Il dolo eventuale alla luce del caso ThyssenKrupp
Il presente contributo rappresenta un primo commento alla sentenza delle Sezioni Unite concernente la tragica vicenda dell’incendio dell’acciaieria ThyssenKrupp di Torino. Con la sentenza in esame, la Corte di cassazione affronta direttamente il delicato tema della distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente, uno dei temi più problematici e dibattuti del diritto penale, affermando la sussistenza della sola responsabilità a titolo di colpa, aggravata dalla previsione dell’evento, in capo a tutti gli imputati. In motivazione, la Suprema Corte, oltre a prendere posizione a favore della tesi che definisce il dolo eventuale come il risultato di un bilanciamento, fornisce una serie di indicatori utili per la prova della sussistenza del dolo eventuale e, per la sua distinzione con l’affine figura della colpa cosciente. Il percorso argomentativo seguito dalla Suprema Corte, tuttavia, pur condivisibile nell’esito, non si sottrae, a nostro avviso, ad alcune significative obiezioni.
Appena due anni fa, su questa stessa Opera si denunciava la tendenza giurisprudenziale a «una estensione dei confini della categoria – da sempre problematica – del dolo eventuale a spese di quella confinante della colpa cosciente (o con previsione)», con particolare riferimento a due grandi macro aree d’illecito tradizionalmente considerate patria d’elezione della responsabilità colposa: «incidenti automobilistici caratterizzati da una macroscopica violazione delle norme cautelari» e «condotte del datore di lavoro inosservanti delle cautele doverose a tutela dell’incolumità fisica dei lavoratori e dei terzi»1.
Per vero, l’applicazione “disinvolta” della categoria del dolo eventuale da parte della giurisprudenza maggioritaria sembrava, già allora, travalicare gli ambiti, quantunque certamente emblematici, poc’anzi segnalati, finendo per attingere trasversalmente i più vari “quadri di vita”: dalla trasmissione di HIV mediante rapporti sessuali non protetti all’uso improprio di armi da fuoco, alla responsabilità medica, e via dicendo2.
Dal punto di vista strettamente tecnico-giuridico, i fattori che hanno consentito un’applicazione estensiva della figura del dolo eventuale ci paiono essenzialmente due.
Innanzitutto, a nostro avviso, il problema origina per la gran parte dall’accoglimento, da parte della giurisprudenza maggioritaria, di una nozione di dolo eventuale estremamente ampia, secondo la quale il dolo eventuale sussiste ogniqualvolta l’agente si rappresenta un evento lesivo quale possibile conseguenza della propria condotta e, ciò nonostante, non si trattiene dall’agire, così accettando il rischio della verificazione dello stesso; e, correlativamente, dalla costruzione di una nozione di colpa cosciente estremamente ristretta, per la quale questa sussiste soltanto qualora l’agente, superando l’iniziale rappresentazione dell’evento, ne esclude la possibilità di verificazione, giungendo così alla convinzione che questo «non abbia a verificarsi»3. Considerato che, secondo questa impostazione, la differenza tra le due figure di colpevolezza in questione viene rintracciata nella sola sussistenza della previsione dell’evento come possibile conseguenza della propria azione – necessaria nel dolo eventuale ed esclusa o, comunque, “superata” nella colpa cosciente – ne deriva logicamente che «ciò che è necessario e sufficiente
per ritenere la sussistenza del dolo eventuale è la rappresentazione positiva, nell’agente, anche della sola possibilità positiva del prodursi di un fatto di reato lesivo di un interesse tutelato dal diritto»4. In questa ricostruzione, il grande assente è proprio l’elemento volitivo: seppure formalmente sempre individuato nell’accettazione del rischio del verificarsi dell’evento, esso finisce per identificarsi nella mera decisione di agire senza avere raggiunto la sicurezza soggettiva che l’evento non si sarebbe verificato; sicché il mero dubbio in ordine alla possibile verificazione dell’evento costituisce l’elemento necessario e sufficiente ad integrare il dolo (eventuale).
Immediata conseguenza dell’accoglimento dell’impostazione appena ricostruita è la radicale semplificazione dell’onere probatorio per la pubblica accusa, la quale viene sollevata dalla difficile dimostrazione della sussistenza della componente volitiva del dolo eventuale; di qui, com’è agevole immaginare, la naturale espansione della categoria.
Secondo fattore non trascurabile a cui imputare l’applicazione estensiva della figura del dolo eventuale può essere rintracciato nell’incerta formulazione e applicazione, da parte della giurisprudenza, della principale tesi alternativa a quella maggioritaria, secondo la quale, per la sussistenza del dolo eventuale, non è sufficiente che l’agente si sia rappresentato un evento come possibile conseguenza accessoria della propria condotta e abbia deciso di agire nonostante quella rappresentazione, ma è altresì necessario che la sua decisione di agire possa essere ricondotta a un consapevole bilanciamento, ossia a una vera e propria deliberazione,mediante la quale l’agente, dopo aver posto coscientemente in relazione il raggiungimento dei propri scopi con il sacrificio eventuale di beni giuridici altrui, abbia accettato il rischio della verificazione del fatto quale prezzo per la soddisfazione dei propri desiderata5.
Un’ottica, quella della tesi minoritaria, in cui, evidentemente, il dubbio in ordine alla possibile verificazione di un evento lesivo non è sufficiente ad integrare il dolo eventuale, e la prova richiesta per la condanna a titolo di dolo eventuale risulta più complessa per la pubblica accusa, richiedendosi la dimostrazione – naturalmente, per il tramite di massime di esperienza – dell’effettivo svolgimento, da parte dell’agente, dell’accennato bilanciamento, nel quale la teoria in esame rintraccia l’elemento volitivo del dolo eventuale; prova tanto più rinforzata in quanto, secondo la giurisprudenza minoritaria in analisi, sarebbe anche necessaria la dimostrazione del fatto che l’agente, se si fosse rappresentato come certo – e non soltanto come possibile – l’evento lesivo di beni giuridici altrui connesso alla propria condotta, avrebbe deciso di agire comunque (cd. prima formula di Frank).
