Il diritto di famiglia
Un recente manuale sul diritto di famiglia così definisce il proprio ambito disciplinare:
Il diritto di famiglia è quell’insieme di norme giuridiche che disciplina le relazioni familiari; dette norme appartengono a molteplici settori dell’ordinamento, ancorché in diversa misura: al diritto privato in primo luogo, ma anche al diritto costituzionale, internazionale privato, penale, processuale civile e penale, ecclesiastico, tributario, del lavoro, amministrativo e regionale. Il diritto di famiglia ricomprende inoltre norme di ordinamenti diversi da quello interno, quali il canonico, l’internazionale ed il comunitario (M. Sesta, Manuale del diritto di famiglia, 2005, 20072, p. 3).
Può forse sembrare ovvio, ma l’approdo a questa nozione ‘complessa’ della morfologia del diritto di famiglia, della sua didattica e della sua collocazione concettuale, è il coronamento di un percorso bisecolare, che prese le mosse negli anni immediatamente successivi alla scelta napoleonica di un ‘grande’ diritto privato incentrato sul codice civile. Dal disegno codicistico francese era valorizzata l’anima privatistica della famiglia nei suoi profili prevalentemente patrimoniali, appannando consapevolmente la sua rilevanza penalistica e ‘costituzionale’. Non a caso, già nell’età dello ius commune si distingueva fra un diritto di famiglia ‘pubblico’, rimesso in larghissima misura al diritto canonico o alle ‘consuetudini domestiche’, e un diritto di famiglia essenzialmente patrimoniale, in cui l’autonomia negoziale aveva ampio campo, al pari delle strategie statuali.
Ma fino a che punto lo stesso codice napoleonico aveva effettivamente abbandonato il mito della famiglia come ineludibile cellula dello Stato? Il codice civile si presentava agli occhi dei contemporanei consapevolmente liberale sul piano ideologico, e proprio su questa sua natura ‘dissacrante’ in tema di famiglia i giuristi reazionari versarono fiumi d’inchiostro: dal matrimonio civile all’accostamento tecnico della patria potestà alla tutela, dall’attenuazione dei privilegi dei figli legittimi su quelli naturali sino alla scomparsa della diseredazione.
Eppure la stessa cultura giuridica napoleonica non fu esente da caratteristiche ambiguità. Per limitarci a qualche esempio, vi permaneva – ridefinita e razionalizzata – la ‘sacramentalità’ del potere paterno e dell’autorità maritale, mentre nello sfavore per un istituto come l’adozione traspariva l'ostilità per un contrattualismo troppo radicale e tale da minare le inconcusse fondamenta naturali della famiglia, intesa, se non come istituzione divina, quantomeno quale ‘invariabile culturale’ di cui il diritto non poteva che prendere atto. Forse i profili più laici del diritto di famiglia napoleonico vanno ritrovati proprio nel silenzio penalistico, segnato dall’esclusione di una specifica categoria di ‘reati contro la famiglia’. La complessiva impostazione individualistica restava, peraltro, venata di residui patriarcali, che permasero sino al Novecento avanzato in Italia e in buona parte d’Europa. Pensiamo anche all’incerta criminalizzazione dei maltrattamenti domestici, alle attenuanti per delitti ‘d’onore’ e alle gravi disparità di trattamento a vantaggio del marito in caso di adulterio (Cavina 2011).
La cultura giuridica italiana fra Restaurazione, Risorgimento ed età giolittiana si segnalò per i suoi sforzi di mediazione fra la progressiva affermazione dell’individualismo e le ragioni del familismo tradizionale, che in buona parte d’Italia continuava a imperversare, se non nei trattati dei giuristi, certo nella società civile. Dalla temperie controrivoluzionaria si snoda un filo rosso che si attenua nel laicismo post-unitario e nelle codificazioni della sinistra storica, ma che riprende vigore e nuovi connotati nella cultura giuridica degli anni del regime fascista.
Il trend complessivo della cultura giusfamilista novecentesca europea, fra specificità locali e transitorie inquietudini, si mostra contrassegnato da alcuni essenziali obiettivi concettuali fra loro strettamente concatenati: la radicale eliminazione di quanto della cultura patriarcale e organicistica era sopravvissuto al riformismo ottocentesco; l’esorcizzazione di un’idea di famiglia che arieggiasse anche solo lontanamente l’idea di un corpo intermedio fra l’individuo e lo Stato; la compiuta democratizzazione formale e sostanziale della società domestica, in un’ottica di tutela dei componenti più deboli.
