp. 29 ss.; Id., Un trattato inedito e la dottrina dei cambi; Id., Note minime per la storia del "cambio" [1965>, ora in Id., Saggi di storia del diritto commerciale, Napoli 1974, pp. 208 ss.
159. Domenico prete di S. Maurizio, nr. 149, p. 113, 1312, 7 aprile.
160. Ibid., nr. 237, p. 181, 1312, 31 agosto.
161. Ibid., nr. 238, p. 182, 1312, 31 agosto: "[...> debeamus per nos uel per nostrum missum dare et deliberare uobis uel uestro misso hic in Riuoalto libras quinque, soldos duodecim cum dimidio denariorum uenecialium grossorum pro solutione medietatis cuiusdam barche marciliane quam nobis uendidistis [...> per terminos infrascriptos, uidelicet medietatem suprascriptorum denariorum amodo usque ad festum Natiuitatis Domini prius uenturum et reliquam medietatem ex nunc usque ad unum annum, saluos in terra sine omni periculo et occasione aut ullis interpositis capitulis [...>".
162. Ibid., nr. 239, p. 183, 1312, 31 agosto.
163. Ibid., nr. 79, p. 70, 1311, 18 maggio.
164. Ibid.: "Die quartodecimo exeunte. Manifestum facio ego Rigus tinctor de confinio Sancti Paterniani quia cum meis heredibus recepi a uobis dominabus Biatrice Viiari et Constantia Fuscareno monialibus monasterii Sancti Marci de Amiano et uestris successoribus libras denariorum uenecialium quinquaginta ad grossos in una parte et soldos grossorum octo in altera, quos quidem denarios ego posui in fieri faciendo illud manganum ad manganandum pannos quod fieri feci in domo in qua nunc habito ad nomen et utilitatem uestrum. Cum quo mangano operari et exercere debeo in suprascripta domo in qua nunc habito usque ad duos annos completos, incipiente primo anno a prima die mensis februarii, curente anno Domini millesimo trecentesimo nono. Et ex omni eo quod cum ipso uestro mangano lucratus fuero dabo uobis uel uestro misso hic in Riuoalto integram medietatem bona fide, reliquam medietatem ipsius lucri in me retinendo. Tamen uestrum suprascriptum manganum debet esse in uestro periculo clarefacto ignis et latronum. Verumtamen sciendum est quod si in capite dictorum duorum annorum michi uidebitur dare uobis omnes suprascriptos uestros denarios, licitum sit michi in me retinere suprascriptum manganum cum suis paramentis tamquam meum proprium. Hec autem que suprascripta sunt si non obseruauero, tunc emendare debeam cum meis heredibus uobis et uestris successoribus pro pena et nomine pene libras denariorum uenecialium quinquaginta. Et pena soluta uel non, nichilominus hec manifestacionis carta in sua permaneat firmitate. Signum et cetera. Testes presbiteri Zanotus Sancte Marie Noue et Marcus Sancti Angeli. Suprascriptam cartam dedi suprascripto Rigo tintori".
165. V. supra, n. precedente. Si deve comunque considerare che il 12 febbraio 1311 il medesimo tintore Rigo aveva dichiarato di aver ricevuto dalle medesime monache cinquanta lire di grossi per commerciare. Se e quale sia il nesso tra questa dichiarazione e il contratto stipulato circa un anno prima e che qui stiamo esaminando è tuttavia difficile stabilire, ma conferma della complessa natura finanziaria dei rapporti di affari che intercorrono tra Rigo e le monache di San Marco di Amiano: cf. Domenico prete di S. Maurizio, nr. 60, p. 60.
166. Nicola de Boateriis, notaio in Famagosta e Venezia (1355-1365), a cura di Antonino Lombardo, Venezia 1973 (Fonti per la Storia di Venezia, sez. III, Archivi notarili), nr. 223, pp. 241 s., 1364, 27 luglio; la locuzione esemplificata nel testo è a p. 242.
167. Sigismundi Scacciae Tractatus de commerciis et cambio, Romae 1619, § 1, quaest. 7, par. 2, ampl. 8, nr. 272, p. 310: "[...> quod quis de nouo sua industria acquirit, lucrum nuncupatur, et quando ab eo acquirendo desistit, dicitur ab eo cessare [...>".
168. Jacobi Menochii De arbitrariis iudicum questionibus et causis libri duo, Venetiis 1576, l. II, cent. II, casus 126, nr. 4, c. 150vb: "[...> omne lucrum et omne damnum esse equa lance diuidendum [...> ".
169. Oltre alla trattazione generale di F. Schupfer, Il diritto delle obbligazioni, pp. 118 ss., occorre rinviare al fondamentale studio di Guido Astuti, Origini e svolgimento storico della commenda fino al secolo XIII, Torino 1933; v., in particolare, le pp. 15 s., dalle quali sono state tratte le parole citate nel testo; v. anche Id., Ancora su le origini e la natura giuridica del contratto di commenda marittima, in Atti della Mostra bibliografica e del Convegno internazionale di studi del diritto marittimo medievale (Amalfi, luglio-ottobre 1934), Napoli 1935, e Id., Note sulla collegantia veneta, in AA.VV., Studi di storia e diritto in onore di Arrigo Solmi, I, Milano 1941, pp. 399-467, nonché nella "Rivista di Diritto della Navigazione", 7, 1941, pp. 71-138: entrambi questi due ultimi contributi sono ora di nuovo pubblicati in Id., Tradizione romanistica e civiltà giuridica europea, III, Napoli 1984, rispettivamente alle pp. 1345-1371 e 1373-1435.
