Il diritto
La conoscenza della struttura del sistema e degli istituti giuridici è di massima importanza per tutte le società. Questa constatazione ovvia vale naturalmente anche per quella veneziana medievale. L'essere intimo di un popolo si può comprendere solo prendendo in considerazione tutte le innumerevoli manifestazioni della vita quotidiana, determinate sia nella forma che nel contenuto, tra l'altro, anche dalle norme giuridiche, perché esse scoprono radici spesso nascoste delle concezioni e del comportamento degli individui e di tutto il popolo in una certa epoca, collegato da fili invisibili con epoche precedenti ed altri popoli. Perciò il vero significato dei tanti aspetti del diritto veneziano si può capire soltanto mediante un'indagine paziente e laboriosa sulle sue idee e concezioni, provenienti dal diritto romano, bizantino, longobardo, franco, ecc. non dimenticando però il suo contributo originale che conferisce alle norme giuridiche veneziane ed al suo sistema un'impronta certamente indelebile. E chiaro che in poche pagine non è possibile presentare il completo sistema giuridico veneziano nel suo sviluppo fino alla fine del secolo XII con la necessaria argomentazione e documentazione. Però, un breve accenno ad alcuni problemi giuridici è indispensabile per completare la visione di questo periodo della storia veneziana.
Le fonti più preziose del diritto veneziano medievale sono senz'altro i documenti che c'informano sui vari contratti (compravendite, donazioni, permute, contratti commerciali, procure, divisioni d'eredità, ecc.) e sul procedimento giuridico o non contenzioso (sentenze di giudici ed arbitri, dichiarazioni concernenti la dote, le c.d. investiture, ecc.). Purtroppo la stragrande parte di questi documenti appartiene al secolo XII (1).
Per il periodo precedente sono di grande interesse gli accordi stipulati tra Venezia ed i sovrani franchi e tedeschi.
Un'altra fonte preziosa è rappresentata dalle raccolte di norme giuridiche. Tra queste, spicca per la sua mole ed il suo contenuto giuridico quella nella quale sono annotati gli statuti dei dogi Rainerio Dandolo del 1204, Pietro Ziani del 1214 e Iacopo Tiepolo pubblicati prima del 1242 (2). D'importanza eccezionale sono soprattutto i primi 74 capitoli di questa raccolta, che secondo l'opinione di Besta contengono lo statuto veneziano più vecchio, il c.d. Parvum Statutum del doge Enrico Dandolo menzionato da Bertaldo, grande giurista veneziano del secolo XIII. Secondo Besta questo statuto fu redatto nel 1194-1195. Pitzorno invece opina che questi 74 capitoli divennero legge appena nel 1214, quando vennero inseriti nello Statuto di Pietro Ziani. Infine, Cessi li colloca nel 1204.
In ogni caso, si tratta senza alcun dubbio di una raccolta del diritto consuetudinario del secolo XII, redatto, corretto, ritoccato ed adattato alle nuove esigenze e nuove concezioni al momento dell'inserzione nel corpus delle leggi promulgate dal doge.
La seconda raccolta, Iudicia a probis iudicibus promulgata (3), abbraccia 75 capitoli e contiene i c.d. consilia sapientum.
Nel secolo XII il doge giudicava ed emanava le sentenze nel suo foro principale, la curia de proprio, insieme ai consiglieri (consiliarii), e lo stesso Bertaldo dichiara che le decisioni di questa corte erano una specie di consigli.
Da ciò risulta che le loro decisioni erano una specie di c.d. precedenti, cioè deliberazioni autorevoli e vincolanti nei confronti di casi futuri identici o almeno simili. Queste decisioni vennero poi abbreviate e conservate molto prima della loro compilazione eseguita verso la fine del secolo XII. Questo spiega perché nella raccolta si trovino gli iudicia con concezioni giuridiche non praticate verso la fine del secolo XII.
La terza raccolta, la Ratio de leggi Romana (4), contiene 38 capitoli, la maggior parte dei quali espone norme del diritto romano, ma anche alcune tratte dalla Bibbia. Molto probabilmente si tratta dell'estratto di un compendio che circolava in Italia in diverse redazioni sotto il titolo di Lex Romana, al quale, pare, i giuristi veneziani aggiunsero tutto quello che a loro sembrava d'interesse per la prassi.
La prolificazione di raccolte come la Lex Romana è una delle tante vie per le quali il diritto romano penetrava in maniera sempre più forte nell'antico diritto consuetudinario veneziano, che conosciamo male a causa della mancanza di fonti, ma che, da quanto si può intravedere dal poco che ci è rimasto, doveva basarsi principalmente sulle concezioni franco-longobarde e parzialmente su quelle bizantine. Semplificando un po', si può dire che le norme del diritto romano vi entrarono nel modo seguente: dapprima furono annotate come una specie di diritto comune (nella Lex Romana); poi furono accolte dai consiglieri e più tardi riunite (negli ludicia a probis iudicibus promulgata); infine ottennero vigore di legge, come p.es. negli Statuti del 1204, 1214 e successivi.
Del diritto veneziano prima della codificazione tiepoliana del 1242 (5) si sono occupati anni or sono alcuni studiosi che hanno posto le basi per ulteriori ricerche. Soprattutto due principali lavori di Besta sono ormai divenuti classici (6). Essi rappresentano il punto di partenza per tutti gli altri studiosi. Tra loro spicca per la profondità delle sue indagini Benvenuto Pitzorno (7). Naturalmente anche per lo storico del diritto rimangono sempre di grande interesse e spesso valide le ricerche di Roberto Cessi (8), sorte non di rado dal diretto confronto con le idee di Besta in discussioni talvolta accese ma sempre utili. Tra gli autori recenti spiccano in primo luogo i nomi di Zordan (9) e Pansolli (10)
Il diritto sulle cose, i rapporti patrimoniali tra genitori e figli e le successioni sono in tutti i sistemi giuridici legati tra loro con molti fili, ma la loro intrinseca attinenza e interdipendenza sono accertabili soprattutto nel diritto medievale, dunque anche in quello veneziano. L'evoluzione relativamente rapida nel secolo XII di questa parte del diritto - senz'altro centrale per la sua importanza ed influenza sulle altre parti del diritto può essere seguita paragonando le due raccolte testé menzionate, cioè gli Iudicia a probis iudicibus promulgata e lo Statuto di Ziani, con lo Statuto tiepoliano del 1242.
