Il documento informatico nella giurisprudenza
La obbligatorietà del Processo civile telematico (PCT) nei giudizi di merito ha comportato la diffusione del documento informatico, ben diverso dal documento tradizionale, un genere speciale e nuovo di strumento probatorio, la cui valutazione si estende alle qualità del file e della firma. L’esame di tre casi giurisprudenziali, sul formato p7m, sull’orario di firma e sulla validità delle email, considera le difficoltà iniziali degli interpreti. Il regolamento europeo eIDAS introduce il principio di non discriminazione, destinato a mutare il quadro giuridico, pur nella sua generalità; al contempo amplia i possibili tipi di firma. Profilo problematico è la conservazione di atti e documenti.
Il documento informatico è oggi il veicolo degli atti processuali; progressivamente sostituirà il documento tradizionale cartaceo, sia fra privati che nei confronti degli enti pubblici, rispetto ai quali già ora molte comunicazioni e dichiarazioni si effettuano con firma digitale.
Al contempo le notifiche sono divenute in gran parte documenti informatici, con la p.e.c. Il problema giurisprudenziale è dunque quello di comprendere appieno il significato della firma elettronica, anche nel mutato quadro normativo, innovato dal reg. 23.7.2014, n. 910 del Parlamento e del Consiglio (reg. eIDAS) e dalle conseguenti modifiche apportate al codice dell’amministrazione digitale (c.a.d.).
Alla firma sono legate importanti qualità del file/documento, perché ne assicura, in grado più o meno elevato a seconda del tipo di firma, la immodificabilità, la provenienza e la non ripudiabilità.
È da osservare come le firme elettroniche solo approssimativamente possano essere assimilate alla firma per sottoscrizione, poiché mentre la sottoscrizione “tradizionale” evidenzia anche il definitivo appropriarsi del documento, alcune firme elettroniche possono essere apposte in automatico dagli applicativi, per identificare la provenienza, senza che ciò comporti quella volizione insita nella sottoscrizione di un documento cartaceo.
Si è ritenuto che una firma elettronica sia legata anche all’utilizzo di credenziali di accesso a caselle mail: in questo caso si può ritenere la provenienza e la esistenza di un documento, seppur non immodificabile, ma certamente l’invio di una mail può avere significati differenti dal sottoscrivere un documento.
Sarà dunque necessario un giudizio attento circa il fatto che in concreto il contenuto sia voluto e riferibile al titolare della casella.
Più precisa espressione di volontà può collegarsi alla firma digitale, per il fatto che viene apposta con un atto sicuramente volontario e non può essere apposta con procedure automatiche.
Vi sono alcuni significati tipizzati della firma digitale che la allontanano dalla firma tradizionale, nella quale la dichiarazione precede di norma la sottoscrizione:
per esempio nel PCT per il deposito delle buste contenenti atti e documenti dei difensori, oppure per l’inserimento di documenti nel registro delle imprese ed ancora un significato “tipizzato” della firma digitale è quello dell’art. 83 c.p.c., per il quale la firma digitale del difensore sulla scansione della procura cartacea ha il significato di autentica.
Con la firma digitale inizia a confrontarsi la giurisprudenza e, poiché presupposto della valutazione della firma è la produzione del file/documento, difficoltà maggiori si incontrano in Cassazione ove il processo telematico non c’è ancora e ci si basa su stampe, perpetuando un equivoco di fondo e cioè che il documento informatico possa essere intercambiabile con la sua stampa, anche se munita di certificazione.
La normativa sul PCT inizialmente partiva dalla idea di non cambiare il processo nonostante l’informatica, ma le qualità intrinseche del documento informatico, i suoi modi di trasmissione, la sua archiviazione e la condivisibilità dell’originale senza bisogno di copie, fanno apparire del tutto superata quella concezione1. Le problematiche che si pongono nel processo in conseguenza dell’utilizzo del documento informatico sono nuove e richiedono norme nuove, nonché una lettura attenta delle questioni tecnologiche, che esulano dall’esperienza del giurista classico. Per altro verso la applicazione della tecnologia al processo non può essere abbandonata ai tecnici, onde non ne risultino espropriate le ragioni della giurisdizione. Tecnologia e diritto devono reciprocamente conoscersi, il che è tipico del documento informatico e del giudizio in cui questo viene utilizzato.
