Il diritto senza lo Stato
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
In base alla concezione tradizionale, il diritto può esistere soltanto là dove sia presente uno Stato che garantisca l’osservanza delle regole da parte di tutti i consociati. In termini differenti, a partire dall’Ottocento si inzia a discutere l’ipotesi che il diritto sia presente anche nelle società tribali prive di un’organizzazione statale; le teorie avanzate al riguardo da sociologi e antropologi del diritto possono essere applicate con profitto anche al mondo antico, e permettono di individuare precise regole di tipo giuridico che precedono la formazione dello stato vero e proprio.
In base alla concezione tradizionale, che parte da Platone e giunge fino a Marx, il diritto deve essere inteso come il complesso di leggi e norme che regolano i rapporti sociali, e che tutti i consociati sono obbligati a rispettare.
Esso, pertanto, può esistere solo in presenza di uno Stato, dal momento che soltanto gli organi dello Stato sono in grado di garantire, eventualmente imponendola con la forza, l’osservanza delle regole: “il diritto senza forza è un fuoco che non brucia”, scriveva il giurista tedesco Rudolf von Jehring. Corollario di questa definizione è che il diritto non può esistere là dove non esiste uno Stato. In realtà, in tempi recenti, molti studiosi – antropologi, sociologi, storici e filosofi del diritto – si sono preoccupati di dimostrare il contrario, e di individuare le forme nelle quali il diritto si manifesta nelle popolazioni “primitive” – oggi si preferisce la definizione “di interesse etnografico” –, nelle quali la compagine statale è del tutto assente.
Tra i primi a occuparsi del problema e a elaborare una teoria in merito è stato il padre fondatore dell’antropologia del diritto, il polacco Bronislaw Malinowski il quale, dopo aver trascorso diverso tempo nelle isole Trobriand, in Melanesia, per studiare la cultura degli abitanti del luogo, i Massim, pubblica i risultati dei suoi studi in Crime and Custom in Savage Society (1926).
Punto di partenza della teoria di Malinowski è che debbano essere considerate giuridiche non soltanto le regole imposte da uno Stato, ma anche quelle concepite e applicate come obblighi vincolanti; quanto ai meccanismi capaci di far rispettare la regola, essi sono da individuare soprattutto nel principio di reciprocità e nell’esigenza di pubblicità, motivata dal desiderio di dare dimostrazione del proprio ruolo e del proprio prestigio sociale.
Per illustrare l’effettivo funzionamento di tale meccanismo, Malinowski descrive le modalità di divisione della pesca tra i Massim. Gli abitanti della costa, dopo la pesca, sono soliti dividere il pesce e distribuirlo anche a chi appartiene alle comunità site nella parte più interna del paese, dalle quali ricevono in cambio frutta e vegetali; la divisione e lo scambio avvengono attraverso un rituale ben preciso, al quale tutta la collettività è chiamata a partecipare. Ora, a fare in modo che le regole della divisione siano vincolanti sono due diversi fattori: innanzitutto l’esigenza, di carattere economico, di avere a propria disposizione cibi di genere diverso; e in secondo luogo la necessità, che si può definire psicologica, di dare dimostrazione del proprio prestigio sociale e di esibire la propria munificenza attraverso l’ostentazione e la distribuzione del cibo, simbolo di ricchezza.
Malinowski dimostra dunque che, contrariamente a quanto ai suoi tempi si credeva, nelle popolazioni primitive l’adeguamento alle regole non è affatto spontaneo, ma è al contrario indotto da specifici meccanismi coercitivi di tipo economico e psicologico.
L’indagine di tali meccanismi e del loro funzionamento è stata approfondita dall’antropologo e sociologo francese Marcel Mauss. Partendo dalle teorie di Malinowski, Mauss, in Essai sur le don (1925), individua proprio nello scambio dei doni una delle modalità più antiche e diffuse alla base delle relazioni sociali; tale scambio prevede sempre il rispetto di regole di comportamento universalmente riconosciute: chi riceve il dono, infatti, è tenuto a restituirlo; e la restituzione, benché non sia ancora un obbligo giuridico, crea comunque un obbligo morale fortemente vincolante. Le reazioni dei giuristi a questa teoria sono state, comprensibilmente, alquanto negative: in effetti, in forza di essa, la regola giuridica perde tutte le caratteristiche che permettono di distinguerla dalle altre regole sociali e, di fatto, cessa di esistere. Questo nulla deve togliere, tuttavia, all’importanza degli studi di Malinowski, che hanno stimolato l’indagine degli strumenti coercitivi capaci di assicurare il rispetto delle regole giuridiche nelle società in cui lo Stato non esiste.
Una diversa teoria generale del diritto “primitivo” è formulata dall’antropologo Edward Adamson Hoebel, ed esposta in The Law of Primitive Man (1954).
