Il Dominio da terra: politica e istituzioni
Città capitale e Dominio da terra; ambiente veneziano e ambiente veneto; vocazione per il mare e attrazione verso la terra: questi alcuni dei termini principali del dilemma attraverso i quali è stata letta la vicenda della costituzione dello Stato territoriale veneto. Un ampio e vivace dibattito ha coinvolto la storiografia che si è occupata di tale problema: ne sono sortite interpretazioni assai discordanti, spesso caricate di intenzioni ideologiche, politiche e civili che esulavano dai confini delle materie quattro e cinquecentesche che si volevano indagare (1). Nell'ampia area che, a partire dai primi decenni del XV secolo, entra sotto l'egida della Repubblica marciana, e che nel corso del Quattrocento arriverà a comprendere Treviso e Verona, Padova e Brescia, Bergamo e Udine, Vicenza e Crema, Ravenna e Cremona (2), si realizza oppure no una qualche forma di integrazione - politica, economica, giuridica, culturale - tra le ragioni del Principe e quelle dei sudditi? Quali sono le caratteristiche salienti, le forme di intervento, i modelli di interpretazione di una realtà complessa, adottate o create ex novo dalla classe dirigente veneziana? Che rapporto intercorre tra le scelte politiche della Serenissima e le preesistenti strutture diffuse nello spazio che questa viene ad occupare: in quali termini - innovazione o tradizionalismo - si deve valutare l'impatto del governo veneziano? Con quali fasce sociali e con quali soggetti politici i nuovi governanti cercavano di stabilire un rapporto privilegiato; quali le modalità di legittimazione della propria autorità scelte dal corpo sovrano; quali, più in generale, le dinamiche che la creazione di un così vasto Dominium, sorto sulla crisi degli ordinamenti signorili, portava con sé? Questi, in sintesi, i termini principali del dibattito che si vorrebbero considerare in questa occasione per cercare di far emergere alcune delle strutture portanti dello Stato regionale veneto, quale si viene a disegnare nel periodo, forse, di maggior dinamica istituzionale e politica della sua storia secolare, nella convinzione che taluni dei "caratteri originali" qui evocati ne abbiano segnato, nel bene e nel male, la vicenda. È opportuno precisare che, nel corso di questa indagine, si dedicherà una particolare attenzione alla politica del diritto: è su questo terreno - assieme a quello della politica e dell'amministrazione fiscale - che si realizzano i principali scontri tra governanti e governati, si solidificano e si istituzionalizzano primitive e ancora labili forme di integrazione politica, si sperimentano, in concreto, le valenze dei concetti di autorità e di sovranità, si verificano i limiti del paternalismo e della mediazione.
Nella prima età moderna risulta fortemente diffuso, presso le popolazioni soggette a Venezia, il mito dell'Impero. Una persistenza che non poteva non caricarsi di una chiara valenza politica e che coinvolgeva profondamente il senso della tradizione, le modalità di percezione dei legami di fedeltà, l'orgogliosa rivendicazione della propria autonomia, proiettata all'indietro in una mitica età dorata, e il ruolo politico delle diverse élites locali. Vari gli esempi che si potrebbero citare a tale proposito. Pensiamo alle trionfali accoglienze che avevano salutato il passaggio dei diversi imperatori nel corso del Quattrocento (3). Vi era, oltre a questo, una assai pronunciata ricerca di titoli presso la cancelleria imperiale da parte di esponenti dei gruppi di potere delle città della Terraferma: la nomina a conte palatino poteva sancire una posizione di preminenza raggiunta all'interno delle mura cittadine, garantendo la possibilità di ingresso al locale collegio dei notai. Vi era chi faceva incidere le insegne imperiali sulle mura del palazzo degli avi; altri ricordavano il loro attaccamento alla suprema autorità terrena, al momento di stilare le ultime volontà, o nel far incidere sul proprio monumento funebre, accanto a quelle della propria schiatta, le insegne imperiali (4). Vi era, infine, chi riusciva ad ottenere dallo stesso imperatore l'investitura di diritti che solo la diretta detentrice dell'autorità sopra un certo territorio poteva attribuire: il vicentino Marco Thiene spuntava, nel corso del 1461, la nomina a conte di Quinto con la facoltà di esercitare il "merum et mixtum imperium et gladii potestatem" (5) anche se nella realtà dei fatti le possibilità di esercitare quelle amplissime facoltà risultavano estremamente ridotte. Episodi che, al di là delle loro valenze coreografiche e aneddotiche, ci consentono