Le concezioni più antiche si trovano nello iudicium nr. 51 (11) che proibisce la diseredazione del figlio. In questa fase il diritto veneziano è concorde con gli altri sistemi giuridici dell'alto medio evo della stragrande parte d'Europa, in Italia soprattutto con il sistema del diritto longobardo: il patrimonio appartiene alla collettività familiare, in linea di principio alla famiglia ristretta, cioè al padre, alla madre, ai figli ed alle figlie non maritate. Il padre esercita sul patrimonio familiare diritti più forti di quelli di un semplice amministratore, tuttavia molto più limitati dei diritti del proprietario individuale nelle nostre concezioni moderne o nel diritto romano classico. Siccome non si tratta di patrimonio appartenente al padre, bensì a tutta la famiglia, egli in linea di principio non potrebbe diseredare il proprio figlio perché ciò significherebbe spogliarlo non dell'eredità paterna, ma della sua aliquota del patrimonio familiare.
Grazie al rafforzamento economico veneziano e sotto l'influenza delle concezioni del diritto romano che cominciavano ad influire sempre di più sul diritto veneziano ancora prima della nota rinascita del diritto romano nella seconda parte del secolo XII, si fa strada con sempre più forte insistenza l'idea che in fondo il padre è il proprietario reale del patrimonio familiare e che egli ne può di conseguenza disporre liberamente. Ma questa idea avanzò lentamente e con molte incertezze ed ambiguità che si possono intravedere anche in qualche iudicium. Lo si può constatare anche nello stesso iudicium nr. 51 che ammette con imbarazzo evidente che qui "esistono molti problemi" (12). Sull'ulteriore evoluzione nel senso di rafforzamento della concezione della proprietà individuale ci informa lo iudicium nr. 2 (13). Secondo questo iudicium, se il padre fa testamento, egli deve lasciare al figlio almeno una parte dei suoi beni. Il padre, disponendo mortis causa del suo patrimonio deve necessariamente prendere in considerazione il diritto dei figli al patrimonio familiare che deve distribuire "giustamente", il che significa che può lasciare ad uno dei figli una parte molto più grande che ad un altro tenendo conto di varie circostanze, in primo luogo del contributo lavorativo di ogni membro della comunità familiare. Questa idea ibrida, cioè che i figli hanno un diritto saldo su una parte del patrimonio familiare ma che l'ammontare della quota dipenda dalla valutazione paterna, è nota anche agli altri sistemi giuridici europei medievali. Così, in alcuni statuti dalmati al padre era permesso di preferire un figlio a danno degli altri, però senza poter oltrepassare il 10% della quota individuale del patrimonio familiare. Soltanto nello Statuto di Tiepolo del 1242 si può constatare la vittoria quasi completa delle concezioni e idee analoghe a quelle del diritto romano: il padre dispone liberamente mortis causa del patrimonio, ma deve lasciare al figlio almeno la terza parte degli immobili ai quali il figlio avrebbe diritto se il padre morisse senza testamento. Questo ricorda la legittima del diritto romano. Nondimeno la diseredazione è consentita solo "se il figlio alza la mano sul padre con l'intenzione di nuocergli". Com'è noto, il diritto giustinianeo permetteva la diseredazione in ben 14 casi tassativamente elencati. Anche una vecchissima chiosa allo Statuto tiepoliano sottolinea questa differenza tra il diritto romano e quello veneziano. La causa di questa differenza è ovvia: il diritto veneziano anche nel sistema dello Statuto tiepoliano era ancora sotto l'influenza dell'idea del patrimonio familiare, e perciò era restio ad ammettere la diseredazione, eccetto nel caso estremamente grave di maltrattamento del padre da parte del figlio.
E proprio a causa della forte presenza dell'idea del patrimonio familiare nel diritto veneziano fino alla fine del secolo XII che la divisione dei beni tra il padre ed il figlio ebbe un posto così importante nella vita delle famiglie veneziane, perché con la divisione il figlio usciva dalla comunità. In ogni caso, la divisione è la forma più frequente dell'emancipazione, come lo è anche nelle altre parti d'Europa in quei tempi. Ma non è l'unica forma. Lo iudicium nr. 9 (14) menziona anche una specifica affrancazione parziale de filiali subiectione, che ovviamente consisteva nell'ottenimento della piena capacità giuridica e quella d'agire ma senza la divisione dei beni. Un figlio così affrancato riteneva la sua quota dal patrimonio familiare. Soltanto quando il figlio si separava in maniera definitiva dal padre ottenendo anche la propria parte del patrimonio veniva considerato "estraneo" (extraneus) alla famiglia e non poteva più pretendere nulla dell'eredità paterna. In questo caso, se non vi erano altri figli, l'eredità spettava alla vedova a condizione che facesse voto di vedovanza (la c.d. uxor oiduans).
Dallo iudicium nr. 9 risulta inoltre che al momento della separazione il figlio diviso doveva assumersi la quota dei debiti paterni ovvero permettere che la sua parte venisse proporzionalmente ridotta.
Nonostante l'indubbia somiglianza e legame tra il sistema dei rapporti patrimoniali tra marito e moglie veneziano e quello romano, la dos romana differisce profondamente dalla repromissa veneziana. La differenza del termine (dos - repromissa) da sola non significa molto ma sconsiglia la troppo facile identificazione dei due istituti. Molto più importante è che nel diritto romano postclassico la stesura del documento dotalizio fosse quasi obbligatoria, anzi, l'esistenza stessa del documento sulla dote si considerava come un indizio (praesumptio) difficilmente confutabile dell'esistenza del matrimonio. Giustiniano parla appena, e solo di sfuggita, di una dote promessa oralmente. All'opposto, nelle fonti veneziane concernenti la dote non si trova un solo documento riguardante la stipulazione della dote, mentre abbondano quelli che riguardano le ulteriori sorti della dote. Così p.es. la figlia, dopo aver contratto il matrimonio dichiarava per iscritto di aver ricevuto la dote. Soprattutto dopo lo scioglimento del matrimonio, avvenuto con la morte del marito, si apriva una procedura molto complicata, nella quale si stabiliva l'ammontare della dote e molte altre circostanze legate alla stessa. Di ognuna fase di questo procedimento lungo e laborioso veniva redatto un documento. È evidente che non può essere un puro caso che siano stati conservati i documenti di tutte queste fasi e che non si menzioni proprio mai quel documento che avrebbe potuto servire da base sicura di tutto il procedimento, cioè il documento con il quale il padre si obbligava di assegnare la dote. Siamo dunque costretti a sostenere che un documento simile non esisteva.
