Il dolo eventuale nella giurisprudenza recente
Nell’ultimo biennio si sono susseguite in giurisprudenza numerose pronunce – anche della Suprema Corte – che hanno ravvisato una responsabilità a titolo di dolo eventuale rispetto a tipologie di condotte normalmente qualificate come colpose: in particolare rispetto a incidenti automobilistici caratterizzati da una macroscopica violazione delle pertinenti norme cautelari e, per lo meno in due casi assai noti, rispetto a condotte del datore di lavoro inosservanti delle cautele doverose a tutela dell’incolumità fisica dei lavoratori e del terzi. Premessa la ricognizione delle pronunce edite più significative in proposito, sono qui analizzati e vagliati criticamente i principali schemi argomentativi utilizzati in tali decisioni, il cui esito finale appare nel complesso fortemente discutibile.
Tra il 2011 e il 2012 si sono susseguite in giurisprudenza numerose pronunce – anche della Suprema Corte – che hanno ravvisato una responsabilità a titolo di dolo rispetto a tipologie di condotte normalmente qualificate come colpose: in particolare, rispetto a incidenti automobilistici caratterizzati da una macroscopica violazione delle norme cautelari1 e – in due casi assai noti, relativi all’incendio della Thyssenkrupp e al processo contro gli amministratori della Eternit – rispetto a condotte del datore di lavoro inosservanti delle cautele doverose a tutela dell’incolumità fisica dei lavoratori e del terzi.
La tendenza sottostante a queste pronunce, da tempo segnalata in dottrina, è quella di una estensione dei confini della categoria – da sempre problematica – del dolo eventuale a spese di quella confinante della colpa cosciente (o con previsione), espressamente considerata come circostanza aggravante dall’art. 61, n. 3, c.p. L’aspetto di particolare interesse rappresentato dalla giurisprudenza cui si fa riferimento non è, peraltro, rappresentato da una nuova definizione teorica della linea di demarcazione tra dolo eventuale e colpa cosciente; quanto, piuttosto, da una messa a punto dei criteri probatori per la verifica processuale (e dei correlativi stilemi motivazionali) del dolo eventuale, che rende possibile per l’appunto la formulazione di un rimprovero a titolo di dolo anche in settori di vita ai quali questo criterio di imputazione soggettiva è stato tradizionalmente estraneo.
La tendenza a estendere il rimprovero di dolo rispetto ai delitti di omicidio e lesioni personali in settori di vita “anomali” non è, in verità, del tutto nuova.
Già da almeno un quindicennio a questa parte, ad es., la dottrina penalistica – non solo italiana – si confronta con la questione se possa ascriversi a titolo di dolo eventuale la condotta di chi, sapendo di essere portatore sano del virus HIV, abbia rapporti sessuali non protetti con un partner senza rivelargli il proprio stato di salute, e gli provochi in tal modo il contagio e il successivo insorgere della malattia (AIDS): e ciò a partire da un notissimo caso (imp. Lucini) deciso in primo grado dal Tribunale di Cremona nel senso del dolo eventuale, con sentenza poi corretta in appello e in Cassazione nel senso della mera colpa cosciente. In altre e meno note pronunce, relative a fatti di contagio da HIV ai quali era conseguito non un evento letale ma la mera malattia del partner, le sentenze di merito che avevano affermato la sussistenza del dolo delle lesioni personali avevano invece retto al vaglio della Cassazione, ponendosi così come antesignane degli ulteriori sviluppi cui è dedicato il presente contributo2.
Nel settore specifico della circolazione stradale, poi, la tendenza all’estensione dell’area applicativa del dolo eventuale si era manifestata nel 2004 in una sentenza di merito del Tribunale di Milano3 (imp. El Aoufir), poi confermata in Cassazione4, nella quale era stato condannato per omicidio e lesioni plurime volontari un imputato che, per sfuggire all’inseguimento della polizia, aveva imboccato contromano un tratto autostradale e, dopo aver schivato varie automobili procedenti nella direzione opposta, aveva finito per collidere con due di esse, provocando la morte a una bimba e lesioni gravi ad altre due persone.
In altre ipotesi successive, l’imputazione a titolo di dolo formulata dalla pubblica accusa o ritenuta dai giudici di merito era stata invece oggetto di una derubricazione, rispettivamente, da parte del g.i.p. o delle superiori istanze di giudizio5.
In un solo caso prima del 2011 – dai connotati invero assai peculiari – la Cassazione aveva accolto il ricorso del p.m. contro la qualificazione del fatto a titolo di mera colpa meramente colposa ritenuta dal g.i.p. rispetto al conducente di un autoarticolato che aveva effettuato una manovra di “inversione a U” non consentita, cagionando così un incidente letale a carico del conducente di un’autovettura che si era infilata sotto il semirimorchio ed era stata trascinata per un centinaio di metri dalla manovra dell’autista, effettuata all’evidente scopo di darsi alla fuga6.
2.1 I casi più recenti in materia di circolazione stradale
È però soltanto nel 2011, come anticipato, che la Cassazione inizia a confermare sistematicamente l’atteggiamento di maggior rigore della giurisprudenza di merito rispetto a incidenti automobilistici caratterizzati da violazione macroscopica delle norme cautelari.
Il primo caso (imputato Ignatiuc) concerne un conducente in fuga da un controllo di polizia, il quale supera vari incroci con il rosso in pieno centro di Roma e si schianta alla fine contro un’auto, cagionando la morte di una persona e due feriti gravi7. La Corte d’Assise condanna in primo grado alla pena di 16 anni di reclusione per omicidio e lesioni volontari; il giudice d’appello derubrica nelle corrispondenti ipotesi colpose, riducendo la pena a 6 anni e mezzo; la Cassazione annulla con rinvio la sentenza, e il giudice del rinvio, in applicazione dei principi di diritto indicati dalla Suprema Corte, riconosce il dolo eventuale, condannando l’imputato alla pena di 15 anni e 6 mesi di reclusione.
In un secondo caso, parimenti risalente al 2011, la Cassazione conferma un’ordinanza cautelare per lesioni gravi dolose a carico di un imputato che, in fuga dalla polizia assieme a quattro compagni, aveva attraversato un semaforo con il rosso, investendo un bimbo di nove anni8. La Corte fa leva qui, in particolare, sull’«assenza di controvolontà dell’evento lesivo» e sulla «indifferenza» manifestata dalla condotta dell’imputato verso il bene dell’incolumità fisica degli altri utenti della strada, nonché sulla ricostruzione di un preciso bilanciamento che sarebbe stato compiuto dall’imputato, il quale avrebbe considerato la prospettiva di un incidente a carico delle persone eventualmente presenti nell’area dell’incrocio come un costo che era egli disposto a pagare pur di conseguire l’impunità; precisando altresì che la previsione di cui all’art. 61, n. 3, c.p. allude alla «previsione che, nel fatto concreto, l’evento non abbia a verificarsi» – previsione che nella specie era certamente assente in capo all’indagato.