di formulare un giudizio sull'atteggiamento assunto dalla Serenissima di fronte ad un indubbio senso di disagio, quando non di aperta repulsione, depositato presso le popolazioni soggette di fronte alla sua autorità. La politica adottata dalla Serenissima a tale proposito sembra diretta dal criterio di una relativa tolleranza. Difficile comprendere se tale atteggiamento fosse determinato dalla percezione, interna al patriziato, della radicale alterità rispetto a tutto ciò che riguardava una certa etica e una certa cultura propria del Dominio da terra, oppure fosse dettato da un calcolo opportunistico, o causato da una visione politica lungimirante, per cui, attraverso la delega ai propri rappresentanti del compito di creare presso i governati una nuova immagine della sovranità, si sarebbero dissolti i preesistenti sensi di appartenenza. Non è certo senza significato che Marin Sanudo, nell'Itinerario da lui compiuto, nel corso del 1483, attraverso la Terraferma veneta, notasse senza dimostrare eccessivo stupore che a Treviso - città tranquilla, sottoposta all'egida veneziana già nel XIV secolo, e sostanzialmente scevra da livori antimarciani -, sulla facciata del bel palazzo della Ragione, campeggiava "una gran aquila, in demonstratione che fu terra dell'Imperio" (6). A Padova, secondo quanto riporta lo stesso Sanudo, non si avvertiva alcuna contraddizione nel fatto che, proprio in una delle sedi adibite a celebrare il potere della Repubblica, il palazzo del Capitanio, "bellissimo, primo ut multi dicunt, de Italia", accanto all'illustrazione delle opere benemerite del rappresentante veneziano fossero posti i ritratti di "tuti li Imperadori et viri illustri", quasi che il ceto eminente patavino intendesse bilanciare, con il prestigio esercitato dalla tradizione, l'intenzione autocelebrativa dei nuovi Domini (7).
Allo stesso modo - e anche questo sta a testimoniare della duttile percezione dei limiti della propria azione politica, nonché di una forte opposizione di fronte alla dimensione formale del diritto, che avremo modo di riconsiderare Venezia non sembrava disposta ad approfondire il dibattito sui fondamenti della legittimità della propria autorità sulla Terraferma. Autorità che si fondava su due principi, espressione di due differenti e complementari visioni della sovranità: la spontanea dedizione delle città soggette, e lo ius belli (8). Tuttavia in nessun caso si pensò di riprovare l'opinione espressa da un giurista come Pietro del Monte - estraneo alla logica del potere patrizio - per il quale tutte le giurisdizioni temporali derivavano e non potevano che derivare dall'imperatore (9). E non sembra aver sollevato eccessiva preoccupazione presso il ceto dei governanti neppure il sostanziale insuccesso riportato dalla missione di Marco Dandolo, inviato presso l'imperatore nel 1437, con la commissione di convincerlo della legittimità dell'acquisizione della Terraferma veneta da parte della Repubblica (1°). Quei territori, a detta di Sigismondo, erano soggetti alla sua autorità quali vicariati, e tuttavia, morendo nello stesso 1437, l'imperatore non aveva potuto conoscere la soddisfazione di aver sottratto le terre della "Lombardia" a chi le aveva indebitamente occupate, ai "rebelles nostri veneti", come li aveva definiti in un'accorata missiva inviata nel 1426 al vescovo di Trento (11).
L'altra ingombrante fonte di autorità con cui il patriziato della Serenissima - analogamente a tutti gli altri gruppi dirigenti degli Stati quattrocenteschi in via di formazione (12) - doveva confrontarsi era costituita dall'organizzazione ecclesiastica. Il potere della Chiesa - rappresentato dal detenere diritti giurisdizionali, estese proprietà terriere, una non indifferente struttura burocratico-amministrativa, ma soprattutto un'insinuante facoltà di condizionamento delle coscienze - non poteva non entrare in conflitto con la volontà dei Principi tendente ad allargare la sfera del proprio potere di comando, e non poteva non proporre a questi ultimi delicati interrogativi attorno alle forme di mediazione e di compromesso, ed anche di definizione dei propri iura sovrani.
Come rapportarsi alla molteplicità di realtà istituzionali proprie della Chiesa - in tutta l'ampia gamma di attribuzioni beneficiali e giurisdizionali che va dalle piccole sedi parrocchiali dei contadi ai più cospicui ed ambiti seggi dei capitoli delle cattedrali urbane, ai vescovadi stessi? Attraverso quali modalità confrontarsi con la molteplicità delle organizzazioni associative e di potere, di credenze e di riti radicati nelle aree da poco conquistate?