170. F. Schupfer, Il diritto delle obbligazioni, pp. 118 ss.; v. in partic. p. 121; v. anche G. Astuti, Origini, pp. 10 ss.
171. Cf., per esempio, Domenico prete di S. Maurizio, nr. 346, p. 243, 1313, 31 agosto: "[...> Tamen suprascriptum uestrum habere esse debet in uestro periculo clarefacto maris et gentis [...> "; nr. 394, p. 270, 1314, 16 luglio: "[...> Tamen suprascriptum tuum habere esse debet in tuo periculo clarefacto ignis et latronum [...>"; nr. 466, p. 315, 1315, 26 dicembre: "[...> saluos in terra sine omni periculo [...>"; nr. 478, p. 320, 1316, 22 gennaio: "[...> Tamen suprascriptum uestrum habere [dichiara il mercante che riceve il finanziamento> esse debet in tali periculo, quali erunt denarii dicte uolte suprascripti domini Thome Bolani [...>".
172. Cf. il protocollo di Zaccaria de Fredo, notaio in Candia (1352-1358), a cura di Antonino Lombardo, Venezia 1967 (Fonti per la Storia di Venezia, sez. III, Archivi notarili), nr. 14, p. 16: 1352, 16 luglio, "Tamen tua suprascripta yperpera in tuo debent esse periculo ignis et latronum clarefacto"; passim.
173. Cf. il protocollo di Leonardo Marcello; questo notaio utilizza le cosiddette formule ecceterate, rinviando all'uso proprio nella parte di documento che, come si è visto sopra, è destinata a raccogliere la clausola in questione, ossia immediatamente successiva quella che statuisce il criterio di riparto degli utili; v. nr. 55, 1279, 1° marzo, p. 25: "Verumtamen et cetera, secundum usum"; nr. 57, p. 26, 1279, 5 marzo: "Verumtamen et cetera, secundum usum"; passim.
174. Cf., per esempio, Domenico prete di S. Maurizio, nr. 417, p. 282, 1315, 15 febbraio: "[...> Tamen ipsum suprascriptum uestrum habere debet in communi nostro periculo clarefacto maris et gentis et cetera [..> ".
175. Gli Statuti veneziani di Jacopo Tiepolo del 1242, III, 3, pp. 122 s., Ouod qui receperit alicuius bona siue in rogadia siue in collegantia, suo creditori exprimat seriatim qualiter inuestiuerit, uendiderit et egerit. V. p. 123: "[...> Et hoc exceptis uel qui naufragium passi sunt, uel etiam depredati, uel combusti, de quibus obseruari uolumus secundum antiquam consuetudinem". Cf. F. Schupfer, Il diritto delle obbligazioni, pp. 137 ss.
176. Domenico prete di S. Maurizio, nr. 204, p. 159, 1312, 22 giugno: "Die eodem. Cum ego Nicoletus Rosso de confinio Sancti Symeonis Prophete uerberassem te Blançaflorem uxorem meam inordinate et malo modo, ita quod ipsa de causa tu fugisti a me et iuisti Taruisium ad patrem tuum, et uolens ego pacifice et quiete permanere tecum dum uixeris, ut decet, idcirco hanc promissionis cartam cum meis heredibus tibi taliter duxi faciendam. Quapropter, promittens promitto ego suprascriptus Nicoletus Rosso cum meis heredibus tibi suprascripte Blangaflori uxori mee dilecte et tuis successoribus, quod amodo in antea, quousque uixeris et mecum quiete permanseris, ego ob culpam meam numquam uerberabo te neque percuciam siue uulnerabo. Saluo quod si tu non obedires preceptis et mandatis meis, tunc uolo michi esse licitum te corrigere et castigare moderate et decenter. Si igitur contra hanc promissionis cartam ire temptauero uel si ea que suprascripta sunt tibi non obseruauero, tunc emendare debeam cum meis heredibus tibi et tuis successoribus pro qualibet uice ego te percuterem siue uerberarem, ut predicitur, pro pena et nomine pene libras quinquaginta denariorum uenecialium paruorum de terris et casis meis et de omnibus que habere uisus fuero in hoc seculo. Et pena soluta uel non, nichilominus hec promissionis carta in sua permaneat firmitate. Signum. Et compiere et dare. Testes suprascripti".
177. Insopportabile, ma non sorprendente, se nei non troppo lontani anni Quaranta di questo secolo, sulla scorta della norma dell'art. 571 del codice penale attualmente vigente in Italia, che punisce "chiunque abusa dei mezzi di correzione o di disciplina in danno di una persona sottoposta alla sua autorità [...>", qualche autorevolissimo esponente della dottrina penalistica italiana continuava a sostenere che al marito compete uno ius corrigendi nei confronti della moglie; tesi che trovava accoglimento ancora in una sentenza della Suprema Corte di Cassazione penale del 20 dicembre 1954; non sorprendente anche perché la dottrina e la giurisprudenza più evolutive hanno ritenuto necessario far leva sull'art. 29 della nostra Costituzione repubblicana per dichiarare "bandito dal nostro ordinamento giuridico ogni residuo della maritalis districtio, propria del diritto antico e barbarico": cf. Francesco Antolisei, Manuale di diritto penale, Parte speciale, I, Milano 19665, pp. 360 ss.; v. in partic. p. 363 e n. 70 di p. 362.
178. Marc Bloch, Apologia della storia, o Mestiere di storico, a cura di Girolamo Arnaldi, Torino, 1969, pp. 103-122.