Il diritto coloniale
Nelle antiche carte geografiche veniva usata un'espressione particolare per indicare le zone dell'Africa non ancora esplorate e quindi lasciate in bianco: Hic sunt leones. Il diritto coloniale, nell'ordinamento giuridico italiano, ebbe una corrispondente condizione, venne costantemente rappresentato come un campo di indagine poco esplorato e periferico, per l'evidente pragmatismo della vita giuridica nei territori d'oltremare. In effetti la suggestiva immagine dei leones, equivale a quella della specialità scelta dai giuristi italiani – tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento – per segnalare il carattere originale del diritto coloniale nei confronti del diritto comune, causa l'alterità dei luoghi e dei soggetti. Gennaro Mondaini nel 1907, nel suo studio giuridico sulla colonia italiana d'Eritrea, precisò senza imbarazzo che
lo svolgimento storico del diritto coloniale mostra costantemente nella pratica, se non sempre nella teoria, il trionfo dei principi ormai tramontati nel diritto europeo (Il carattere di eccezionalità nella storia del diritto coloniale e le nuove forme giuridiche di espansione territoriale nelle colonie, «Rivista coloniale», 1907, p. 7).
In questo suo primo approccio ai diritti e alle istituzioni conseguenti all'espansione coloniale del Regno d'Italia, Mondaini affermò senza incertezze che «nel diritto coloniale il diritto feudale fornisce addirittura le basi dell'ordinamento giuridico delle colonie» (p. 8). Per il giovane studioso i principi su cui poggiava la società coloniale erano senz'altro speciali, e opposti «a quelli che informavano la vita dell'ambiente metropolitano» (p. 7). In questo contesto,
il procedimento giuridico, che in Europa a ragione potrebbe condannarsi come un attentato al diritto dei popoli, può nel centro dell'Africa esser giudicato con molto minore severità o addirittura approvato (p. 7).
Nel rapporto tra il pragmatico sistema giuridico coloniale e le regole dell'ordinamento positivo della madrepatria si coglieva immediatamente il carattere di eccezionalità del diritto coloniale. In realtà, la colonizzazione rappresentò, dal punto di vista giuridico e non solo, un'occasione di ritorno al passato. La condizione coloniale, al di là delle dichiarazioni di principio, fu ben saldamente costruita sul privilegio e quindi sulla necessità di imporre alle società indigene strutture, economie, procedure in grado di assicurare la valorizzazione dei territori a vantaggio dei colonizzatori. Un diritto d'eccezione permanente trovò applicazione nei confronti delle popolazioni indigene. Sin dal momento della conquista dei territori, un diffuso potere regolamentare e l'assenza di diritti politici per i locali caratterizzarono gli ordinamenti giuridici coloniali. L'indigeno venne infatti considerato da subito un soggetto giuridico privo di molti diritti a causa del suo limitato grado di civilizzazione.
Con la colonizzazione, l'Africa entrava nel movimento del mondo civilizzato, ma per quelle popolazioni le riflessioni giuridiche del liberalismo erano inapplicabili: i nativi di quei lontani Paesi erano considerati semiselvaggi, ancora in uno stato di sviluppo sociale che gli intellettuali dell'epoca definivano di prima infanzia. Nella politica coloniale la soggettività delle popolazioni indigene fu immediatamente considerata materia inerte e senza voce, affidata alla missione civilizzatrice del dominio coloniale. Il termine sudditi ebbe in ambito coloniale un significato di rimozione della soggettività politica dei colonizzati, che erano ‘soggetti’ nell'accezione esclusivamente negativa del termine, cioè solo in quanto assoggettati. Anche la colonizzazione italiana non lasciò alcun margine alla soggettività dei sudditi coloniali, per i quali non ci fu alcun riconoscimento giuridico nei termini dell'eguaglianza formale disegnata dai codici nazionali.
Le popolazioni indigene furono così, e senza perplessità dottrinali, considerate mero oggetto del dominio coloniale e la loro condizione di subordinazione determinò quindi un'opera non marginale di definizione differenziata di norme, disposizioni, procedure, sanzioni. Lo Stato italiano in questa direzione fu coerente e organico. Ai popoli delle colonie non furono affatto garantiti i diritti naturali, né i caratteri giuridici fondanti la società occidentale. L'idea centrale del progetto politico e giuridico coloniale fu strettamente collegata, anche nel giovane Regno d'Italia, alla nozione della missione civilizzatrice, ma non anche alla volontà di imporre un'uniformità culturale con la madrepatria.
Dal punto di vista giuridico, la civilizzazione avrebbe dunque dovuto marciare contro la barbarie con un preciso ancoraggio ai principi della tradizione giuridica occidentale e ai valori costituzionali fissati dallo Statuto albertino. In questa prospettiva il diritto da applicare nei nuovi territori del continente africano avrebbe dovuto ispirarsi ai principi filosofici che costituivano il fondamento della monarchia costituzionale italiana, quelli ereditati dal pensiero dell'Illuminismo e dal modello dei diritti naturali riconosciuto e condiviso in varia misura dai popoli europei: la libertà, l'uguaglianza, la proprietà, la partecipazione politica. In concreto, non fu affatto questo il bagaglio ideologico dell'uomo occidentale che, nel corso dell'Ottocento, venne in contatto con le popolazioni dell'Africa.