Il d.P.R. 13.2.2001, n. 123 stabiliva come principio generale, all’art. 2, che «È ammessa la formazione, la comunicazione e la notificazione di atti del processo civile mediante documenti informatici». All’art. 4 ancora: «tutti gli atti e i provvedimenti del processo possono essere compiuti come documenti informatici sottoscritti con firma digitale».
Il regolamento europeo eIDAS2 all’art. 46 ha introdotto il generale principio di non discriminazione: «a un documento elettronico non sono negati gli effetti giuridici e la ammissibilità come prova in procedimenti giudiziali per il solo motivo della sua forma elettronica»3. Questa nuova previsione rende superflue le precedenti previsioni, ma è interessante notare come si sia avvertita la necessità, nel 2001, di esplicitare la possibilità di una prova non cartacea, ma sostanzialmente sostitutiva di quella, mentre oggi si riconosce la specificità del documento informatico, stabilendo che esso non possa essere discriminato. In altre parole si passa dall’ammettere un surrogato del cartaceo tradizionale a riconoscere la specificità del documento informatico e prescriverne la non discriminazione. Questa abolizione del “vassallaggio” del documento informatico rispetto a quello cartaceo corrisponde alla presa di coscienza che si tratta di uno strumento di conoscenza legale, con sue autonome caratteristiche, non discriminabile rispetto ad altre forme di documentazione e per il quale il richiamo allo “scritto” deriva solo dalla necessità di utilizzare preesistenti categorie, non sempre e non del tutto calzanti al file/documento.
Il file può essere vettore di informazioni attendibili, ma logicamente dipende dalla sua attribuibilità e stabilità, che sono assicurate dalla firma o, se questa sia carente, da caratteristiche di credibilità: ampia dunque la discrezionalità del convincimento del giudice4.
Come si è visto, sin dal 2001, requisito del documento informatico processuale è la firma digitale, confermata poi dalle regole tecniche di cui all’art. 11 d.m. 21.2.2011, n. 44, che rinvia alle specifiche tecniche di cui al provvedimento dirigenziale ex art. 34 d.m. n. 44/2011, emanato il 16 aprile 2014 e poi frequentemente aggiornato. L’art. 12, co. 1, lett. d), di questo provvedimento prescrive negli atti la firma «digitale o elettronica qualificata esterna» specificando al co. 2 che la struttura della firma è «PAdESBES (o PAdES Part 3) o CAdESBES». Con ciò si ammettono solo due tipi di firma: la prima (indicata come PAdES) è la cd. firma pdf, specifica dei file formato pdf e solo di quelli, la seconda (indicata come CAdESBES), cd. firma esterna, può essere apposta su qualsiasi tipo di file ed è caratterizzata dalla estensione p7m, mentre la prima firma, essendo interna al file, non ne modifica la estensione che sarà sempre pdf.
Da notare che nel caso delle buste veicolanti atti del PCT poiché a ciascun atto pdf deve essere associata una struttura xml, il file «datiatto.xml», recante informazioni associate all’atto, la adozione della firma PAdES per gli atti comporterà la presenza di una doppia firma, una PAdES sull’atto e una CAdES sul file xml; oltre ovviamente alla firma, necessariamente CAdES, sulla busta MIME che contiene il tutto. Questa tipizzazione reca indubbiamente una certa complicazione, ma soprattutto vincola ad una determinata tecnologia, per cui qualsiasi innovazione tecnologica comporta una modifica normativa.
Si tratta di una normazione forse di eccessivo dettaglio, soprattutto alla luce della estrema libertà introdotta dal regolamento eIDAS, che definisce la firma solo per gli effetti: la sezione 4, che si occupa delle firme, e gli allegati di rinvio, non fanno riferimento a standard esistenti, quali il PAdES o il CAdES5, ma semplicemente descrivono i requisiti6. Questa mancata identificazione di uno standard è del resto prevista dal regolamento anche per i cd. sigilli, per la validazione temporale ed anche per il servizio di recapito certificato: così la nostra p.e.c., prima uno standard solo italiano, può oggi essere definito un servizio di recapito certificato secondo il regolamento eIDAS, riconosciuto dagli Stati membri7.