Degna di nota, rispetto a questo medesimo caso, è un’altra sentenza con la quale la Cassazione conferma la misura custodiale per il delitto di lesioni personali dolose anche a carico di uno dei passeggeri dell’autoveicolo, in quale avrebbe a tal punto condiviso il piano criminoso dell’autista da mettere anch’egli in conto la possibilità di cagionare eventi lesivi come quello in concreto verificatosi, pur di realizzare l’obiettivo della fuga dagli dalla polizia9.
Altro caso (imputato Beti) concerne un uomo che, dopo aver guidato in contromano in autostrada alla guida di un grosso SUV per una ventina chilometri a folle velocità (oltre i 200 km/h), si era scontrato frontalmente con un’autovettura sulla quale viaggiavano quattro ragazzi francesi, cagionandone il decesso. Il fatto era stato subito inquadrato dal g.i.p. come omicidio plurimo doloso10, con valutazione condivisa dal tribunale del riesame11; e la Cassazione conferma, nella primavera 2012, la correttezza di tale qualificazione giuridica12. L’avere persistito almeno per una decina di minuti in una condotta di estrema pericolosità, per di più senza porre in essere alcuna manovra che potesse far pensare alla sua intenzione di evitare l’urto con altri veicoli, fonda in ogni caso, quali che siano state le sue intenzioni reali, l’estremo dell’accettazione del rischio di verificazione di eventi del tipo di quello verificatosi, che pertanto gli deve essere ascritto a titolo di dolo eventuale.
In sede di merito, la vicenda è ora stata definita in primo grado dal g.u.p. di Torino, che – pronunciatosi in seguito all’istanza di giudizio abbreviato formulata dall’imputato – lo ha condannato, tra l’altro, per omicidio e lesioni volontarie plurime dolose alla pena di 20 anni di reclusione (30 anni meno un terzo per la scelta del rito)13. Il giudice sottolinea come lo stato di alterazione alcoolica riscontrata nell’imputato non avesse avuto ripercussioni significative sullo stato di coscienza dell’imputato – come attestato dai testimoni che lo avevano visto in discoteca e dagli stessi operanti che avevano parlato con lui immediatamente dopo l’incidente –, e che, pertanto, egli non potesse non essersi reso conto dell’estrema pericolosità della propria condotta di guida. Quanto all’estremo dell’accettazione del rischio, che segna il confine tra dolo eventuale e colpa cosciente, il giudice osserva anzitutto che l’imputato aveva persistito nella propria folle condotta di guida nonostante le ripetute segnalazioni degli altri utenti di quel tratto autostradale e le numerose collisioni sfiorate, senza peraltro porre in essere egli stesso alcuna manovra di emergenza o tale comunque da ridurre i rischi di quella condotta. Quanto poi alle finalità che potrebbe avere perseguito l’imputato – il cui mancato accertamento non potrebbe essere comunque considerato preclusivo rispetto al riconoscimento del dolo omicidiario –, il giudice considera plausibile, stante il silenzio dell’imputato su tale circostanza, l’ipotesi del p.m. secondo cui egli intendesse recuperare la borsetta della donna, in effetti ritrovata dalla polizia circa un chilometro di distanza rispetto al luogo della collisione; e avesse per questo motivo effettuato una “inversione a U” sulla corsia autostradale, allo scopo di dimostrare, a se stesso e alla propria compagna, di essere “un duro”, confidando, tra l’altro, nella particolare solidità della propria autovettura, in grado di resistere a urti anche di grande entità con gli altri autoveicoli, come in effetti accadde nel caso concreto.
Infine, in un caso deciso – per ora – dalla Corte d’assise d’appello di Milano (imputato Mega) l’imputato, la cui patente di guida era stata sospesa in seguito a un precedente incidente in occasione del quale era risultato che avesse fatto uso di sostanze stupefacenti, si era messo alla guida di notte nonostante la forte pioggia, avendo assunto hashish nel pomeriggio e una pastiglia di Xanax poche ore prima, allo scopo dichiarato di recarsi presso un ospedale per assistere un amico la cui madre stava morendo e per assistere alle pratiche funerarie. Per cause non accertate, la sua vettura, che procedeva a una velocità di circa 85-90 Km/h in un tratto con il limite massimo di 50 km/h, era sbandata e aveva invaso la corsia opposta, collidendo frontalmente con una Fiat 500, la cui conducente decedeva. La Corte censura qui la decisione del g.u.p., che aveva ritenuto di riqualificare il fatto come omicidio colposo e aveva inflitto la pena di 4 anni e 8 mesi di reclusione, tenuto conto della riduzione per il rito abbreviato; e, in accoglimento del gravame del pubblico ministero, pronuncia condanna alla pena di 14 anni di reclusione (21 meno un terzo per il rito), ravvisando un dolo eventuale nella condotta dell’imputato, il quale «si era messo alla guida in uno stato di inidoneità totale a controllare le varie evenienze che si presentano in un percorso di guida», nonostante l’ammonimento che gli sarebbe dovuto derivare da un incidente occorsogli pochi mesi prima allorché, a seguito di assunzione di stupefacenti, si era sentito male e, nel percorso verso l’ospedale, aveva urtato una macchina parcheggiata nei pressi dell’istituto. Ciò dimostra, ad avviso dei giudici, che la sera del fatto egli abbia «accettato il rischio di causare incidenti, che potevano essere leggeri o mortali, non essendo prevedibile la gravità di un impatto», senza potere fare alcun affidamento sulla propria capacità – insussistente – di poterli evitare con la propria abile condotta di guida14.
2.2 Responsabilità dei vertici di un’impresa per eventi lesivi dell’incolumità dei lavoratori o di terzi
Come anticipato, la tendenza espansiva del dolo eventuale a spese della colpa con previsione non è però limitata al settore della circolazione stradale, e comincia altresì a lambire – nella giurisprudenza di merito – anche la responsabilità del datore di lavoro per eventi lesivi dell’incolumità fisica in capo a lavoratori o terzi che siano venuti a contatto con l’attività produttiva.