La legislazione come fonte unica, la rigida sottomissione del giudice alla legge, l'esigenza della generalità e dell'astrattezza delle norme e la loro certezza non trovarono accoglienza nel mondo coloniale per le diverse popolazioni indigene. Le tre idee fondamentali del pensiero illuminista, libertà, uguaglianza e proprietà –, escludendo senz'altro la fraternità – non si ritrovano nella realtà d'oltremare per i sudditi indigeni. E non solo perché nozioni pericolose per l'ordine pubblico. I diritti naturali non appartenevano ai popoli africani perché lo stato di natura dei colonizzati non era uno stato libero ed eguale come quello rappresentato dai giusnaturalisti, già prima della Rivoluzione francese. La realtà africana era oltremodo brutale e violenta, assolutamente priva di quelle caratteristiche tipiche della società naturale descritta dai teorici dell'Illuminismo. Per gli indigeni i diritti naturali erano esclusi. Soprattutto poteva essere sacrificato quello individuale di proprietà. L'espropriazione delle loro terre a favore dei coloni europei era senz'altro legittimata dalle superiori esigenze della valorizzazione produttiva; del resto era proprio questo l'obiettivo economico di fondo della colonizzazione e della missione civilizzatrice.
Una missione che, per essere realizzata, aveva bisogno di un ordinamento giurisdizionale che permettesse di comminare ai colonizzati sanzioni collettive e pene pecuniarie attraverso procedimenti amministrativi e non giudiziari. Solo i coloni italiani erano cittadini. Madrepatria e colonie erano luoghi diversi: i colonizzati erano soltanto sudditi. La costruzione giuridica delle diversità escludeva in nuce ogni identità nazionale e consentiva la violazione dei principi costituzionali legittimando prassi discriminatorie.
Di qui l'affermarsi, sin dall'inizio e in maniera sempre più pragmatica, di un regime giuridico differenziato, ovvero di comandi e sanzioni, posizioni giuridiche di vantaggio e svantaggio, vigenti in base al proprio status personale, secondo uno schema teorico che riportava nuovamente in vigore lo ius singulare e il privilegium, proprio delle fonti giuridiche dell'alto Medioevo. Ma se durante il Medioevo la capacità personale subì limitazioni a causa del sesso, dell'età, dell'appartenenza a una determinata fede religiosa o a professioni e mestieri, nel mondo coloniale la disparità si fondò esclusivamente su di un presupposto razziale che derivava dalla coesistenza nello stesso territorio di due diverse categorie di soggetti: i colonizzatori e i nativi. Di qui la necessità di regole fondamentali divergenti da quelle vigenti nel diritto metropolitano e di «istituti esclusivamente propri della fenomenologia giuridica coloniale» (S. Ilardi, Appunti per una nuova sistematica del diritto coloniale, in Atti del III Congresso di studi coloniali, 1937, p. 14).
La funzione dell'utilitas come causa determinante del processo di formazione delle norme di diritto coloniale fu chiaramente messa in rilievo da Aldobrandino Malvezzi nel 1928, allorché sostenne che gli ordinamenti coloniali erano frutto di pratica applicazione, essendo del tutto erroneo ritenere di poterli costruire «secondo linee logiche ed architettoniche di un piano strategico». Per Malvezzi, il diritto coloniale era per sua natura eminentemente empirico: «Legislazione coloniale e sistema, Diritto coloniale e Teorica dottrinaria, sono termini antitetici». E tra legislazione coloniale e ordine pubblico metropolitano «il senso realistico delle cose consiglia di contentarsi, di stabilire [...] una semplice e lata armonia di principi e tendenze generali» (A. Malvezzi, Elementi di diritto coloniale, 1928, p. 19).
Questa anomalia giuridica di fondo trovava quindi nella personalità della legge il segno più evidente del ritorno al passato per l'ordinamento giuridico italiano, anche se tale principio ritornava in vita solo nelle colonie. Ma non il solo: l'altro carattere dominante fu l'emarginazione del Parlamento nella produzione normativa per le colonie e il conseguente assolvimento di tale competenza da parte dell'esecutivo. In effetti l'opposizione «civiltà/non civiltà» (Costa 2004-2005, p. 173) fu il criterio decisivo per differenziare spazi metropolitani e colonie e per definire le forme giuridiche proprie dell'oltremare sulla differenza razziale e sul potere normativo esercitato di fatto attraverso l'attività regolamentare sia del governo centrale sia dai governatori coloniali. Gli ordinamenti coloniali più consoni, come ha osservato Pietro Costa, erano dunque quelli dello Stato assoluto, dello Stato patrimoniale.
