Il diritto prima e dopo Costantino
Affrontare il tema del diritto nel periodo a cavallo dell’età costantiniana vuol dire confrontarsi con un’immagine stereotipa e ormai consolidata, centrata sull’esistenza di irrimediabili contrapposizioni che, se da un lato, a livello dell’evolversi dell’ordinamento, segnano il distacco tra un diritto – quello ancora operante sul finire del III secolo d.C. – contrassegnato da una sostanziale omogeneità con le forme e la sostanza proprie del diritto classico, e un diritto postclassico ormai decadente e privo dell’apporto vivificante della riflessione giurisprudenziale, dall’altro, a livello di singoli legi;slatori, propongono un’immagine dualistica e radicalmente antitetica di un ‘prima’ e di un ‘dopo’ Costantino che ha il suo contrappunto nella figura di Diocleziano. E se la prima frattura ha trovato un momento di composizione nella maturazione di una più avvertita coscienza della storicità del diritto, l’altra, viceversa, continua a occupare il campo, polarizzando l’attenzione della dottrina romanistica, che a fatica stenta a distaccarsi da quelle visioni troppo schematizzanti per imboccare nuove vie. La contrapposizione continuità-discontinuità ha segnato il dibattito storiografico caratterizzando gli studi della prima metà del XX secolo, dominati da un indirizzo metodologico legato a una prospettiva sistematica nell’approccio alla legislazione dei due imperatori che ne semplifica la complessità dei profili, riducendola al problema dell’esistenza ed entità delle trasformazioni intervenute nel passaggio dall’uno all’altro1. Adottare questa prospettiva, come l’altra parallela visione più strettamente storicistica, che riconosce nell’imprescindibilità dei momenti di frattura il canone con cui interpretare i fatti salienti della storia giuridica, significa però non tener conto della complessità del fenomeno giuridico, della varietà delle componenti che in esso si riflettono, mentre proprio sulla molteplicità di questi fattori, sulle vischiosità e resistenze come sugli stimoli e interessi nuovi, considerati nel loro insieme, sono da valutare il formarsi degli indirizzi legislativi e i caratteri di un periodo come quello considerato.
Sul finire del III secolo d.C. ha termine la profonda crisi che aveva travagliato l’Impero romano dalla fine della dinastia dei Severi. Da quelle drammatiche vicende, che avevano coinvolto non solo l’assetto politico, ma anche le strutture economiche e sociali e gli stessi valori etici e spirituali, l’Impero usciva profondamente trasformato. A porre fine alla situazione di disordine interno, restituendo allo Stato la saldezza necessaria per fronteggiare i pericoli esterni, assume un ruolo decisivo l’avvento degli imperatori illirici, che attraverso l’opera di Diocleziano e Costantino realizza il riassetto e la ricostituzione complessiva dell’Impero2. Neppure il diritto si sottrae agli effetti di quella crisi e, come l’ordinamento costituzionale conosce una decisa riorganizzazione nel segno della tetrarchia dioclezianea prima e della monarchia costantiniana poi, così pure il diritto è oggetto di sensibile trasformazione sia quanto al sistema delle fonti sia sotto il profilo dei contenuti3.
Se il periodo che si chiudeva, quello del tardo principato, si caratterizzava per la molteplicità dei mezzi di produzione del diritto e la complessità dei contenuti, quello nuovo che si andava aprendo si polarizzava sulla centralità della volontà normativa imperiale. Superate erano ormai la capacità creativa e la forza propulsiva del pretore – magistrato giusdicente che con il suo editto tanto aveva contribuito, almeno fino alla codificazione adrianea, all’evoluzione del diritto –, esaurita l’attività feconda della giurisprudenza romana, non più che un ricordo l’attività normativa di popolo e Senato, l’unica fonte di produzione del diritto attiva nel tardo Impero restava la legislazione imperiale4. La sua affermazione e il suo sviluppo erano strettamente legati al progressivo prevalere del potere assoluto imperiale che, come riassorbiva in sé le funzioni di direzione politica e amministrativa e il potere di comando militare, così concentrava nelle proprie mani il potere di promuovere l’adeguamento e lo sviluppo del diritto. Se ancora con Gaio, alla metà del II secolo d.C., le costituzioni imperiali erano solo comparate alla legge, dato che il giurista affermava: «nec unquam dubitatum est, quin id legis vicem obtineat, cum ipse imperator per legem imperium accipiat»5, ormai nel III secolo, sulla scorta dell’affermazione di Ulpiano secondo cui «quod principi placuit legis habet vigorem», esse sono legge6. Mentre, però, ancora nel III secolo le forme adottate erano quelle sviluppatesi durante il principato, quando si annoverava una tipologia articolata di provvedimenti imperiali e ancora prevalente era l’operare casistico della cancelleria imperiale secondo le regole del precedente (rescripta), con l’avvio del IV secolo si assiste all’isterilirsi di alcune delle forme usualmente utilizzate (mandata e decreta) e al prevalere delle costituzioni a carattere generale, data la specifica preferenza dimostrata dagli imperatori, a partire da Costantino, per questa forma normativa7. Il termine lex generalis, usato per designarla, aveva precedenti che risalivano all’epoca classica, ma l’espressione compare realmente per la prima volta con Costantino in una costituzione del 321 con cui l’imperatore stabilisce, generali lege appunto, la possibilità di ricomprendere i giudei all’interno delle curie municipali8. Contrariamente, dunque, all’abitudine conservata fino al III secolo d.C. di denominare i provvedimenti imperiali secondo la tipologia usuale (edicta, mandata, rescripta), o al più con l’appellativo di constitutiones, che genericamente li designava nei cataloghi tradizionali delle fonti del diritto (leges, senatusconsulta, edicta), è il termine lex che tra il IV e gli inizi del V secolo viene a significare la norma che proviene dall’imperatore9. Già di per sé il sostantivo testimonia della vincolatività della disposizione imperiale, ma esso si rafforza e acquista maggiore incisività nell’accostamento all’aggettivo generalis, che ne sottolinea la valenza tendenzialmente estesa all’insieme dei sudditi e rende evidente, anche nel caso di disposizioni particolari o limitate ad aree geografiche ristrette, la volontà di assicurarne l’applicazione generalizzata10. Su questa linea, più avanti nel tempo, Valentiniano III, nella sua legge del 426 sulle fonti del diritto, contrapporrà il rescritto, misura particolare, alla legge generale, sottolineandone l’applicazione universalmente estesa, «ut […] ab omnibus aequabiliter in posterum observentur», e precisandone i criteri formali di individuazione11.
Si trattava di un orientamento che corrispondeva a una ben precisa scelta di politica legislativa. Con Costantino la monarchia assoluta aveva conosciuto la sua definitiva affermazione ed era naturale che la volontà normativa imperiale, proprio in quanto espressione del potere sovrano, dovesse imporsi alla generalità dei sudditi, adeguando il diritto attraverso precetti generali e astratti. Nessuna deroga poteva essere introdotta al regime comune se non per volontà imperiale, cui solo spettava di placare e lenire il rigor iuris secondo criteri da essa stessa fissati12, e nessuno spazio era lasciato alla varietà delle interpretazioni13. Anzi, proprio «il desiderio di sradicare le interminabili dispute degli antichi giuristi», sottolineato con enfasi da Costantino in una lex generalis del 32114, spingeva l’imperatore a ribadire il valore dirimente dell’autorità imperiale, la sola a poter decidere a quale opinione o opera giurisprudenziale fosse da riconoscere valore. La costituzione imperiale, nella forma nuova della lex generalis, veniva ad assumere, come riflesso di tali concezioni, una diversa collocazione. Con Costantino essa non era più considerata alla stregua delle altre fonti del diritto, secondo l’impostazione ancora presente nei cataloghi del principato15, ma il diritto con essa introdotto si staccava dal ius vetus, rappresentato dalle diverse fonti che lo avevano espresso e dalle constitutiones degli imperatori precedenti. Era infatti la lex generalis, ormai pienamente e definitivamente legge, lo strumento peculiare attraverso cui promuovere l’adeguamento e il rinnovamento del diritto superando le precedenti statuizioni16. In questo contesto nessuno iatus si poneva tra diritto e sovrano, anzi il diritto finiva per identificarsi con la persona stessa dell’imperatore, ne costituiva un’emanazione, in quanto spettava solo a lui, ormai legge vivente, lex animata, la possibilità di modificarlo per adeguarlo, secondo criteri di equità e giustizia, alle esigenze dei tempi. La concezione non era nuova: già Cicerone, sulle orme della filosofia greca, aveva affermato in relazione alle magistrature che «magistratum legem esse loquentem»17. Ma essa assumeva nel contesto della monarchia assoluta una valenza diversa, che faceva dell’imperatore una parte del Logos, della ragione universale, rendendolo capace di tradurre in precetti concreti, nomoi, le leggi universali che ne erano alla base. Ne dà chiara attestazione tra IV e V secolo Isidoro di Pelusio, il più dotto e il più celebre tra gli scolari di Giovanni Crisostomo, che nelle sue Epistulae afferma con nettezza che «l’imperatore retto dalle leggi è legge vivente»18, e conferma ne fornisce Temistio, filosofo greco operante nel IV secolo, il quale ribadisce che «il sovrano è legge vivente, legge divina scesa dall’alto»19.