Tale tesi, tuttavia, sebbene in sé più garantista, sortiva soltanto parzialmente l’effetto di delimitare l’espansione del dolo eventuale: la tesi in esame, infatti, viene spesso formulata in giurisprudenza richiamando una definizione di colpa cosciente – secondo la quale la colpa cosciente è caratterizzata dalla «convinzione» o, con locuzione assolutamente intercambiabile, dalla «ragionevole speranza» che l’evento non si verificherà – che sostanzialmente ricalca quella invalsa nella teoria maggioritaria6, con ciò contribuendo a confondere ulteriormente le acque di un fiume già piuttosto torbido.
Ma non solo. Pur all’interno del filone minoritario poc’anzi descritto, le premesse poste dalla tesi che ricostruisce il dolo eventuale in chiave marcatamente volontaristica, come il risultato di un bilanciamento compiuto dall’agente, finivano spesso per essere tradite dalla stessa giurisprudenza che dichiarava la propria adesione alla tesi in esame, pur prescindendo quasi sistematicamente, in sede motivazionale, dalla verifica imposta dalla prima formula di Frank.
In questo quadro di incertezza intorno alla nozione e all’applicazione del dolo eventuale, assumeva nel frattempo ruolo di vero e proprio leading case – in ragione della mole di attenzioni dottrinali e mediatiche ricevuta – il processo scaturito dal tragico incendio dello stabilimento torinese di proprietà della multinazionale tedesca ThyssenKrupp, giunto ora all’attenzione delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, che hanno così avuto modo di esprimersi in ordine alla «esatta linea di confine tra dolo eventuale e colpa cosciente»7.
Ci pare quindi opportuno, prima di proseguire oltre, ripercorrere brevemente il fatto e le sentenze che hanno deciso i gradi di merito.
1.1 Il fatto e la sentenza di primo grado
Nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007, presso l’acciaieria ThyssenKrupp di Torino, si sviluppava un focolaio di incendio, dovuto allo sfregare di un nastro trasportatore che scorreva lungo la linea di decappaggio e ricottura “APL5” dello stabilimento. Le fiamme, inizialmente modeste, traevano immediatamente linfa dagli olii di produzione e dalla sporcizia giacente sul pavimento e, prima che i lavoratori riuscissero ad estinguerle mediante estintori portatili, determinavano l’improvvisa rottura di tubi contenenti olio idraulico in pressione, il quale, diffondendosi nell’aria, esplodeva violentemente in una enorme nube incendiaria, cagionando la morte di sette operai e un disastroso incendio, caratterizzato da vampate alte fino a cinque metri e particolarmente difficili da domare.
In conseguenza dei drammatici eventi appena descritti, la pubblica accusa richiedeva il rinvio a giudizio dell’amministratore delegato, degli altri componenti del comitato esecutivo del consiglio di amministrazione della società esercente lo stabilimento di Torino, del direttore dello stesso, nonché di due dirigenti competenti in materia di sicurezza sul lavoro. Tuttavia, mentre all’a.d. le morti venivano imputate a titolo di dolo eventuale, agli altri garanti i fatti erano addebitati a titolo di colpa, sia pure aggravata dalla previsione dell’evento.
Precisamente, le condotte delle quali l’amministratore delegato era chiamato a rispondere consistevano, da un lato, nella «decisione di posticipare ... gli investimenti antincendio per lo stabilimento di Torino ... e l’investimento per l’adeguamento dell’APL5 ... ad epoca successiva al suo trasferimento da Torino a Terni ..., e ciò nonostante la linea APL5 fosse ancora in piena attività ..., per giunta nell’ambito di uno stabilimento quale quello di Torino in crescenti condizioni di abbandono e insicurezza»8, e dall’altro nella mancata adozione di «una adeguata e completa valutazione del rischio incendio» e di un «sistema automatico di rivelazione e spegnimento incendi»;mentre agli altri imputati veniva contestata l’omessa segnalazione, nell’esercizio delle rispettive funzioni, dell’esigenza di adottare «le necessarie misure ... di prevenzione e protezione degli incendi presso lo stabilimento di Torino», malgrado la conoscenza della loro necessità ai fini della tutela della vita e dell’incolumità fisica dei lavoratori.
La ricostruzione accusatoria veniva integralmente accolta dalla sezione seconda della Corte di Assise di Torino, la quale, l’11.4.2011, condannava l’a.d. della società ad una pena di 16 anni e 6 mesi di reclusione per il delitto di omicidio volontario (nonché per i delitti di incendio doloso e omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro), commesso con dolo eventuale, e gli altri imputati a pene comprese tra 13 anni e 6 mesi di reclusione e 10 anni e 10mesi di reclusione, per i meno gravi delitti di omicidio colposo, incendio colposo – entrambi aggravati dalla previsione dell’evento – e omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro.
Nel motivare in ordine all’imputazione soggettiva dei fatti in giudizio, la Corte torinese prendeva le mosse dalla tesi minoritaria, succintamente ricostruita nel paragrafo precedente, e procedeva poi a differenziare la posizione dell’amministratore delegato da quella degli altri imputati sulla base di un duplice ordine di argomenti.
Innanzitutto, nonostante la presenza di numerosi elementi che consentivano – a parere dei giudici di primo grado – di affermare che tutti gli imputati si fossero rappresentati «la concreta possibilità del verificarsi di un incendio e di un infortunio anche mortale sulla Linea 5 di Torino» e che, parimenti, tutti «gli imputati sperassero, nonostante la prevedibilità, la previsione e la rappresentazione ... dell’evento, che non capitasse “nulla”», solo la speranza nella non verificazione dell’evento degli imputati diversi dall’a.d. avrebbe posseduto il carattere della «ragionevolezza», necessario, secondo la Corte torinese, per la sussistenza dell’«elemento soggettivo della colpa cosciente ». Ciò in quanto, mentre i garanti derivati – i dirigenti e i membri del comitato esecutivo – avrebbero potuto ragionevolmente confidare nel fatto che i propri diretti superiori gerarchici – in definitiva: l’a.d. – «in qualche modo evitassero il verificarsi dell’evento previsto», l’Amministratore delegato non poteva confidare in «alcun fattore, alcun elemento ... in forza del quale egli potesse “ragionevolmente” sperare che non sarebbe capitato nulla».