Ma questo non è tutto. Nel diritto romano la dote si stipulava con il futuro sposo, nel diritto veneziano con la futura sposa; nel diritto romano era la donna che spesso forniva la dote, nel diritto veneziano mai. Mentre nel diritto romano, fino ai tempi di Giustiniano, la dote è almeno giuridicamente (subtilitate rerum) (15) proprietà del marito, nel diritto veneziano proprietario della repromissa è la moglie. È vero che in alcuni casi isolati il dotatore prometteva una parte della dote al marito in segno di "omaggio" (honorificentia) - qualche volta un quarto, altre volte la metà della dote - ma neppure qui si tratta di vere eccezioni alla regola fondamentale. In un documento del 1142 (16) il padre promette alla figlia la dote e aggiunge che metà della dote andrà al marito in segno di honorificentia, nondimeno, se la figlia sopravviverà al marito, lei riceverà anche questa metà. Dunque, la honorificentia a favore del marito esisteva soltanto se la donna premoriva. Ci pare che non dovrebbero sussistere dubbi sul fatto che questa clausola, che in fin dei conti non diminuiva i diritti della vedova, dipendesse da qualche circostanza specifica, p.es. dalla posizione altolocata del marito che contraeva un matrimonio con una sposa non eccessivamente attraente.
Come e perché si arrivò alla repromissa veneziana tanto diversa dalla dos romana? Pare che i primi accenni dello sviluppo futuro si possano intravedere già nel diritto giustinianeo. Giustiniano non solo è stato il primo ad ammettere la validità della promessa verbale della dote, ma egli fu anche il primo a rafforzare l'obbligo morale del padre in obbligo giuridico, senza però fissare in alcuna maniera l'ammontare della dote. Con Giustiniano la dote diventa una specie di anticipo obbligatorio dell'eredità paterna, dunque un primo appena discernibile accenno all'idea del patrimonio familiare. Questa idea è pienamente ammessa dalle leggi barbare, p. es. dall'Edictus Rothari longobardo del 643. Il relativo diritto delle figlie al patrimonio familiare si realizzava parzialmente nel diritto di richiedere al momento dell'uscita dalla casa paterna un congruo corredo in beni mobili (17).
L'oralità della repromissa veneziana e la sua denominazione diventano in tal modo chiari. Con la repromissa il padre promette alla figlia - non allo sposo! - parte del patrimonio familiare a lei appartenente e consistente in beni mobili (18).
Però, l'idea base dei rapporti patrimoniali tra coniugi nel diritto romano, la separazione dei beni della moglie da quelli del marito, a Venezia rimase intatta. Questa concezione ostacolava i Veneziani nel concedere alla donna un diritto sui beni che il marito acquisiva durante il matrimonio. Tale sistema differisce profondamente sia da quello longobardo, dove esisteva il diritto della donna su un quarto dei beni del marito, la Morgengabe, sia da quello della medietas nel territorio della Romagna, come da quello della tertia conlaborationis franca e da quello specifico dell'Istria, ecc. E vero che a Venezia esisteva un istituto giuridico chiamato grosina, ovvero pellicia vidualis, che consisteva nel diritto della vedova di ricevere dall'eredità del marito oltre la dote, anche un aumento del 10% della dote, che però non poteva superare 12 libbre. Pare che questo diritto, questa pellicia, sia di origine molto antica. Esso ci riconduce ai remoti tempi dei Veneziani antichi, quando la vedova non volendo fare voto di vedovanza lasciava la casa del marito e quando, per poter provare di non esserne stata cacciata per la sua scostumatezza, riceveva un dono simbolico, appunto la pelliccia, che in modo visibile dimostrava a tutti che la sua partenza era onorevole. Più tardi, col crescere delle ricchezze a Venezia, questo dono veniva espresso in moneta, ma rimaneva sempre modestissimo.
Il diritto veneziano conosceva un altro istituto che aveva lo scopo di aumentare le sostanze della donna, il dono del lunedì (donum diei lunae). Com'è noto, i matrimoni veneziani si attuavano la domenica e lo stesso nome dell'istituto indica che veniva effettuato dopo la prima notte, cioè dopo che il marito si era accertato dell'illibatezza della sposa. Così p.es. in un documento del 7 maggio 1194 (19) la vedova Abiabene dichiara, tra l'altro, che il marito "mi ha regalato 3 marchi d'argento quando per la prima volta si era alzato dal letto dove era giaciuto vicino a me". Secondo alcuni questo dono del lunedì è da collegare all'analogo istituto bizantino θεώϱετϱον (20) il cui ammontare era stabilito nella dodicesima parte della dote ed il quale spettava alla donna di diritto. È vero che ambedue gli istituti avevano per base un'idea comune, cioè ambedue sono un pretium virginitatis, nondimeno essi differiscono profondamente, perché il dono del lunedì non si calcolava in base alla dote, ma dipendeva dalla ricchezza e dalla magnanimità del marito. Inoltre, il marito non era obbligato a darlo. Non è impossibile che il dono del lunedì ci riconduca a tempi molto remoti, perché già a Roma si conosceva qualcosa di simile. La Morgengabe longobarda che nel suo sviluppo ulteriore divenne la promessa di un quarto delle sostanze del marito ed il θεώϱετϱον bizantino dimostrano con il loro contenuto alquanto artificioso l'influenza del legislatore, mentre a Venezia il dono del lunedì conservò il suo aspetto arcaico.
All'opposto, a Venezia non c'è traccia della donatio ante (propter) nuptias romana. Nessun documento veneziano la menziona. Il termine compare in alcune chiose allo Statuto tiepoliano del 1242 e nella c.d. Ratio de lege Romana. Quando la Ratio de lege Romana parla di "tre specie di donazioni alla donna" (21) enumera la donatio ante nuptias, la donatio propter nuptias e "il dono del lunedì in conformità agli usi veneziani". Dunque, la Ratio sottolinea che nel diritto romano esistevano due specie di donazioni, mentre in quello veneziano c'era anche una terza, il dono del lunedì fatto alla donna, che non ha niente in comune con la donatio ante (propter) nuptias romana (22).