Questa raffigurazione del legame intrinseco che unisce l’imperatore alla lex, in quanto postula un inscindibile nesso che li collega, porta peraltro all’affermarsi, nel corso dello stesso IV secolo, di una concezione ‘potestativa’ del diritto, per cui esso finisce per apparire come pertinenza esclusiva dell’autorità imperiale20. Così Valentiniano I è celebrato da un’iscrizione come «padrone delle leggi romane, rettore della giustizia e dell’equità»21 e Libanio raffigura gli imperatori come «signori delle leggi»22, anche se ciò non significa che nella considerazione delle fonti, e in particolare di quelle letterarie, essi possano ritenersene superiori. Certo, ad avviso di Temistio l’imperatore «è legge vivente ben superiore alle leggi scritte»23 e la sua posizione è ben distinta da quella dell’organo giudicante, dato che «altra è la virtù del giudice, altra quella del principe» e che «mentre al primo conviene seguire le leggi, all’altro conviene anche correggerle addolcendone la durezza, perché egli stesso è legge vivente, non racchiusa entro definizioni immutabili»24. Tuttavia, secondo un orientamento più diffuso nella riflessione tardoantica, il rispetto delle leggi non contrasta con la posizione del monarca assoluto, in quanto è proprio di una concezione illuminata del potere che il sovrano sottostia alle leggi. In quest’ottica Libanio, a complemento dell’affermazione sopra riportata secondo cui gli imperatori sono «signori delle leggi», non poteva fare a meno di sottolineare come le norme diventino poi «signore di loro stessi»25, e Giovanni Crisostomo a sua volta, riconoscendo il principio della sovranità della legge, affermava che «le norme comandano i governanti»26, mentre Ambrogio precisava che «il sovrano non è svincolato dalle leggi, bensì svincola da sé le leggi»27. Del resto la concezione dell’ordinamento giuridico come imprescindibile regola del vivere ordinato si faceva strada nel pensiero giuridico proponendo un’assimilazione ideale fra imperatore e sudditi. Così Valentiniano III, in una costituzione diretta a Volusiano, prefetto del pretorio d’Italia, affermava che «è voce degna della maestà del sovrano, che il principe si dichiari vincolato alla legge: tanto dipende dall’autorità del diritto l’autorità imperiale. In verità infatti il sottomettere il principato alle leggi è cosa più grande dell’Impero stesso»28.
In ogni caso, qualunque fosse il rapporto esistente tra legge e potere imperiale, restava il fatto che essa, pur provenendo da un monarca assoluto, non costituiva l’estrinsecazione di un potere arbitrario, ma rispondeva a precise sollecitazioni provenienti da funzionari, giudici o sudditi imperiali. Erano queste ultime, di norma29, a dare l’avvio al procedimento di emanazione della legge, prevedendone l’esame del consistorium prima della presentazione all’imperatore per la promulgazione. Attraverso questo processo di ponderata elaborazione la lex imperiale prendeva vita, per poi essere portata a conoscenza dei sudditi attraverso i complessi meccanismi di pubblicazione30.
Se con Costantino era la lex generalis lo strumento usuale di normazione, ancora sul finire del III secolo, tuttavia, a tenere il campo era la creazione del diritto attraverso l’individuazione delle singole decisioni da applicare al caso concreto. Questa dimensione casistica del diritto, che si realizzava ormai grazie all’opera della cancelleria imperiale, aveva però perso il suo connotato essenziale, quello della controversialità, che ne costituiva l’aspetto più intrinsecamente dinamico nell’età classica31. Anche se nella produzione casistica della cancelleria sembrerebbero riprodursi i modi di operare dei giuristi, a un esame più attento il venir meno del ius controversum si rivelava indice significativo del diverso atteggiarsi dell’attività rescrivente di quest’ultima rispetto al respondere de iure dei prudentes: la prima, fondata ormai sulla forza della volontà normativa imperiale, si imponeva per sé, indipendentemente dalla sua intrinseca ragionevolezza, essenziale per l’altro32.
Proprio la normazione per rescritto aveva costituito l’unico fattore di produzione del diritto ancora attivo nel periodo epiclassico, compensando e attenuando il venir meno della giurisprudenza classica, e aveva trovato nella legislazione di Diocleziano pieno riscontro. L’età che si avviava con l’imperatore dalmata non appariva infatti segnata, sotto il profilo del diritto, da radicali discontinuità rispetto al periodo precedente. I modi e le forme della classicità trovavano applicazione nell’ambito dell’amministrazione della giustizia, orientata ancora secondo il modello dell’editto del pretore e gli schemi del processo formulare, così come nella propensione alla conservazione e al rafforzamento degli istituti e nella tenace resistenza opposta all’influenza delle consuetudini locali33. Ma più che altrove si manifestavano nella modalità casistica di emersione del diritto, attestata per l’appunto dalla prevalenza accordata ai rescritti rispetto alle costituzioni a carattere generale. Com’è noto, proprio sulla dimensione casistica, sullo stretto legame tra la regola e la sua emersione giudiziale si era fondata la fortuna dell’esperienza giuridica romana.
Questo rapporto, che univa in un inscindibile vincolo ius e iurisdictio, sembrerebbe dunque aver conosciuto un’incrinatura con Costantino, in conseguenza della preferenza accordata dall’imperatore, ormai legge vivente, alla lex generalis rispetto al valore contingente delle decisioni casistiche34. A pesare su questa conclusione stava in particolare l’immagine di una irrimediabile contrapposizione tra i due fondatori del cosiddetto dominato, che condizionava il giudizio di antichi e moderni. Già Lattanzio, sia pure con riferimento al profilo religioso, tracciava una netta distinzione tra il virtuoso Costantino e il perverso Diocleziano35, ed è noto, venendo al campo più strettamente giuridico, il rude giudizio di Ammiano, il quale, scrivendo sotto Giuliano, definiva Costantino «novator turbatorque priscarum legum et moris antiquitus recepti»36. Del resto, che il dato del cambiamento legato alle scelte di politica religiosa fosse il profilo che più rilevava agli occhi dei contemporanei nell’attività normativa di Costantino è sottolineato a più riprese da panegiristi e scrittori cristiani, che di quella legi;slazione intendevano esaltare soprattutto quanto rifletteva l’impronta cristiana. Così Nazario di Bordeaux nel suo panegirico dell’imperatore esaltava le «novae leges regendis moribus et frangendis vitiis constitutae»37, ed Eusebio di Cesarea, nella sua Vita Constantini, rilevava come l’imperatore «plurimas leges ad maiorem sanctitatem traducens, pro antiquis novas fecit»38, soffermandosi in particolare su quei provvedimenti il cui carattere innovativo rivelava il prevalente influsso cristiano. Era inevitabile che queste valutazioni condizionassero il giudizio complessivo che la critica successiva doveva esprimere sulla figura di Costantino in rapporto al predecessore. Ne risultava, come rilevato, con riferimento al piano giuridico, una netta contrapposizione tra un Diocleziano ‘miope conservatore’, impegnato nella difesa dei mezzi tradizionali di produzione del diritto, e un Costantino ‘ardito innovatore’, rivolto verso forme nuove di legislazione39: e al profilo della continuità finiva per essere privilegiato quello della rottura.
In realtà l’età costantiniana, pur presentandosi come un periodo di profonda trasformazione, si mostra, e non solo per quanto riguarda il diritto, coerente con la tradizione40. In essa precisi segni esteriori e chiari indicatori politici e sociali si muovono nella direzione di un organico sviluppo. Le forme di intervento, i metodi, i simboli, perfino le titolature assunte dall’imperatore ricalcano quanto adottato dai predecessori41, e nelle sue costituzioni non mancano le formali affermazioni di rispetto verso la sanctio veteris iuris42 e l’attaccamento imperiale al mito della aeternitas43. Sono certo segni esteriori, ma tradiscono un chiaro orientamento di fondo che, specie in campo giuridico, si traduce in scelte precise. L’idea tradizionale di una produzione del diritto legata al caso concreto, di uno stretto rapporto tra momento processuale ed emersione del diritto, che già aveva trovato espressione nell’attività di magistrati e giuristi, non era certo venuta meno con il tardo Impero. Né questo rapporto si rompe con Costantino: il momento casistico resta ben presente nella produzione normativa imperiale e permane il legame che unisce il giudice tardoantico alla emersione della regola giuridica. Certo alcuni segni di cambiamento non mancano: con Costantino l’intervento diretto in sede giudiziale dell’imperatore si riduce44 e si introducono numerosi limiti all’emanazione di rescritti. Si è rilevato come da Diocleziano a Giustiniano siano state emanate ben quarantacinque costituzioni in proposito, a testimonianza delle preoccupazioni e dell’attenzione che l’emanazione di tali provvedimenti suscitava nel vertice imperiale45. Ciò non toglie che le richieste di intervento continuassero a pervenire all’imperatore e le risposte non mancassero. Insomma, la prassi di creare diritto in risposta a istanze provenienti da privati o funzionari, formulate in relazione a un processo pendente o futuro, ossia la prassi rescrivente imperiale, persisteva ancora nel IV secolo, anche se sottoposta a una sempre più penetrante regolamentazione. Di essa il Codice Teodosiano non ha conservato attestazione, data la decisione di Teodosio II di escludere i rescritti dalla sua compilazione per inserirvi solo leges generales, ma da quel poco di testimonianze pervenute in proposito è possibile affermare che la consuetudine fosse ancora vitale.