Inoltre, nel decidere «di non investire nulla a Torino in “fire prevention”» – decisione a sua volta derivante dalla programmata scelta di chiudere lo stabilimento e spostare la APL5 a Terni –, l’a.d. avrebbe svolto una vera e propria «deliberazione», con la quale avrebbe subordinato il bene della «incolumità dei lavoratori nello stabilimento di Torino» a quello degli «obiettivi economici aziendali». Infatti, l’a.d., «persona preparata, autorevole, determinata, competente, scrupolosa», avrebbe colto perfettamente l’irrazionalità, dal punto di vista strettamente economico, della decisione di investire in sicurezza in una linea – l’APL5 di Torino – in procinto di essere trasferita a Terni e, piuttosto che compiere un investimento destinato, evidentemente, a non fruttare (o, addirittura, a sospendere la produzione a Torino in attesa del trasferimento e della messa in sicurezza della linea di ricottura e decappaggio a Terni), avrebbe deciso per il sacrificio eventuale dell’incolumità fisica dei lavoratori: in ciò, i giudici di merito ravvisavano «l’accettazione, sia pure in forma eventuale, del danno che costituisce il prezzo (eventuale) da pagare per il raggiungimento di un determinato risultato», e dunque, il dolo eventuale di omicidio.
Appena il caso di notare, infine, come i giudici di primo grado tacevano sull’applicazione della prima formula di Frank alla vicenda in esame, partecipando così del più comune dei difetti – già accennati nel paragrafo precedente – dell’orientamento minoritario, nel quale la sentenza in esame pur esplicitamente si collocava.
1.2 La sentenza d’appello
In parziale accoglimento dell’impugnazione proposta dalle difese degli imputati, la Corte d’Assise di appello di Torino, in data 28.2.2013, riqualificava i reati oggetto della condanna dell’a.d. nei meno gravi delitti di omicidio colposo e incendio colposo, aggravati dalla previsione dell’evento, rideterminando nel contempo le pene inflitte agli altri imputati e confermando nel resto la sentenza appellata.
Nel disattendere le conclusioni dei giudici di prime cure con riferimento all’imputazione soggettiva dei fatti in oggetto in capo all’a.d., i giudici d’appello muovevano dalle medesime premesse in punto di diritto accolte nella sentenza di primo grado, ricostruendo la nozione di dolo eventuale e colpa cosciente a partire dall’orientamento minoritario, sintetizzato in apertura del presente contributo;ma, al contempo, rigettando entrambi gli argomenti posti a fondamento della condanna del garante primario a titolo di dolo eventuale.
Da un lato, infatti, la Corte d’Assise di appello contestava la diversa valutazione, su una scala di «ragionevolezza», della speranza posseduta dall’a.d., rispetto a quella degli altri imputati. Secondo il collegio d’appello, infatti, sebbene la decisione di posticipare le somme impegnate per la messa in sicurezza degli impianti fosse certamente attribuibile all’a.d., nessuno degli altri imputati avrebbe potuto «ragionevolmente sperare» che quest’ultimo «cambiasse all’improvviso indirizzo e ponesse mano da solo ed efficacemente alla realizzazione delle protezioni» e, anche se gli imputati avessero avuto tale speranza, questa non sarebbe apparsa «certo più ragionevole di quella ricostruita in capo all’a.d.»9.
Altre, ad avviso dei giudici d’appello, erano le ragioni che consentivano di ritenere che gli imputati – tutti gli imputati – avessero agito «nella convinzione che gli eventi sarebbero stati evitati»; in particolare, il fatto che la «realtà di fabbrica vede[sse] giornalmente il verificarsi di focolai che ... venivano spenti pressoché costantemente dagli operai», prima che questi trasmodassero in «incendi diffusivi in senso tecnico»: «su questo ... gli ... imputati confidava[no], ritenendo che si sarebbero evitati incendi disastrosi», e proprio in questo erroneo confidare che nulla di grave si sarebbe verificato si sostanzierebbe il rimprovero a titolo di «colpa ... cosciente a carico degli imputati».
Dall’altro lato, poi, i giudici dell’impugnazione notavano come proprio la «verifica ipotetica» in ordine al comportamento che avrebbe tenuto l’imputato nel caso in cui si fosse rappresentato come certo il verificarsi dell’incendio – verifica imposta dalla prima formula di Frank e omessa dalla sentenza di primo grado – avrebbe dovuto orientare verso una soluzione «nettamente negativa» in ordine alla sussistenza del dolo eventuale. Mettendo a confronto, infatti, «l’obiettivo perseguito» dall’a.d. – «il risparmio (o meglio, l’accantonamento) dei fondi già stanziati per Torino» – con «l’evento di danno non voluto, ma previsto come possibile» – «un incendio diffusivo e di difficile spegnimento, che mette a concreto repentaglio la vita di un numero indefinito di persone e la struttura stessa dell’impianto» – la Corte d’Assise di appello riteneva «impensabile» che l’a.d. avesse subordinato il bene della incolumità dei lavoratori nello stabilimento di Torino a quello degli obiettivi economici aziendali. E ciò in quanto, «accettando il verificarsi degli eventi», l’a.d. «non solo non avrebbe fatto prevalere l’obiettivo» di risparmio perseguito – quantificato dai giudici di prime cure «nella cifra di 800.000 euro» – «ma avrebbe provocato un danno di tali dimensioni da annullarlo e soverchiarlo totalmente»: si pensi, «anche a voler estromettere qualunque considerazione circa le remore morali davanti alla previsione della morte dei propri dipendenti», alla «distruzione degli impianti», al «blocco della produzione», al «risarcimento dei danni per le morti causate»; ai danni «di immagine ... rilevantissimi».
Si sarebbe trattato, insomma, non di un caso «in cui l’evento previsto è raffigurato come un prezzo da pagare per il raggiungimento dell’obiettivo, bensì di una vicenda in cui la verificazione dell’evento diventa la negazione dell’obiettivo perseguito» ed in relazione alla quale, pertanto, si sarebbe potuto affermare con ragionevole sicurezza che, se l’a.d. si fosse rappresentato come certo il verificarsi dell’incendio, si sarebbe astenuto dall’agire.