Il primo caso, notissimo, concerne l’incendio sviluppatosi nelle acciaierie Thyssenkrupp di Torino, in occasione del quale, nel 2007, trovarono la morte ben sette operai. La Corte d’Assise torinese ha condannato cinque imputati per omicidio e incendio colposo, mentre – accogliendo in parte qua le richieste dell’accusa – ha ritenuto di configurare il dolo eventuale rispetto a entrambi i delitti in capo all’amministratore delegato della società, infliggendo poi agli imputati pene sorprendentemente simili: ai primi la reclusione complessiva di 13 anni e 6 mesi; all’amministratore delegato quella, appena di poco superiore, di 16 anni e 6 mesi15.
Riprendendo ampi passi dalla sentenza della Cassazione nel caso Ignatiuc, poc’anzi riferita, la Corte torinese giunge alla conclusione che tutti gli imputati erano ben coscienti delle gravissime carenze del sistema antincendio dello stabilimento, e dunque della «concreta possibilità del verificarsi di un incendio e di un infortunio anche mortale … analogo a quello verificatosi». Tuttavia, nei confronti dei cinque amministratori e dirigenti condannati a mero titolo di colpa, il collegio ritiene plausibile non solo che essi abbiano sperato che non capitasse nulla, ma soprattutto che essi abbiano confidato nell’intervento di fattori esterni schermanti il rischio, e in particolare «che le scelte e le decisioni dei dirigenti tecnici [direttamente responsabili dello stabilimento nel quale si verificò l’incendio] in qualche modo evitassero il verificarsi dell’evento previsto». Ciò non può essere affermato, invece, nei confronti dell’amministratore delegato, al quale la Corte ascrive la specifica accettazione del rischio che un simile incidente si verificasse, in esito a una ben precisa valutazione comparata che egli avrebbe compiuto tra tutti gli interessi in gioco. Avendo infatti già deciso di chiudere entro breve tempo lo stabilimento in questione, l’amministratore delegato avrebbe deliberatamente omesso di effettuare investimenti per la sicurezza antincendio – nonostante la chiara percezione della loro imprescindibilità – in esito a un ben preciso calcolo economico, così consapevolmente subordinando il bene della incolumità dei lavori agli obiettivi economici aziendali.
Un cenno merita anche il secondo caso – sul quale v. Esposizione a sostanze tossiche e responsabilità penale –, relativo alla sentenza del Tribunale di Torino nel cd. processo Eternit16. Basti qui rammentare che il Tribunale ha ritenuto gli imputati colpevoli, tra l’altro, del delitto di disastro doloso ai sensi dell’art. 434, co. 2, c.p., per avere essi cagionato la diffusione di amianto presso l’area circostante alcuni stabilimenti, con conseguente creazione di un grave pericolo per la pubblica incolumità sfociato, in concreto, in significativi eccessi di patologie tumorali causalmente riconducibili all’amianto nella popolazione residente nei comuni limitrofi. La prova dell’elemento soggettivo – che il Tribunale in verità identifica addirittura nel dolo diretto anziché in quello eventuale – è qui raggiunta sulla base della ritenuta consapevolezza, da parte degli imputati, della correlazione tra amianto e patologie tumorali, accompagnata dalla precisa decisione di ignorare i dati scientifici che andavano emergendo sul punto, o addirittura di porre in atto una strategia di controinformazione, allo scopo di sottrarsi all’adozione delle misure cautelari che avrebbero consentito di eliminare i rischi relativi.
Come valutare questi sviluppi, che aprono certo nuove prospettive di tutela penale di beni di elevatissimo rango (segnatamente, la vita e l’integrità fisica), ma che al tempo stesso fanno intravedere inquietanti rischi di eccessi sanzionatori e, in definitiva, di un progressivo snaturamento della stessa nozione di dolo, nella quale l’elemento volitivo sembra perdere progressivamente spessore? Con il connesso rischio, oltre tutto, di applicazioni fortemente diseguali della legge penale: come dimostrano molte delle vicende giudiziarie appena riassunte, nelle quali il medesimo fatto è stato spesso diversamente qualificato nelle varie istanze di giudizio, con effetti a volte imponenti sulla stessa determinazione della sanzione.
3.1 Casi limite
Ai fini di una valutazione serena di ciò che sta accadendo, occorre anzitutto evitare di fare di ogni erba un fascio.
Un caso come quello dell’autista dell’autoarticolato che, essendosi certamente accorto che una macchina era andata ad incastrarsi tra le ruote del proprio semirimorchio, decide imperterrito di continuare la propria manovra di “inversione a U”, trascinando per un centinaio di metri il malcapitato, è evidentemente un caso limite, in cui l’agente non percepisce soltanto una – generica – pericolosità della propria condotta, ma addirittura si rende conto del rischio di aggravare le conseguenze di un incidente già da lui provocato ai danni di una vittima precisa, e decide ciononostante di privilegiare la tutela dei propri immediati interessi (fuggire al più presto dal luogo del sinistro), anche a costo di cagionare mediante questa seconda parte dell’azione la morte della vittima. Nessun dubbio, qui, sulla sussistenza di un dolo eventuale di omicidio.
Altra ipotesi limite è verosimilmente rappresentata dal caso Beti, caratterizzato non solo da una condotta in sé abnorme come l’impegnare contromano una corsia autostradale, ma altresì dalla mancata effettuazione di manovre per evitare la collisione con le numerose automobili incrociate lungo il percorso, da parte di un soggetto che probabilmente faceva altresì affidamento nella particolare robustezza del proprio automezzo (uscito in effetti pressoché indenne dallo scontro che interruppe la sua folle corsa). Se a questo già inquietante compendio probatorio aggiungiamo il movente così come ricostruito – in via di ipotesi, ma non senza una qualche plausibilità – dalla pubblica accusa (il recupero della borsetta smarrita), il riconoscimento di un dolo eventuale non mi pare sollevare grandi perplessità: la decisione di impegnare l’autostrada contromano è qui verosimilmente spiegabile come espressione di una specie di assurda prova di coraggio, che manifesta un assoluto disprezzo per la vita altrui, e (in minor parte) anche per la propria.