L’apporto culturale italiano nella prima metà del Novecento, in linea con la tradizione ottocentesca, fu ancora nel senso di una particolare attenzione alle ragioni di una famiglia gerarchica e patriarcale, in un filone che – pur tra varie sfumature e diversi approcci metodologici – alla fine del secolo precedente aveva annoverato autori quali Francesco de Filippis (Corso completo di diritto civile italiano comparato, 9° vol., I diritti di famiglia, 1881) ed Enrico Cimbali (La nuova fase del diritto civile nei rapporti economici e sociali, 1885). In tale contesto – si pensi in particolare ad alcune pagine di Emanuele Gianturco (Sistema di diritto civile italiano, 1° vol., Parte generale e diritto di famiglia, 1884, 18922) – l'antico dibattito sulla natura giuspubblicistica o giusprivatistica del diritto di famiglia assunse inflessioni nuove, in linea con l’attualità politica e l'affermazione di una statualità in rapido divenire (Sesta 1978, pp. 1-22).
La figura di maggior spicco fu quella di Antonio Cicu (1879-1962), il più importante giusfamilista del Novecento in Italia e, forse, in Europa. Sassarese ma professore all’Università di Bologna dal 1918 al 1954, culturalmente cattolico e nazionalista, propugnava una concezione organicista della famiglia e risolveva l’antico problema della sua collocazione fra pubblico e privato individuando nel diritto di famiglia un tertium genus munito di forte specificità, in evidente assonanza con la tradizione aristotelica e d'antico regime, che riconosceva alle relazioni familiari una specifica collocazione nella ‘economica’/scienza del padre di famiglia, in dialettica con l’etica/scienza dell’individuo e con la politica/scienza del cittadino. Cicu approdò al fascismo (Il diritto di famiglia nello Stato fascista, «Jus», 1940, 3, pp. 371 e segg.), ma il cuore del suo pensiero, che suscitò forti polemiche, lo aveva già compiutamente espresso nel suo fondamentale saggio del 1914, Il diritto di famiglia.
In tale opera, la famiglia era rappresentata quale istituzione organica e gerarchica, imperniata sul matrimonio e sulla patria potestà. Entrambi gli istituti, peraltro, apparivano come sospesi fra società civile e Stato. Nella stessa conclusione del matrimonio acquistava una funzione costitutiva – e non meramente dichiarativa – il pubblico ufficiale, quale rappresentante degli interessi pubblici.
La volontà del padre – capo del nucleo domestico – esprimeva, secondo Cicu, la volontà della famiglia in quanto istituzione organica, mentre i poteri paterni – in quanto poteri non arbitrari, ma ‘organizzati a un fine’ – segnalavano un governo della famiglia, nel quale «l’investito del potere non è che un chiamato all’esercizio di una funzione» (Il diritto di famiglia, cit., rist. anast. 1978, p. 84-85). Non a caso il potere del padre – sottratto all’autonomia privata e caratterizzato dalla irrinunciabilità e dalla imprescrittibilità – gli sembrava tutto incentrato sull’idea di dovere più che non su quella di diritto: altro non era che un mezzo per l’adempimento di un dovere. D'altronde, la stessa premessa della patria potestà di Cicu era nel riconoscimento di un vero e proprio interesse della famiglia quale unità organica che non si risolveva affatto nella mera somma degli interessi individuali dei componenti (p. 130). Come e più che il rapporto fra cittadino e Stato, quello tra figlio e padre gli appariva come una necessità, estranea alla volontà delle parti:
Sovranità e potestà famigliare [sono] un prodotto del formarsi e localizzarsi di organi e funzioni che è proprio di ogni organismo. [...] Posto che la sovranità sia essenzialmente potere vincolato, perché avente ragione in un fine che deve esser perseguito, avente quindi in sè i concetti di funzione e competenza, noi affermiamo che la stessa natura ha la patria potestà (pp. 129).
In fin dei conti, la famiglia disegnata dal Cicu era una famiglia che ‘assomigliava’ allo Stato, ma che non era – perlomeno non compiutamente – parte dello Stato.