Non a caso i primi magistrati italiani inviati in colonia alla fine dell'Ottocento, di fronte alle differenti condizioni della società africana, furono spinti dall'esperienza della propria funzione giurisdizionale a rivendicare per sé anche creativi compiti legislativi, sollecitando la redazione di un corpus iuris locale, depositario delle norme del regime giuridico coloniale. Particolari circostanze favorevoli determinarono la scrittura dei codici eritrei all’inizio del Novecento: la sconfitta di Adua, il ridimensionamento del ruolo dei militari in colonia, l'arrivo di Ferdinando Martini come primo governatore civile.
In questa nuova e dinamica realtà politica entusiasti giovani magistrati togati – Mariano D'Amelio, Ranieri Falcone, William Caffarel, Antonio Marongiu – tentarono di dare la risposta più efficace al particolare progetto di incivilimento delle popolazioni indigene attraverso l'unico strumento giuridico in grado di trasmettere senza arbitrii la regola della diversità nei confronti dei sudditi coloniali: la forma codice per l'ordine coloniale. Essi concepivano i codici come un summa compiuta dell'ideologia dei colonizzatori, fondata su una stabile differenza.
Si trattò di una compilazione per i vari rami del diritto – civile, penale, e procedurale – tesa a regolare situazioni di contatto tra popolazioni differenti in un contesto di supremazia dei cittadini italiani. In sostanza, un tentativo di regolamentazione complessiva dei rapporti giuridici nei possedimenti coloniali che seppure poi abbandonato, per la sua completezza, fu senz'altro in grado di evidenziare tutti i caratteri di quell'ideologia colonizzatrice che si intendeva trasmettere e imporre, netta, certa, di status personali differenziati, dove il criterio di legalità imponeva garanzia per gli italiani e deroghe per i sudditi coloniali. Codici che, a ragione della diversità, non rispettavano né il principio di territorialità né quello di eguaglianza formale, propri dei modelli occidentali.
In realtà, i redattori coloniali volevano in questo modo eliminare ogni incertezza e disagio giuridico nell'applicare norme differenti nei confronti dei nativi. La realizzazione del loro tentativo di codificazione avrebbe reso possibile amministrare giustizia senza interferenze da parte dei supremi giudici della madrepatria considerati ignari della specialità del mondo coloniale. Non a caso il codice penale eritreo, l'unico che giunse sino alla formale pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale del Regno, pur non entrando mai in vigore in colonia per la mancanza della necessaria ulteriore traduzione in amarico e pubblicazione sul Bollettino ufficiale della colonia, riconobbe il valore intimidatorio delle pene consuetudinarie locali (corporali e capitali) per gli indigeni e scelse il sistema dell'indeterminatezza della pena per disporre di sanzioni penali efficaci nei confronti di genti che avevano sensibilità e tradizioni assai diverse da quelle italiane. I codici eritrei – non solo quello penale, ma anche quello civile nonché quelli di procedura – per il loro valore formale, avrebbero così definitivamente imposto le forme giuridiche dell'ancien régime, altrimenti impresentabili nella metropoli.
L'aspirazione dei magistrati d'Eritrea a dettare regole certe in rapporto al dominio coloniale espresse una percezione della diversità tra madrepatria e oltremare che incardinò tutto il sistema giuridico sulle differenze tra cittadini e sudditi, tra territorio nazionale e coloniale. Questo tentativo di codificazione – dovuto soprattutto all'impegno di D'Amelio – rappresentò comunque un punto di riferimento per la definizione pratica e giurisprudenziale nelle colonie del diritto penale, privato e anche pubblico in generale. Il diritto coloniale italiano non si ispirò a modelli giuridici occidentali, ma trasse linfa autonoma dalle cause profonde del dominio coloniale. E alle novità penali prima ricordate si aggiunsero le originali soluzioni adottate in tema di tutela dei diritti e organizzazione giudiziaria.
D'altra parte, l'incontro con i popoli colonizzati e con il loro diritto, sia consuetudinario sia musulmano, fu sempre oggetto di scarsa attenzione nonostante le molte dichiarazioni ufficiali di considerazione e rispetto. Le norme che regolavano la vita dei sudditi coloniali sin dal primo ordinamento giudiziario, quello del 1902 per l'Eritrea ovvero quelle tradizionali, ossia quelle del Fata Neghesti e Fata Mogarè che contenevano principi di diritto consacrati dal tempo in parecchi villaggi e per i musulmani quelle del Corano e dei commentari dell'Islam accettati dalle varie tribù, furono considerate in vigore solo se compatibili con lo spirito della legislazione italiana. Su quest'ultima affermazione si attestò la linea di condotta tenuta dalla magistratura coloniale, dai vari governatori, dal legislatore nazionale, e infine dai giuristi che negli anni dell'Impero tentarono di dare autonomia scientifica al diritto coloniale italiano.
L'essenziale fu il non mettere in discussione il primato dei principi del diritto metropolitano. L'incontro con il diritto indigeno fu dunque condizionato da un'impostazione tendente a privilegiare l'ordinamento del colonizzatore italiano. In questo modo, da un lato, si determinò il contenimento del diritto indigeno entro stretti confini: rapporti di famiglia, regime successorio; dall'altro, la superiorità della civiltà metropolitana, favorì un atteggiamento che di fatto impedì ogni serio approfondimento delle fonti giuridiche indigene.