Difficile fornire una risposta univoca agli interrogativi che si sono posti. Da un esame della documentazione quattrocentesca depositata negli - archivi analogamente a quanto si avrà modo di notare trattando dello sviluppo delle istituzioni di potere laiche - è possibile evincere una pluralità di linee, di interpretazioni delle diverse realtà, di modalità di intervento, che sfuggono a troppo recisi tentativi di categorizzazione, quali "centralizzazione", mantenimento oppure riduzione delle autonomie. Uno dei motivi caratterizzanti la politica ecclesiastica della Serenissima è rappresentato dalla presenza numericamente forte del patriziato veneziano nelle più prestigiose sedi vescovili della Terraferma. È stato notato come nel periodo che va dal 1405 alla metà del XVI secolo furono III i prelati nominati alla testa delle dodici sedi vescovili del Dominio: di essi ben 85 (pari al 76%) facevano parte del corpo sovrano; degli altri 26 solo 8 erano sudditi del Dominio (13).
Questa forte centralità dell'elemento veneziano nella gestione delle res ecclesiasticae poneva problemi di ordine politico e giurisdizionale di non semplice risoluzione su almeno tre livelli strettamente intrecciati l'uno con l'altro: quello dei rapporti con la Santa Sede romana, quello degli equilibri interni al corpo sovrano, quello dei rapporti con le popolazioni soggette (14). Il senato, attraverso una parte del 14 giugno 1437, aveva stabilito che tutti i benefici ecclesiastici del Dogado e dello Stato da terra fossero attribuiti "civibus nostris" e non "forensibus" (15). In tal modo si voleva arginare l'intromissione papale nella nomina a prebende e dignità localizzate sui territori della Repubblica, e, nello stesso momento, si intendeva delegare a rappresentanti ecclesiastici, appartenenti a prestigiose famiglie patrizie, importanti funzioni di controllo sulle inquietudini serpeggianti all'interno della società veneta e di coinvolgimento ideologico dei sudditi, compiti che spesso i governatori civili, inviati a reggere le stesse città, stentavano a realizzare. Assai significativamente Domenico Morosini, uno dei maggiori esponenti della classe dirigente veneziana di fine Quattrocento, in alcune dense pagine del suo trattato De bene instituta re publica - continuamente oscillante tra vagheggiamento ideale di un ordinamento statale ricalcato sul modello platonico e agguerrita analisi dello stato delle istituzioni, con una chiara propensione per una soluzione di natura oligarchico-autoritativa alla crisi in corso - non esitava ad indicare, tra i possibili rimedi adatti a ridurre lo iato che separava governanti e governati, una decisa riduzione del personale inviato a reggere le podesterie del Dominio: era a causa della loro cattiva amministrazione che stava aumentando il senso del rifiuto dell'autorità veneziana da parte delle popolazioni soggette. Solo attribuendo ampi poteri discrezionali ai rettori dei centri maggiori e lasciando agli ecclesiastici il compito basilare di forgiare il senso dell'obbedienza e della fedeltà alla Repubblica marciana si sarebbe potuto ovviare alle difficoltà del momento (16).
Uno dei pericoli connessi ad una ricerca tanto decisa di ricche prebende ecclesiastiche da parte di membri del patriziato era rappresentato dalla possibilità che questi creassero, nell'intesa con i più influenti potentati delle città che venivano chiamati a reggere in spiritualibus o nel legame con la Corte pontificia, una sorta di microautorità che sfuggiva al controllo della capitale. Può essere interpretata in tal senso la severa riprovazione, contenuta in una parte senatoria del 1424, delle modalità con cui alcuni "subditi" del Dominio si presentavano a prelati o vescovi impetrando una grazia, l'ottenimento di un qualche favore, e soprattutto, come sottolinea la deliberazione, richiedendo, allo scopo di risolvere i guai giudiziari che li riguardavano o di veder riconosciuti alcuni loro diritti, che essi fungessero da mediatori con i rappresentanti laici dell'autorità sovrana (17).