All’estremo opposto sta una decisione sicuramente errata – che è auspicabile venga al più presto corretta dalla Corte di cassazione – come quella della Corte d’assise d’appello milanese del caso Mega, in cui il collegio giunge ad affermare la sconcertante equazione secondo cui chi decide di guidare un’autovettura avendo fatto uso di sostanze stupefacenti (una “canna”) e di una pastiglia di Xanax si rappresenta e accetta per ciò stesso il rischio di provocare qualsiasi incidente, grave o lieve, con la propria condotta di guida successiva. Un simile principio, che dovrebbe estendersi logicamente anche a chi si ponga alla guida della propria macchina avendo fatto un consumo anche di modeste quantità di alcool, purché idonee a determinare una qualche alterazione delle normali capacità di guida, condurrebbe in pratica ad annullare ogni spazio applicativo per la responsabilità colposa nei casi di volontaria ubriachezza o intossicazione da stupefacenti, in favore di un sistematico rimprovero a titolo di dolo eventuale a carico dell’agente, il quale – ubriacandosi o assumendo stupefacenti – perciò stesso prevederebbe e accetterebbe il rischio di provocare incidenti con la propria condotta successiva. Questa estensione della logica dell’actio libera in causa è contraria alla sistematica del codice penale, per il quale la volontaria assunzione di alcool o sostanze stupefacenti non esclude né diminuisce l’imputabilità (artt. 92 e 93 c.p.), ma lascia sussistere la possibilità di un rimprovero per dolo o per colpa a seconda dell’atteggiamento soggettivo dell’agente nel momento della condotta tipica (qui identificabile nella manovra errata che ha causato l’invasione della corsia nella quale si trovava la vettura vittima): non già in relazione al coefficiente soggettivo che connota la condotta di assunzione di alcool o sostanze stupefacenti (condotta quest’ultima che è quasi sempre volontaria, le ipotesi dell’ubriachezza e intossicazione colposa – o addirittura incolpevole – avendo un rilievo pressoché solo scolastico).
In mezzo a questi estremi si collocano però tutti gli altri casi esaminati, caratterizzati da una macroscopica e consapevole violazione di norme cautelari, ma rispetto ai quali resta problematica l’individuazione dell’elemento volitivo che deve pur sempre connotare il dolo eventuale rispetto alla confinante ipotesi della colpa con previsione: e proprio su questi casi conviene riflettere un po’ più approfonditamente.
3.2 Le strategie argomentative della giurisprudenza: la lettura “restrittiva” dell’art. 61, n. 3, c.p.
Una delle strategie argomentative utilizzate più frequentemente a supporto della conclusione che, nella specie, l’imputato versava in dolo eventuale è quella di muovere da una lettura restrittiva della categoria della colpa con previsione, la quale sussisterebbe non già allorché il soggetto faccia affidamento tout court nella non verificazione dell’evento, ma confidi nella presenza di specifiche circostanze impeditive – la propria abilità, l’adozione di contromisure, ovvero l’intervento di fattori impeditivi esterni, anche dipendenti dalla condotta altrui – che egli ritiene “ragionevolmente” in grado di escludere la possibilità di verificazione dell’evento; laddove con l’equivoco avverbio “ragionevolmente” (che parrebbe del tutto fuori contesto rispetto a una condotta comunque qualificata in termini colposi) la giurisprudenza allude all’effettivo convincimento soggettivo (non meramente “di comodo”) relativo alla idoneità di queste circostanze a schermare il rischio causato dalla propria condotta, anche laddove poi dovesse emergerne l’insufficienza sul piano oggettivo.
Sulla base di un simile test, la nostra giurisprudenza argomenta frequentemente dalla mancata adozione di contromisure per escludere l’ipotesi della colpa con previsione, e per dedurne automaticamente la sussistenza della contigua ipotesi del dolo eventuale: con una singolare inversione metodologica, per cui la prova del dolo – il più grave criterio di imputazione soggettiva – viene dedotta, in negativo, dalla mancata prova di un (presunto) requisito costitutivo della colpa con previsione.
Naturalmente, un simile escamotage argomentativo non può operare laddove nella situazione concreta emerga invece la prova dell’adozione, da parte dell’imputato, di specifiche contromisure, o comunque di un suo affidamento in fattori da lui ritenuti, a torto o a ragione, in grado di schermare il rischio. In simili ipotesi, la giurisprudenza riconosce in effetti una mera colpa cosciente (come nel caso dei cinque imputati condannati a titolo di omicidio e incendio colposi nel caso Thyssenkrupp, i quali avevano per l’appunto confidato nell’intervento dei diretti responsabili della sicurezza dello stabilimento, o comunque è costretta a ricorrere ad altre strategie argomentative per affermare l’accettazione del rischio, nonostante la comprovata adozione di cautele (come nel caso El Aoufir, nel quale dopo tutto era risultato che l’imputato aveva ripetutamente schivato le macchine provenienti in direzione opposta sull’autostrada, nell’evidente tentativo di evitare collisioni frontali).
Il limite principale a questa strategia argomentativa è però di ordine teorico, ed è stato da tempo posto in luce dalla dottrina più attenta: riferire la colpa con previsione di cui all’art. 61, n. 3, c.p. (l’avere agito il colpevole, nei delitti colposi, «nonostante la previsione dell’evento») alle sole ipotesi in cui l’agente era persuaso che l’evento non si sarebbe verificato, significa semplicemente tenere in non cale il dettato normativo, pervenendo a una interpretazione contra legem della norma in questione17: la quale prevede un aggravamento di pena rispetto alle ordinarie ipotesi di colpa, proprio perché l’agente agisce rappresentandosi l’evento (ancora) come possibile, non già avendo escluso la possibilità di una sua verificazione (ipotesi in cui egli agirebbe, per l’appunto, senza la previsione dell’evento).
Anche a prescindere da questa (fondatissima) obiezione, v’è comunque da chiedersi se davvero possa essere considerata dolosa l’ipotesi in cui il soggetto, pur consapevole della pericolosità della propria condotta, confidi genericamente – per leggerezza, disattenzione, trascuratezza, id est per negligenza – nella non verificazione dell’evento, senza fare affidamento su specifici fattori impeditivi18: come ben potrebbe essere accaduto nel caso Lucini, in cui l’irrazionale – ma, in ipotesi, reale – convincimento dell’uomo che alla moglie non sarebbe avvenuto nulla di male poteva essere per di più supportato dalla circostanza che molto tempo era passato dalla diagnosi, senza che la malattia si manifestasse nemmeno su se stesso; e così come accade a tutti coloro che, ben consapevoli dei danni prodotti dal fumo, continuano imperterriti a fumare, confidando genericamente ed irrazionalmente che a loro non accadrà nulla di male (e chi potrebbe mai dire, se non metaforicamente, che essi vogliano la malattia che potrebbe colpirli in futuro?)19.