La scelta europea di non definire standard di firma risponde ad una finalità di neutralità tecnologica, ma si presta a sviluppi incontrollati: cosa avverrebbe se si trovasse un nuovo strumento che soddisfacesse i requisiti della firma, ma, non rispondendo agli standard conosciuti, non potesse essere letto dai più diffusi programmi? Si arriverebbe all’assurdo di un file firmato che nessuno può leggere, o magari leggibile solo ricorrendo a costosi programmi privati.
Sorgono poi problemi di interoperabilità, proprio per la possibile moltiplicazione degli standard di firma ed alla fine si rischia che, per eccessiva neutralità di indirizzo, la interoperabilità venga fatta dal mercato, nel quale non necessariamente prevale lo strumento migliore.
Con queste problematiche, sulla firma elettronica e sul documento informatico, inizia oggi ad avere a che fare la giurisprudenza, incontrando la difficoltà del giurista a fronte della tecnologia.
Cass., 31.8.2017, n. 20672, ha rimesso alle Sezioni Unite la questione della validità della notifica di un atto non firmato, traendo la carenza di firma dal fatto che mancasse nel nome del file la estensione p7m. In particolare si trattava della notifica del controricorso al ricorrente, nella quale erano presenti tre file, tutti con estensione pdf, non p7m.
Questioni preliminari avrebbero potuto far dichiarare la inammissibilità del ricorso, come la stessa Corte argomenta, ma la mancata firma digitale sui file notificati veniva ritenuta preliminare ancora a tali questioni e rimessa alle Sezioni Unite perchè «di particolare importanza, sulla quale non risulta essersi ancora consolidato un orientamento della giurisprudenza di legittimità, nonostante investa un punto focale del PCT e l’applicazione ad esso di fondamentali principi della processualistica».
La Corte ha osservato che si trattava di file nativo informatico, non di scansione, per cui la firma attiene la «esistenza stessa dell’atto» e dunque non può giovare il precedente della Cassazione (Cass., 18.4.2016, n. 7665), che aveva ritenuto possibile la notificazione di un file con estensione doc, dunque in formato word e non firmato, per il raggungimento dello scopo. La Corte ha aggiunto che i precedenti circa la assenza di firma del difensore sulle scansioni notificate8 non potevano ritenersi pertinenti, in quanto mentre nel caso delle scansioni la firma digitale del difensore ha la funzione – tipizzata per legge – di assicurare una conformità, verificabile in concreto a prescindere dalla firma, nel caso di originale informatico la firma attiene a qualità profonde del file, alla sua stessa esistenza come documento informatico. Va osservato che la trasmissione via p.e.c., presumibilmente dalla casella del legale controricorrente a quella del legale ricorrente, assicura la provenienza della busta, non la paternità dell’atto trasmesso. La busta difatti può contenere file di qualsiasi origine, magari minute, e la sottoscrizione da parte di un cassazionista, è elemento essenziale del ricorso. Acuta appare dunque la osservazione per cui la assenza di firma sulla scansione è cosa del tutto differente rispetto ad un documento nativo informatico, che deve recare una firma la quale risponde a funzioni differenti: mentre sulla scansione – copia informatica di documento cartaceo – si tratta di garanzia di conformità, nel documento informatico la firma digitale costituisce la assunzione di paternità del significato del documento. La firma digitale rende anche immodificabile il documento, funzione però che è già assicurata dalla firma del provider p.e.c.
Non è chiaro tuttavia come la Corte possa essersi avveduta del fatto che si trattasse di documento nativo informatico, poiché il processo telematico in Cassazione non è ammesso9: l’art. 9 l. 21.1.1994, n. 53 prevede che quando, come in Cassazione, per quanto ora detto, non sia possibile depositare la ricevuta della notifica p.e.c. come documento informatico, allora sia possibile depositare una stampa della stessa, con gli allegati, attestandone la conformità all’originale ricevuta p.e.c. ai sensi dell’art. 23 comma 1, del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82».