È però grazie al Codice Teodosiano che si conoscono i principali provvedimenti adottati al fine di limitarne l’emanazione. In effetti l’utilizzo dei rescritti aveva suscitato forti riserve in ragione delle scarse garanzie di correttezza e autenticità offerte. Spesso le soluzioni formulate mediante rescritto riguardavano situazioni delle quali l’imperatore non aveva potuto controllare le circostanze reali, ovvero fatti travisati artatamente dalle parti o distorti da funzionari poco scrupolosi. Inoltre, causa l’insufficienza delle forme di pubblicità, risultava difficile conoscerne il testo autentico, con il rischio di vedersi opporre rescritti falsi o addirittura inesistenti46. Ciò generava storture e difficoltà tanto più gravi in quanto la portata della decisione imperiale non era ormai limitata al caso risolto, ma, poggiando sull’autorità dell’imperatore stesso, aveva assunto efficacia anche nei casi analoghi, obbligando il giudice all’osservanza. Di qui la necessità di misure di difesa che mirassero a limitare la portata e l’utilizzazione dei rescritti. Tra i numerosi provvedimenti emanati in proposito, assumono particolare rilievo quelli costantiniani per la linea di rigorosa difesa della legalità e per la tutela dell’imparzialità del giudizio da essi perseguita47. Erano vietati i rescritti contra ius48 e quelli ottenuti in pendenza di processo49, ovvero a processo deciso se l’appello era omesso50 o la decisione era definitiva poiché proveniva dall’autorità imperiale51; se ne escludeva altresì la possibilità di applicazione analogica52. In presenza di tali circostanze i rescritti non potevano essere chiesti e, se ottenuti, erano da considerare invalidi. Potevano essere utilizzati solo quelli richiesti prima dell’inizio del processo, dei quali la parte poteva avvalersi presentandoli al giudice in sede di avvio del giudizio. Limitazioni incisive, queste, ma che non intaccavano la risalente prassi imperiale di rispondere a richieste di privati e giudici intorno a punti controversi del diritto, dato l’obiettivo limitato da esse perseguito. Se tali provvedimenti erano, infatti, finalizzati a eliminare le storture del sistema, non intendevano certo scardinare il sistema stesso che, di fatto, proseguiva proprio con la legislazione di Costantino53. Una chiara testimonianza in proposito è offerta dal papiro contenente il verbale del processo svoltosi nel 339 davanti al defensor di Arsinoe54, concernente una controversia relativa alla proprietà di alcuni immobili di cui il fisco reclamava le imposte agendo nei confronti di due sorelle che ne avevano a lungo avuto il possesso, processo conclusosi con la condanna di queste in applicazione di un rescritto di Costantino istitutivo della prescrizione acquisitiva quarantennale (longissimi temporis praescriptio). Il rescritto riguardava un caso particolare, quello del senatore Agrippino – cui era indirizzato – che, convenuto in rivendica, era stato rassicurato dall’imperatore di non dover esibire il titolo di acquisto, avendo posseduto per quarant’anni. Nella decisione del giudice la risposta imperiale, però, assume una valenza generale, orientandone la decisione a favore del fisco dato che, precisa l’organo giudicante, «non tocca a me, visto che mi si offre una sacra legge, turbare il lunghissimo possesso». Il valore di legge riconosciuto al rescritto traspare con chiarezza dal verbale del processo, confermando la valenza esemplare a esso riconosciuta. Ma, mentre in età classica questa era frutto del vaglio esercitato dai giuristi sull’attività rispondente imperiale55, ora, nel tardo Impero, è la circolazione assicurata dagli alti funzionari della cancelleria centrale e di quelle periferiche a determinarne la portata generale: proprio dalla cancelleria del prefetto d’Egitto, funzionario competente, si può infatti immaginare che l’avvocato del fisco avesse ricevuto copia del rescritto costantiniano. Ma ciò che più rileva è proprio la sua portata innovativa e l’applicazione analogica che ne viene proposta. Il rescritto richiamato esula, infatti, dalla tipologia corrente dei rescritti meramente applicativi (che si limitavano a proporre soluzioni secondo il diritto vigente) ed è precisa testimonianza, ancora in età costantiniana, di un’attività creativa della cancelleria imperiale, che non sentiva di ostacolo il divieto dei rescritti contra ius. Nel contempo esso testimonia della persistenza, nonostante ogni divieto in proposito, in particolare quello costantiniano, di un’applicazione analogica dei rescritti al di fuori del caso deciso. Se, infatti, la risposta imperiale era stata assunta a favore del possessore per facilitargli l’acquisto della proprietà (in assenza o nell’impossibilità di esibire il titolo), ora essa veniva applicata contro di lui, per imporgli un onere (tassazione del fondo), realizzando dunque, come è stato osservato56, l’estensione della disciplina a un caso completamente diverso.
Ma che l’attività rescrivente trovasse sicura applicazione in età tardoimperiale, confermando lo stretto legame tra dimensione normativa ed esperienza concreta, è comprovato più avanti nel tempo, negli anni 364-365, dalle testimonianze della legislazione di Valentiniano I trasmesseci dalla Consultatio veteris cuiusdam iurisconsulti57. Nel giro di poco più di un anno ben sei rescritti risultano emanati dall’imperatore su uno stesso tema, quello della validità dei pacta, a riprova dello spazio conservato da una pratica ancora attuale58.
Era attraverso questo strumento che l’imperatore poteva rispondere alle istanze provenienti dalla pratica di diritto: grazie a esso si realizzava un singolare rapporto di interazione tra sudditi e potere imperiale, e gli imperatori tardoantichi potevano intervenire sul giudizio di diritto, presupposto del giudizio di fatto riservato ai giudici, coadiuvandone l’attività in caso di difficoltà e al tempo stesso controllandone l’operato59. Di questa precisa scelta di politica legislativa, si è osservato, il Codice Teodosiano non ha trasmesso che un’immagine offuscata e imprecisa. È noto come, da Costantino in poi, in esso siano raccolte le costituzioni a carattere generale, e ciò ha conferito un singolare rilievo alla legi;slazione dell’imperatore, assegnandole priorità all’interno dei singoli titoli e ponendola in primo piano agli occhi di pratici e interpreti. Ma, nel contempo, ha contribuito alla formalizzazione di un’immagine stereotipa di Costantino legislatore, identificandolo come artefice primario della nuova prassi di legiferare per leges generales. Del resto, un’immagine altrettanto orientata ci è trasmessa per Diocleziano dalle Compilazioni private del III secolo (Codici Gregoriano ed Ermogeniano), che ne hanno accolto solo la legislazione casistica. Anche in questo caso non mancano peraltro nelle fonti testimonianze di un ricorso, sia pur marginale, da parte di Diocleziano alla costituzione generale nelle forme dell’editto, certamente in campo pubblicistico, come testimoniato dall’Edictum de pretiis, ma anche in ambito privatistico, come risulta dall’editto in tema di impedimenti matrimoniali riportato in Collatio 6,460, e in ambito processuale dall’editto di cui vari brani sono conservati nel Codice di Giustiniano61. Queste indicazioni, sia pur limitate e marginali, fanno tuttavia trasparire l’immagine di una omogeneizzazione delle forme dell’attività normativa assai maggiore di quanto le testimonianze pervenute lascino pensare, inducendo a ritenere che una certa incidenza su di essa possano aver esercitato, offuscandola, le scelte operate dai compilatori. Di ciò si possono ricavare indicazioni dalla costituzione costantiniana sulle note di Paolo e Ulpiano a Papiniano, inserita in Cod. Theod. I 4,1 come parte di una più complessa normazione in tema di utilizzo delle opere giurisprudenziali (di cui altra parte sarebbe da rintracciarsi nell’analogo provvedimento relativo alle Pauli sententiae, Cod. Theod. I 4,2). A dispetto dell’impronta generale da essa assunta nel contesto di Cod. Theod. I 4, il titolo del Teodosiano dedicato agli scritti dei giuristi, si è sottolineato come la norma potrebbe avere un’origine contingente legata alla soluzione del problema della validità degli atti compiuti da un filiusfamilias durante l’assenza del pater, deportato e poi restituito, caso in cui Costantino avrebbe concordato con l’opinione di Papiniano, avversando quelle di Paolo e Ulpiano62. Del resto, che in tema di forme della normazione gli orientamenti dei due legislatori potessero mostrarsi meno contrastanti di quanto le compilazioni lascino immaginare è dimostrato dal fatto che quando una stessa opera, come i Fragmenta Vaticana, ospita costituzioni di Diocleziano e Costantino non si nota uno scostamento sensibile, prevalendo per entrambi il rescritto63.
Ma la distanza tra le due legislazioni è meno sensibile di quanto possa apparire anche sul piano delle forme. Si sono contrapposti la sobrietà e il rigore dello stile della cancelleria dioclezianea all’ampollosità e al virtuosismo retorico di quella costantiniana64. Ma in realtà è l’Impero tardoantico nel suo complesso a manifestarsi come «a very wordy business», come è stato definito65. Di questa verbosità comunicativa sono attestazione le costituzioni degli imperatori del periodo tetrarchico che ricordano, con ampiezza di argomenti, le ragioni per l’avvio o la sospensione delle persecuzioni cristiane66 non meno degli editti di Costantino ai provinciali di Palestina, giustificanti i suoi successi militari nel contesto del fallimento delle persecuzioni e della conversione personale dell’imperatore, e di quelli indirizzati ai provinciali in generale relativi ai meriti della cristianità e alla malvagità dei pagani67. Si trattava, peraltro, di forme comunicative imposte dalla necessità di far penetrare e comprendere il messaggio imperiale. Molto però della qualità della normazione imperiale era affidato alle capacità e alle conoscenze tecniche dei componenti della cancelleria e in particolare del magister libellorum, che, sotto il controllo del quaestor, sovrintendeva alla predisposizione dei rescritti imperiali. Certo non tutti i segretari o i questori avevano la medesima preparazione giuridica, ma, se i rescritti che ci sono stati trasmessi conservano i principi del diritto classico in un linguaggio ancora sufficientemente preciso, ciò è effetto delle conoscenze da essi ancora possedute.
Se dal piano della normazione ci si sposta a quello della letteratura giuridica e della riflessione giurisprudenziale, si può constatare come si accentui con Costantino il distacco rispetto all’età classica che già si era manifestato nel periodo dioclezianeo.
Ancora con Diocleziano era possibile registrare una certa continuità nella produzione di opere giuridiche. Nuove esigenze, però, si erano prospettate, allontanando la letteratura dalle forme e dalle finalità che le erano state proprie durante l’età classica.
Intanto, sul piano della produzione giurisprudenziale, alla ricchezza e complessità della letteratura del periodo del principato si erano sostituite, nell’età di Diocleziano, una contrazione dell’attività letteraria e una riduzione di questa a opere di sintesi, rivolte a presentare enunciati giuridici chiari e a risolvere in precetti incontroversi le sottili di;spute che avevano animato il dibattito giurisprudenziale. La necessità di questi cambiamenti era imposta, da un lato, da precisi fattori ideologici legati all’affermarsi del dominato, dall’altro da esigenze concrete dettate dalla condizione dei materiali giuridici e dal grado di diffusione delle conoscenze in età tardoimperiale. Se queste avevano subito un sensibile regresso in conseguenza dell’esaurirsi progressivo del ceto dei giuristi e della carenza d’informazione tecnica e professionale degli operatori del diritto, lo stato dei testi, la loro antichità, l’ampiezza del numero ne esigevano forme di riduzione e controllo68. Al tempo stesso, l’essenza propria del nuovo regime, basata su una concezione autoritativa del diritto, spingeva verso forme letterarie capaci di orientare con precisione l’operare giuridico, traducendo in precetti univoci il ius controversum dei giuristi classici. In questo quadro si giustifica l’interesse per opere capaci di affrontare i temi dell’ordinamento riducendo la complessità delle precedenti elaborazioni giurisprudenziali in enunciati più facilmente accessibili. Così al giurista Ermogeniano, magister libellorum sotto Diocleziano e prefetto del pretorio tra III e IV secolo69, si deve un’Epitome Iuris, ossia una riduzione in formulazioni sintetiche di posizioni assunte dalla precedente letteratura giurisprudenziale (specie severiana) sui diversi temi dell’ordinamento, di cui offre una trattazione ancora organizzata secondo gli schemi dell’editto del pretore, a sottolineare la persistente validità di quel modello70. E ancora sulla stessa linea, di una giurisprudenza prevalentemente orientata alla rielaborazione dei materiali classici piuttosto che autonomamente creativa, si collocano i Iulii Pauli sententiarum receptarum ad filium libri V, una raccolta in cinque libri di ‘opinioni accettate’ del giurista Paolo, rivolte al figlio in una forma sintetica e chiara. Si tratterebbe in realtà, secondo l’opinione prevalente, di un’opera realizzata intorno al 300 d.C. da un giurista anonimo (la cui identità si celava dietro il nome del grande giurista severiano) riutilizzando materiali di varia provenienza71. In ogni caso, quali che ne siano le origini e le successive vicende (si è supposto che essa abbia subito numerosi rimaneggiamenti e successive stesure durante i secoli IV e V), essa offre una delle testimonianze più significative del modo di operare della giurisprudenza pratica dell’età postclassica. L’intento dell’anonimo epitomatore sembra essere stato quello di trarre dai testi l’essenziale giuridico per riferirlo nel modo più conciso possibile, trasformando, come è stato osservato, «i problemi in dottrina, la casistica in precetti vincolanti»72. Dell’efficacia del risultato raggiunto è testimonianza la lode che le tributava Costantino definendo l’opera «libri forniti di pienissima luce, perfettissimo stile e fondatissima logica giuridica»73.