Quello di Cicu fu forse anche un tentativo di conciliare l’inconciliabile nella cultura della destra, che sin dalla Restaurazione si era proposta come tutrice rigorosa dei valori familiari tradizionali. Coniugare la tradizionale autonomia della famiglia patriarcale con lo statualismo fu il problema o, meglio, la contraddizione che traversò – irrisolta, o malamente risolta – la cultura della destra europea novecentesca ovunque si trovò al potere (Cavina 2007, pp. 258-69).
Da un lato – il lato ‘arcaico’ e tradizionalista del fascismo – si riproponeva politicamente il mito della la famiglia tradizionale, ‘italica’ e patriarcale, e in ispecie quello della famiglia rurale mezzadrile, tradizionalista ed estesa, utile a cementare la morale e i costumi.
Esemplare è l’itinerario di un giurista come Fulvio Maroi (1891-1954), fra diritto di famiglia e diritto agrario, fra riproposizione del fedecommesso e culto romano del paterfamilias. Soprattutto nel vivace saggio Difesa della stirpe e diritto rurale («Rivista di diritto agrario», 1938, 2-3), egli riaffermava il nesso necessario della potenza dello Stato con la coesione della compagine familiare, inveendo contro il codice del 1865 per aver ignorato, in nome di un ignobile credo individualista, «tutto quello che di coesione e di cooperazione, di fraterno e di patriarcale c’è ancora nel costume delle nostre famiglie rurali» (p. 162). E riprendendo una frase di Joseph-Ernest Renan, per il quale «il codice sembra fatto apposta per un individuo che nasca trovatello e muoia scapolo», arrivava a proclamare che
lo spirito individualista, a cui si ispira la legislazione napoleonica, ha ostacolato e mortificato l’unità della nostra famiglia rurale, che pur decisamente attraversa la storia economica e giuridica italiana (p. 165).
Ma dall’altro lato – il lato ‘modernizzante’ e totalitarista del fascismo – si auspicava la giuspubblicizzazione del diritto di famiglia. L’art. 147 del codice civile del 1942 ne è paradigmatico, in virtù dell’inciso con cui si impone ai genitori, e segnatamente al padre/capo famiglia, di educare obbligatoriamente i figli sulla base dei principi del fascismo, sotto pena della perdita della patria potestà. E questo perché
lo Stato fascista considera la protezione dell’infanzia e della giovinezza come un’alta funzione pubblica, che esso assolve in più modi: a mezzo di suoi organi e di appositi istituti, mediante l’intervento nell’attività educativa familiare, con la protezione della filiazione illegittima e le varie forme di assistenza tutelare dei minori abbandonati.
E il padre si configurava come un delegato dello Stato nell’educazione dei figli quali ‘produttori-soldati’, sottoposto in quanto tale a un ferreo controllo pubblico (A. Sermonti, Principii generali dell’ordinamento giuridico fascista, 1943, pp. 418, 428-30; v. anche Cavina 2007, pp. 268-69). Su questa via, nel seguire i dettami del regime, la famiglia doveva farsi motore persino della purezza razziale. Mario Baccigalupi, negli ultimi anni del fascismo, ‘codificò’ i principi fondanti di una compiuta concezione razzista della famiglia (La razza nella famiglia, «La difesa della razza», 1941, 1).
Il più accreditato teorico della famiglia fascista fu, però, Ferdinando Enrico Loffredo (1908-2007), allora giovane e attivissimo cattolico conservatore. Nel contesto del programma di incremento demografico, egli auspicava una radicale riforma del diritto di famiglia nel senso di una sua ristrutturazione in chiave ‘passatista’ e gerarchica:
La donna deve tornare sotto la sudditanza assoluta dell’uomo: padre o marito; sudditanza, e quindi inferiorità: spirituale, culturale ed economica. Si tratta di sanzionare il principio, volerlo diffuso ad opera di tutti gli strumenti di circolazione delle idee, darne tutte le necessarie giustificazioni, suggestionarne la pubblica opinione; rafforzarlo mediante provvedimenti quali: la modificazione nei programmi di istruzione femminile, il divieto della occupazione femminile, il divieto dello sport femminile (e la sola autorizzazione a praticare la educazione fisica scolastica), la severa sanzione degli affronti al pudore, alla modestia ecc. (Politica della famiglia, 1938, pp. 339-40).