In effetti, la conoscenza del sistema consuetudinario delle popolazioni indigene non impegnò mai gli studiosi italiani. Il punto di riferimento ufficiale per le autorità della colonia fu soltanto il materiale giurisprudenziale prodotto dai magistrati e dai funzionari coloniali, peraltro mai pubblicato e affidato spesso a memorie private. Soltanto a loro fu in concreto lasciato il compito di individuare e applicare sia le consuetudini locali sia il diritto islamico. In tal modo la riflessione giuridica fu episodica, frammentaria, superficiale e assunse valore solo pragmatico. Le massime giurisprudenziali raccolte e inviate al governatore della colonia, altro non erano che le decisioni adottate dagli stessi funzionari per le controversie civili e penali riguardanti i sudditi coloniali. Si trattava di materiale privo di qualsiasi valore scientifico, raccolto senza alcun rigore metodologico e al fine di creare un diritto italiano adatto alle genti africane.
Una tendenza che per le popolazioni musulmane fu presentata addirittura come un processo di islamizzazione che avrebbe consentito agli istituti giuridici italiani di essere senz'altro accettati nella realtà d'oltremare. In concreto fu messo in atto un processo inverso: quello di italianizzazione del diritto musulmano. Si considerava islamizzazione del diritto, l’«adattamento di certe norme di diritto islamico (che il giudice dichiara di applicare) a rapporti e istituti che, sebbene da questo diritto realmente non contemplati, si fanno apparire compresi nella cerchia della sua disciplina» (U. Borsi, Principi di diritto coloniale, 1938, p. 175). Senza ipocrisie, llardi svelava così l’inganno:
in realtà non si tratta di islamizzare istituti occidentali ma piuttosto il contrario, e cioè di occidentalizzare o riformare in senso occidentale istituti e abitudini di genti musulmane (S. Ilardi, Nuovi orientamenti nella nazione e nella sistematica del diritto coloniale italiano, «Rivista di diritto coloniale», 1938, p. 14).
La deroga all'applicazione delle consuetudini e degli istituti giuridici locali per ragioni di ordine pubblico coloniale fu la regola dettata e imposta non da prestigiosi togati e da seri studiosi, bensì furono determinanti proprio i funzionari coloniali ritenuti poco preparati. In questo contesto venne di fatto affidato un ruolo essenziale per la costruzione del diritto coloniale ai commissari regionali e ai residenti che al pari dei giudici togati esercitavano funzioni giudiziarie. Le norme consuetudinarie non imponevano un formalistico ossequio, l'interprete italiano non era vincolato a quel sistema positivo locale, egli doveva solo tener presente lo scopo e il significato di quelle norme rispetto all'ordinamento della madrepatria, non già riguardo all'organizzazione della vita indigena. L'interprete italiano non era dunque alla ricerca della ratio della norma, del comando, ma solo della sua coerenza con i principi dell'ordinamento giuridico dello Stato colonizzatore.
L'interprete italiano fornì il significato della norma da applicare solo dalla prospettiva del colonizzatore. Un'attività interpretativa che, per le sue particolari premesse e presupposti coloniali, trascurò di raccogliere le consuetudini della popolazione delle colonie imponendo al loro posto il materiale giurisprudenziale di impronta occidentale. In concreto, al posto dello studio dei diritti indigeni, si ebbe l'esaltazione del ruolo ermeneutico dei giudici e dell'interpretazione come fonte di diritto per le colonie. Alla mancanza di ricerche e studi giuridici sulle fonti consuetudinarie della colonia corrispose una convinta e costante esaltazione della giurisprudenza come
utile strumento d'adattamento della legge alla varietà dei bisogni e delle circostanze e fattore di sviluppo e di progresso specialmente dei rami nuovi del diritto (U. Borsi, Principi di diritto coloniale, cit., p. 181).
Una vera e propria celebrazione che trovò addirittura riconoscimento legislativo nel 2° comma dell'articolo 1 delle norme complementari del regolamento giudiziario per la Tripolitania e la Cirenaica approvato con il decreto luogotenenziale del 15 apr. 1917 nr. 938: nell'adattare le leggi alle condizioni locali, il giudice doveva, con le sue decisioni, fissare la norma per meglio disciplinare i rapporti controversi, apportando alle leggi modificazioni che se fosse stato legislatore avrebbe stabilito per regolare quei rapporti.
E i manuali di diritto coloniale presero tutti atto di questa prassi: non a caso l'elenco delle fonti non sempre comprende il diritto indigeno. Tra le fonti del diritto coloniale per Borsi vi erano infatti soltanto le leggi generali, le leggi metropolitane estese alle colonie, le leggi coloniali. E la sopravvivenza di un diritto indigeno è esclusa in maniera molto netta e nitida da Emanuele Ghersi:
il diritto indigeno non può essere qualificato coloniale, perché coloniale è soltanto ciò che attiene al fenomeno della colonizzazione e il diritto indigeno nessun rapporto ha con questo fenomeno poiché regola rapporti che non sono nella benché minima relazione col prodursi di esso (Diritto coloniale, 1942, p. 30).