In questa generale tendenza della giurisprudenza dioclezianea ad allontanarsi dalla complessità dell’elaborazione scientifica classica per orientarsi secondo indirizzi di maggiore concretezza e praticità, tuttavia, non manca qualche eccezione rivolta a proseguire il lavoro giurisprudenziale secondo schemi tradizionali. Ne è esempio Aurelio Arcadio Carisio, magister libellorum sotto Diocleziano e artefice di gran parte della produzione normativa del periodo tetrarchico nella sua qualità di funzionario preposto all’ufficio addetto alla redazione dei rescritti imperiali. Le sue opere infatti, pur nello stato frammentario in cui sono pervenute, trattano materie complesse offrendone un sufficiente inquadramento sistematico, come la monografia sui munera74; manifestano chiara percezione del rilievo assunto dai nuovi uffici, intesi oramai come organi impersonali, e tra questi dalla prefettura del pretorio, di cui offrono una prima trattazione monografica sforzandosi di nobilitarne la figura attraverso un’appropriata giustificazione storica delle origini75; mostrano capacità di esprimere opinioni personali su punti controversi di diritto, come nell’affrontare il problema dell’ammissibilità della tortura dei servi del figlio contro il padre76. Un operare, questo, secondo quei metodi del passato che Carisio elogiava negli ultimi esponenti della giurisprudenza classica, mostrando di volersi accomunare a essi77.
Ma la manifestazione più evidente del diverso orientamento alla sistematicità e accessibilità del diritto, cui si ispira la letteratura giuridica, è fornita dalle raccolte di costituzioni imperiali di età dioclezianea. Queste si collegano alla scelta dei rescritti come forma usuale di normazione in quell’età e al ruolo assolto dalla giurisprudenza all’interno della cancelleria imperiale: in assenza di una specifica competenza giuridica del sovrano, erano infatti i giuristi, ormai inseriti stabilmente all’interno di essa, a partecipare alla loro elaborazione. L’attività giurisprudenziale si trasferiva così dal foro privato a quello istituzionale, facilitata in ciò dalla scelta dioclezianea per un operare casistico, in linea con i tratti essenziali della tradizione rispetto alla forma, sentita ancora come estranea, della lex generalis. Ma, come spettava a essi il curarne la redazione, così, nel momento in cui dubbi di autenticità e di applicazione ne rendevano incerto l’utilizzo, furono proprio i giuristi della prima età tardoimperiale ad avvertire l’esigenza della loro sistemazione e di curarne la raccolta. Di questa attività è testimonianza la compilazione (in Oriente) dei due codici gregoriano ed ermogeniano, quest’ultimo forse opera dello stesso Ermogene o Ermogeniano, autore della Epitome iuris78. Queste opere, frutto di attività privata (non avallata dall’imperatore), completate nel periodo 291-294 e comprendenti rescritti imperiali (indirizzati a privati e funzionari) emanati dagli imperatori dall’epoca di Adriano a quella di Diocleziano79, proprio per la tendenziale organizzazione sistematica (il codice Gregoriano80 – il più antico tra i due – è suddiviso in libri e in titoli i quali sono a loro volta articolati in ordine cronologico; il codice Ermogeniano è suddiviso solo in titoli, circa un centinaio) e la forma nuova utilizzata, quella dell’opera letteraria in forma di libro (codex81) in luogo del rotolo di papiro (volumen), riscossero immediato successo e ininterrotta fortuna fino all’età giustinianea. Chiunque, grazie a essi, non solo avrebbe potuto conoscere il testo dei rescritti imperiali (che prima erano consultabili solo presso gli archivi), ma avrebbe avuto a disposizione un prontuario di soluzioni autoritative facilmente reperibili (in quanto organizzate sistematicamente) su cui orientarsi e cui appellarsi (secondo la prassi della recitatio che ne consentiva l’esibizione nel corso del giudizio) nelle controversie giudiziarie: niente di più appropriato e rispondente a quelle esigenze di semplificazione e accessibilità che ispiravano la produzione letteraria del tardoantico.
Per converso, quel legame tenue che ancora collegava la giurisprudenza dell’età dioclezianea a quella classica, accreditandola di una qualche capacità di produzione letteraria, sia pure con caratteri diversi da quelle dell’età precedente, si assottiglia ulteriormente in età costantiniana. Non che fossero totalmente venute meno figure di giuristi. Lo stesso resoconto del processo di Arsinoe testimonia della cultura non superficiale e della capacità di servirsi del dato giuridico dell’avvocato del fisco, a riprova dell’esistenza, ancora in età costantiniana, di un ceto di pratici, anche se non di giuristi, dotati di sufficiente cultura giuridica. Semmai ciò che colpisce, in quel resoconto, segno del distacco ormai maturato rispetto alla giurisprudenza classica, è la convinzione dell’assoluta vincolatività del precetto imperiale richiamato dall’avvocato del fisco, che non è più nel contesto del processo un dato da tenere in considerazione assieme ad altri per inquadrarlo e ricavarne la disciplina da applicare, ma la regola del rapporto alla quale parti e giudice non possono più derogare.
Con Costantino il valore preminente della volontà normativa imperiale si imponeva, ma questo non significava il venir meno del rilievo della letteratura giurisprudenziale. Già l’esperienza dei codici di età dioclezianea aveva dimostrato la loro inidoneità a coprire l’intero arco dell’ordinamento82, evidenziando l’imprescindibilità di quella letteratura come suo tessuto connettivo. Solo che adesso gli scritti dei giuristi apparivano, agli occhi di individui sempre più abituati a vedere nel diritto la norma imposta dal potere imperiale, non come «la forma, articolata e problematica, di un pensiero in movimento [...], ma piuttosto come un discorso concluso e cristallizzato, al quale rifarsi come a un dato normativo»83. E così erano percepiti dall’imperatore, il cui ruolo di arbitro unico del potere legislativo investiva necessariamente la stessa forza di quegli scritti, legittimati, in ultima analisi, dal potere imperiale. A esso ne era quindi riservata la disciplina, come testimoniano gli interventi di Costantino diretti a riconoscere il valore delle Pauli Sententiae e a evitare l’uso delle note di Paolo e Ulpiano a Papiniano. Ma alla loro forza normativa l’imperatore si poteva appoggiare nell’adottare i propri provvedimenti, e numerose sono le attestazioni del ricorso a giuristi dell’età del principato per suffragare le scelte imperiali84.
Di questa duplicità, sia pure sbilanciata, delle componenti dell’ordinamento e della necessità di una qualche forma di raccordo tra esse ci fornisce testimonianza l’unica opera che si ritiene risalente a questo periodo, i cosiddetti Vaticana Fragmenta, così chiamati perché scoperti nel 1821 dal cardinale Angelo Mai in un codice della Biblioteca Apostolica Vaticana. Con quest’opera anche gli ultimi, timidi sforzi di elaborazione della giurisprudenza di età dioclezianea, espressi da Carisio ed Ermogeniano, sembrano cedere a semplici finalità collettanee. L’importanza e l’originalità dell’opera stanno però non tanto nel tentativo di sistemazione secondo grandi partizioni (tituli, di cui solo alcuni conservati85) del materiale riunito o nello sforzo antiquario volto a conservare traccia della provenienza di esso attraverso apposite inscriptiones, quanto proprio nel tentativo di fondere in un’unica silloge le due grandi fonti dell’ordinamento romano, la legislazione imperiale e la letteratura giuridica. In essa, infatti, accanto a brani tratti da opere di giuristi del periodo tardoclassico86 e a frammenti delle Pauli Sententiae sono inseriti, sebbene in posizione ancora secondaria e subordinata, brani di costituzioni imperiali a partire da Settimio Severo e Caracalla (205 d.C.). Vi sono rispecchiate le ragioni di semplificazione e di conoscibilità legate all’esigenza pratica di disporre di un materiale di facile reperibilità, ma in essa soprattutto si manifesta una nuova tendenza dell’età costantiniana, quella alla polarizzazione dell’ordinamento secondo due grandi filoni, che troverà poi espressione nel primo progetto codificatorio di Teodosio II e piena realizzazione con la compilazione giustinianea87.
Se dal piano delle concezioni relative al diritto e alle fonti ci si sposta sul terreno dei contenuti e degli orientamenti generali della legislazione, non si può non notare come lo sforzo compiuto dalla dottrina per identificare un’ispirazione prevalente che differenzi la legislazione dei due fondatori del dominato non faccia altro che riproporre, su terreno diverso, quelle stesse rigidità che avevano generato perplessità in relazione agli studi sulle fonti. In questo ambito non è possibile tracciare una netta cesura con l’età dioclezianea, pur evidenziandosi, a partire da Costantino, una propensione sempre più spiccata all’utilizzo della lex generalis, perché persistono tracce evidenti di una prosecuzione nell’utilizzo delle costituzioni casistiche (rescripta). Analogamente, sul piano degli indirizzi e dei contenuti si rivela sterile, e in ultima analisi inadeguato, il tentativo di risolvere in una formula univoca il ductus culturale delle due età. Con particolare riferimento al campo del diritto privato, è stato evidenziato quanto sia unilaterale parlare di un Diocleziano strenuo difensore del diritto classico, filopagano, ancora legato a un’ottica giurisprudenziale di produzione del diritto e in contrapposizione a un Costantino filocristiano, filoellenico, aperto alle concezioni volgari. L’esame della legislazione tardoimperiale mostra con evidenza che, se è pur vero che con Costantino si accentuano, anche nel diritto privato e processuale, quelle che sono state definite le tendenze di «una nuova epoca, si chiami pure postclassica o tardo antica»88, ciò non toglie che già a partire da Diocleziano le costituzioni degli imperatori mostrino un andamento discontinuo, fatto di ‘avanzamenti e arretramenti’ in cui si mescolano influenze diverse e spesso prevalgono motivazioni contingenti.