Certo è che il codice civile come codice dei privati finiva fatalmente per assumere un ruolo sempre più marginale nella concreta politica del diritto in tema di famiglia. Le norme del citata codice del 1942 – a dispetto dei tentativi ‘passatisti’ del romanista Pietro Bonfante (1864-1932) in sede di lavori preparatori – non si discostarono granché dalla trama del codice del 1865, ma il ‘nuovo’ diritto di famiglia, negli anni del fascismo, si era andato a dislocare altrove, e cioè nel diritto pubblico – comprensivo del diritto del lavoro e del diritto penale – e nella serrata legislazione speciale di diritto amministrativo a sostegno e controllo della famiglia.
La fine della Seconda guerra mondiale, la repubblica e il nuovo clima democratico posero le basi per il progressivo venir meno di quella che era stata sino ad allora la principale caratteristica di gran parte della cultura giusfamilista italiana: la mediazione fra modernità e tradizione patriarcale. I giuristi italiani andarono progressivamente (e non senza reticenze) ad allinearsi con quel processo di democratizzazione della famiglia che nelle nazioni europee liberali si era già avviato da qualche decennio nel segno del puerocentrismo. La centralità dell’interesse del figlio e della sua tutela giudiziaria attestava emblematicamente la dimensione, a un tempo, ‘individualista’ e pubblica della famiglia, che non si compendiava più in membri ‘organici’ ma anzitutto in individui titolari di diritti, venendo meno a una a una le ultime reliquie di autarchia domestica.
Sotto il profilo tecnico appare quasi scontato che, in un orizzonte di questo tipo, la bussola della scienza del diritto di famiglia divenisse la Costituzione del 1948 e la sua armonizzazione con la normativa vigente, i cui capisaldi erano stati partoriti in tutt’altro clima e rispondevano a idealità assai distanti. È ben nota, peraltro, l’ambiguità degli articoli 29 e 30 della Costituzione in tema di famiglia – risultato di faticosi compromessi fra cattolici e laici –, ed è parimenti ben noto come questa ambiguità favorì nell’immediato evidenti resistenze a una loro pronta recezione a tutti i livelli, legislativo, dottrinale e giurisprudenziale.
Una breve monografia di Giovanni Battista Funaioli, L’evoluzione giuridica della famiglia e il suo avvenire al lume della Costituzione (1951), rappresenta esemplarmente le resistenze di quei giuristi che degli articoli 29 e 30 rimarcavano la continuità con il passato nel richiamo all'unità della famiglia, piuttosto che le preponderanti aperture alla democratizzazione in tema di eguaglianza dei coniugi e di parificazione dei figli naturali ai figli legittimi. Le parole con cui si chiudeva il volume ne esplicitavano il senso nella precisa volontà di valorizzare
coefficienti idonei per la saldezza della famiglia che preme affermare sopra tutto in un tempo nel quale operano forze disgregatrici troppo spesso animate da insofferenze ed arbitri che si vorrebbe coprire sotto il manto cangiante della democrazia (p. 139).
Per un deciso cambio di rotta nella cultura giuridica del legislatore, dei giudici e degli stessi giuristi si dovette attendere circa un ventennio, il clima del 1968 e un vasto ricambio generazionale (Pocar, Ronfani 1998). Di fatto, gli anni Sessanta e Settanta del Novecento offrirono all’intera Europa il clima culturale e politico favorevole a un sistematico piano di riforme dello stato giuridico domestico, ampiamente sostenute dalla cultura giuridica.
In Italia, in quegli stessi anni, entrò definitivamente in crisi il modello ottocentesco delle relazioni familiari. La depenalizzazione dell’adulterio nel 1969, l’introduzione del divorzio nel 1970, la riforma del diritto di famiglia nel 1975 – per limitarci ad alcuni esempi – democratizzarono in profondità la materia delle relazioni domestiche e divennero ineludibili punti di riferimento culturali ed ermeneutici. Nei rapporti genitori/figli, per es., la potestà diventava finalmente parentale, con una piena bititolarità del padre e della madre e un sempre più incisivo interventismo giudiziario. Scompariva il dovere di onorare i genitori, troppo ‘sacrale’ e autoritario, mentre restava il riferimento a un generico rispetto, che pareva implicare un rapporto paritario e non il nesso gerarchico implicito nell’idea di onore.