Secondo Salvioli la procedura veneta altomedievale è in sostanza quella del diritto romano. Pare però che il diritto processuale veneziano sia molto più originale. Basta dare uno sguardo alla prima fase del procedimento. Nel diritto postclassico, nella forma datagli da Giustiniano, il procedimento comincia con il c.d. libello (23), cioè con uno scritto nel quale l'attore espone brevemente la fattispecie del suo rapporto con la controparte e chiede alla corte di notificarlo al suo avversario. L'attore inoltre s'impegna (fino a 36 solidi) con la controparte e con l'organo giudiziale chiamato exsecutor, di effettuare entro due mesi la c.d. litiscontestatio, o, - se non lo farà - di risarcire i danni all'avversario per il doppio dell'ammontare. Infine l'attore "a rischio della cancelleria giudiziaria" promette con garanti di condurre la lite fino alla fine e, in caso d'insuccesso, di versare il 10% dell'ammontare stimato della vertenza. In seguito l'exsecutor notifica il libello alla controparte che dispone di 20 giorni per decidere se entrare nella vertenza o riconoscere il contenuto della domanda o eventualmente venire ad un accomodamento. Se egli decide di entrare nella lite risponde per iscritto e promette con garanti che continuerà fino alla fine della stessa (cautio iudicio sisti).
La procedura veneziana altomedievale è costruita su basi profondamente diverse. La differenza principale è che l'attore veneziano non era obbligato a redigere il libello, anzi, non era obbligato neppure ad indurre oralmente le ragioni per le quali citava il convenuto (causam dicere) (24) fino alla prima udienza. D'altra parte anche il convenuto poteva rendersi contumace alla prima udienza senza subire alcun danno. Appena la sua seconda assenza avrà per conseguenza una pena. Se il convenuto non si presentava neanche la terza volta, la corte continuava con il procedimento in presenza dell'attore ed emetteva la sentenza in base alle prove fornite da questi. Se invece il convenuto si presentava, aveva il diritto di chiedere la proroga di 8 giorni dell'udienza (il c.d. induciam petere pro advocatore). Questo rinvio era ovviamente necessario perché, come si è detto, nella procedura veneziana il convenuto viene informato delle pretese dell'attore appena alla prima udienza. Inoltre, nel diritto veneziano non esisteva la litiscontestatio, momento cruciale del processo romano nel, quale si stabiliva il rapporto contenzioso con le relative conseguenze, importantissime nel diritto classico romano ma esistenti in una certa misura ancora nel diritto giustinianeo, e non esisteva neanche la cautio iudicio sisti romana, come non si trova traccia del giuramento delle parti sulla loro convinzione del loro diritto (il c.d. iusiurandum calumniae). Questa ultima caratteristica è davvero strana, perché non solo il diritto giustinianeo, ma anche il procedimento franco-longobardo a partire da Carlo Magno conoscevano il giuramento summenzionato.
C'è poi un altro istituto del diritto procedurale veneziano che ha suscitato sempre un grande interesse nella letteratura: il mediatore, che appare soprattutto nel procedimento di giurisdizione volontaria, cioè quando la vedova cerca di separare i propri beni dall'eredità del defunto marito. Così p.es. nel 1161 (25) il garante (fideiussor) Pietro stende un documento, una breviarii carta, concernente la dimostrazione dei di-ritti sulla dote (vadimonium comprobandi) da parte della vedova Olivera. Il garante dichiara che Dominico Orso era presente in qualità di mediatore al momento della promessa fatta dalla vedova di offrire le prove concernenti la sua dote (de vadimonio comprobandi). Troviamo il mediatore anche in documenti riguardanti il procedimento civile e pure in un certo numero di documenti riguardanti la stipulazione di mutui, la fondazione di società commerciali, la divisione di beni familiari, ecc.
Il ruolo del mediatore è enigmatico. Secondo una chiosa allo Statuto tiepoliano del 1242 (26) la vedova si presenta davanti al doge con altre due persone entro il termine di un anno ed un giorno dalla morte del marito e gli chiede il permesso di provare l'ammontare della sua dote. Una di queste persone prende la vedova per un dito "e essa si chiama mediator, mentre l'altra taglia e si chiama garante, fideiussor". Bertaldo interpreta la scena così: l'atto di prendere per il dito il mediatore simboleggia l'esistenza del matrimonio, mentre l'atto del garante, che alza la mano e "taglia", spezza il legame tra la vedova ed il mediatore simboleggiando così la separazione compiuta (27). Benché Leicht con ragione non crede che Bertaldo abbia interpretato giustamente "l'intimo significato di questo procedimento raffinato" (28), anch'egli accetta l'idea base, cioè che si tratti di "un simbolico rito di separazione". Secondo Leicht, il vadimonium comprobandi dove appare il mediatore si basa completamente su concezioni romano-bizantine. Però, non solo le fonti veneziane, ma anche il Liber Papiensis, noto commentario del diritto longobardo-franco, usa spesso il termine vadimonium (29) nel senso della vadia longobarda (una promessa solenne e formale). È inoltre noto che il diritto longobardo e quello longobardo-franco collegano sempre la vadia ai garanti nello stesso modo del diritto veneziano nel vadimonium comprobandi. Questo parla fortemente a favore della tesi che il vadimonium comprobandi è venuto non dal diritto romano, ma dall'area giuridica longobardo-franca. Lo stesso però non si può dire per il mediatore veneziano che bisogna collegare agli analoghi istituti ravennati.