Così, per fare qualche esempio, non mancano casi nella legislazione dioclezianea in cui lo sforzo di superare la confusione generata dalla Constitutio Antoniniana, richiamando all’applicazione rigorosa del diritto romano, cede a ‘prudenti concessioni’, venendo incontro alle richieste dei postulanti. È il caso di Cod. Iust. VIII 47,6 del 293, che stabilizza e rende esclusiva l’adrogatio per rescriptum principis89, dove all’abbandono delle arcaiche forme comiziali di arrogazione contribuiscono certo esigenze di più facile accessibilità ai provinciali, ma anche ragioni sociali e forse in misura non minore nuove concezioni familiari che aprono alla possibilità della donna di arrogare ed essere arrogata90, in conseguenza di un suo mutato ruolo nella società e nella famiglia e dell’affermarsi di nuove forme di parentela di sangue (cognatio). Analogamente, alla necessità di venire incontro a istanze del mondo provinciale, ma al tempo stesso di soddisfare esigenze di minor ritualità e di conservazione degli atti di ultima volontà, risponde la disponibilità ad attenuare il rispetto degli aspetti meramente formali, accentuando piuttosto il ruolo assolto in quegli atti dai testes e dalle sottoscrizioni (septem signa)91.
Se poi ci si rivolge a Costantino, emblematico dell’intreccio di influenze che pervadono e percorrono la sua legislazione, rendendola impermeabile a una qualificazione precisa, è Cod. Theod. III 16,1, che disciplina il ripudio stabilendo i casi in cui ne è legittimo l’esercizio. In essa le drastiche sanzioni poste a carico della donna e dell’uomo in caso di ripudio ingiustificato, descritte con ricorso a espressioni inusuali per il linguaggio giuridico, ma efficaci nella loro concretezza, rispondono forse a suggestioni provenienti dall’ambiente cristiano, ma nel contempo non ripugnano a una morale pagana del matrimonio fondata sull’ideologia della continenza92. E accanto a sanzioni tradizionali (perdita della dote e della donazione nuziale, deportatio in insulam) trovano spazio forme estreme di reazione, ormai inusuali nell’esperienza giuridica romana (esercizio arbitrario delle proprie ragioni). Il tutto è poi accompagnato da modalità espressive eccessive, estranee alla concisione e alla precisione tecnica del linguaggio tradizionale.
Sullo stesso piano del gioco molteplice di fattori che intervengono a orientare la legislazione, attestazione significativa è offerta anche dalla riforma costantiniana della donazione, in cui esigenze di certezza, motivazioni di ordine fiscale e istanze della prassi convergono nel trasformare quella che era una semplice causa di acquisto in un contratto soggetto a prestabilite formalità e produttivo di effetti reali93. Del resto, esigenze simili e in maggior misura influenze greche ed ellenistiche, unite al prevalere di una concezione comune che identifica il vendere e il comprare con l’effettivo scambio della cosa contro il prezzo, sono alla base della nuova configurazione della compravendita immobiliare come produttiva di effetti reali (Fragmenta Vaticana 35).
Più avanti, la legislazione dei successori di Costantino non mancherà di fornire tracce evidenti del medesimo convergere di influenze. La riforma di Costanzo, che eliminerà ogni rigore formale con riferimento alla heredis institutio e ai legati, risulta certamente dettata dall’esigenza di venire incontro alle istanze dei provinciali, in particolare di quelli della parte orientale dell’Impero, ma in ugual misura corrisponde alla necessità di superare vecchi formalismi, che costringevano le parti all’uso di forme cogenti ma ormai sentite come inattuali94.
Quanto detto non significa certo che in alcuni istituti come la stipulatio, la riforma degli sponsali e l’introduzione delle arrhae sponsaliciae, l’abolizione della tutela mulierum e la disciplina delle donazioni nuziali non si faccia più sensibile l’influsso provinciale, mentre in altri, come l’abolizione delle sanzioni contro il celibato e il divieto dell’aruspicina, acquista maggior rilievo quello cristiano95: quello che si vuol sottolineare è che nella legislazione del IV secolo la volontà di privilegiare un unico fattore, rendendolo determinante nelle trasformazioni, non consente una valutazione equilibrata di quell’età.
Se poi ci si rivolge alla legislazione processuale non si può non rilevare come anche in essa giuochino fattori complessi che, se da un lato spingono verso una progressiva pubblicizzazione del processo, dall’altro comportano trasformazioni sensibili nel giudizio di fatto. In particolare, a ispirare le innovazioni di Costantino, accanto all’intento di rivalutazione del ruolo dell’organo giudicante e all’esigenza di garantire una più accentuata ricerca della verità, intervengono fattori diversi di carattere più propriamente sostanziale, che, in sintonia con l’affermarsi dell’assolutismo imperiale, mirano ad assicurare certezza e sicurezza dei rapporti giuridici96.
Quanto vale per la legislazione privatistica e processuale non manca di trovare rispondenza nel campo del diritto criminale e della legislazione religiosa. Riguardo alla prima, si è cercato di rintracciare nell’avvento di Costantino l’avvio della penetrazione di moventi di ispirazione cristiana nella legislazione penale, individuandoli nei concetti di moderazione, clemenza, umanità, nell’affermarsi della funzione emendatrice della pena, nel rilievo assegnato alle circostanze soggettive del reato e a discriminanti ed esimenti. In senso contrario, si è tuttavia rilevato come di influsso cristiano, su questo terreno, non si possa neppure parlare al di fuori del riconoscimento dei reati contro la religione cristiana e dell’abolizione della pena della croce97. Anzi, la sfera penale si dilata dall’epoca di Costantino in avanti e le pene si inaspriscono fino al punto che la legislazione appare crudele e inesorabile. Certo non è possibile entrare nei dettagli di una legislazione assai vasta e complessa: quel che si può rilevare è che, se da un punto di vista generale essa è in sintonia con l’esigenza nettamente repressiva che ispira tutta la legislazione postclassica in argomento, riflesso della necessità dello Stato assoluto di controllare e avocare a sé la funzione punitiva, sotto il profilo delle singole figure di reato e dei modi di repressione risponde a fattori diversi e influenze molteplici. In particolare risente di un certo rigido moralismo operante presso le classi elevate della società tardoimperiale la legislazione di Costantino in materia di reati sessuali, ma a essa non è estranea, come è stato osservato98, una qualche influenza del cristianesimo, specialmente nell’inasprimento delle pene per quelli comminate. A Costantino è da ricondurre infatti l’applicazione della pena di morte contro adulterio e ratto99, l’introduzione delle sanzioni contro il divorzio unilaterale100, la punizione con la deportazione della violazione della castità della pupilla da parte del tutore101. A esigenze di salvaguardia della sicurezza e dell’autorità dello Stato nonché alla necessità di tutelare l’ordine pubblico corrispondono viceversa l’inasprimento delle sanzioni contro il crimen vis102 e la repressione del crimen violentiae103, mentre la necessità di porre un freno all’abuso delle potestà familiari è alla base della più severa repressione del plagio104.
Se dal piano del diritto criminale ci si rivolge a quello della legislazione religiosa, risulta ancor più evidente la complessità delle logiche che ispirano il pensiero dell’imperatore. L’attenzione rivolta da Costantino come legislatore alla religione e alla Chiesa cristiana non deve infatti indurre a ritenere che egli, come imperatore, ritenesse di aver assunto un ruolo tale da consentirgli di arrogarsi competenze che sarebbero state proprie, invece, dell’autorità religiosa. Piuttosto, a spingerlo a interessarsi dei profili religiosi erano alcune fra le più tradizionali concezioni romane, che vedevano uno stretto legame tra politica e religione e facevano dipendere la salvezza e la prosperità dello Stato da quella benevolenza divina che solo la religione poteva garantire. Mentre però per gli imperatori precedenti l’assicurarsi la benevolenza divina non aveva mai comportato la necessità di affrontare il problema del rapporto tra lo Stato e una struttura ecclesiastica organizzata, l’avvento del cristianesimo poneva inevitabilmente Costantino di fronte al problema della relazione da instaurare tra Stato e Chiesa, e della entità e dei limiti delle interferenze reciproche. La soluzione che a questo problema diede l’imperatore non fu in una ‘simbiosi’ forzosa sotto l’egida dell’autorità imperiale, bensì nella costruzione di un sistema di pacifica coesistenza tra Stato e Chiesa, una sorta di sunallage che però non escludeva un’ingerenza dello Stato per mantenere e difendere l’unità della Chiesa, dalla quale l’imperatore era fermamente convinto dipendesse la stessa unità dello Stato.
Ancora una volta concezioni e motivazioni diverse concorrono a determinare il filo di una legislazione che non rinnega il proprio passato, ma si colloca rispetto a esso in una linea di ideale continuità generando un complesso intreccio di innovazioni e tradizione. In essa sarebbe vano, come è stato osservato, «cercare razionali evoluzioni e tanto meno costruzioni geometriche»105: solo la sistemazione giustinianea potrà offrirne di più efficaci.