Contro la sentenza pronunciata in grado d’appello proponevano ricorso per cassazione tutte le parti e, in data 29 novembre 2013, i ricorsi erano assegnati alle Sezioni Unite con decreto del Primo presidente, che ravvisando «dissonanze nella giurisprudenza di legittimità a proposito della evocata linea di confine tra dolo eventuale e colpa cosciente», sollecitava l’autorevole Collegio all’individuazione della «esatta linea di confine tra dolo eventuale e colpa cosciente», ed in particolare a chiarire «se la irragionevolezza del convincimento prognostico dell’agente circa la non verificazione dell’evento comporti la qualificazione giuridica dell’elemento psicologico del delitto in termini di dolo eventuale».
Ad esito dell’udienza del 24 aprile 2014, le Sezioni Unite pronunciavano sentenza di annullamento parziale della pronuncia impugnata, in relazione a profili esorbitanti dal tema in analisi, e disponevano la trasmissione degli atti ad altra sezione della Corte d’Assise d’appello di Torino per la rideterminazione delle pene inflitte, confermando, nel resto, la sentenza d’appello.
Tra le numerose problematiche trattate nella complessa motivazione della sentenza de qua, naturalmente, la vexata quaestio relativa alla distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente; alla quale tuttavia – lo vogliamo anticipare – la Suprema Corte non ha, a nostro avviso, saputo dare una risposta completamente soddisfacente.
Prima di spiegare le ragioni delle nostre perplessità, ci sembra dunque opportuno ripercorre i tratti salienti – per quanto qui rileva – della parte motiva della sentenza delle Sezioni Unite in commento.
2.1 La definizione del dolo eventuale
Mossi dall’esplicito intento di «rivisitare funditus il tema del confine tra dolo e colpa», armati dal «realismo della giurisprudenza» e «avendo di mira ... il volto luminoso del presente dell’ordinamento penale», i giudici di legittimità si impegnano innanzitutto in una approfondita disanima attorno alla «definizione legislativa del dolo»; alle «questioni generali»; alla sua «struttura»; alle teorie «della rappresentazione» e «della volizione»; nonché, infine alle «categorie» del dolo intenzionale e del dolo diretto10.
Da ciò, i giudici traggono la prima, importante precisazione: «il dolo implica atteggiamenti interni, processi psicologici che, tuttavia, non possono essere meramente potenziali, ma devono effettivamente svolgersi nella psiche del soggetto, devono cioè essere reali». E ancora più significativamente, precisano che «se un individuo è convinto, anche nel modo più alogico e colpevole, magari per superstizione, di non cagionare l’evento ..., manca in realtà l’elemento rappresentativo e il dolo dev’essere escluso», anche quando questo evento appaia – s’intende: dal punto di vista di un osservatore esterno – «certamente legato alla sua condotta».
Fatte queste premesse, i giudici procedono verso il cuore del problema, passando in rassegna le principali tesi emerse «nell’elaborazione teorica e nella prassi» in relazione al delicato problema della definizione del dolo eventuale, e della sua distinzione dalla figura della colpa cosciente o con previsione. Per evidenti esigenze di spazio, è impossibile in questa sede dare conto dei notevoli sforzi compilativi delle Sezioni Unite, le quali, in estrema sintesi, raggruppano le varie tesi dottrinali e giurisprudenziali attorno a due poli contrapposti: un primo filone, in cui, nella definizione del dolo eventuale, è attribuito maggior peso «al momento della rappresentazione»; e un diverso orientamento, che concede maggiore spazio «alla concreta indagine sull’atteggiamento psichico dell’agente, sulla componente volitiva». Secondo la Suprema Corte, tuttavia, proprio «l’approccio volontaristico» è quello prediletto dalla giurisprudenza, la quale «ben oltre qualsiasi disquisizione teoretica ... si dedica con grande attenzione alla lettura dei dettagli fattuali che possono orientare alla lettura del moto interiore che sorregge la condotta».
Così, «anche in forza di tale» predilezione, emerge il dato «sicuramente decisivo per discernere tra dolo e colpa: l’essere o non essere della volontà», la quale, pur se «non sappiamo esattamente cosa sia», è indicata dalla comune esperienza come «pensiero elaborante, motivato da un obiettivo, che si risolve in intenzione». Tale processo, che «si conclama» nel dolo intenzionale e nel dolo diretto, è difficilmente ricostruibile nel dolo eventuale. Tuttavia, anche in relazione al dolo eventuale, si «richiede di definire l’atteggiamento psichico ... che possa essere considerato equivalente della volontà ... entro un unitario nucleo di senso capace di conservare a ciascuna delle configurazioni del dolo un analogo concetto di volontà».
Chiave di volta nella ricerca della componente volitiva del dolo eventuale risulta allora, nell’ottica dei Giudici di legittimità, la presa di coscienza della radicale diversità tra le forme di colpevolezza dolosa e colposa. «Le due figure, il dolo eventuale e la colpa cosciente, appartengono a due distinti universi» e dalla loro radicale diversità possono essere tratti «gli elementi che le caratterizzano e le distinguono ...: la struttura della previsione ...; ... l’evento; ... lo scenario dell’agire umano; ... l’animus».
Mentre, infatti, la previsione che caratterizza il dolo eventuale richiede «che l’evento oggetto della rappresentazione appartenga al mondo del reale», che «costituisca una prospettiva sufficientemente concreta» ed, infine, che «sia caratterizzato da un apprezzabile livello di probabilità», «la situazione di concreta previsione dell’esito antigiuridico che caratterizza la colpa cosciente» è «tutt’affatto diversa», consistendo nel fatto che «la verificazione dell’illecito da prospettiva teorica diviene evenienza concretamente presente nella mente dell’agente», pur senza confondersi con la mera prevedibilità dell’evento. Nella colpa cosciente, insomma, la previsione assume forma «vaga ed alquanto sfumata», essendo sufficiente, in definitiva, che l’evento rappresentato «esprima la concretizzazione del rischio cautelato dalla norma prevenzionistica»; nel dolo eventuale, invece, l’evento «deve essere oggetto, di chiara, lucida, rappresentazione».
Proprio la comprensione della differenza sussistente, anche a livello rappresentativo, tra dolo eventuale e colpa cosciente aiuta, secondo la Suprema Corte, «a spiegare le molteplici ragioni critiche» che impongono di rigettare la teoria «che individua nella colpa cosciente una previsione seguita da una controprevisione, cioè da una previsione negativa circa la verificazione dell’evento» e il dolo eventuale «per conseguenza, un dubbio irrisolto».