3.3 Un necessario “bilanciamento di interessi” sotteso al dolo eventuale
Una seconda strategia argomentativa spesso ricorrente nella giurisprudenza più recente – a partire proprio dalla sentenza di primo grado del caso Lucini – fa leva più correttamente, in positivo, su un criterio probatorio dello stesso dolo eventuale, dall’evidente paternità dottrinale20: sussiste dolo eventuale quando il soggetto, in esito a un ben preciso bilanciamento di interessi, assuma la possibile verificazione dell’evento come prezzo che è disposto a pagare pur di conseguire il proprio fine. In tali ipotesi, l’elemento volitivo del dolo eventuale sarebbe rappresentato da una precisa decisione di agire (o di continuare ad agire) nonostante la previsione della possibilità che l’evento si verifichi quale conseguenza collaterale della propria condotta, pur di conseguire uno scopo in vista del quale l’agente è disposto anche a sacrificare gli interessi tutelati dalla norma penale; e proprio questa consapevole decisione segnerebbe il distacco rispetto alla colpa con previsione, dove il soggetto agisce non in seguito a un calcolo, bensì – per l’appunto – per mera leggerezza o inerzia del volere, confidando – ancorché irrazionalmente – che il risultato lesivo, pur previsto come possibile, alla fin fine non si verifichi.
Un simile schema probatorio esige, naturalmente, che sia processualmente accertato il fine al quale il soggetto orienta la propria azione: ossia, secondo la consolidata terminologia forense, il suo movente, il cui accertamento peraltro è considerato in generale non necessario a dimostrare il dolo. L’esperienza concreta dimostra, tuttavia, che la giurisprudenza non incontra di solito soverchi problemi in questa direzione.
Già nel caso Lucini, ove si fece per la prima volta compiuta utilizzazione di questa tecnica argomentativa, il giudice di primo grado – con valutazione poi non condivisa nei gradi successivi di giudizio – affermò che l’imputato aveva agito allo scopo di non pregiudicare il proprio rapporto matrimoniale a seguito della rivelazione delle ombre del proprio passato, e per tale motivo aveva deciso di porre a repentaglio la vita della moglie: egli aveva insomma – afferma il giudice nel passo emotivamente più carico dell’intera motivazione – scelto, egoisticamente, se stesso, la propria serenità e le proprie attuali condizioni di vita, giungendo a considerare la possibile malattia e addirittura la possibile morte della moglie come il prezzo che era disposto a pagare pur di non perdere ciò che si era faticosamente conquistato, voltando le spalle al proprio passato21.
Ancora più agevole si presenta questa strategia argomentativa in tutte le ipotesi di incidenti automobilistici che avvengono nel contesto di una fuga dell’imputato dalla polizia: qui l’argomento che invariabilmente ritorna è quello secondo il quale l’imputato ha consapevolmente privilegiato il proprio interesse a sottrarsi all’arresto rispetto ai beni della vita e dell’incolumità degli altri utenti del traffico, esposti ad un pericolo di lesione che egli ha considerato come il prezzo che era disposto a pagare pur di sottrarsi alla polizia. E ben si spiega, in quest’ottica, la ricerca di un movente (identificato, sia pure ipoteticamente, nel tentativo di recuperare la borsetta) anche in un caso limite come Beti, nel quale il g.u.p. avverte comunque il bisogno di ascrivere all’imputato un consapevole bilanciamento, in grado in qualche modo di spiegare una condotta che, altrimenti, sarebbe potuta apparire come la mera espressione di una mente disturbata, animata da istinti sostanzialmente suicidi.
Ma la strategia in parola si presta magnificamente anche a supportare condanne a prima vista contrarie al senso comune, come quelle che presuppongono un addebito di dolo eventuale a carico di datori di lavoro e amministratori i quali abbiano omesso di adottare cautele antinfortunistiche, o comunque misure idonee a schermare gli effetti patogeni (per i lavoratori o la popolazione vicina) delle sostanze tossiche utilizzate nell’ambito del processo produttivo. L’accento è posto qui, evidentemente, sulla consapevole decisione di non adottare le cautele, con il correlativo effetto di risparmio di costi, nel quadro di un complessivo bilanciamento in cui le ragioni di tutela della vita e dell’incolumità fisica di lavoratori e terzi sarebbero per l’agente recessive rispetto alle ragioni del profitto22.
3.4 Una possibile strada alternativa: prendere sul serio la prima formula di Frank
A fronte di simili sviluppi, credo però sia urgente interrogarsi sulla sostenibilità del percorso su cui la nostra giurisprudenza si sta ormai prepotentemente incamminando. È il rimprovero agli imputati di aver voluto uccidere, in casi come quelli da ultimo rammentati, davvero compatibile con il senso comune – meglio, con il buon senso, dal quale è opportuno che le soluzioni tecniche non si distacchino mai in misura radicale, specialmente in una materia densa di implicazioni etiche come il diritto penale, ove il giudizio di condanna sottende sempre un giudizio di disvalore nei confronti della condotta.
La mia sensazione è che, per quanto riprovevoli possano essere le condotte in questione, il rimprovero di dolo suoni qui decisamente eccessivo.
Credo che convenga anzitutto riflettere su una distinzione, sulla quale molto insiste autorevole dottrina, tra generica consapevolezza (e accettazione) del rischio insito nella propria condotta e previsione (e accettazione) di un evento lesivo23: la distinzione non è invero di intuitiva evidenza se formulata in astratto, ma corrisponde in concreto a situazioni psicologiche assai diverse, e facilmente afferrabili sulla base della nostra stessa esperienza quotidiana.
Illuminante, come di consueto, l’esempio “di senso comune” recentemente formulato dal più grande penalista tedesco vivente, Claus Roxin, che è al tempo stesso autore di scritti memorabili proprio in materia di dolo. Racconta Roxin di avere, giovane padre, spesso accompagnato i figli in passeggiate difficili in montagna, magari al bordo di ghiacciai o di crepacci; e di avere ancora oggi vivido il ricordo della paura che egli avvertiva di fronte alla percezione del pericolo al quale lui stesso stava esponendo i figli. In certo senso, egli aveva altresì accettato il rischio che derivava dalla propria condotta, senza essere affatto sicuro – dal punto di vista razionale – che nulla di male sarebbe accaduto: i bambini, si sa, possono sempre mettersi nei guai nell’arco di pochi attimi. Se però un bimbo fosse disgraziatamente caduto, si sarebbe davvero potuto rimproverargli di aver voluto uccidere suo figlio, sia pure nella forma del dolo eventuale?24
Il senso comune si ribella di fronte a una simile conclusione: non perché il padre non abbia compiuto in qualche modo un bilanciamento prima di decidere a mettersi in marcia (il padre sa in anticipo che il percorso che sta per affrontare con i suoi figli non è privo di rischi, e comunque decide di proseguire quando incontra la difficoltà, facendo prevalere il proprio amore per la montagna sulla preoccupazione che qualcosa possa andare storto); ma perché il padre – pur esponendo consapevolmente i figli a un rischio non completamente “schermato” – tuttavia non mette seriamente in conto la prospettiva della loro perdita come possibile conseguenza della propria condotta. La morte di un figlio è per un padre una catastrofe esistenziale, che non ha senso pensare possa essere accettata quale prezzo che il soggetto è disposto a pagare pur di non rinunciare al proprio scopo (godere del piacere della montagna). I due interessi, semplicemente, non sono comparabili.