1 Dell’ampio dibattito dottrinale sviluppatosi in proposito non possono che segnalarsi qui le posizioni principali. All’idea di una frattura affermata, sulle orme dell’ampio dibattito sviluppato dalla dottrina precedente, da M. Amelotti, Per l’interpretazione della legislazione privatistica di Diocleziano, Milano 1960; Id., Da Diocleziano a Costantino. Note in tema di costituzioni imperiali, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 27 (1961), pp. 241-323 (ora in Id., Scritti Giuridici, Torino 1996, pp. 492-574); Id., Caratteri e fattori di sviluppo del diritto privato romano nel IV secolo, in Minima epigraphica et papyrologica, 5-6 (2002-2003), pp. 35-43, e accolta, in una prima fase, da M. Sargenti, Il diritto privato nella legislazione di Costantino. Persone e famiglia, Milano 1938; N. Palazzolo, Crisi istituzionale e sistema delle fonti dai Severi a Costantino, in Società romana e impero tardoantico, I, Istituzioni ceti economie, a cura di A. Giardina, Bari 1986, pp. 57-70, in partic. 65-68 (poi in Scritti in onore di Giuseppe Auletta, III, Milano 1988, pp. 547-573), si contrappongono le impostazioni volte a sottolineare maggiormente la linea di continuità tra la legislazione dioclezianea e quella costantiniana, espresse sotto il profilo stilistico in particolare da E. Vernay, Note sur le changement de style dans les constitutions impériales de Dioclétien à Constantin, in Études d’histoire juridique offertes à Paul Fréderic Girard, Paris 1913 (rist. Aalen 1981), II, pp. 263-274; E. Volterra, Intorno ad alcune costituzioni di Costantino, in Atti dell’Accademia Nazionale Dei Lincei, 13 (1958), Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche. Rendiconti, s. 8, pp. 61-89 (ora in Id., Scritti giuridici, V, Le fonti, Napoli 1993, pp. 3-31); Id., Quelques remarques sur le style des constitutions de Costantin, in Droits de l’Antiquité et sociologie giuridique: Mélanges Henry Lévy-Bruhl, Paris 1959, pp. 325-334 (ora in Id., Scritti giuridici, V, cit., pp. 123-155), e sotto il profilo sostanziale da R. Taubenschlag, Das römische Privatrecht zur Zeit Diokletians, in Bulletin de l’Académie Polonaise des Sciences et des Lettres, Cracovie 1923, pp. 141-281 (rist. in Id., Opera minora, I, Warszawa 1959, pp. 36-177), e C. Dupont, Les constitutions de Costantin et le droit privé au début du IVe siècle. Les personnes, Lille 1937; Id., Les successions dans les constitutions de Constantin, in Iura, 15 (1964), pp. 57-116. Sottolinea il classicismo della impostazione dioclezianea, nel quadro di una più ampia indagine sulla finalità del Codice Ermogeniano, M. Varvaro, Riflessioni sullo scopo del Codice Ermogeniano, in Annali del Dipartimento di Storia del Diritto, Università di Palermo, 49 (2004), pp. 241-265. Al di fuori di questi schemi, rivolti a esaminare la legislazione dei due imperatori attraverso una serie di più ampie mediazioni, sono i contributi di J. Gaudemet, Constantin, restaurateur de l’ordre, in Studi in onore di Sirio Solazzi nel cinquantesimo anniversario del suo insegnamento universitario 1899-1948, Napoli 1948, pp. 654-701; G.G. Archi, Indirizzi e problemi del sistema contrattuale nella legislazione da Costantino a Giustiniano, ora in Id., Scritti di diritto romano, III, Milano 1981, pp. 1779-1853; Id., L’evoluzione della donazione nell’epoca postclassica, ora in Id., Scritti, II, cit., 1288-1296); F. Amarelli, Vetustas-innovatio. Un’antitesi apparente nella legislazione di Costantino, Napoli 1978, in partic. p. 33, e le più recenti impostazioni di M. Sargenti, Il diritto privato nella legislazione di Costantino, in Studi sul Tardo Impero, Padova 1986, pp. 1-109. Quanto alle tendenze greco-orientali, oltre a G. Stühff, Vulgarrecht im Kaiserrecht unter besonderer Berücksichtigung der Gesetzgebung Kostantins des Grossen, Weimar 1966, una riconsiderazione complessiva della rilevanza degli influssi provinciali sulla legislazione tardoimperiale in M. Amelotti, L. Migliardi Zingale, Reichsrecht, Volksrecht, Provinzrecht. Vecchi problemi e nuovi documenti, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 65 (1999), pp. 211-215; nota è poi l’attenzione rivolta da B. Biondi, Il diritto romano cristiano, I, Orientamento religioso della legislazione, Milano 1952, in partic. pp. 115-130, allo studio delle influenze cristiane sulla legislazione tardoantica e in particolare su quella costantiniana. Una più equilibrata valutazione infine delle peculiarità sotto il profilo normativo dell’età costantiniana in rapporto a quella dioclezianea è offerta da alcune recenti trattazioni di sintesi, quali quella di D. Mantovani, Il diritto da Augusto al Theodosianus, in E. Gabba, D. Foraboschi, E. Lo Cascio, L. Troiani, Introduzione alla storia di Roma, Milano 1999, pp. 510-534, e di L. De Giovanni, Istituzioni, scienza giuridica, codici nel mondo tardoantico. Alle radici di una nuova storia, Roma 2007, pp. 246-277.
2 Dei caratteri complessivi di questo periodo cruciale della storia di Roma, e dei diversi profili politici, ideologici e culturali implicati, una indagine attenta, sotto prospettive diverse, è condotta da G. Traina, Introduzione. Fratture e persistenze dell’ecumene romana, in Storia d’Europa e del Mediterraneo, diretta da A. Barbero, I, Il mondo antico, sez. III, L’ecumene romana, vol. VII, L’impero Tardoantico, Roma 2010, pp. 13-38; cfr. anche G.A. Cecconi, Da Diocleziano a Costantino: le nuove forme del potere, ivi, pp. 41-91; M. Casella, La formazione dell’Impero cristiano, ivi, pp. 93-152.
3 Un quadro generale delle vicende che accompagnano l’avvento al trono di Diocleziano con particolare attenzione al dato giuridico è offerto da L. De Giovanni, Istituzioni, scienza giuridica, codici nel mondo tardoantico, cit., pp. 122-127, il quale sottolinea la singolare personalità dell’imperatore dalmata «restauratore e innovatore» al tempo stresso, rilevando come con la sua ascesa al trono «un geniale personaggio appariva sulla scena politica per incidere profondamente sulla storia» attraverso decisive riforme, alcune delle quali «segnarono la storia non solo del tardo Impero romano ma anche delle età successive».
4 L’emergere prepotente della legislazione imperiale sullo sfondo dell’inaridirsi delle altre fonti del diritto è sottolineato da D. Mantovani, Il diritto da Augusto al Theodosianus, cit., pp. 521-522, che rileva come l’affermarsi dell’imperatore come unica fonte di produzione nel sistema tardoimperiale costituisca il dato nuovo che giunge a maturazione proprio con Costantino. In proposito cfr. pure N. Palazzolo, Concezione giurisprudenziale e concezione legislativa del diritto: la svolta costantiniana, in Poteri religiosi e Istituzioni: il culto di San Costantino Imperatore tra Oriente e Occidente, a cura di F. Sini, P. Onida, Torino 2003, pp. 171, 177-179; D. Johnston, Epiclassical Law, in The Cambridge Ancient History, XII, The Crisis of Empire, A.D. 193-337, ed. by A.K. Bowman, P. Garnsey, Av. Cameron, Cambridge 2005, p. 207.
5 Gaius, inst. 1,5.
6 Dig. I 4,1pr. e 1,1. La medesima formula in Inst. I 2,6 e con riferimento ad Augusto in D.C., LVI 28,2-3.
7 Fornisce una sintetica ricognizione delle trasformazioni intervenute L. Maggio, La funzione normativa imperiale, in Storia giuridica di Roma. Principato e Dominato, a cura di N. Palazzolo, Perugia 1998, pp. 246-247.
8 Cod. Theod. XVI 8,3. M. Amelotti, Da Diocleziano a Costantino. Note in tema di costituzioni imperiali, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 27 (1961), p. 276 (ora in Id., Scritti giuridici, Torino 1996, p. 527), avanza l’ipotesi che la prima lex generalis di Costantino sia in realtà (Cod. Theod. X 10,2 del 1° dicembre 312) rivolta a sanzionare l’attività dei delatori.
9 Sulle forme utilizzate nel III secolo per indicare i provvedimenti imperiali si sofferma, fornendone ampia esemplificazione, N. Palazzolo, Crisi istituzionale e sistema delle fonti, cit., pp. 63-65.
10 Così L. De Giovanni, Istituzioni, scienza giuridica, codici nel mondo tardoantico, cit., p. 248.
11 Cod. Iust. I 14,2 e 3.
12 Il principio che il rispetto delle norme generali si impone a tutti, privati e giudici, e che non è lecito derogare a esse mediante norme di favore surrettiziamente ottenute è a più riprese ribadito dalla cancelleria costantiniana. Cfr. in proposito Cod. Theod. I 2,2 del 315 e Cod. Theod. I 2,6 del 333, su cui si tratterà più avanti.
13 L’esclusiva competenza imperiale a intervenire in proposito, disciplinando l’utilizzo delle opere giurisprudenziali la cui auctoritas finiva così per dipendere dalla forza del potere normativo imperiale, è attestata da Cod. Theod. I 4,1 sulle notae di Paolo e Ulpiano a Papiniano e da Cod. Theod. I 4,2 sul valore delle Pauli Sententiae.
14 Cod. Theod. I 4,1.
15 Cfr. in proposito Gaius, inst. 1,2, per il quale: «constant autem iura populi Romani ex legibus, plebiscitis, senatusconsultis, constitutionibus principum, edictis eorum qui ius edicendi habent, responsis prudentium», e Dig. I 2,2,12 di Pomponio, su cui in particolare N. Palazzolo, L’attività normativa del principe nelle sistematiche dei giuristi classici, in La codificazione del diritto dall’antico al moderno. Incontri di studio (Napoli, gennaio-novembre 1996), Napoli 1998, pp. 263-284, in partic. 270.
16 Che la norma imperiale non avesse ormai più carattere esclusivamente interpretativo, ma fosse divenuta lo strumento idoneo a intervenire sul diritto precedente, modificandone le statuizioni anche se provenienti dalla stessa autorità imperiale, è evidenziato da numerose costituzioni di età costantiniana: Cod. Theod. XII 11,1,2 del 314; XV 14,1 del 324; Cod. Theod. XI 39,1 del 325, secondo la quale «etsi veteris iuris definitio et retro principum rescripta […] tamen nos aequitate et iustitia moti iubemus», e Cod. Theod. X 10,3 del 325, sulle quali in particolare G.G. Archi, Il problema delle fonti del diritto nel sistema romano, ora in Id., Studi sulle fonti del diritto nel tardo impero romano. Teodosio II e Giustiniano, Cagliari 19902, pp. 44-46; N. Palazzolo, Crisi istituzionale e sistema delle fonti, cit., pp. 67-68; e L. De Giovanni, Istituzioni scienza giuridica codici nel mondo tardoantico, cit., p. 253.