Vari autori, p.es. Bethmann-Hollweg, Leicht, Sohm jr., ecc. prendono con ragione in considerazione i documenti ravennati dei secoli X e XI che provano che il procedimento ravennate altomedievale si basa per una buona parte anche sulle concezioni venute dal diritto giustinianeo. Ma è altrettanto vero che ci sono anche delle differenze essenziali. Quella basilare è appunto che - a differenza del procedimento giustinianeo dove il libello e la risposta del convenuto avevano un posto preponderante - né a Ravenna né a Venezia esistevano questi preliminari scritti dalle parti. A causa della mancanza di questo laborioso procedimento preliminare, a Ravenna ed a Venezia doveva necessariamente sparire anche il ruolo decisivo della cancelleria giudiziale, che invece rappresenta uno dei pilastri del procedimento giustinianeo dove la cancelleria, tra l'altro, correva il rischio dell'eventuale non idoneità dei garanti. A Ravenna questa responsabilità passò agli illustri personaggi presenti al placito (l'assemblea generale che gestiva l'amministrazione della giustizia). Così p.es. in un documento ravennate del 1013 (30) due illustri personaggi, ambedue figli di un duca, garantiscono per i garanti, e secondo un altro documento del 19 dicembre 975 (31) "il garante per i garanti" - per così dire - è perfino un magister militum. Questi illustri personaggi garantivano tramite un'attività che i documenti ravennati descrivono con un termine enigmatico, cioè con "levare". Forse la soluzione del vero significato di questo verbo si dovrebbe cercare nel "fide levare", cioè nel "promettere solennemente levando la mano o il dito". Poi, in un documento dell'885 c'è il termine "mittere per mano", che probabilmente bisogna interpretare come "fide mittere", cioè consegnare a propria responsabilità. Così si può collegare il procedimento ravennate, nel quale si trovano i termini fideiussor e (fide)mittere per mano con quello veneziano. Un documento veneziano del 1065 (32) infatti dice "misit illum in ipsa vadimonia" che si può interpretare come "(fide)misit in ipsa vadimonia", cioè "garantiva l'obbligazione tendendo la mano". Mentre la cancelleria giustinianea si assumeva la responsabilità per l'idoneità dei garanti già al momento della presentazione delle relazioni preliminari ed introduttive delle parti e gli illustri personaggi ravennati garantivano per i garanti alla prima udienza, a Venezia il mediatore compariva appena nel procedimento probatorio con il vadimonium comprobandi creato secondo il modello longobardo-franco. Nella sua evoluzione ulteriore il mediatore veneziano subisce un declino rapido, così che nei secoli XI e XII egli è appena qualcosa di più di un semplice testimonio.
Rimane da spiegare quell'enigmatico "tagliare con la mano" eseguito dal garante nel vadimonium comprobandi della vedova. È senz'altro un rito simbolico, ma l'interpretazione di Bertaldo, accettata anche dagli scrittori moderni, non soddisfa. È noto che Bertaldo spesso non è affidabile per le sue interpretazioni storico-giuridiche. Basti accennare alla sua spiegazione del termine wiffa che proverrebbe secondo lui dal greco. Il vero significato del taglio con la mano è molto più semplice ed è rimasto vivo fino ai nostri tempi. Si tratta dell'obbligazione assunta con la "scommessa" ( Wette, vadia) dove le due parti contraenti si stringono le mani e una terza persona "taglia" in segno di validità dell'obbligazione, e per dimostrarsi disposta a testimoniare e in un certo senso a garantire l'esistenza dell'obbligazione. Sembra che inizialmente il mediatore veneziano sia stato una persona di fiducia di ambedue le parti, soprattutto di quella della famiglia del defunto marito. È fortemente probabile che originariamente il mediatore, prendendo per mano la vedova, ricevesse a nome della famiglia del defunto marito la promessa della vedova di provare il proprio diritto alla dote ed il suo ammontare; e il garante con la sua attività, "tagliando" le mani congiunte della vedova e del mediatore, non solo testimoniasse, ma attuasse anche le formalità della vadia-vadimonium, richieste dal diritto longobardo, longobardo-franco e dall'antico diritto veneziano. È ovvio che a Venezia per molte comprensibili ragioni morali e religiose non si considerava ammissibile mettere la vedova in posizione opposta a quella degli eredi, di regola suoi stessi figli. Perciò già molto presto tutto il procedimento si trasferì dall'ambito strettamente privato alle competenze del doge e dei giudici. Così il mediatore ed il garante persero necessariamente una grande parte del loro ruolo. La formalità del taglio divenne superflua perché il procedimento si svolgeva davanti all'autorità e perché era stata introdotta la stesura dei documenti in tutte le fasi del procedimento. Secondo la chiosa allo Statuto di Tiepolo non era neppure necessario che il garante ed il mediatore fossero presenti davanti al notaio. Nondimeno per il rispetto della tradizione il "taglio" in presenza del doge rimase in pratica anche più tardi.
Pure a Venezia le obbligazioni occuparono un posto vitale nella vita quotidiana e quella giuridica. Da questo campo vastissimo è possibile prescegliere soltanto qualche problema di interesse speciale.
a) La prima questione riguarda il problema della nascita dell'obbligazione giuridicamente valida. E noto che il diritto romano creò il tipo di contratti consensuali che si stipulavano con il semplice consenso. All'opposto, i diritti altomedievali consideravano in linea di principio obbligatori solo quei contratti nei quali le parti contraenti avevano osservato alcune forme prescritte dal sistema giuridico, ovvero, nei quali almeno una delle parti avesse eseguito - o almeno iniziato ad eseguire - la sua prestazione. Lo stesso accadeva nel diritto veneziano.
Già il noto patto lotariano con i Veneziani dell'840 (33) contiene nel capitolo 23 una disposizione della massima importanza per la comprensione dei contratti obbligatori altomedievali. La disposizione parla di garanzie e di transazioni commerciali (commendationes), p.es. quando qualcuno consegna qualcosa per il commercio, ovvero si obbliga con un pegno o concede un mutuo, ecc. Dunque, il patto stabilisce chiaramente che i contratti obbligatori richiedono oltre il consenso un elemento giuridico addizionale, cioè o i garanti o la consegna della merce o la costituzione di un pegno o il trasferimento effettivo di denaro a titolo di mutuo. Non si menzionano né contratti senza forma né quelli nei quali non avviene la consegna dell'oggetto dell'obbligazione. Inoltre, nella raccolta più antica di usi giuridici veneti, il c.d. Parvum Statutum di Enrico Dandolo, non si trova una sola disposizione che si riferisca a contratti consensuali tra le parti, mentre c'è un gran numero di disposizioni che partono dal presupposto che una delle parti abbia eseguito la prestazione. Così p.es. il cap. 30 tratta le conseguenze giuridiche della "consegna per colegantiam"; nel cap. 33 si stabiliscono le conseguenze giuridiche del fatto che "un uomo aveva ricevuto [recepit> da qualcuno alcuni beni a certe condizioni [per finem>"; nel capitolo seguente si regola il rapporto che nasce quando "qualcuno riceve qualche bene senza documento e senza testimoni"; nel cap. 35 il caso "quando tu avevi dato [dedisti> qualcosa a qualcuno per rogadiam".