Due in particolare, le critiche a tale tesi reputate convincenti dalla Corte di cassazione: da un lato, il fatto che «il Codice parla, a proposito della colpa cosciente, di reale previsione dell’evento» e non fa alcun cenno ad un eventuale processo di negazione della previsione medesima; dall’altro, il fatto che la teoria sottende «una non realistica semplificazione ed idealizzazione della realtà», essendo il processo di negazione della possibilità di verificazione dell’evento molto lontano «dalla varietà delle contingenze che si verificano nella vita». In definitiva, la tesi secondo cui la mera decisione di agire in presenza di un dubbio circa la verificazione dell’evento è sufficiente per la configurazione del dolo eventuale, finirebbe per svuotare «tale imputazione di ogni reale contenuto volitivo», allontanandola «in modo inaccettabile dalla categoria di dolo come atto di volontà».
Per la condanna a titolo di dolo eventuale, allora, oltre alla previsione dell’evento nei termini più sopra descritti, s’impone l’accertamento di «una presa di posizione volontaristica», di un «atteggiamento psichico che indichi una qualche adesione all’evento per il caso che esso si verifichi quale conseguenza non voluta della propria condotta». Occorrerà, insomma, a parere dell’autorevole Collegio, «comprendere se l’agente ..., dopo avere tutto soppesato, dopo avere considerato il fine perseguito e l’eventuale prezzo da pagare, si sia consapevolmente determinato ad agire comunque, ad accettare l’eventualità della causazione dell’offesa», esprimendo così «una scelta razionale», il più possibile «assimilabile alla volontà».
2.2 Gli “indicatori” del dolo eventuale
Così risolte le «questioni sul tappeto», coscienti del fatto che «sovente le formule della teoria vengono distorte più o meno consapevolmente nella prassi», i Giudici si peritano poi di affrontare anche il tema della prova del dolo eventuale, elencando alcuni indizi o indicatori – parte di un «catalogo aperto» – che dovrebbero guidare l’organo giudicante nell’accertamento della figura di colpevolezza in esame.
Un primo indicatore è costituito «dalla condotta che caratterizza l’illecito», che possiede «determinante rilievo negli illeciti di sangue». In particolare, si tratta delle «caratteristiche dell’arma», della «ripetizione dei colpi», delle «parti prese di mira e di quelle colpite».
Un secondo indicatore è «la lontananza della condotta standard», che rileva «negli ambiti governati da discipline cautelari», come, ad esempio, «il contesto della circolazione stradale». In questi ambiti, secondo la Corte di cassazione, «quanto più grave ed estrema è la colpa tanto più si apre la strada ad una cauta considerazione della prospettiva dolosa».
Assumono importanza, poi, «la storia e le precedenti esperienze» dell’agente, le quali «indiziano la ... consapevolezza delle conseguenze lesive che possono derivare dalla condotta; e la conseguente accettazione dell’evento». Così «nel caso della donna che aveva trasmesso l’HIV al partner», pur avendo «l’esperienza di un evento analogo che aveva colpito il precedente compagno, conducendolo alla morte». Sempreché tuttavia – avverte la Corte – le precedenti esperienze non abbiano indotto l’agente a confidare nel fatto che «l’abilità acquisita lo aiuterà in eventuali contingenze critiche», dovendo in questo caso propendersi per la sussistenza della colpa (cosciente).
E ancora: un quarto indicatore della sussistenza del dolo eventuale consiste nella «personalità» dell’agente, «la sua cultura, l’intelligenza, la conoscenza del contesto in cui sono maturati i fatti», che hanno «un peso indiscutibile, soprattutto nell’ambito del profilo conoscitivo del dolo». Così, ad esempio, «la personalità immatura del giovane che furoreggia in moto è più verosimilmente compatibile con la colpa che col dolo eventuale».
Un quinto indicatore è «la durata e la ripetizione della condotta», nel senso che «una condotta lungamente protratta, studiata, ponderata» apre la strada ad un’imputazione a titolo di dolo eventuale, mentre invece «un comportamento repentino, impulsivo» accredita l’ipotesi della colpa cosciente.
Non minore rilevanza viene assegnata, poi, alla «condotta successiva al fatto». Exempla docent: «lo stupore del giovane che si avvede di avere investito» un veicolo antagonista «mostra ... l’assenza di previsione ed accettazione» dell’evento; al contrario «l’estremo tentativo di fuga del ladro, pur dopo il disastroso urto mortale, mostra appieno la estrema determinazione del tentativo di sottrarsi a qualunque costo all’intervento di polizia; e dunque l’adesione alla drammatica prospettiva poi realizzatasi».
In più, altro indicatore è costituito dalla «probabilità di verificazione dell’evento»: tanto più alta la percezione dell’agente della probabilità di verificazione dell’evento, quanto più il giudice può scorgere «i segni di un atteggiamento riconducibile alla sfera del volere».
L’ottavo indicatore si rivela poi nel «contesto lecito o illecito» in cui si è svolto il fatto, nel senso che, ad opinione dei Giudici di legittimità, «una situazione
illecita di base indizia più gravemente il dolo», perché mostra come l’agente si sia collocato «in uno stato di radicale antagonismo rispetto all’imperativo della legge».
Nono indicatore: «il fine della condotta, la sua motivazione di fondo»; la valutazione relativa alla «congruenza del prezzo connesso all’evento non direttamente voluto rispetto al progetto d’azione», nel senso, ci sembra di intuire, che un’eventuale incongruenza dovrebbe portare al riconoscimento tendenziale della colpa cosciente.
Indicatore senza dubbio affine, poi, è individuato nelle «conseguenze negative o lesive anche per l’agente in caso di verificazione dell’evento». La probabilità della loro verificazione, infatti, spinge per la configurazione della sola colpa, in particolare nell’ambito della «infortunistica stradale».
Sempre nel medesimo solco, sembra poi collocarsi l’undicesimo indicatore, che si identifica nei «tratti di scelta razionale che sottendono la condotta».