17 Cic., leg. III 2; per i precedenti nel pensiero greco cfr. X., Cyr. VIII 1,22.
18 Isid. Pel., Epp. III 306.
19 Them., Or. 5,2,64 B. In generale sulla concezione dell’imperatore legge vivente cfr. L. De Giovanni, Istituzioni scienza giuridica codici nel mondo tardoantico, cit., p. 255.
20 Mantovani sottolinea come la novità dell’attività normativa costantiniana non stia tanto nella forma dei provvedimenti adottati, dato il proseguire della pratica dei rescritti, quanto nell’affermazione del principio dell’unicità della fonte normativa imperiale, rilevando come, rimanendo ai rescritti l’interpretazione del ius, spettava alla legge generale il mutamento del diritto. Cfr. D. Mantovani, Il diritto da Augusto al Theodosianus, cit., pp. 521-522.
21 ILS 765: «legum domino Romanarum, iustitiae aequitatisque rectori, domitori gentium barbar(ar)um, conservatori libertatis, d.n. Fl. Valentiniano fortissimo invictissimoque principi semper Augusto». In proposito cfr. D. Mantovani, Il diritto da Augusto al Theodosianus, cit., pp. 521-522.
22 Lib., Or. 59,162. A sua volta Temistio ne ribadiva il carattere di «legge vivente», «legge divina scesa dall’alto» (Or. 5,2,64B), e affermava che «dal cielo Dio ha mandato sulla terra la regalità, perché gli uomini contro la legge immutabile avessero la possibilità di ricorrere alla legge animata e viva» (Or. 19,2,228 A).
23 Them., Or. 16,19,212D, riferito a Teodosio I.
24 Them., Or. 19,2,228.
25 Lib., Or. 59,162.
26 Chrys., Serm. 4,2 in Gen.
27 Ambr., apol. Dav. II 3,8; cfr. pure epist. 75,9.
28 Cod. Iust. I 14,4, e per la concezione di una uguale subordinazione al diritto di privati e imperatore cfr. pure Cod. Theod. X 26,2 e Cod. Theod. XI 30,68 sempre di Valentiniano III, mentre, in precedenza, analoga affermazione con riguardo al cugino Costanzo in Giuliano l’Apostata, Or. 1,45c-d e Or. 3,88d.
29 L’intervento imperiale poteva infatti trarre avvio da una iniziativa personale dello stesso sovrano.
30 Del procedimento di emanazione delle norme imperiali fornisce ragguagli J. Gaudemet, La formation du droit séculier et du droit de l’Église aux IVe et Ve siècles, Paris 19792, pp. 13-21. Ne sottolinea il rilievo ai fini della certificazione e autenticazione del testo imperiale S. Puliatti, Le costituzioni tardo antiche: diffusione e autenticazione, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 74 (2008), pp. 99-133, mentre si sofferma sugli aspetti della stesura e sul rilievo in esso assunto dai funzionari incaricati, quaestor sacri palatii e magister memoriae, L. De Giovanni, Istituzioni, scienza giuridica, codici nel mondo tardoantico, cit., p. 254 e nota 246, con ampi ragguagli bibliografici.
31 Cfr. in proposito M. Talamanca, Il diritto nelle epoche postclassiche, in Collatio iuris romani. Études dédiées à Hans Ankum à l’occasion di son 65e anniversaire, Amsterdam 1995, pp. 533-548.
32 D’altra parte il superamento della controversialità, espressione della ricchezza del dibattito giurisprudenziale, rispondeva da un lato a una più avvertita esigenza di certezza in conseguenza dell’estendersi del diritto romano a popolazioni sempre meno romanizzate, come effetto della Constitutio Antoniniana, dall’altro a uno scadimento della cultura giuridica e all’affermarsi di una concezione precettiva del diritto che spingeva a ricercare negli scritti dei giuristi un’indicazione chiara e non controversa sul diritto da applicare. Cfr. in proposito M. Talamanca, Il diritto nelle epoche postclassiche, cit., p. 541, il quale rileva che «il concentrarsi nella cancelleria imperiale dell’applicazione casistica del diritto rappresenta l’inizio di un processo verso la riduzione ad unità del ius controversum che vedrà le sue tappe principali, oltre che nell’emanazione delle constitutiones generales, nella legge delle citazioni e finalmente la sua conclusione nel Digesto giustinianeo».
33 In tal senso D. Mantovani, Il diritto da Augusto al Theodosianus, cit., p. 511, che ricorda per le forme dell’amministrazione della giustizia Cod. Iust. II 53,5; VIII 6,1; IX 35,8, e per la resistenza alle consuetudini locali Cod. Iust. V 5,2 in tema di poligamia e Mos. et Rom. legum collatio VI 4 = Cod. Iust. V 4,17 contro le nozze incestuose; mentre per la tendenza conservativa, che traspare dai pochi provvedimenti generali pervenuti per questo periodo, segnala: Cod. Iust. III 3,2 sull’obbligo dei governatori di decidere personalmente le liti, Cod. Iust. III 11,1 sul rinvio dell’udienza a fini istruttori e Cod. Iust. VII 62,6 in tema di appello.
34 Sul problema della frattura o continuità nelle forme dell’attività normativa tra Diocleziano e Costantino, sintesi delle diverse posizioni assunte dalla dottrina in proposito alla nota 1, cui si rinvia.
35 Lact., mort. pers. 48,2.
36 Amm., XXI 10,8.
37 Paneg. 10,38.
38 Eus., v.C. IV 26.
39 Cfr. M. Amelotti, Per l’interpretazione della legislazione privatistica, cit., pp. 94-107, e M. Sargenti, Il diritto privato, cit., pp. 104-109.
40 In tal senso G. Crifò, Centralità del diritto nella esperienza della Tarda antichità, in Trent’anni di studi sulla Tarda Antichità: bilanci e prospettive, Atti del Convegno internazionale (Napoli 21-23 novembre 2007), a cura di U. Criscuolo, L. De Giovanni, Napoli 2009, pp. 119-154, in partic. 137.
41 Così F. Amarelli, Vetustas-Innovatio, cit., per il quale la legislazione di Costantino «sembra innovare molto poco, al contrario, essa sembra armoniosamente inserirsi nell’evoluzione generale progressiva del diritto romano che, per la verità, era iniziata già prima di Costantino».
42 Cod. Theod. XV 14,1.
43 Cod Theod. XII 5,2.
44 Di questo tipo di intervento risultano tracce limitate: una sentenza di Costantino in Cod. Theod. VIII 15,1 e quattro pronunce rese in consistorio da Giuliano (Cod. Theod. XI 39,5); Graziano (Cod. Theod. I 22,4); Teodosio (Cod. Theod. XI 39,8 e IV 20,3).
45 L’osservazione in F. De Marini Avonzo, I rescritti nel processo del IV e V secolo, in Id., Dall’Impero cristiano al medioevo. Studi sul diritto tardo antico, Goldbach 2001, pp. 41-51.
46 Su questi inconvenienti cfr. S. Puliatti, Le costituzioni tardoantiche, cit., pp. 118-122.
47 Un quadro generale dei provvedimenti adottati in proposito a partire da Diocleziano in L. Maggio, La funzione normativa imperiale, cit., pp. 246-256, mentre di una «hostility to rescripts» in relazione a tali provvedimenti parla T.A.M. Honoré, Law in the crisis of Empire 379-455. The Theodosian Dynasty and its Quaestors. With a Palingenesia of Laws of the Dynasty, Oxford 1998, p. 192.
48 Cod. Theod. I 2,2 e I 2,3 = Cod. Iust. I 14,1 e, per la veridicità delle preces come requisito di validità, Cod. Theod. I 2,6.
49 Cod. Theod. I 1,30,6.
50 Cod. Theod. IV 16,1; XI 30,16 e 17; XI 34,1.
51 Cod. Theod. XI 30,6.
52 Cod. Theod. I 2,4.
53 Osserva in proposito D. Mantovani, Il diritto da Augusto al Theodosianus, cit., p. 517, che le misure restrittive presupponevano l’emissione di rescritti e tendevano solo a regolarne l’emanazione, mirando a salvaguardare le norme di applicazione generale da deroghe ad personam ‘carpite’ alla cancelleria imperiale. La debolezza dell’autorità imperiale nel resistere alle pressioni dei richiedenti risulta ben testimoniata, ad avviso dell’autore, dalle clausole di stile inserite nei provvedimenti generali (specie fiscali e di culto) «per proteggerli da una sorta di disapplicazione autorizzata», richiamanti l’invalidità dei rescritti emanati contro di essi, come nel caso di Cod. Theod. X 10,15 di Graziano, Valentiniano II e Teodosio I.
54 P. Col. VII 175 = FIRA III, 101, 318-328. Su di esso in particolare L. De Giovanni, Istituzioni, scienza giuridica, codici nel mondo tardoantico, cit., pp. 248-249, con bibliografia in proposito.
55 Cfr. Gaius, inst. 1,94.
56 F. De Marini Avonzo, I rescritti nel processo del IV e V secolo, cit., p. 33, e D. Mantovani, Il diritto da Augusto al Theodosianus, cit., p. 518.
57 Raccolta di pareri su vari argomenti indirizzata da un giurista a un avvocato, compilata in Occidente, probabilmente nella seconda metà del V secolo, raccogliendo materiale legislativo e giurisprudenziale.
58 I rescritti di Valentiniano I erano in totale sette, di cui quattro indirizzati a privati (9,2; 9,5-7) e tre a giudici (9,1; 9,3-4). Di essi quelli relativi alla validità dei patti (9,1-6) risultano per l’appunto emanati nello spazio di poco più di un anno intercorrente tra il 5 luglio 364 (9,6) e il 10 agosto 365 (9,1). In essi pieno è il rispetto dei criteri fissati dalla legislazione tardoimperiale, e in particolare costantiniana, per la validità dei rescritti: il giudice è invitato a controllare la veridicità delle affermazioni delle parti; sono rispettati i criteri della conformità al ius e dell’adozione prima dell’avvio del giudizio. Quanto all’ipotesi che l’autore dell’operetta li avesse ricavati da una seconda edizione del Codice Ermogeniano, predisposta a Roma tra il 375 e il 378, cfr. F. De Marini Avonzo, I rescritti nel processo del IV e V secolo, cit., p. 34.