Anche per la compravendita, il più importante dei contratti obbligatori, si può constatare lo stesso. Non basta - come p.es. nel diritto romano classico e parzialmente in quello giustinianeo - che le parti si siano messe d'accordo sui punti essenziali. Per la validità della compravendita veneziana si richiedeva che una delle parti effettuasse la sua prestazione, p.es. che il venditore consegnasse l'oggetto venduto al compratore. Così p.es. in un documento del novembre 1155 (34) il venditore dice che "si stabilisce che a partire da oggi io ho venduto e consegnato [vendidisse et vendidi atque tradidisse et tradidi> una terra con l'obbligo di risarcire 1' [eventuale> danno in doppio". Il prezzo della terra è fissato nell'annua pensione di 30 denari veronesi. Dunque, il venditore non si accontenta dicendo che ha venduto la terra. Egli aggiunge che l'ha consegnata, ovviamente perché secondo le sue concezioni sulla validità del contratto, dalla consegna della terra dipende l'obbligo del compratore di pagare l'annuale censo. Senza l'effettiva consegna della terra la compravendita sarebbe solo un semplice obbligo morale.
È chiaro però che spesso, per una qualsiasi ragione, o l'una o l'altra delle parti non poteva effettuare la pronta prestazione al momento della stipulazione del contratto, ciononostante le parti desideravano dare al contratto la piena validità giuridica. In questo caso nella Venezia medievale le parti si servivano di formalità complesse le quali, come abbiamo potuto constatare, avevano le radici parzialmente nel diritto romano postclassico giustinianeo e parzialmente in quello longobardo-franco: il mediatore, il fideiussor, la fides, il "taglio" delle mani congiunte, ecc. Tutte queste formalità nel suo insieme si chiamavano vadia, termine di provenienza germanica (Wette), o vadimonium, forma volutamente romanizzata.
b) Tra i vari contratti un'attenzione speciale attirano il transmissum, la rogadia e la collegantia. Tramite questi contratti si può seguire l'evoluzione degli istituti giuridici nel campo del diritto commerciale e parallelamente il rafforzamento economico di Venezia durante l'alto medio evo.
Il transmissum è il più antico e il più semplice. Esso rappresenta il più elementare stadio del traffico di merci: una persona chiede a un'altra di portare, in occasione di un suo viaggio, un oggetto alla stessa destinazione. Benché la situazione giuridica, economica e commerciale sia estremamente semplice, essa contiene già un numero rilevante di problemi giuridici. La questione centrale è senz'altro quella della responsabilità, p.es. chi e in che misura è responsabile in caso di danneggiamento o perdita dell'oggetto affidato. A questo sono legati anche i quesiti della responsabilità per comportamento doloso o negligente di colui che trasporta l'oggetto. L'altro quesito, più semplice, è entro quale termine l'oggetto deve essere consegnato al destinatario, ecc.
Già i più antichi usi giuridici veneziani menzionano non solo il transmissum, ma anche un altro istituto giuridico affine, che pare si chiamasse rogadia, intesa come una "cortese richiesta" orale. Essa comprendeva una situazione già più complicata: una persona s'impegna a trasportare l'oggetto e contemporaneamente a eseguire qualcosa per un'altra (causam facere) (35). Qui si richiede che sia la stesura del contratto sia la consegna dell'oggetto si effettuino davanti a testimoni. Anche questo contratto si stipulava oralmente. Al momento della sua stipulazione si pattuivano anche altri punti, soprattutto l'eventuale premio per il lavoro eseguito. È evidente che l'oralità e la fiducia erano fattori determinanti. Con il fiorire del commercio veneziano, sotto il nome di rogadia cominciava a profilarsi un altro tipo di contratto che conteneva già tutte le caratteristiche di un vero contratto commerciale. Dalla sua fonte assume l'oralità come forma e la fiducia come base. Con questa rogadia (in Dalmazia chiamata rogancia) nel senso stretto della parola, una parte s'impegnava a vendere all'estero, in prevalenza nel Levante, la merce di un'altra persona a nome di questa, però con la consegna del ricavato a rischio del venditore. Spesso si stipulavano altri punti prendendo in considerazione le specifiche circostanze, e indubbiamente il compenso diretto o indiretto per colui che intraprendeva il viaggio. Un esempio di questo tipo di rogadia si trova nel documento dell'aprile 1135 (36), secondo il quale Pietro Morosini (Maurocenus) rilascia una quietanza al "Croato Dobromiro" che aveva preso in consegna da Pietro in Lacedemonia 2 "milliari" (circa 600 litri) d'olio per venderli in Alessandria e che si era obbligato con una promessa solenne (vadimonium) davanti ad un fideiussor ed un mediatore (37). I reciproci obblighi stabiliti in questo contratto (secundum finem que inter nos fuit) erano stati fatti oralmente senza la stesura di un documento (nullum breoiarium factum fuit). Si tratta di un contratto commerciale molto semplice, secondo il quale Dobromiro commerciava con merce di proprietà altrui. È molto probabile che il vantaggio di Dobromiro consistesse nel margine tra il prezzo dell'olio garantito a Pietro e quello realizzato in Alessandria. Questa differenza doveva coprire le spese di Dobromiro ed assicurargli un certo profitto. Nello stesso anno Dobromiro concluse un altro contratto (38) con Fulco Superanzio, a condizione che Dobromiro gli pagasse 36 perperi. Il guadagno di Dobromiro risulta chiaramente dalla differenza tra i 36 perperi contrattati ed il prezzo di vendita che Dobromiro avrebbe ottenuto. Anche questo documento era stato steso a richiesta del fideiussor e del mediatore.
I rapporti reciproci nel contratto chiamato collegantia erano più complessi. Questo è senz'altro il più diffuso tra i contratti commerciali a Venezia fino alla fine del secolo XII. La sua caratteristica principale è che ambedue le parti contraenti contribuiscono con il capitale nell'impresa comune, ma che in linea di principio una parte (lo stans, iactator) contribuisce con il doppio dell'altra (il procertans, tractator) la quale viaggia con il capitale (ovvero con la merce acquistata con i mezzi comuni) ed effettua tutte le transazioni commerciali necessarie. Il guadagno si divide a metà. Come esempio di una tale collegantia citiamo il documento dell'agosto 1130 (39) nel quale lo stans contribuisce con 200 libbre ed il procertans con 100. A quest'ultimo è permesso il commercio (laborare et procertare) con il capitale per la durata di due anni, dopo di che dovrà rendere conto del capitale e degli interessi (caput et prode). Se l'impresa fallisce, p.es. per la parziale perdita del capitale a causa di forza maggiore, il danno subito si divide proporzionalmente.