Per valutare allora se il soggetto possa avere sensatamente messo in conto l’evento come prezzo che era disposto a pagare pur di raggiungere il proprio scopo, un notevole ausilio – quanto meno come test di resistenza della conclusione raggiunta – potrà venire dalla tanto criticata25 prima formula di Frank, che tra l’altro incontra a parole una rinnovata fortuna presso la nostra giurisprudenza più recente26 – la quale poi si guarda bene, come subito vedremo, dal trarne le necessarie conseguenze in punto di fatto27.
La formula impone, come è noto, di chiedersi se il soggetto avrebbe egualmente agito laddove avesse previsto in termini di certezza l’evento (e dunque mettendo in conto la sua sicura verificazione). Nel nostro ultimo esempio, la risposta è agevole: il padre sicuramente non avrebbe in questo caso intrapreso o proseguito l’azione, proprio perché i due interessi in gioco non erano comparabili.
Ma il test, se rettamente inteso, funziona anche in altri casi meno facili. In passato ho spesso pensato che la formula di Frank fosse espressiva della logica di un diritto penale d’autore: sarà sempre agevole per il giudice, riflettevo, dimostrare che un malavitoso avrebbe agito anche a costo della sicura verificazione dell’evento, e pervenire invece alla conclusione opposta nei confronti del “colletto bianco”. Re melius perpensa, credo che le cose non stiano in questi termini: al fine di verificare se l’agente abbia davvero messo in conto la verificazione dell’evento, includendola come variante possibile del proprio piano complessivo di azione, la formula di Frank richiede semplicemente una valutazione, ex ante e dal punto di vista dell’agente, circa l’impatto che la verificazione dell’evento avrebbe avuto sul suo piano di azione, onde stabilire se essa rappresentasse o meno un costo che egli era davvero disposto a tollerare.
Così impostato, il test conserva una sua precisa valenza garantistica anche nei confronti del soggetto che, per sfuggire all’inseguimento della polizia, supera vari incroci con il semaforo rosso, ponendo a rischio consapevolmente l’incolumità degli altri utenti della strada. La verificazione di una collisione con un’altra auto in questo caso non può da lui essere seriamente messa in conto nel momento della condotta: sia perché la prima vittima di un evento siffatto potrebbe essere lui; sia perché – anche a voler pensare all’ipotesi di chi sia alla guida di un grosso SUV, che riduce significativamente, pur senza annullarli, i rischi alla propria incolumità – la sua fuga avrebbe comunque termine nell’ipotesi di incidente, perché darebbe modo alla polizia di raggiungerlo e di arrestarlo28. Il fuggitivo compie qui consapevolmente un’attività pericolosa per la pubblica incolumità, senza poter escludere in modo assoluto la possibilità di cagionare un incidente anche grave; ma al tempo stesso non “vuole” uccidere né ferire nessuno: non perché questa prospettiva necessariamente ripugni al suo animo, ma – più semplicemente – perché essa segnerebbe il radicale fallimento del suo piano29.
Per questo stesso motivo sono convinto che già l’antesignana decisione di condanna per omicidio doloso nel caso El Aoufir, relativo come si ricorderà ad una fuga in contromano in autostrada, sia stata una decisione sbagliata: l’agente non poteva aver accettato la prospettiva dell’evento, ossia – in concreto – la prospettiva di uno scontro frontale con un’altra autovettura in piena autostrada, perché una simile prospettiva era inscindibilmente connessa a quella di un grave danno alla propria stessa persona, o addirittura alla sua stessa vita. A meno dunque che egli abbia pensato “meglio morto che in galera” – ipotesi implausibile, data l’evidente sproporzione tra i due interessi in gioco –, la morte e il ferimento delle vittime non potevano dirsi eventi da lui “voluti”, ossia consapevolmente messi in conto ed accettati come possibili varianti del suo piano: la loro verificazione avrebbe, ed ha in effetti, comportato il fallimento del piano medesimo. Proprio per questo motivo, del resto, egli aveva proceduto “a zigzag” in autostrada, effettuando continue manovre per evitare la collisione con le autovetture che procedevano in senso contrario, collisione che rappresentava dunque un evento ben lungi dall’essere da lui accettato come possibile conseguenza della propria condotta.
Analoghe osservazioni devono svolgersi rispetto al caso Lucini, anch’esso precursore dell’odierna tendenza espansiva del dolo eventuale: altro è la consapevolezza (attuale o meno che fosse nel corso di una relazione matrimoniale durata anni) del rischio connesso a rapporti sessuali non protetti; altro è la considerazione della morte della moglie come prezzo che il soggetto è disposto a pagare, includendola quale variante del proprio piano d’azione, pur di non porre a repentaglio il proprio rapporto coniugale. E ciò per la semplice ragione che il verificarsi di quell’evento avrebbe rappresentato – già da una prospettiva ex ante, esattamente confermata ex post dal corso effettivo degli avvenimenti – il radicale fallimento del suo piano d’azione, ponendo una fine traumatica al suo matrimonio e, più in generale, rovinando la sua stessa esistenza.
Alla medesima conclusione dovrebbe condurre, a mio avviso, una retta applicazione della formula di Frank nel caso Thyssenkrupp, anche laddove trovasse integrale conferma la ricostruzione probatoria effettuata dal giudice di primo grado: altro è correre consapevolmente (e sconsideratamente) il rischio che si possa produrre un incendio, evitando in questo modo un costoso investimento in un impianto in via di dismissione; altro è mettere in conto l’effettivo verificarsi dell’incendio, e la morte di sette persone. Anche qui, il punto non è la maggiore o minore sensibilità etica dell’imputato, che – in via di mera ipotesi – potrebbe anche essere un uomo senza alcuno scrupolo, cinicamente preoccupato della massimizzazione a ogni costo del profitto della propria impresa. Il punto è che, anche in una logica meramente economica di costi-benefici, la verificazione di un catastrofico incidente come quello purtroppo verificatosi rappresenta un evidente fallimento del piano di azione del soggetto, non foss’altro che in relazione all’inevitabile procedimento penale che ne sarebbe – e che ne è di fatto – seguito.