59 Un’altra importante testimonianza della persistente pratica dell’emanazione di rescritti nell’ambito sia del diritto pubblico sia di quello privato è fornita dal rescritto di Spello, con cui Costantino avrebbe stabilito la sostanziale laicizzazione del culto imperiale: sul punto cfr. L. De Giovanni, Istituzioni, scienza giuridica, codici nel mondo tardoantico, cit., p. 248 e nota 229.
60 L’operetta compilatoria, la cui datazione risulta incerta tra inizio e fine IV secolo, costituisce una sorta di manuale di diritto comparato, contenendo un confronto tra diritto romano e antico diritto mosaico.
61 I frammenti relativi sono in Cod. Iust. III 3,2; III 11,1; VII 53,8; VII 62,6. In proposito cfr. M. Amelotti, Per l’interpretazione della legislazione privatistica, cit., p. 15 e nota 81.
62 Cod. Theod. IX 43,1pr. = Cod. Iust. IX 51,13pr., su cui cfr. J. Harries, Constantine the Lawgiver, in From the Tetrarchy to the Theodosians. Later Roman History and Culture, ed. by S. McGill, C. Sogno, E. Watts, Cambridge 2010, pp. 73-92, e D. Mantovani, Il diritto da Augusto al Theodosianus, cit., pp. 520-521.
63 Che queste considerazioni debbano indurre a valutare con cautela anche l’ipotesi di una drastica riduzione dell’attività giudiziaria imperiale in conseguenza della quasi totale assenza di sentenze imperiali nel teodosiano è sottolineato da D. Mantovani, Il diritto da Augusto al Theodosianus, cit., p. 517.
64 In tal senso M. Amelotti, Per l’interpretazione della legislazione privatistica di Diocleziano, cit., p. 28.
65 J.F. Matthews, Laying Down the Law. A Study of the Theodosian Code, New Haven-London 2000, pp. 191-192.
66 Eus., h.e. VIII 2,4-5; VIII 6,10.
67 Eus., v.C. II 24-42 e 48-60.
68 In proposito cfr. F. De Marini Avonzo, Critica testuale e studio storico del diritto. Appunti delle lezioni introduttive al corso di Esegesi delle fonti del diritto romano: anno accademico 1969-1970, Torino 19732, pp. 74-82.
69 Sulla prefettura di Ermogeniano, per la quale ulteriori conferme sono fornite da una iscrizione scoperta a Brescia nel 1986 menzionante un Aurelius Hermogenianus prefetto del pretorio al tempo in cui Costanzo Cloro era Cesare, cfr. L. De Giovanni, Istituzioni, scienza giuridica, codici nel mondo tardoantico, cit., p. 167, con ampia bibliografia sull’argomento.
70 Del nuovo rilievo riconosciuto alla figura di Ermogeniano e dell’importanza della sua opera come strumento per una migliore conoscenza dei caratteri del diritto nel momento di transizione tra l’ultima età del principato e l’avvio dell’età tardoantica forniscono attestazione gli studi recenti di R. Martini, A proposito di Ermogeniano fra grecità e romanità, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 68 (2002), pp. 561-565, e di E. Dovere, De iure. L’esordio delle Epitomi di Ermogeniano, Napoli 20052, pp. 9-14.
71 Si trattava infatti di materiali provenienti, oltre che dal giurista Paolo, anche da altri giuristi (tra cui Ulpiano), cui si aggiungevano epitomi di costituzioni imperiali del II-V secolo.
72 Così D. Mantovani, Il diritto da Augusto al Theodosianus, cit., p. 513.
73 Cod. Theod. I 4,2.
74 L’opera De muneribus civilibus liber singularis offre, nell’ampio frammento pervenuto (Dig. L 4,18), un vasto spaccato della complessa società del tardo Impero. In proposito di recente M. Felici, Riflessioni sui munera civilia di Arcadio Carisio, in Gli statuti municipali, a cura di L. Capogrossi Colognesi, E. Gabba, Pavia 2006, p. 181.
75 Dig. I 11,1, nel quale il giurista mostra chiara percezione non solo del ruolo preminente assunto dall’autorità imperiale, ma anche della posizione di vertice ormai ricoperta dalla prefettura del pretorio, testimoniata dall’inappellabilità delle sue sentenze. Sull’argomento, con particolare riferimento alla valenza impersonale del termine officium, F. Grelle, Le categorie dell’amministrazione tardo antica. Officia, munera, honores, cit., pp. 37-56 (= Diritto e società nel mondo romano, a cura di L. Fanizza, Roma 2005, pp. 221-247). Su Arcadio Carisio cfr. anche S. Corcoran, The Empire of the Tetrarchs. Imperial Pronouncements and Government AD 284-324, Oxford 20073, in partic. 90-99, e, da ultimo, D.V. Piacente, Aurelio Arcadio Carisio. Un giurista tardoantico, Bari 2012.
76 Dig. XLVIII 18,10,2, tratto dal liber singularis dedicato dal giurista alla testimonianza.
77 Dig. L 4,18,26, in cui il riferimento è a Modestino.
78 In tal senso S. Corcoran, The Empire of the Tetrarchs, cit., pp. 28-29; non si hanno viceversa notizie precise sull’autore del Gregoriano.
79 In particolare rescritti del solo periodo 293-294 nel caso dell’Ermogeniano, che è considerato come una sorta di integrazione del Gregoriano. Per la provenienza da ambienti diversi, e forse in certa misura divergenti, M.U. Sperandio, Codex Gregorianus. Origini e vicende, Napoli 2005, pp. 384-385.
80 L’ordine sarebbe stato quello dei Digesta della giurisprudenza classica con qualche variante, in particolare in relazione al diritto municipale, indotta dall’influenza delle trattazioni de officio proconsulis.
81 Al valore semantico del termine codex e più in generale alle problematiche legate alla compilazione del Codex Gregorianus ha dedicato specifica trattazione M.U. Sperandio, Il ‘Codex’ delle leggi imperiali, in Iuris vincula. Studi in onore di Mario Talamanca, VIII, Napoli 2001, pp. 97-126; Id., Codex Gregorianus. Origini e vicende, cit., pp. 32-40.
82 Non si trattava infatti di codici in senso moderno, ma di semplici raccolte di singoli provvedimenti.
83 M. Bretone, Storia del diritto romano, Roma-Bari 2000, p. 367.
84 Cfr. in proposito D. Mantovani, Il diritto da Augusto al Theodosianus, cit., p. 521, con esempi cui è possibile aggiungere per il V secolo Cod. Iust. VI 61,5 di Leone, che si richiama a un parere di Salvio Giuliano.
85 Di essi ci sono pervenute solo alcune rubriche relative a compravendita, usufrutto, dote, excusatio, revoca della donazione, legge Cincia de donis sive muneribus, cognitor e procurator.
86 I giuristi classici di cui l’anonimo compilatore ha utilizzato le opere sono Papiniano, Paolo e Ulpiano.
87 In tal senso L. De Giovanni, Istituzioni, scienza giuridica, codici nel mondo tardoantico, cit., p. 273.
88 M. Amelotti, Caratteri e fattori di sviluppo del diritto privato, cit., pp. 35-43.
89 In età classica questa forma di arrogazione era stata introdotta solo per venire incontro a casi particolari e in specie per rispondere alle esigenze degli abitanti delle province che non potevano utilizzare la forma usuale dell’adrogatio per populum, praticabile solo a Roma.
90 Con Diocleziano potevano arrogare solo se vedove cui erano premorti i figli (in solacium amissorum liberorum: Cod. Iust. VIII 47,5 del 291).
91 In questo senso Cod. Iust. III 36,16 del 293, su cui, nel quadro di una più ampia disamina del problema della sopravvivenza del formalismo testamentario in epoca postclassica, M. Amelotti, Caratteri e fattori di sviluppo del diritto privato, cit., p. 36, e Id., Il testamento romano attraverso la prassi documentale, I, Le forme classiche di testamento, Firenze 1966, pp. 240-250, con una tendenza ad accentuare il contrasto tra la ‘cautela’ di Diocleziano e la propensione ‘eversiva’ di Costantino; e M. Sargenti, Il diritto privato nella legislazione di Costantino, cit., pp. 70-87, più orientato a evidenziare una linea di continuità tra le due legislazioni.
92 Così della donna si dice che: «oportet eam usque ad acuculam capitis in domo mariti deponere et pro tam magna sui confidentia in insulam deportari».
93 Fragmenta Vaticana 249, che prescrive tre formalità: redazione scritta, traditio solenne advocata vicinitate, allegazione nei gesta.
94 Cod. Iust. VI 9,9,23 e XV 37,21.
95 In questo senso, con un riferimento ai fattori culturali determinanti (decadenza dei valori della romanitas, resistenze alla romanizzazione), L. De Giovanni, Istituzioni, scienza giuridica, codici nel mondo tardoantico, cit., pp. 258-264; più cauto nella valutazione dei fattori incidenti D. Mantovani, Il diritto da Augusto al Theodosianus, cit., p. 523.
96 In questa direzione si collocano l’estensione al convenuto dell’onere della prova nei giudizi petitori (Cod. Theod. XI 39,1) e l’accrescimento dei poteri d’indagine del giudice (Cod. Theod. II 18,1), mentre sul piano della delimitazione della discrezionalità dell’organo giudicante sta l’affermazione del principio della necessità di una pluralità dei mezzi di prova, sintetizzato nella massima unus testis nullus testis (Cod. Theod. XI 39,3 = Cod. Iust. IV 20,9 a. 334).
97 Testimonianza in Aur. Vict., Caes. 41; Soz., h.e. I 8, e per le fonti giuridiche in Dig. XLVIII 19,38,2, da confrontare con Paul., Sent. V 22,1.
98 B. Biondi, Il diritto romano cristiano, III, La famiglia, rapporti patrimoniali, diritto pubblico, Milano 1954, pp. 482-485.
99 Cod. Iust. IX 9,29,4 per l’adulterio e Cod. Theod. IX 24,1 per il ratto.
100 Cod. Theod. III 16,1.
101 Cod. Theod. IX 8,1 = Cod. Iust. IX 10,1.
102 Cod. Theod. IX 10,1.
103 Cod. Theod. IX 10,3.
104 Cod. Theod. IX 18,1. Per la castrazione cfr. Cod. Iust. IV 42,1.
105 M. Amelotti, Caratteri e fattori di sviluppo del diritto privato, cit., p. 43.