La collegantia - ad eccezione del suo nome - non è un istituto specifico veneziano. Essa appare anche altrove, p.es. a Genova, sotto il nome di societas.
In qualche rara eccezione a contribuire con il capitale era solo lo stans. A partire dalla fine del secolo XII questo però diventa regola. La più antica raccolta di usi giuridici veneziani, il c.d. Parvum Statutum, contiene una disposizione (40) alquanto strana riguardante la collegantia, secondo la quale il procertator in caso di perdita o di furto della merce deve giurare sulla veridicità delle sue asserzioni, liberandosi così dalle sue obbligazioni verso il suo creditore. Se il procertator afferma che la perdita della merce è avvenuta in seguito a naufragio, incendio o prigionia, egli deve dimostrare questa sua asserzione con testimoni e con giuramento. Anche nella chiosa (41) allo Statuto tiepoliano si menziona questa disposizione, ma, stranamente, con contenuto giuridico diametralmente opposto. Pare che solo il testo della chiosa sia logico e giuridicamente accettabile: soltanto la forza maggiore libera il procertans dalle sue obbligazioni verso lo stans, il semplice caso di perdita o furto, no.
All'opposto, il testo del Parvum Statutum conduce a conseguenze giuridiche impossibili: un commerciante disonesto avrebbe potuto appropriarsi della merce e giurare che la merce gli era stata rubata liberandosi così dalle sue obbligazioni (42).
Anche al diritto penale veneziano possiamo dare solo uno sguardo fugace. Ci accontenteremo di qualche accenno all'omicidio ed al furto.
La Promissio maleficiorum del doge Orio Malipiero del marzo 1180 (43) distingue due specie di omicidi, ma solo il primo, il più grave, è definito chiaramente. Si tratta dell'omicida che colpisce con la spada (percuciens gladio), con premeditazione e senza alcuna giuridicamente valida ragione (sine occasione cum voluntate). Si punirà l'omicida con l'impiccagione e gli eredi dell'ucciso - o in mancanza di questi i parenti più prossimi - saranno risarciti dalle sostanze dell'omicida con 50 libbre veronesi. Inoltre una forte ammenda dovrà essere pagata allo stato (noster bannus). In tutti gli altri casi l'omicida verrà punito secondo la discrezionalità dei giudici.
La differenza tra le due specie di omicidi stabilita nella Promissio non sorprende. La percussione con spada, come elemento di distinzione, è prevista anche in molti altri sistemi giuridici altomedievali, soprattutto in quelli sotto l'influenza del diritto franco. Per l'evoluzione del diritto veneziano è ancora più interessante l'altro elemento, la mancanza della ragione giuridicamente valida per l'uccisione (sine occasione). Questo ricorda un capitolare dell'imperatore franco Ludovico il Pio (44) e un altro di Lotario I (45), i quali si occupano dell'omicidio commesso in chiesa ex levi causa aut sine causa, e come esempio la glossa (46) menziona la circostanza quando uno trova la moglie che sta fornicando in chiesa. Dunque, ancora nel secolo XII il diritto veneziano è rimasto fedele all'idea spiccatamente altomedievale dell'esistenza di una ragione giuridicamente (e socialmente) ammessa per attaccare un'altra persona e perfino per ucciderla. Orio Malipiero in una maniera tipicamente altomedievale considera l'uccisione anche come un danno per la famiglia dell'ucciso e stabilisce l'ammontare del risarcimento a forfait a favore dei parenti più prossimi. Anche in questo la Promissio tiepoliana del 1232 è molto più moderna perché non ne parla più (47).
In quanto al furto, Orio Malipiero prevede pene estremamente severe. Così p.es. per il furto di un oggetto dal valore fino a 20 solidi (cioè appena una libbra) il ladro veniva fustigato e bollato e in caso di recidività semplice gli si estraevano gli occhi (oculi eruantur); per furto fino a 100 solidi il ladro veniva punito con la perdita degli occhi già al primo furto, e se il valore oltrepassava questa somma veniva impiccato. Il doge Tiepolo era nel 1232 meno severo, ma anche le sue sanzioni rimasero crudeli. Per il furto fino ad una libbra il ladro si frustava, fino a 5 libbre era anche bollato, f i n o a 10 libbre perdeva un occhio, fino a 20 anche una mano, ecc.
La graduazione delle pene, dipendente dal valore dell'oggetto rubato e dalla recidività è caratteristica di molti sistemi giuridici medievali. Qualcosa di simile si trova già nei capitolari franchi, ma a Venezia si tratta di indubbia influenza del diritto bizantino, dove, soprattutto a partire dall'Ecloga (726) sono state introdotte pene di estrema crudeltà.
Una certa influenza del diritto romano postclassico potrebbe forse essere dedotta dalla disposizione del pactum con l'imperatore Lotario, secondo il quale il risarcimento del danno provocato da furto era quadruplo.
1. Raccolti soprattutto in Antonio Baracchi, Le carte del Mille e del Millecento che si conservano nel R. Archivio notarile di Venezia, "Archivio Veneto ", 6, 1873, pp. 312-321; 7, 1874, pp. 80-98, 352-369; 8, 1874, PP. 134-153; 9, 1875, PP. 99-115, 332-351; 20, 1880, pp. 51-80, 314-330; 21, 1881, pp. 106- 120, 313-332, Documenti del commercio veneziano nei secoli XI-XIII, a cura di Raimondo Morozzo della Rocca-Antonino Lombardo, in Regesta chartarum Italiae, Roma 1940. Per i documenti più antichi rimane sempre utile consultare i Documenti relativi alla storia di Venezia anteriori al Mille, a cura di Roberto Cessi, I, Padova 19422, pp. 1-120; II, Padova 1942, pp. 1-214.
2. Enrico Besta - Riccardo Predelli, Gli statuti civili di Venezia anteriori al 1242, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., I, 1901, pp. I-117, 205-300.