Infine, l’indicatore «più importante»: la prima formula di Frank. Tale formula dovrà essere utilizzata ogniqualvolta il giudice sia in possesso di informazioni che «consentano di esperire il controfattuale e di rispondere con sicurezza alla domanda su ciò che l’agente avrebbe fatto se avesse conseguito la previsione della sicura verificazione dell’evento collaterale», e non potrà che condurre inevitabilmente alla negazione della sussistenza del dolo eventuale in tutti i casi in cui la risposta dovesse essere nel senso che l’agente, se avesse conseguito tale previsione, non avrebbe agito. Ma tale accertamento avrà carattere «sostanzialmente risolutivo» soltanto nei casi in cui la verifica imposta dalla formula di Frank possa esperirsi in maniera «affidabile e concludente»: in generale, infatti – ammonisce la Suprema Corte – l’accertamento del dolo eventuale deve avvalersi di tutti gli indicatori alternativi poc’anzi menzionati.
2.3 L’applicazione al caso ThyssenKrupp
Sulla scorta dei principi di diritto e degli indicatori fin qui enunciati, i Giudici affermano che la sentenza d’appello «tratteggia in modo del tutto corretto gli elementi caratterizzanti il dolo eventuale» e condividono la negazione di questo nella vicenda in esame.
I Giudici di legittimità individuano, anzi, due ulteriori «errori logici» in cui sarebbe incorsa la sentenza di primo grado, oltre a quelli già posti in luce dalla sentenza d’appello. In primo luogo, la Suprema Corte rileva la contraddittorietà tra la descrizione «della figura di un professionista» – l’a.d. imputato – «dotato di elevate qualità professionali» e «il bieco calcolo di risparmio di risorse» che il medesimo, nella lettura dei giudici di prime cure, avrebbe compiuto. Proprio la considerazione della personalità dell’imputato, infatti, in un contesto in cui la “casa madre” «aveva avviato una decisa campagna di lotta senza quartiere al fuoco», indurrebbe a ritenere che lo stesso non avesse «scientemente disatteso tale forte indicazione di politica aziendale accedendo alla prospettiva di generare» incendi del tipo di quello verificatosi a Torino.
In secondo luogo, la sentenza di primo grado avrebbe svalutato la circostanza, pur emersa nel dibattimento, che lo stabilimento di Torino «veniva tirato a lucido ad iniziativa del direttore», e che tale accorgimento avesse indotto «l’amministratore ad una percezione inesatta della reale situazione»; in altri termini, l’imputato avrebbe basato le proprie scelte sul «gravemente erroneo ... convincimento che le condizioni dell’impianto fossero tali che i piccoli ricorrenti focolai potessero essere governati, come al solito, dall’intervento degli operatori».
È l’insieme di queste considerazioni, pertanto, che consente alle Sezioni Unite di «collocare la vicenda nella sua sede naturale: quella della colpa cosciente».
Nulla da aggiungere, poi, in relazione alla posizione degli altri imputati, ai quali pure «erano ben noti» «i numerosi indizi che rendevano altamente prevedibile lo specifico rischio di flash fire»; astratta prevedibilità a cui «si accompagnava la concreta previsione dell’evento», giustificando l’applicazione, anche nei loro confronti, dell’aggravante della colpa cosciente.
Prima di esplicitare le principali tra le nostre perplessità relative alla sentenza in commento, ci pare tuttavia opportuno sottolineare i passaggi che, nell’articolata motivazione poc’anzi succintamente ricostruita, costituiscono senza dubbio alcuni decisivi passi in avanti nella ricostruzione di una nozione di dolo eventuale il più possibile conforme alla «razionalità interna» e alla «moralità del diritto penale»11.
In primo luogo, merita apprezzamento il riconoscimento esplicito, da parte della Suprema Corte, dell’effettività dei processi psicologici che costituiscono il dolo. Con ciò, ci pare, i Giudici di legittimità implicitamente rigettano l’idea, pur avanzata nella formulazione della questione a loro sottoposta, che l’irragionevolezza o l’irrazionalità del convincimento dell’agente relativo alla non verificazione dell’evento possa fondare un rimprovero a titolo di dolo (eventuale). La previsione dev’essere, insomma, reale, e se l’agente, anche per «superstizione» – e dunque, a fortiori, anche irragionevolmente o irrazionalmente –, è convinto che nulla di male potrà accadere, la possibilità di muovere un rimprovero a titolo di dolo dev’essere radicalmente esclusa.
Parimenti, va apprezzato il rigetto, da parte della Corte di cassazione, della tesi finora maggioritaria presso la giurisprudenza di legittimità e di merito, che finisce per risolvere il dolo eventuale nella mera previsione dell’evento come possibile, e che afferma che, nella colpa cosciente, la previsione consiste in una mera previsione negativa circa la verificazione dell’evento. Il mero dubbio in ordine alla possibilità che possa verificarsi un evento lesivo di beni giuridici quale conseguenza collaterale di una condotta, pertanto, – la Corte lo afferma a chiare lettere – non potrà più considerarsi sufficiente per riconoscere la responsabilità a titolo di dolo eventuale.
Condivisibile, infine, è la ricostruzione dell’elemento volitivo del dolo eventuale nel solco della teoria minoritaria, come atteggiamento psicologico in cui l’agente «dopo avere tutto soppesato, dopo avere considerato il fine perseguito e l’eventuale prezzo da pagare, si sia consapevolmente determinato ad agire comunque», accettando l’eventualità della lesione di beni giuridici altrui12.
Nel rigettare la tesi maggioritaria ed accogliere la tesi che ricostruisce il dolo eventuale come il risultato di un bilanciamento, tuttavia, la Corte di cassazione imbocca una sorta di terza via, affermando, da un lato, che la previsione di cui all’art. 61, n. 3, c.p. non si identifica con una previsione negativa, e dall’altro, che tale previsione è «tutt’affatto diversa» da quella del dolo eventuale in quanto la prima è «vaga ed alquanto sfumata», mentre la seconda è «chiara, lucida». Ciò a partire dalla differenza irriducibile tra le forme di colpevolezza dolosa e colposa, la cui appartenenza «a due distinti universi» comporterebbe l’impossibilità di immaginare che le due figure possano condividere alcuni elementi, anche nel caso di ipotesi “di confine” come il dolo eventuale e la colpa cosciente.
Orbene, questa tesi non ci sembra condivisibile.