In effetti, la nuova sistematica del diritto coloniale della fine degli anni Trenta, con il rinnovato fervore di studi dovuto alla nuova realtà imperiale italiana, sottopose quest'aspetto a definitiva revisione, giungendo a una definizione giuridica che escludeva ogni rapporto tra diritti indigeni e diritto coloniale in ragione dell'autonomia scientifica rivendicata per quest'ultimo.
Massimo Colucci, inaugurando nel 1929 il corso di diritto coloniale, appena istituito e a lui affidato, presso la facoltà di Scienze politiche della Regia università di Perugia, ricordava di essere partito per la Libia «or sono sedici anni, col Leroy Beaulieu nella valigia e con la scorta delle leggi coloniali francesi» (Il concetto del diritto coloniale, in Dottrina e politica fascista, 1930, p. 344). Tuttavia, una volta giunto in oltremare, queste letture si erano dimostrate per lui non utili all’attività di magistrato. Era ormai tempo di studi italiani.
Secondo Colucci, ben più dell'influenza francese, allo sviluppo degli studi di diritto coloniale italiano, nuocevano i pregiudizi sulla sua autonomia scientifica. Il contenuto giuridico sostanziale era chiaro: l'originalità e la prevalente indipendenza delle norme giuridiche delle colonie rispetto a quelle della metropoli poteva e doveva costituire un ramo distinto della scienza giuridica generale, perché possedeva un'autonomia fondata sulla piena consapevolezza delle prerogative razziali dello Stato colonizzatore. Alla radice si trattava di un altro diritto perché il suo presupposto, il suo punto qualificante era in termini realistici diverso da quello degli altri diritti garantiti dell'ordinamento giuridico del Regno: non poteva cioè prescindere dalle differenze colonia/metropoli e, soprattutto, dal presupposto giuridico della superiorità del popolo colonizzatore rispetto a quello indigeno.
Proprio in questa «forza incoercibile» risiedeva dunque il carattere originale del diritto coloniale, che malgrado ciò – si affrettava a precisare – non significava né cieco arbitrio né sopraffazione, perché «quello che oggi è utile al pubblico bene, domani apparirà anche giusto». L'essenziale era dunque attenersi alla realtà del dominio coloniale, all’innegabile primato dei colonizzatori. Da questa nozione fondante si doveva poi costruire l'articolato patrimonio giuridico del diritto coloniale. Era tuttavia inevitabile nella ricognizione delle fonti formali, tenere presenti accanto alle leggi metropolitane adattate alle colonie, e alle leggi esclusivamente create per esse, anche dei diritti indigeni per favorirne «l'assorbimento in una sfera più civile di vita» (p. 341). D'altra parte, ad applicare questi diritti nelle colonie erano sempre state chiamate le autorità italiane: le magistrature ordinarie, quelle speciali e infine gli stessi funzionari politico-amministrativi, in quanto investiti di funzioni giudiziarie. In altri termini la modernità dell'Occidente con autoritario paternalismo – attraverso le sue modalità di recezione del diritto locale – consentiva la sopravvivenza, entro uno spazio minimo, dei diritti indigeni.
Invero, l'elaborazione scientifica di una dottrina generale del diritto coloniale italiano era all'epoca molto arretrata anche perché legata in maniera troppo evidente a quel presupposto razziale segnalato da Colucci. Nel 1924 Ernesto Cucinotta a proposito della pubblicazione del secondo volume del Manuale di storia e legislazione coloniale del Regno d'Italia di Mondaini, pur elogiando l'autore per aver esposto in maniera chiara l'imponente materiale legislativo coloniale, rilevò che gli studi in campo coloniale si sarebbero avvantaggiati se l'autore
invece di limitarsi a dare una conoscenza veramente compiuta senza lacune o manchevolezze, della nostra legislazione coloniale, avesse voluto anche valutarla e criticarla come movimento di pensiero ed applicazione di dottrine (E. Cucinotta, La legislazione coloniale italiana (a proposito di un libro recente), «Rivista coloniale», 1924, p. 272).
Del resto anche Bertola, ordinario nell'Università di Torino, non nutriva soverchie illusioni sulla qualità degli studi giuridici coloniali. Per lui negli ultimi cinquant'anni si era formato soltanto uno schedario bibliografico, poco più di un elenco di autori e titoli su argomenti di scarso rilievo, salvo poche eccezioni. Solo la conquista dell'Impero aveva
fatto assurgere l'importanza degli studi giuridici coloniali ad un livello che meno di due anni addietro nessuno avrebbe osato prevedere e che oggi nessuno può contestare (A. Bertola, Gli studi giuridici coloniali e la loro importanza nel presente, in Atti del III Congresso di studi coloniali, 1937, p. 7).