Da questa stampa ovviamente la firma digitale non può essere vista e la ordinanza fa discendere la assenza di firma dal fatto che non vi sia la estensione p7m. Tuttavia nel processo telematico, e di conseguenza nelle notifiche, è ammessa anche la firma PAdES, tipica dei pdf, che non comporta la estensione p7m, tipica della firma CAdES.
Per altro verso la stampa della estensione p7m non è sufficiente per garantire la esistenza della firma digitale crittografica, essendo molto semplice mutare la estensione di un file10, che sarà leggibile solo risolvendo la difficoltà di identificare il formato, non più desumibile dalla estensione: difficoltà di lettura e carenza di firma non avvertibili, ovviamente, con la produzione di una stampa.
Occorre considerare che la autentica ex art.9 l. n. 53/1994, come ricordato, fa esplicito riferimento all’art. 23 c.a.d., che a sua volta disciplina la autentica della copia analogica di documenti cartacei, la stampa appunto. Una autentica apparentemente semplice, in realtà delicata per la necessità di evidenziare nella copia quelle qualità intrinseche del file che sulla carta non vengono riportate.
L’art. 23 c.a.d. attribuisce infatti alla copia analogica «la stessa efficacia probatoria dell’originale da cui sono tratte se la loro conformità all’originale in tutte le sue componenti è attestata»: queste componenti non possono che essere il formato11 e la firma, presente o meno, e se presente il tipo di firma, il certificatore e ovviamente la persona cui si riferisce. Ancor più queste indicazioni saranno necessarie in caso di moltiplicazione dei formati di firma, resa possibile dalla normativa eIDAS, sia per giudicare della esistenza del file, in relazione alla firma apposta, che per valutare la effettiva possibilità della controparte di leggere il file notificato.
Inevitabile, dunque, disporre dell’originale informatico della ricevuta di avvenuta consegna e ci si scontra oggi con un processo telematico civile realizzato parzialmente, ancora carente nel massimo grado della giurisdizione. La produzione alla Corte potrà avvenire su supporto non telematico, ma elettronico, una chiavetta o un disco, ma certo il decreto ministeriale dell’art. 16 bis d.l. n. 179/2012 sarebbe necessario anche per poter vedere atti e provvedimenti dei processi nei gradi precedenti12.
Di questo tema si occupa Trib. Roma, sez. spec. impr., 23.1.2017, n. 112713: nel giudizio veniva in questione la validità di una cessione di quote di s.r.l. recante la firma digitale del socio cedente, il quale però assumeva di non aver firmato e che vi era stato un uso illegittimo del suo dispositivo di firma.
Un primo principio pienamente condivisibile è enunciato dal Tribunale e cioè quello per cui pur parlandosi di firma non sono applicabili le categorie del disconoscimento di scrittura privata né quello per querela di falso – di cui a lungo le parti di quel processo avevano discusso, sulla scorta di un largo dibattito dottrinale – dovendosi applicare solo l’art. 21 c.a.d., che stabilisce una presunzione di riferibilità della firma al titolare del certificato utilizzato, salva prova contraria che incombe al titolare del certificato. Come si è cercato di spiegare, la firma digitale, nonostante il suo nome, non è paragonabile alla sottoscrizione cartacea: addirittura non è falsificabile perchè indica semplicemente che il documento reca quel tale certificato di firma. È caso mai l’uso del certificato ad essere abusivo, ma non si tratta di una immutatio veri, di alterazione di documento o di segno grafico.
La stessa alterazione non è possibile, perché qualsiasi modifica del file comporta una variazione della stringa di hash e dunque la perdita della firma: il documento alterato risulterà privo di firma e dunque un “non-documento”, o meglio un documento non firmato, valutabile secondo il libero apprezzamento del giudice e nel quadro delle intere risultanze processuali e la prima di queste sarà che il documento ha “perso” la firma.
Ciò significa che il documento informatico è principalmente quello firmato e in tal caso la riferibilità al titolare del certificato è questione di fatto assistita da una presunzione, nel senso che è il titolare della firma digitale a dover provare l’utilizzo improprio.