In primo luogo perché trae le proprie conclusioni da una premessa – la radicale irriducibilità della colpevolezza dolosa e colposa – la cui fondatezza andrebbe approfonditamente dimostrata, anche alla luce del dettato legislativo – ed in particolare, anche a fronte dell’inequivocabile dato letterale di cui all’art. 61, n. 3, c.p., che prevede espressamente una forma di colpa caratterizzata dalla «reale previsione dell’evento»13 – e non assunta aprioristicamente a dimostrazione della tesi della diversità tra la previsione dolosa e quella colposa. E ciò, lo si ribadisce, in quanto è la stessa lettera della legge che, nell’affermare che la colpa può essere aggravata dalla «previsione dell’evento», orienta l’interprete in direzione del riconoscimento – quantomeno – della possibilità che il dolo eventuale e la colpa cosciente condividano la medesima rappresentazione: tale indicazione non può essere semplicemente “dismessa”, quasi fosse un vestito logoro, sulla base di una pretesa assenza di «continuità» tra le due figure di colpevolezza in esame, peraltro motivata sulla scorta di un apodittico «non è proprio così».
Ma non solo. Anche a voler tralasciare l’obiezione di metodo poc’anzi compendiata, si fatica a comprendere in cosa consisterebbe quella previsione «vaga ed alquanto sfumata», diversa sia dalla astratta prevedibilità che caratterizza la colpa semplice sia dalla previsione «chiara» del dolo (eventuale), che, ad avviso della Suprema Corte, caratterizzerebbe la colpa cosciente. Saremmo qui di fronte, ci pare, a un nuovo elemento della dogmatica della colpa, i cui contorni, fin troppo sfumati, verosimilmente osteranno ad ogni tentativo di uniforme applicazione giurisprudenziale.
Emblematica, in proposito, la stessa sentenza in commento, che, nel riconoscere la sussistenza della colpa cosciente in capo agli imputati, afferma che alla astratta prevedibilità dell’incendio di Torino si sarebbe accompagnata «la concreta previsione» dello stesso, senza chiarire come possa una previsione «concreta» essere nel contempo «vaga» o «sfumata», come si vorrebbe la «previsione» nella colpa cosciente.
Di più: a nostro avviso, la tesi che nega l’identità del momento rappresentativo nelle due forme di colpevolezza in questione va rigettata anche, e soprattutto, perché rischia di vanificare lo stesso auspicio della Suprema Corte a che il giudice si faccia carico «con matura consapevolezza» della ricerca dell’«inflessione volontaristica» che connota il dolo eventuale.
Affermata la radicale incompatibilità tra la previsione che caratterizza il dolo eventuale e quella tipica della colpa cosciente, sarà, invero, tentazione difficilmente resistibile, nonostante imoniti della Suprema Corte, quella di ritenere provato il dolo eventuale ogniqualvolta si ritenga raggiunta la prova della sola rappresentazione «chiara, lucida» dell’evento collateralmente connesso alla condotta dell’agente: se, infatti, la rappresentazione, nel senso “forte” appena chiarito, è incompatibile con la colpa cosciente, sulla base di quali elementi il giudice potrà negare la sussistenza del dolo eventuale in presenza della prova della (sola) rappresentazione?Quale incentivo avrà, il giudice, ad impegnarsi in faticose indagini attorno alla sussistenza della volontà, se la prima e fondamentale differenza tra dolo eventuale e colpa cosciente risiede comunque nella natura della rappresentazione? Con ciò, la teoria maggioritaria, condotta faticosamente alla porta, rischia di rientrare dalla finestra, magari foggiata con inconfutabili circonlocuzioni aventi ad oggetto la sicura sussistenza, nel “caso di specie”, dell’accettazione dell’evento.
Sarà pur vero, come afferma la sentenza in commento, che la distorsione «delle formule della teoria» da parte della «prassi» fa parte «del lato oscuro del diritto penale»; tuttavia, ad avviso di chi scrive, la Corte di cassazione, nel pronunciarsi sulla vicenda in esame, avrebbe proprio dovuto porre un freno a tali distorsioni, e non introdurre nuovi elementi di confondimento in un quadro già di per sé sufficientemente complesso.
Del resto, ci permettiamo di manifestare qualche dubbio anche in relazione ad alcuni degli indicatori- guida enucleati dalle Sezioni Unite per l’accertamento del dolo eventuale, sulla cui oculata utilizzazione i Giudici di legittimità fanno affidamento al dichiarato fine di guidare della prassi successiva.
Se, infatti, da un lato, alcuni degli indicatori segnalati dalle Sezioni Unite ci sembrano assolutamente essenziali per la prova del dolo eventuale – ci riferiamo, in particolare, alla «congruenza del prezzo connesso all’evento non direttamente voluto rispetto al progetto d’azione»; alle «conseguenze negative o lesive anche per l’agente in caso di verificazione dell’evento» e alla formula di Frank –, dall’altro, numerosi indici ci appaiono del tutto fuorvianti, in particolare nell’ottica della teoria minoritaria, cui ha aderito la Suprema Corte.
Siano sufficienti, sul punto, alcune veloci notazioni, relative, innanzitutto, all’indicatore costituito dalla lontananza della condotta dell’agente da quella rispettosa delle regole di prudenza, «negli ambiti governati da discipline cautelari». Anche tralasciando il fatto che – come insegna la stessa giurisprudenza della Corte di cassazione – «la divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era da attendersi sulla base della norma cautelare» costituisce un «parametro» che permette di valutare la gravità della colpa14 e che tale indice, col dolo eventuale, sembra aver ben poco a che fare, l’indicatore in analisi rappresenta una clamorosa contraddizione con le premesse dogmatiche accolte dalla sentenza delle Sezioni Unite: se, infatti, le forme di colpevolezza dolosa e colposa sono assolutamente irriducibili, per quale ragione un fattore pacificamente attinente alla valutazione del grado della colpa può essere posto a fondamento della «considerazione della prospettiva dolosa»?