Tuttavia, nonostante il momento favorevole, mancò ancora per il diritto coloniale il necessario riconoscimento di autonomia scientifica; nelle facoltà di Giurisprudenza era attivato il solo insegnamento di legislazione coloniale e soltanto come materia complementare per il conseguimento della laurea. I più illustri giuristi nazionali consideravano il diritto coloniale con discredito a causa del carattere improvvisato o dilettantistico di parte della letteratura, prodotta più spesso da tecnici del diritto che da giuristi. Era necessario, insomma, un mutamento radicale.
Per questo Bertola, nel 1937, a seguito della proclamazione dell'Impero, poneva radicalmente in discussione i risultati di decenni di studi coloniali: «occorre il giurista coloniale […] non un fabbricatore di chiacchiere, su malsicure informazioni d'accatto» (Gli studi giuridici coloniali e la loro importanza nel presente, in Atti del III Congresso di studi coloniali, 1937, p. 7). In concreto, la relazione di Bertola – poi ripubblicata anche sul primo numero della «Rivista di diritto coloniale» del 1938 – testimoniò dell'esistenza di un vero e proprio deserto giuridico coloniale. Mancava la conoscenza delle fonti indigene, gli argomenti affrontati erano sempre troppo ampi e privi di informazione diretta e competenza specifica, gli studi non affrontavano la trattazione di singoli istituti. Per di più, non vi era neppure adeguata diffusione dei mezzi di informazione legislativa e giurisprudenziale. Si pensi, per es., alla scarsa conoscenza dell’importante attività normativa dei governatori.
Per la potente nazione colonizzatrice, la nuova realtà imperiale richiedeva dunque un rinnovato studio del diritto coloniale, «soprattutto dal punto di vista della sistematica» (S. Ilardi, Nuovi Orientamenti nella nozione e nella sistematica del diritto coloniale italiano, «Rivista di diritto coloniale, 1938, p. 15). In definitiva, alla fine degli anni Trenta lo studio del diritto coloniale presentava ancora tutta una serie di problemi che attendevano di essere affrontati. Lo Stato colonizzatore continuava infatti ad apportare alla vita primitiva della colonia riforme sostanziali fondate su una base giuridica incerta, che si definiva via via in maniera pragmatica. Per la costruzione del sistema giuridico coloniale mancava ancora la individuazione complessiva dei suoi caratteri. Invero, sino allora, le definizioni di diritto coloniale non erano mancate.
Nel 1929, con acuta osservazione, Arnaldo Cicchitti lo aveva definito come il
diritto positivo che vige entro i territori italiani nei quali, ancorché permanentemente sottoposti alla sovranità dello Stato, non fu pubblicato lo Statuto costituzionale,
individuando così due caratteristiche entrambe legate alla differenza metropoli/colonia: la vigenza locale e la mancanza di soggettività politica coloniale e di conseguenza la limitata capacità giuridica delle popolazioni indigene rispetto ai colonizzatori cittadini del Regno.
I metodi della colonizzazione erano quelli dell'assimilazione, dell'acculturazione. Un riferimento che trovò conferma nella nozione prospettata da Cucinotta per il quale «il diritto coloniale [era] un complesso di norme giuridiche, poste o riconosciute dallo Stato per regolare i soggetti, i beni e i rapporti giuridici attinenti alle colonie». Qui il giurista fornisce una definizione che ha ormai espunto le consuetudini locali dall'ambito giuridico coloniale. Le norme che regolano le materie e i rapporti giuridici d'oltremare sono dettate espressamente dallo Stato coloniale attraverso la legislazione e anche la giurisprudenza. L'opera di interpretazione svolta attraverso le sentenze individuava infatti le speciali esigenze e condizioni del territorio coloniale nel modo più stabile e indiscutibile. Per Renzo Sertoli Salis il diritto coloniale non era
un campionario di anomalie giuridiche [ma] diritto dello Stato con limitata efficacia territoriale ed [era inserito] in un solo sistema, dove la specialità del primo in confronto alla generalità del secondo, consentiva di assumere come fonte sussidiaria di quello, ma non viceversa (Nozioni di diritto coloniale, 1939, p. 3).
E Ilardi, nel 1938, concordando con l'opinione dell'autorevole membro ordinario dell'Istituto fascista dell'Africa italiana, confermava nella sostanza la novità del valore territoriale delle norme di diritto coloniale e la loro riconducibilità esclusivamente all'autorità dello Stato colonizzatore:
Il diritto coloniale, allorché se ne affermi l'autonomia scientifica, non è quindi una pura e semplice accozzaglia di istituti giuridici, sottratti arbitrariamente alla competenza dei singoli rami del diritto pubblico o privato, cui era per una qualificazione, derivante da un diverso criterio di sistematica, dovrebbe appartenere, bensì un complesso di norme tratte ad unità scientifica oltreché dal comune carattere della loro pertinenza al territorio coloniale, soprattutto dalla loro commisurazione alle esigenze di una società e di una economia spesso ancora primitive, che necessariamente dà luogo a principi originali, a cui si ispira all'evidenza della sua posizione come la sua interpretazione (S. Ilardi, Nuovi orientamenti nella nozione e nella sistematica del diritto coloniale, cit., p. 30).