Mentre per la scrittura privata vi è onere di disconoscimento al primo atto successivo alla produzione, la prova contraria di cui all’art. 21, co. 2, c.a.d. è una prova ordinaria, e mentre il disconoscente, semplice dichiarazione, priva di valore probatorio la scrittura prodotta, la presunzione dell’art. 21 fa sì che oltre alla dichiarazione debba pervenire la prova dell’uso improprio. Infine in caso di esito dubbio della prova nella firma digitale soccombe il titolare del certificato, mentre per la scrittura il dubbio sulla autenticità rende inutilizzabile il documento.
Interessante notare che nel caso di specie il Tribunale ha ritenuto raggiunta tale prova sulla scorta di una minuziosa ricostruzione della attività del titolare della firma nel giorno della apposizione, con testimonianza che ha escluso che la mattina della firma fossero stati usati strumenti di firma, con produzione a comprova degli orari di scontrini del parcheggio, che recavano il pagamento alle ore 11.36 e poiché la firma risultava apposta alle 8.50, il Tribunale ha ritenuto abusivo l’utilizzo avvenuto nel periodo di presenza del teste. Anche la controparte ammetteva per altro che la firma era stata apposta nelle prime ore del mattino. Va posta attenzione sul fatto che la firma digitale riporta l’orario di sistema della macchina con cui viene apposta, il quale è alterabile, e solo con la apposizione della marca temporale l’orario è certificato, mediante riferimento a server esterni che attestano l’ora corrente, la quale rientra poi nei dati protetti dalla firma. Teoricamente dunque sarebbe possibile, modificando la data od ora di sistema, produrre delle firme in date diverse da quella reale.
Il documento informatico non può essere discriminato, dice il regolamento eIDAS, ma ciò non toglie che debba essere apprezzato secondo le sue caratteristiche, ben diverse dal documento cartaceo, non solo quanto alla firma, ma anche a ciò che questa significa, le sue caratteristiche, quali i metadati, i formati e quant’altro peculiare dei file.
Questo è il significato del resto dell’art. 21 c.a.d. ove stabilisce che il documento munito di firma elettronica è liberamente valutabile, «tenuto conto delle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità e immodificabilità».
Una questione discussa è se alle email si debba riconoscere un valore probatorio, nei giudizi di merito e monitori.
Il principio di non discriminazione introduce un significativo elemento per affermare il valore probatorio della posta elettronica: non è possibile escludere dalle fonti di prova le e-mail, ma occorre pur sempre tenere conto delle caratteristiche menzionate dall’ora citato art. 21 c.a.d. In tal senso la firma elettronica delle email è da qualificarsi semplice e risiede solo nella titolarità dei dati di accesso all’account di posta. La email poi non ha la caratteristica dell’immodificabilità. Sarà poi questione di fatto dipendente dal contesto processuale – documenti di conferma, abituale utilizzo dell’account, per esempio, ma anche presenza e qualità delle contestazioni – stabilire se la comunicazione sia o meno attendibile, ma certo negare valenza probatoria, alla luce del principio di non discriminazione, deve oggi considerarsi illegittimo.
È stato osservato acutamente14 come si possa individuare nel documento informatico con firma semplice un nuovo mezzo di prova, differente da quelli tradizionali e rimesso ex art. 21 c.a.d. all’apprezzamento del giudice sia quanto ai requisiti logici del file che quanto al contenuto.
In realtà ciò può essere ripetuto anche per il documento firmato, vista la differenza sostanziale fra il regime dell’art. 2702 c.c. e della scrittura privata in generale e le affermazioni dell’art. 20, co. 1-bis, e 21, co. 1, c.a.d. che prescrive la valutazione in giudizio secondo le caratteristiche del file. In effetti man mano che si pongono concretamente le problematiche di valutazione di file, assai diverse da quella dei documenti cartacei, per i quali la tecnologia non entra in gioco, i richiami e le equiparazioni normativi fra le due specie di prove appaion frutto della un tempo ritenuta interscambabilità fra file e carta.