Egli parte dal presupposto che difficilmente un sistema giuridico disciplina tutti gli aspetti della vita dei suoi consociati: solo alcuni dei valori che stanno alla base delle regole di ogni società vengono selezionati e assunti come norme giuridiche. Ora, secondo Hoebel, la condizione imprescindibile perché in una società, sia essa primitiva o civilizzata, una norma si possa definire giuridica, e dunque si possa postulare l’esistenza del diritto, risiede nella legittimazione all’uso della coercizione fisica da parte di un agente socialmente autorizzato, che non è necessariamente da identificare con lo Stato (come invece riteneva Jhering).
Dunque, ciò che distingue la norma giuridica dalle altre norme sociali sta nel fatto che, quando la prima non viene rispettata o viene trasgredita, la comunità ritiene giusto attribuire a un individuo – che è di regola colui che ha subito il torto – il potere di usare la forza, o di minacciarne l’uso, per punire l’inosservanza o l’infrazione; contemporaneamente, i consociati impediscono che il trasgressore reagisca, contrattaccando, all’uso di tale forza.
La teoria di Hoebel si pone dunque a metà strada tra l’ipotesi di Malinowski – che aveva il difetto di non distinguere tra norme sociali e norme giuridiche – e la concezione tradizionale, che identifica nello Stato l’unico ente in grado di assicurare il rispetto del diritto mediante meccanismi coercitivi.
Lo studio del fenomeno giuridico nelle società tribali ancora oggi esistenti è di importanza fondamentale per lo storico del diritto antico: è infatti verosimile che gli stessi tratti che possono essere rinvenuti nelle popolazioni contemporanee non ancora contaminate dal contatto con la cultura occidentale siano stati tipici anche delle civiltà antiche, prima della loro trasformazione in organizzazioni politiche, come alcuni esempi possono chiaramente dimostrare.
Partiamo dalla Grecia, per la quale possediamo un documento letterario di straordinaria importanza, fonte per noi di informazioni preziosissime sull’organizzazione di una società pre- o proto- cittadina: i poemi omerici, databili all’VIII secolo a.C. Nella civiltà descritta nell’Iliade e nell’Odissea funziona chiaramente il meccanismo del dono spiegato da Malinowski e da Mauss: esso è operante non solo nelle numerose scene di ospitalità presenti nell’Odissea, ma anche nei celebri versi del sesto libro dell’Iliade che raccontano dell’incontro tra il troiano Glauco e il greco Diomede: in procinto di scontrarsi, i due scoprono di essere legati da un antico vincolo di ospitalità e decidono quindi di rinunciare al combattimento e di scambiarsi le armi. L’ospitalità e lo scambio dei doni regolano dunque le relazioni interfamiliari, e creano un rapporto di reciprocità che si può ben definire “pregiuridico” – la definizione è di Louis Gernet –, per il fatto che esso è destinato a evolvere in un rapporto pienamente giuridico.
Ma nella società omerica sono anche chiaramente individuabili molte delle caratteristiche attribuite da Hoebel alle civiltà “primitive”: chi subisce un torto, infatti, ha il dovere di vendicarsi, e la sua vendetta non è soltanto un atto di soddisfazione personale, ma al contrario un obbligo sociale, almeno per chi vuole mantenere il proprio onore e meritare il rispetto della collettività.
Non solo: con il tempo si stabilisce che la vendetta possa essere evitata con l’accettazione, da parte della vittima di un torto, di un prezzo di riscatto, chiamato in greco poiné. Ora, chi abbia accettato la poiné ma nonostante ciò pretenda ancora, questa volta illegittimamente, di vendicarsi, va contrastato; e la comunità è chiamata a intervenire, autorizzando il soggetto che subisce l’attacco ingiusto a usare la forza fisica per respingerlo: ecco, dunque, che egli non avrebbe più agito nel ruolo di vendicatore privato ma piuttosto in quello, descritto da Hoebel, di “agente socialmente autorizzato”.
Anche nel diritto romano più antico si trovano tracce – benché più frammentarie rispetto a quelle offerte dalle fonti greche – di un sistema in cui l’uso della forza fisica come reazione a un torto viene delegato dalla collettività alle vittime – o ai parenti delle vittime – del torto stesso. Significativo, per esempio, è il fatto che nelle leggi regie – risalenti alla fase monarchica della storia di Roma e dunque databili al VII-VI secolo a.C. – si prescrive che l’autore di un omicidio volontario sia a sua volta ucciso: le persone incaricate di eseguire il supplizio sono senza dubbio i parenti dell’ucciso.
Ancora, nelle prime leggi scritte di Roma, le XII Tavole (451/450 a.C.), si stabilisce che chi abbia provocato ad altri la lesione di un arto o la frattura di un osso sia soggetto al taglione. In entrambi i casi, dunque, la parte lesa – o il gruppo di appartenenza della vittima, in caso di omicidio – non agisce come vendicatore privato: al contrario, è legittimato dalla collettività a infliggere all’offensore lo stesso male subito, nel ben noto ruolo di “agente socialmente autorizzato”.