L'intento perseguito era chiaro: non si voleva più il declassamento degli studi giuridici coloniali a mera curiosità. L'orientamento generale e uniforme manifestatosi alla fine degli anni Trenta e maturato all'inizio degli anni Quaranta poneva al centro delle argomentazioni dei giuristi il tema dell'autonomia scientifica. Il vero problema era quello della definizione dei caratteri di quest’altro diritto, diverso dal diritto comune della madrepatria e non semplice applicazione in deroga, diritto speciale.
Per sostenere la diversità con metodo scientifico, emergeva la necessità di definire i principi generali, le peculiarità dei singoli istituti. In concreto, l'istanza sistematica si scontrava con un insieme di norme che nuotavano nell'arbitrario. Era sostanzialmente un'incongruenza elaborare una dottrina sistematica per una materia che consentiva solo un procedimento descrittivo. Per superare questa impasse, i giuristi cercarono di muovere da un punto di coordinamento unitario: lo Stato coloniale, unica fonte di diritto per l'oltremare nell'esercizio di tutti i suoi poteri, legislativo, esecutivo, giurisprudenziale. Procedendo in questo modo acquistava rilievo la valenza territoriale delle regole impostate sulla contrapposizione metropoli/colonia.
Tuttavia la declaratoria dei principi generali dell'ordinamento coloniale rimaneva solo un auspicio, anche se tutti riconoscevano che
l'insieme delle operazioni logiche per cui si stabilisce la relazione delle idee, e si giunge ai principi generali, è il presupposto indispensabile per determinare il carattere sistematico della dottrina colonialista (A.Vuoli, Note introduttive allo studio del diritto coloniale italiano, «Jus», 1940, p. 293).
In effetti, nel 1941, ultimo anno dell'Impero, ancora si andava alla ricerca di una nozione dogmatica di diritto coloniale:
Sul concetto di diritto coloniale e sull'estensione della materia da esso abbracciato non si è ancora raggiunto l'accordo in dottrina. Eppure trattasi di nozioni fondamentali per ogni ulteriore trattazione e, specialmente per la costruzione della teoria delle fonti del diritto coloniale, pur essa essenziale per l'elaborazione scientifica e per qualsiasi applicazione pratica (A. Macchia, Contributo alla teoria delle fonti del diritto coloniale, 1941, p. 5).
L'incongruenza era costituita dal fatto che la dottrina in circa sessant'anni, dal 1882 al 1941, non era riuscita a indicare in maniera univoca e ufficiale i principi generali del diritto coloniale. In realtà il mondo d'oltremare con le sue particolarità aveva offerto il campo alla sperimentazione di principi e costruzioni anacronistiche legate a un sistema personale differenziato su basi razziali affidato alla potestà normativa dell'esecutivo. Un regime di eccezione permanente e quindi un diritto speciale con vigenza non territoriale, come invece affermavano gli ultimi cultori giuridici dell'Impero alla ricerca dell'autonomia scientifica.
L'impegnativa opera di sistematizzazione non poteva per loro che avvenire attraverso la riconduzione delle norme vigenti in colonia alla luce dei principi generali dell'ordinamento della madrepatria. Solo attraverso questo procedimento costruttivo e scientifico, la complessa architettura del diritto coloniale avrebbe concorso in autonomia a far parte dell'ordinamento giuridico e la nuova disciplina acquistato dignità anche accademica. Ma su questo piano, quest'altro diritto, dichiarando ufficialmente le sue basi razziali e personali, avrebbe sconvolto le fondamenta di un sistema coerente, quello comune, fondato sulla vigenza territoriale e sull'uguaglianza civile. Insomma sarebbe stato sufficiente teorizzare, rispetto agli schemi e ai criteri logico-giuridici dell'ordinamento comune, che la differenza metropoli/colonia determinava un discrimine netto tra soggetti di diritto comune e soggetti di diritto singolare e che su questo fondamentale presupposto si era via via costruito pragmaticamente l'altro diritto che, con la proclamazione dell'Impero, aspirava a una dignità scientifica sempre osteggiata e in passato autorevolmente negata, in base all'argomentazione che voleva il diritto interno coloniale parte speciale delle discipline pubblicistiche e privatistiche.
A favore dell'autonomia scientifica del diritto coloniale non militavano dunque validi argomenti scientifici e molte nel passato erano state le riserve. La pura scienza non apparteneva al diritto coloniale, tutt'al più oggetto di pratiche empiriche e per questo arnese di costante discredito tra i giuristi nazionali più autorevoli. Di qui il tentativo degli studiosi di diritto coloniale di eludere l’individuazione dei principi fondamentali che avrebbero reso evidente il suo carattere arbitrario ampiamente affidato a provvedimenti normativi non adottati in Parlamento e a decisioni di natura discrezionale. Fonte di ogni autorità per il territorio coloniale di fatto furono appunto l'esecutivo e sopratutto il ministro delle colonie e il governo coloniale rappresentato dal governatore. Il Parlamento per lo più si limitò ad approvare i bilanci coloniali.