Diverso è – ad es. – il caso di chi, confidando di non essere scoperto, lancia per gioco pietre da un cavalcavia autostradale in piena notte, divertendosi ad osservare le manovre di emergenza compiute dai veicoli sottostanti: la causazione effettiva della morte o di lesioni degli automobilisti colpiti, ancorché non intenzionalmente perseguita (ergo: nessun dolo intenzionale) né prevista in termini di certezza (ergo: nessun dolo diretto), è qui un’eventualità del tutto indifferente all’agente, che egli può tranquillamente mettere in conto nel proprio piano d’azione, quale che sia – ancora una volta – il suo grado di sensibilità etica (ergo, questa volta: dolo eventuale).
3.5 Responsabilità per colpa e misura della pena
A scanso di equivoci: tutto ciò non significa che condotte come guidare contromano in autostrada per sfuggire alla polizia od omettere basilari cautele antincendio non siano condotte cariche di disvalore, le quali meritano di essere punite severamente. Il punto è che è eccessivo affermare che in tutti questi casi il soggetto abbia “preveduto e voluto” la morte delle vittime – affermazione che il giudice compie solennemente allorché condanna a titolo di dolo eventuale, giusta il disposto dell’art. 43 c.p. –: un simile rimprovero, a tacer d’altro, non sarà mai avvertito come “giusto” dal condannato, il quale non potrà riconoscersi nell’affermazione di aver voluto uccidere. Il rimprovero è, piuttosto, quello di avere sconsideratamente posto a repentaglio la vita delle vittime, attraverso una condotta consapevolmente e gravemente inosservante degli standard di cautela esigibili ai consociati: una condotta che resta criminale, ma che è intrinsecamente diversa da quella che connota la responsabilità a titolo di dolo.
Resta a mio avviso attuale, allora, la riflessione – che continua troppo sbrigativamente a essere liquidata dalla dottrina dominante – sull’eventuale introduzione, de iure condendo, di un titolo di responsabilità intermedio tra dolo e colpa, destinato per l’appunto a intercettare le ipotesi di consapevole creazione, da parte dell’agente, di un rischio macroscopico di causazione dell’evento penalmente rilevante30; ipotesi che, negli ordinamenti di common law, sono notoriamente coperte dalla recklessness, di gravità intermedia tra intention e negligence.
De lege lata, va però notato che gli attuali quadri edittali in materia di responsabilità colposa già consentono l’inflizione di pene anche notevolmente severe nei confronti delle condotte qui in parola. Un omicidio colposo commesso con violazione delle norme in tema di circolazione stradale o di quelle per la prevenzione degli infortuni sul lavoro è punibile con la reclusione sino a sette anni (art. 589, co. 2, c.p.); se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla circolazione stradale da parte di chi abbia un tasso alcoolemico superiore a 1,5 g/l ovvero da chi sia sotto l’effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope, la pena massima si eleva a dieci anni (art. 589, co. 3, c.p.); e se, infine, il soggetto cagiona la morte di più persone, o la morte o le lesioni di più persone, la pena può giungere sino al limite di quindici anni di reclusione (art. 589, co. 4, c.p.). E a tutte queste ipotesi è, naturalmente, applicabile l’aggravante della colpa con previsione di cui all’art. 61, n. 3, c.p., che può condurre ad un ulteriore innalzamento di un terzo della pena massima.
Simili quadri edittali non rimangono, del resto, soltanto sulla carta: l’esame delle vicende di cui si è sin qui parlato evidenzia a volte una differenza sanzionatoria minima tra l’ipotesi dolosa e quella colposa. Emblematica la sentenza nel caso Thyssenkrupp, ove alla differente qualificazione (in termini di dolo o colpa) della condotta ascritta ai sei imputati corrisponde una pena di 16 anni e mezzo di reclusione per la condotta dolosa, e di 13 anni e mezzo per quella colposa.
Ancora: non solo la normativa vigente consente l’inflizione di pene durissime contro chi causi la morte di altre persone attraverso condotte macroscopicamente (e coscientemente) inosservanti delle cautele doverose, ma consente altresì agevolmente – ciò che molto importa alla giurisprudenza – l’adozione di misure cautelari custodiali durante le indagini e il processo, sussistendo le relative esigenze (non certo difficili da motivare, ad esempio, in tutti i casi di omicidi commessi mediante violazione delle norme sulla circolazione stradale sin qui esaminati).
In queste condizioni, l’insistenza della pubblica accusa o degli stessi giudici nel qualificare come dolosa la condotta assume una funzione prevalentemente simbolica, allo scopo sin troppo scoperto di lanciare un messaggio alle vittime e all’intera collettività di forte stigmatizzazione della condotta31, e di espressione della volontà di fare sul serio con questo tipo di criminalità. Con il costo collaterale però – di cui almeno la giurisprudenza di legittimità dovrebbe farsi seriamente carico – di snaturare a poco a poco la categoria del dolo, allontanandola sempre più dal dettato legislativo e – ciò che ancor più conta – dalle stesse categorie di ascrizione della responsabilità radicate nel senso etico comune, che il diritto penale dovrebbe invece fedelmente riflettere perché continui ad essere concepito – dall’intera collettività e dallo stesso condannato – come strumento di giusta reazione contro un fatto illecito e colpevole.
1 Sul tema cfr., recentemente, Martini, A., Tensioni generalpreventive e struttura del dolo: la volontà come stato potenziale, in Dir. pen e processo, Gli speciali. Dolo e colpa negli incidenti stradali, 2001, 5 ss.; Pisa, P., Incidenti stradali e dolo eventuale: l’evoluzione della giurisprudenza, ibidem,13 ss.; Caldararo, M., L’attuale atteggiarsi della categoria del “dolo eventuale” nel contesto della criminalità omicidiaria stradale, ibidem, 21 ss.; Bartoli, R., Brevi considerazioni in tema di prova del dolo eventuale, ibidem, 29 ss.
2 Per puntuali riferimenti a tutte queste pronunce, cfr. per tutti Masera, L., Delitti contro la vita, in Viganò, F.-Piergallini, C., a cura di, Reati contro la persona e contro il patrimonio, in Palazzo, F.-Paliero, C.E., diretto da, Trattato teorico-pratico di diritto penale, vol. VII, 2011, 13; Id., Delitti contro l’integrità fisica, ibidem, 95.
3 Trib. Milano, 21.4.2004, in Corr. merito, 2005, 70 ss. con nota di F. Viganò, Fuga “spericolata” in autostrada e incidente con esito letale: un’ipotesi di dolo eventuale?