Parimenti si può, poi, dubitare della decisività dell’indicatore rappresentato dalla «condotta successiva al fatto». In relazione a tale indicatore, già la giurisprudenza meno recente avvertiva «la necessità di cautela nell’uso»15, in quanto, ad esempio, «l’immediata e spontanea opera di soccorso della vittima da parte dell’agente non è di per sé incompatibile» nemmeno col dolo intenzionale16. Ma vale anche l’opposto: «l’esperienza insegna che condotte quali la fuga dal luogo dal delitto, la cancellazione delle tracce, la ricerca di falsi alibi» e via dicendo, «possono essere riconducibili anche al panico di una morte provocata accidentalmente o colposamente»17. Avvertimenti senza dubbio saggi, purtroppo ignorati dalla Sezioni Unite, per le quali invece «l’estremo tentativo di fuga del ladro, pur dopo il disastroso urto mortale, mostra appieno la estrema determinazione del tentativo di sottrarsi a qualunque costo all’intervento di polizia; e dunque l’adesione alla drammatica prospettiva poi realizzatasi». Orbene, rimane misteriosa la ragione in virtù della quale un comportamento successivo debba necessariamente dimostrare l’adesione ad un evento precedente, che – si badi bene – l’agente si era tutt’al più rappresentato come una mera eventualità; e non possa, in ipotesi, essere invece ricondotto ad un tentativo di sottrarsi all’arresto per l’evento improvvisamente intervenuto, che l’agente ben poteva non avere minimamente accettato.
Desta notevoli perplessità, infine, l’indice di sussistenza del dolo eventuale costituito dalla «situazione illecita di base», con la cui enunciazione la Corte di cassazione fornisce per la prima volta esplicita copertura istituzionale ad un criterio che numerosi autori avevano individuato, in chiave critica, quale reale filo conduttore delle numerose pronunce succedutesi in tema di distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente: il contesto illecito in cui si sviluppa la condotta che cagiona l’evento. A noi pare che l’utilizzo di questo criterio, pur evocato – assieme ad altri – da un’autorevole dottrina18, rechi il rischio di un pericoloso scivolamento verso il dolo d’autore; non comprendiamo, infatti, perché chi cagiona un evento lesivo nell’ambito di una condotta già di per sé delittuosa debba essere indiziato di dolo eventuale, mentre chi cagiona il medesimo evento svolgendo un’attività in sé lecita debba essere considerato, per ciò solo, meno propenso ad accettare l’evento previsto. Non è dello «stato di radicale antagonismo rispetto all’imperativo della legge» che si discute, ma della consapevolezza e dell’accettazione dello specifico fatto cagionato dall’autore, e il dolo della condotta illecita antecedente non può e non deve riverberarsi sull’evento cagionato successivamente.
È pur vero che la Corte di cassazione, sul punto, invita alla cautela, per evitare «che il giudizio ... possa nascondere un giudizio sul tipo d’autore»; ci si chiede, tuttavia, se sia realmente possibile, impiegando l’indicatore in esame, non dare implicitamente un giudizio sulla – naturale? – proclività a delinquere dell’agente e sulla – naturale? – propensione di questi a “volere” eventi lesivi di beni giuridici altrui, in frontale contrasto con il principio di colpevolezza.
1 Viganò, F., Il dolo eventuale nella giurisprudenza recente, in Il libro dell’anno del diritto 2013, Roma, 2013, 118.
2 Sia consentito il rinvio ad Aimi, A., Il dolo eventuale al banco di prova della casistica, in Dir. pen. cont., 2013, fasc. 3, 310 ss.
3 Con queste esatte parole, da ultimo, Cass. pen., 9.5.2012, n. 17210.
4 Così, ad es., Cass. pen., 30.5.2013, n. 31449.
5 Orientamento inaugurato da Cass pen., 15.3.2011, n. 10411. Che il dubbio sia compatibile con la colpa con previsione e che, perciò, non significhi automaticamente dolo eventuale, era stato affermato, pur con riferimento alla diversa fattispecie di ricettazione, già da Cass. pen., S.U., 30.3.2010, n. 12433.
6 Per una riflessione su questo punto, ci vediamo costretti, permere esigenze di spazio, a rinviare a Aimi, A., Il dolo, cit., 307 ss. e 343 ss., nonché, con specifico riferimento al concetto di “ragionevole speranza” a Id., Dolo eventuale e colpa cosciente: il caso Thyssen al vaglio delle Sezioni Unite, in Dir. pen. cont., 2014, fasc. 1, 55 ss.
7 Così il decreto di rimessione.
8 Con queste parole, Ass. Torino, 11.4.2011, in www.penalecontemporaneo.it, 18.11.2011. Di seguito, le ulteriori citazioni sono tratte dalla medesima sentenza, ove non diversamente specificato.
9 Così Ass. app.Torino, 28.2.2013, in www.penalecontemporaneo.it, 3.6.2013. Di seguito, le ulteriori citazioni sono tratte dalla medesima sentenza, ove non diversamente specificato.
10 Così Cass. pen., S.U., 24.4.2014, n. 38343, in commento. Di seguito, le ulteriori citazioni sono tratte dalla medesima sentenza, ove non diversamente specificato.
11 Questo l’auspicio generale di Pulitanò,D., I confini del dolo. Una riflessione sulla moralità del diritto penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2013, I, 54., che ci sentiamo di condividere appieno.
12 In dottrina, in questo senso, seppur con qualche differenza tra le posizioni dei vari autori: Prosdocimi, S., Dolus eventualis. Il dolo eventuale nella struttura delle fattispecie penali, Milano, 1993, 24 ss.; Eusebi, L., La prevenzione dell’evento non voluto. Elementi per una rivisitazione dogmatica dell’illecito colposo e del dolo eventuale, in Studi in onore di Mario Romano, Milano, 2011, II, 979 ss.; Demuro, G.P., Il dolo. II. L’accertamento,Milano, 2010, 90 e 143; Viganò, F., Il dolo, cit., 123 ss.;Donini,M., Il dolo eventuale: fatto-illecito e colpevolezza, in Dir. pen. cont., 2014, fasc. 1, 106 ss.
13 Sono parole delle sentenza in commento.
14 Così, Cass. pen., 29.1.2013, n. 16237.
15 Demuro, G.P., Il dolo, cit., 471, a cui si rinvia per ogni ulteriore approfondimento.
16 Con queste parole Cass. pen., 28.1.1991, n. 3493.
17 Per tutti:Marinucci, G.-Dolcini, E.,Manuale di diritto penale, pt. gen., IV ed., Milano, 2012, 310.
18 Si tratta di Donini, M., Il dolo, cit., 102.