I richiami alla scrittura privata nascono probabilmente dalla volontà di rifarsi a categorie tradizionali, ma sempre di più si appalesa la inadeguatezza di tale impostazione; infine la norma eIDAS sul valore probatorio chiarisce che, a prescindere da natura e categorie, il file, quale è l’e-mail, anche con firma semplice rileva sul piano probatorio.
Alcune pronunce già si sono occupate della questione nel giudizio contenzioso, esplicitamente ammettendo questo valore probatorio15.
Quanto ai procedimenti monitori vi è qualche difficoltà in più, poiché esplicitamente si parla negli artt. 634 e 635 c.p.c. di prova scritta, con una elencazione analitica che non contempla il documento informatico e per altro risale a prima della sua nascita. Anche la specifica equiparazione dei telegrammi privi dei requisiti dell’art. 2705 c.c., contemplata dall’art. 634 c.p.c., costituisce una eccezione che, a contrario, farebbe pensare che occorressero invece tutti i requisiti formali per i documenti non qualificabili scrittura privata ma a questa equiparati.
La soluzione data dalla giurisprudenza è contrastante16, ma tenuto conto del principio di non discriminazione pare preferibile la conclusione che propende per la utilizzabilità, perché la normativa successiva, generale e di carattere comunitario, prevale sul codice di rito – che qui mostra tutto il suo tempo – ed ha inteso non discriminare il nuovo mezzo probatorio costituito dal documento elettronico, anche rispetto alla prova scritta nel monitorio.
Vi è una piccola differenza fra la terminologia del c.a.d. e quella del regolamento eIDAS: mentre il primo parla di documento informatico, termine abituale nel nostro ordinamento, il secondo parla invece di documento elettronico.
Non pare si possa pensare ad un diverso significato: entrambe le espressioni indicano quel documento scritto nei bit e munito di più o meno forti segni di paternità e stabilità, con sue autonome caratteristiche, di cui si è cercato di dimostrare la peculiarità.
Fra queste caratteristiche vi è la “deteriorabilità” della firma, anche forte, digitale, che, come noto ha una durata fissata attualmente in tre anni: dopo la scadenza il valore è sicuramente minore, anche se, come detto, valutabile dal giudice. Il motivo della scadenza è infatti che si valuta che con grandi capacità di calcolo la chiave di firma potrebbe essere scoperta da terzi ed utilizzata impropriamente: la scadenza è una misura prudenziale contro questo tipo di “hackeraggio”. Così le ricevute delle notifiche possono perdere la firma, dell’avvocato, come del provider di posta, e così pure il duplicato dei provvedimenti giudiziari possono recare la indicazione di firma scaduta. Inoltre a distanza di tempo alcun formati – si pensi a quelli in uso negli anni Novanta – potrebbero non essere più leggibili.
Per questo è prescritta la cd. conservazione degli archivi digitali, documenti e fascicoli, sicuramente opportuna per chi volesse produrli in giudizio. Il regolamento eIDAS pare ancorare alla conservazione la nozione di documento elettronico nella definizione dell’art. 3, punto 35: «documento elettronico: qualsiasi contenuto conservato in forma elettronica, in particolare testo o registrazione sonora, visiva o audiovisiva». In realtà se si guarda al testo ufficiale inglese ove si parla di «any content stored in electronic form» si comprende che si tratta di una traduzione impropria e non si pretende una conservazione regolamentare. Sta di fatto che la conservazione non è ancora stata realizzata nel processo telematico e questo rappresenta ormai una necessità, anche per la accessibilità e validità nel tempo dei documenti processuali: le regole tecniche sulla conservazione – in particolare l’art. 14 d.P.c.m. 3.12.2013 pubblicato in G.U. 12.3.2014 – stabilivano l’obbligo di conformarsi entro tre anni.
1 Brescia, S.Liccardo, P., Processo telematico, in Enc. giur. Treccani, Roma, 2006: «il processo telematico non è un nuovo modello processuale, ma piuttosto la riscrittura/rilettura del sistema processuale in ragione delle tecnologie esistenti», e sulla stessa linea Zan, S., Processo civile telematico, in Enc. dir., Annali, I, 2007, 982 ss. Parole forse utili allora per superare prevedibili resistenze.