3. Benvenuto Pitzorno, Le consuetudini giudiziarie veneziane anteriori al 1229, Venezia 191o, pp. 51-59.
4. Id., Il "Liber Romanae legis" della "Ratio de lege Romana", "Rivista italiana per le scienze giuridiche", 43, 1907, pp. 101-136.
5. Roberto Cessi, Gli statuti veneziani di Jacopo Tiepolo e le loro glosse, Venezia 1938, pp. 1-231, che contiene, oltre al testo dello Statuto, anche le preziose chiose, che per la loro antichità e per il loro scopo didattico e pratico sono di grande importanza.
6. Enrico Besta, Il diritto e le leggi civili di Venezia fino al dogado di Enrico Dandolo, Venezia 1900, pp. 1-193. L'altra opera è citata nella n. 2.
7. Per es. Benvenuto Pitzorno, Gli statuti civili di Venezia attribuiti a Enrico Dandolo, Perugia 1913, pp. 1-34. V. anche i saggi introduttivi nei lavori citati nelle nn. 3 e 4.
8. Per es. Roberto Cessi, Il "Parvum Statutum" di Enrico Dandolo, "Archivio Veneto", ser. V, 62, 1958, pp. 1-7.
9. Giorgio Zordan, I vari aspetti della comunione familiare di beni nella Venezia dei secoli XI-XIII, "Studi Veneziani", 8, 1966, pp. 127-194.
10. Lamberto Pansolli, La gerarchia delle fonti di diritto nella legislazione medievale veneziana, Milano 1970, pp. 1-304.
11. B. Pitzorno, Le consuetudini giudiziarie, p. 52.
12. Ibid., loc. cit.: multas sunt questiones.
13. Ibid., p. 37.
14. Ibid., p. 39.
15. Codex Iustinianus, 5.12.30 pr. (529).
16. A.S.V., SS. Cosma e Damiano, nr. 1966.
17. Anche a Venezia alla donna spettavano in primo luogo i beni mobili. Seguendo la corrente di questa idea la vedova riceveva dall'eredità del marito defunto quella parte che consisteva in mobili e nei c.d. immobili esterni (possessiones de foris) . Si cerca-va in ogni modo che gli immobili interni (possessiones de intus) rimanessero nelle mani dei maschi.
18. L'informale promissio dotis romana è un istituto profondamente diverso che non si deve collegare alla repromissa veneziana non solo perché la promissio dotis veniva fatta allo sposo, ma anche perché il termine stesso sparì già nella prima metà del seco-lo V. Inoltre, se la repromissa veneziana fosse stata una specie di promissio nel senso di pactum legitimum romano, nelle fonti veneziane si dovrebbe trovare almeno qualche traccia di una contesa giudiziale concernente l'inadempimento della promessa.
19. A. Baracchi, Le carte del Mille, " Archivio Veneto", 20, 1880, pp. 319-321, nr. CI.
20. Cf. Novella rl, cap. 2 imperatoris Constantini Porphyrogeniti, a cura di Karl Eduard Zachariae von Lingenthal, in Jus Graeco-Romanum, 3, Novellae Constitutiones, Leipzig 1857, p. 238.
21. B. Pitzorno, Il "Liber Romanae legis", pp. 127-I28.
22. Secondo E. Besta, Il diritto e le leggi civili di Venezia, p. 8o, la donatio ivi menzionata non è altro che il Bonum lunae, secondo lo stesso scrittore "la donatio propter nuptias redatta in dote si cela talfiata sotto la honorificentia dal suocero riconsegnata al genero".
23. Cf. soprattutto Artur Steinwenter, Die Anfdnge des Libelprozesses, "Studia et documenta historiae et iuris", I, 1935, pp. 132-152 ed altri suoi fondamentali lavori.
24. E. Besta-R. Predelli, Gli statuti civili di Venezia, p. 210.
25. A. Baracchi, Le carte del Mille, "Archivio Veneto", 8, 1874, pp. 136-138.
26. R. Cessi, Gli statuti veneziani, pp. 47-59 glossa vadie.
27. Jacobus Bertaldus, Splendor Venetorum Civitatisconsuetudinem, a cura di Francesco Schupfer, Bologna 1895, p. 36, col. 2.
28. Pier Silverio Leicht, I mediatores de vadimonio,
"Atti del Reale Istituto Veneto", 68, 19081909, p. 614 (pp. 613-623), ristampa in ID., Scritti vari di storia del diritto italiano, II, 2, Milano 1949, p. 156.
29. Liber legis Langobardorum Papiensis dictus, a cura di Georg H. Pertz, in M.G.H., Leges, IV, 1868, per es. p. 571 ed in molti altri luoghi.
30. Julius Ficker, Forschungen zur Reichs- und Rechtsgeschichte Italiens, IV, Innsbruck 1874, pp. 64-66.
31. Ibid., pp. 37-38.
32. Samuele Romanin, Storia documentata della Repubblica di Venezia, I, Venezia 1853, p. 401.
33. Pactum Lotharii I, a cura di Alfred Boretius-Viktor
Krause, in M.G.H., Legum sectio 11, Capitularia regum Francorum, 1980-1984 2, pp. 130-135.
34. A. Baracchi, Le carte del Mille, "Archivio Veneto", 7, 1874, pp. 360-361.
35. Cf. E. Besta - R. Predelli, Gli statuti civili di Vene-zia, p. 237 (cap. 62).
36. Documenti del commercio veneziano, p. 69, nr. 65.
37. È vero che nel documento non si trova il termine rogadia, ma tutte le circostanze suggeriscono proprio questo contratto.
38. Documenti del commercio veneziano, pp. 70-71, nr. 65. Ibid., pp. 61-62, nr. 59.
39. E. Besta-R. Predelli, Gli statuti civili di Venezia, pp. 222-223 (cap. 32).
40. R. Cessi, Gli statuti veneziani, p. 123, glossa secundum antiquam consuetudinem.
41. Diversamente E. Besta-R. Predelli, Gli statuti civili di Venezia, pp. 222-223, n. I.
42. Heinrich Kretschmayr, Geschichte von Venedig, I, Gotha 1905, pp. 494-497.
43. Liber legis Langobardorum, pp. 524-525 (cap. 6). 45- Ibid., p. 548Ibid.
44. Liber Promissionis maleficii (1232), in Novissimum Statutorum ac Venetorum Legum Volumen, Venetiis 1727, pp. 2-I0.