La definizione del diritto coloniale rimaneva così generica. Secondo Ghersi la nozione che sino allora aveva incontrato il maggior favore era quella che considerava tale diritto come «il complesso delle norme che concernono l'acquisto e la perdita delle colonie, i loro rapporti con la madrepatria ed il loro ordinamento» (Diritto coloniale, cit., p. 30).
Invero alla fine del 1942 – nell'ultimo anno di dominio coloniale italiano – gli studi giuridici in Italia avevano fatta ben poca strada. I frutti erano assai scarsi: ricondurre a unità di sistema norme che appartenevano al diritto civile, al costituzionale, all'internazionale, all'amministrativo e attribuire loro indipendenza scientifica in modo da creare «un ramo che poteva essere staccato dal grande albero delle scienze giuridiche» (E. Cucinotta, Gli studi giuridici coloniali in Italia, in Atti del Primo congresso di studi coloniali, 5° vol., 1931, p. 19) rimaneva, nel momento della perdita delle colonie, un obiettivo non raggiunto.
Il fenomeno della colonizzazione aveva presentato un'originale novità nel suo compiersi, ma aveva riguardato l'ampliamento dei diritti dei cittadini dello Stato coloniale trasferiti nei territori d'oltremare e delle pubbliche autorità. Sicché il legislatore si era trovato a «disciplinare nelle colonie, l'esistenza di un uomo diverso da quello che vive e opera in patria, o almeno che è stato reso tale da un particolare tenore di vita» (p. 24), nonché l'accrescimento dei poteri delle pubbliche potestà attraverso l'attribuzione di tradizionali e nuove competenze, tutte caratterizzate dall'esercizio di ampia discrezionalità. La sovranità coloniale, non collegata all'applicazione dello Statuto costituzionale del Regno aveva creato per le colonie una caratteristica legislazione a sé stante. Gli speciali adattamenti cui accennavano tutti gli studiosi di diritto coloniale rispondevano alle particolari esigenze dell'ambiente fisico e soprattutto a quelle di natura personale. La specialità regolava in maniera pragmatica i rapporti giuridici pubblici e privati della colonia.
Solo Rolando Quadri, quando ormai le colonie erano perse, rese espliciti i principi applicabili all'ordinamento coloniale, affermando che
il diritto metropolitano e il diritto coloniale devono essere rappresentati come due cerchi distinti, anche se situati nel quadro dell'ordinamento generale dello Stato […] Tuttavia non si può parlare a questo riguardo neppure di ordinamenti territoriali. Non si tratta infatti soltanto di norme la cui sfera di efficacia sia stabilita in base ad un criterio spaziale o territoriale. Nell'ordinamento coloniale, vi sono norme per le quali esplicano una efficacia in base ad altri criteri, in base ad esempio alla qualità delle persone e che vigono ovunque le persone vengano a trovarsi. Così i sudditi coloniali hanno un loro statuto personale, sulla cui appartenenza al diritto coloniale ogni discussione sarebbe assurda, che segue i sudditi stessi ovunque vengano a trovarsi, anche nella metropoli (Diritto coloniale, 1943, p. 14).
Le colonie presentavano dunque una vita distinta sulla base della differenza personale tra cittadini e sudditi resa più evidente e profonda dalla mancanza delle garanzie costituzionali che caratterizzavano lo Stato di diritto. L'ordinamento coloniale era del tutto particolare e non poteva essere rappresentato come parte del più ampio ordinamento statale di cui condivideva solo una sfera di rapporti. In concreto, la legislazione coloniale era costituita da singole disposizioni molto spesso amministrative, volta per volta aventi una specifica finalità e riguardanti tutti gli ambiti delle relazioni giuridiche in colonia.
In effetti, dopo decenni di segregazione, il diritto coloniale nonostante la proclamazione dell'Impero non riuscì a emanciparsi dal suo pragmatismo e a trovare accoglienza come parte del sistema generale del diritto italiano. Nell'ambito di questo tentativo l'unità scientifica del complesso delle norme giuridiche rimase dunque individuata soltanto dal comune carattere della loro pertinenza al territorio coloniale, luogo lontano dalla madrepatria e dalla sua organizzazione amministrativa, giudiziaria e politica. Quindi necessariamente dotato di strumenti decisionali diversi, autonomi e caratterizzati da ampia discrezionalità. Ma il diritto coloniale poteva pur essere strutturalmente in relazione con le istituzioni, i soggetti, i diritti dell'ordinamento comune solo in un campo di applicazione circoscritto nello spazio, ma la sua caratteristica intrinseca era altra; essa poggiava sul riconoscimento di posizioni giuridiche soggettive di vantaggio e svantaggio, necessarie per l'affermarsi e la conservazione del dominio coloniale che peraltro perseguiva i suoi fini con autonomia rispetto alle regole proprie dell'ordinamento giuridico vigente in madrepatria. Era questo un dato essenziale, che non poteva essere trascurato o semplicemente lasciato sottinteso per giungere a una definizione sistematica del diritto coloniale che risultò così impossibile.
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