4 Cass. pen., sez. I, 25.11.2005, n. 42219, imp. El Aoufir.
5 Cfr. Cass. pen., sez. I, 8.5.2008, n. 18867, concernente l’investimento, con esito mortale, di un bimbo in bicicletta ad opera di un motociclista che, in ora notturna e senza fari, aveva impegnato una corsia interdetta ai veicoli a motore; Cass. pen., sez. IV, 25.3.2009, n. 13093, relativa all’investimento con esito letale di un pedone che transitava sul marciapiede da parte di un automobilista ubriaco, il quale era ripartito sgommando dopo un alterco; Cass. pen., sez IV, 24.3.2010, n. 11222, imp. Lucidi, relativo ad un automobilista che aveva un semaforo rosso nel pieno centro di Roma, in ora notturna, alla velocità di circa 90 km/h, venendo a collidere con un motorino che era passato regolarmente con il verde all’investimento, provocando la morte del conducente e del passeggero.
6 Cass. pen., sez. fer., 31.10.2008, n. 40878.
7 Cass. pen., sez. I, 1.2.2011, n. 1041, in www.penalecontemporaneo.it, 25.5.2011, con note di Aimi, A., Fuga dalla polizia e successivo incidente stradale con esito letale: la Cassazione ritorna sulla distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente e di Zecca, M., Dalla colpa cosciente al dolo eventuale: un’ipotesi di omicidio e lesioni personali “stradali” in una recente sentenza della Corte di Cassazione, ibidem, 27.9.2011.
8 Cass. pen., sez. V, 11.5.2011, n. 18568.
9 Cass. pen., sez. V, 16.9.2011, n. 34233.
10 G.i.p. Tribunale di Alessandria, 17.8.2011, imp. Beti, in www.penalecontemporaneo.it, 21.10.2011.
11 Della cui ordinanza dà conto Caldararo, M., L’attuale atteggiarsi, cit., 21 ss.
12 Cass. pen., sez. I, 30.5.2012, n. 23588, imp. Beti, in www.penalecontemporaneo.it, con nota di A. Aimi, Scontro frontale in autostrada con esito letale: la Cassazione conferma il dolo eventuale.
13 G.u.p. Trib. Alessandria, ud. 20.7.12, imp. Beti, in www.penalecontemporaneo.it, 26.10.2012.
14 Corte Ass. App. Milano, 1.2.2012, imp. Mega, in www.penalecontemporaneo.it, 23.3.2012.
15 Corte Ass. Torino, 15.4.2011, imp. Espenhahn, in www.penalecontemporaneo.it, 18.11.2011, con nota di S. Zirulia, ThyssenKrupp, fu omicidio volontario: le motivazioni della Corte d’Assise. Sul caso, con particolare riferimento ai profili concernenti la condanna a titolo di omicidio plurimo e incendio dolosi a carico dell’imputato principale, cfr. in dottrina Demuro, G.P., Sulla flessibilità concettuale del dolo eventuale, in Dir. pen. contemp., n. 1, 2012, 142 ss.; Fiandaca, G., Sul dolo eventuale nella giurisprudenza più recente, tra approccio oggettivizzante-probatorio e messaggio generalpreventivo, ibidem, 152 ss.; Bartoli, R., Il dolo eventuale sbarca anche nell’attività d’impresa, in Dir. pen. e processo, n. 6, 2012, 703 ss.
16 Trib. Torino, 13.2.2012, imp. Schmidheiny, in www.penalecontemporaneo.it, 14.5.2012, con nota illustrativa di L. Masera, 30.5.2012.
17 Così, giustamente, Prosdocimi, S., Il dolo eventuale nella struttura delle fattispecie penali, 1993, 28. Più recentemente, in dottrina, cfr. Fiandaca, G., Sul dolo eventuale, cit., 159.
18 Sul punto, cfr. ancora Prosdocimi, S., Il dolo eventuale, cit., 37. Pongono più recentemente l’accento su questa situazione psicologica, molto frequente in presenza di condotte oggettivamente sconsiderate, anche Fiandaca, G., Sul dolo eventuale, cit., 159 e De Vero, G., Dolo eventuale, colpa cosciente e costruzione “separata” dei tipi criminosi, in Studi in onore di Mario Romano, vol. II, Napoli, 2011, 890 s.
19 Analogo parallelo rispetto all’atteggiamento soggettivo di chi si autoespone ad un rischio (del quale è ben consapevole) è compiuto da Eusebi, L., La prevenzione dell’evento non voluto: elementi per una rivisitazione dogmatica dell’illecito colposo e del dolo eventuale, in Studi in onore di Mario Romano, cit., 980. In questo stesso senso, del resto, si veda anche l’esempio formulato da Claus Roxin, su cui cfr. infra, § 3.4.
20 Il criterio riprende, infatti, pressoché letteralmente, quello enunciato da Prosdocimi, S., Il dolo eventuale, cit., 31 ss.
21 Trib. Cremona, 14.10.1999, imp. Lucini, in Foro it., c. 391.
22 In senso adesivo rispetto alla sentenza sul caso Thyssenkrupp, cfr. Bartoli, R., Il dolo eventuale, cit., 710, a parere del quale, anzi, tutti gli imputati avrebbero dovuti essere condannati a titolo di dolo eventuale.
23 Marinucci, G.-Dolcini, E., Manuale di diritto penale, Milano, 2012, IV ed., 299.
24 Roxin, C., Über den “dolus eventualis”, in Studi in onore di Mario Romano, cit., 1203 s.
25 Per una sintetica e recente rassegna delle obiezioni tradizionali alla formula, cfr. Fiandaca, G., Sul dolo eventuale, cit., 156.
26 A partire almeno da Cass. pen., S.U., 26.11.2009, n. 12433, Nocera (concernente la distinzione tra ricettazione e incauto acquisto), sulla quale cfr. Donini, M., Dolo eventuale e formula di Frank nella ricettazione. Le sezioni unite riscoprono l’elemento psicologico, in Cass. pen., 2010, 2555 ss. La formula di Frank è poi ampiamente ripresa da Cass. pen., sez. I, 1.2.2011, imp. Ignatiuc, cit. Per una recente rivalutazione della formula come criterio di demarcazione tra dolo eventuale e colpa cosciente, cfr., in dottrina, Eusebi, L., La prevenzione, cit., 976 ss.
27 Analogamente Fiandaca, G., Sul dolo eventuale, cit., 158.
28 Così, persuasivamente, anche Aimi, A., Fuga dalla polizia, cit.
29 Sul rapporto tra la verificazione dell’evento e il fallimento del piano dell’autore (o comunque la vanificazione dello scopo perseguito dall’agente), cfr. ancora Eusebi, L., La prevenzione, cit., 980 ss.
30 Sul punto, cfr. ampiamente Curi, F., Tertium datur: dal common law al civil law per una scomposizione tripartita dell’elemento soggettivo del reato, Milano, 2003.
31 Così Fiandaca, G., Sul dolo eventuale, cit., 153.