2 Reg. 23.7.2014 cit., concernente electronic IDentification Authentication and Signature, in vigore in Italia dal 1° luglio 2016 in forza della previsione dell’art. 52 del regolamento stesso.
3 Corrispondentemente è stato modificato, con il d.lgs. 26.8.2016, n. 179, il codice dell’amministrazione digitale (c.a.d.) di cui al d.lgs. 7.3.2005, n. 82, abolendo il principio di equivalenza, quasi sovrapponibile, secondo il quale (art. 20, co. 1) «Il documento informatico da chiunque formato, la memorizzazione su supporto informatico e la trasmissione con strumenti telematici conformi alle regole tecniche di cui all’articolo 71 sono validi e rilevanti agli effetti di legge, ai sensi delle disposizioni del presente codice».
4 Art. 20, co. 1-bis, c.a.d.: «L’idoneità del documento informatico a soddisfare il requisito della forma scritta e il suo valore probatorio sono liberamente valutabili in giudizio, in relazione alle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità e immodificabilità». Art. 21, co. 1, c.a.d.: «Il documento informatico, cui è apposta una firma elettronica, soddisfa il requisito della forma scritta e sul piano probatorio è liberamente valutabile in giudizio, tenuto conto delle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità e immodificabilità».
5 Ne esiste uno anche per i file xml, la firma XAdES, non considerata dal PCT, ma utilizzata per esempio per le fatture elettroniche. Anche questa come la firma PAdES è interna, non muta la estensione del file e consente firme di diversi soggetti su diverse parti del file, in modo che ciascuna si appropri solo di una parte del documento.
6 Questi i requisiti che deve soddisfare una firma elettronica avanzata ex art. 26 reg. eIDAS: «a) è connessa unicamente al firmatario; b) è idonea a identificare il firmatario; c) è creata mediante dati per la creazione di una firma elettronica che il firmatario può, con un elevato livello di sicurezza, utilizzare sotto il proprio esclusivo controllo; d) è collegata ai dati sottoscritti in modo da consentire l’identificazione di ogni successiva modifica di tali dati».
7 I requisiti dei servizi elettronici di recapito certificato qualificati sono previsti dall’art. 44 del reg. eIDAS.
8 Cass., 14.3.2017, n. 6518 aveva ritenuto superabile la eccezione di assenza della firma digitale sulla relata di notifica, per la provenienza dalla casella p.e.c., ma specificando che la mancata firma su procura o ricorso avrebbero differenti conseguenze.
9 Sarebbe necessario il decreto ministeriale ex art. 16 bis, co. 6, d.l. 18.10.2012, n. 179, che autorizza l’uso del deposito telematico di atti e provvedimenti, dopo che il d.m. 16.1.2016 ha autorizzato le sole comunicazioni telematiche della cancelleria della Corte.
10 I più diffusi sistemi operativi hanno la funzione “rinomina” attivabile con il tasto esterno per qualsiasi file ed è sufficiente sostituire alla estensione originale, docx o pdf o eml che sia, le tre lettere p7m e poi confermare la (insana) volontà di cambiare la estensione per ottenere la estensione p7m, ma senza la qualità della firma.
11 Che va distinto dalla estensione: il formato è il modo in cui i bit sono scritti, per essere letti con certi applicativi, mentre la estensione è una indicazione sintetica del formato riportata nel nome del file.
12 Con potenzialità di consistente risparmio di spesa per spedizione ed archiviazione dei fascicoli cartacei.
13 In giurisprudenzadelleimprese.it.
14 Bonafine, A.L., L’atto processuale telematico, Napoli, 2017, 98.
15 Trib. Milano, 18.10.2016, n. 11402, in forumiuris.it.
16 In senso positivo Trib. Genova, 24.11.2016 in lanuovaproceduracivile.it; in senso negativo Trib. Roma, 27.5.2010, in Dir. inf., 2011, 518, con nota di Barbaro, S., Un decreto ingiuntivo fondato sulla produzione di una mail: la posta elettronica non supera il vaglio del Tribunale di Roma.