Di lì a poco la giurisprudenza avrebbe escluso qualsiasi forma di violenza – fisica e morale – nelle relazioni domestiche. Il concetto di ‘potere’ dei genitori sfumava nell’idea di dovere puerocentrico, sulla scorta di quei
principi fondamentali dell’ordinamento, risultanti dalle disposizioni costituzionali e dalla legislazione penale, dalle quali si evince una sorta di minimo etico imprescindibile per una convivenza civile. Sarebbe infatti contraddittorio ritenere che l’azione pedagogica possa lecitamente indirizzarsi contro i valori su cui si fonda l’ordinamento che regge la società di cui il minore è parte integrante (M. Sesta, Manuale, cit., 20072, p. 459).
L’approdo culturale delle dinamiche giusfamiliari, ancora non totalmente compiute, è tutto riassunto nelle accese discussioni – fra 20° e 21° sec. – intorno al riconoscimento di tipologie ‘matrimoniali’ fortemente contrattuali e aperte a coppie omosessuali, oltre che nel concetto di ‘responsabilità genitoriale’ verso cui procede visibilmente l’intera esperienza europea.
Il Novecento è stato dunque un secolo di grandi trasformazioni nel diritto di famiglia e nel suo statuto scientifico, come traspare anche dall'affermazione di riviste tematiche, fra cui ricordiamo – a partire dagli anni successivi al Concordato – la «Rivista di diritto matrimoniale italiano e dei rapporti di famiglia» (1934-1954), che fu largamente frequentata da canonisti ed ecclesiasticisti e che si propose come rilevante luogo di dibattito intorno al progetto del primo libro del nuovo codice civile. Verso la fine del Novecento anche la didattica si è dimostrata sensibile alla complessità del diritto di famiglia, consolidandolo come oggetto di una specifica didattica: il primo corso di diritto di famiglia è stato tenuto nell’Università di Bologna da Sesta nel 1995, nel quadro degli insegnamenti privatistici. E in assenza di una codificazione pubblica – quale si è avuta in altre esperienze europee –, sono state prodotte peculiari ‘consolidazioni private’, fra cui emerge il Codice della famiglia (2007, 20092) curato da Sesta con un taglio consapevolmente interdisciplinare.
F. De Filippis, Corso completo di diritto civile italiano comparato, 9° vol., I diritti di famiglia, Napoli 1881.
E. Cimbali, La nuova fase del diritto civile nei rapporti economici e sociali; con proposte di riforma della legislazione civile vigente, Torino 1885.
E. Gianturco, Sistema di diritto civile italiano, 1° vol., Parte generale e diritto di famiglia, Napoli 1884, 18922.
A. Cicu, Il diritto di famiglia: teoria generale, Roma 1914, rist. anast. Sala Bolognese 1978.
F. Loffredo, Politica della famiglia, Milano 1938.
F. Maroi, Difesa della stirpe e diritto rurale, «Rivista di diritto agrario», 1938, 2-3.
A. Cicu, Il diritto di famiglia nello Stato fascista, «Jus», 1940, 3.
M. Baccigalupi, La razza nella famiglia, «La difesa della razza», 1941, 1.
A. Sermonti, Principii generali dell’ordinamento giuridico fascista, Milano 1943.
G.B. Funaioli, L’evoluzione giuridica della famiglia e il suo avvenire al lume della Costituzione, Firenze 1951.
C. Mortati, Corso di istituzioni di diritto pubblico, Padova 1949, successive edd. (con il titolo Istituzioni di diritto pubblico) da 19522, in 2 voll., a 199110, a cura di F. Modugno, A. Baldassarre, C. Mezzanotte.
M. Sesta, Manuale di diritto di famiglia, Padova 2005, 20114.
Codice della famiglia, a cura di M. Sesta, 2 voll., Milano 2007, 3 voll., 20092.
P. Ungari, Storia del diritto di famiglia in Italia, 1796-1942, Bologna 1974, 20022 (con il tit. Storia del diritto di famiglia in Italia, 1796-1975).
M. Sesta, Il diritto di famiglia tra le due guerre e la dottrina di Antonio Cicu, in A. Cicu, Il diritto di famiglia: teoria generale (1914), rist. anastat. Sala Bolognese 1978, pp. 1 e segg.
V. Pocar, P. Ronfani, La famiglia e il diritto, Roma-Bari 1998, 20085.
M. Cavina, Il padre spodestato: l’autorità paterna dall’antichità a oggi, Roma-Bari 2007.
M. Cavina, Nozze di sangue: storia della violenza coniugale, Roma-Bari 2011.
P. Passaniti, Diritto di famiglia e ordine sociale: il percorso storico della 'società coniugale' in Italia, Milano 2011.