Ancora i senatori condannavano un'altra pericolosa consuetudo per cui gli eminenti ecclesiastici, suggestionati dalla patina arcaica che rivestiva le istituzioni religiose delle città della Terraferma, sulle quali riverberava la memoria non troppo remota di un passato in cui la potestà temporale e quella spirituale andavano congiunte, avevano iniziato ad attribuirsi i titoli di "Duces, Marchiones vel Comites terrarum quarum sunt prelati". Non era tollerabile che proprio coloro che dovevano illustrare la peculiare compattezza istituzionale della Serenissima facessero propri stilemi e modelli nobiliari estranei alla cultura della città di San Marco: tutti sanno "quantum repugnat intentionis Terre" che qualcuno "sibi attribuat maiorem potestatem" di quella che gli è stata concessa per legge (18). Oltre ad un problema di immagine la legge appena citata evocava il rischio molto concreto che quei "prelati" potessero creare una sorta di autorità extraterritoriale, attraverso la formazione di legami clientelari a livello locale, e attraverso lo sfruttamento dei vincoli di parentela, amicizia e solidarietà di cui godevano a livello centrale. Il peso del lignaggio, in tal modo, si sovrapponeva e faceva ombra all'autorità dello Stato, la spinta verso il pieno dispiegarsi del potere sovrano in vista del bene pubblico veniva ad interrompersi, facendo emergere interessi particolari. In questo senso va interpretata una legge emanata dal consiglio dei dieci, nel corso della seconda metà del XV secolo, nella quale si decretava che non potevano essere inviati a reggere città del Dominio patrizi che avessero legami di parentela con i vescovi delle stesse (19).
A scorrere la legislazione quattrocentesca, inerente la materia ecclesiastica, contenuta nei registri del consiglio dei dieci e del senato, emerge sovente un indirizzo autoritativo, tendente ad allargare la sfera di intervento e di controllo dello Stato. Si potrebbero citare a tale proposito i decreti emanati allo scopo di regolamentare la delicatissima questione delle commende - "emblematica dei tanti abusi di cui era gravata la Chiesa in quel tormentoso periodo tra secolo XIV e XV", secondo quanto ha scritto Gaetano Cozzi (20) -; il dibattito sull'imposizione delle decime al clero; quello sul diritto d'asilo e più in generale sui rapporti tra giustizia civile e giustizia ecclesiastica (21); la volontà di una diretta intromissione sulle nomine a benefici maggiori e minori attraverso il sistema delle probae, già in crisi nell'ultimo decennio del secolo e definitivamente tramontato - a testimonianza di un radicale mutamento nei rapporti tra Venezia e Roma - con gli anni delle guerre d'Italia (22).
Più in profondità, al di sotto delle vicende politico-istituzionali di maggior evidenza e delle più accese frizioni giurisdizionali, permanevano nelle popolazioni soggette modi di percepire il rapporto con l'autorità terrena, di sentire il legame con la propria gens - e il problema della trasmissione ai posteri delle proprie ricchezze mondane, del modo di intendere gli affetti - difficilmente assimilabili e disciplinabili. "Omnes leges mundi, tam divine quam humane, clamant piam defunctorum voluntatem servandam esse inviolabiliter et immutabiliter": così esordiva una parte del senato del 1480, che riprovava la tendenza per cui i commissari incaricati dell'esecuzione testamentaria di "cives et subditi" del Dominio, sovente in accordo con gli stessi testatori o con le loro famiglie, rimettevano nelle mani della Curia romana o del sommo pontefice l'esecuzione delle ultime volontà di quelli (23).
Discrasie, profonde differenze interne al sistema, difficoltà di integrazione tra sudditi e Principe, quindi. Tuttavia, al di là di ciò, cominciavano a manifestarsi, nel corso del Quattrocento, i primi sintomi di un diverso modo di intendere l'esercizio dell'autorità da parte dei governanti, e nel modo di porsi di fronte ad essi da parte dei sudditi. Una miriade di suppliche, di richieste di interventi d'autorità, di permessi, di grazie, raggiunge le stanze dei massimi consessi veneziani, proveniente dalle città più illustri e dagli angoli più riposti del Dominio, caratterizzando in modo suggestivo l'evoluzione delle dinamiche interne allo Stato. In questo caso, Venezia vede riconosciuta la legittimità della propria posizione egemone, in quanto capace di legalizzare e sancire la validità di accordi raggiunti tra le parti in sede locale: un segno dell'emersione e del riconoscimento del potere pubblico in funzione di mediazione e composizione delle controversie su cui avremo modo di tornare. Pensiamo ad esempio ad un intervento dei consiglieri ducali in senato, risalente al 1432, con cui si ratificava una compositio cui erano addivenuti il priore del monastero domenicano di San Nicolò di Treviso con i suoi sottoposti, da una parte, ed i procuratori dei conti di Collalto, dall'altra (24). I conti, nella zona del Trevigiano compresa tra Conegliano e il Piave, godendo dell'aggregazione al patriziato veneziano fin dal 1306 e potendo vantare il privilegio del "merum et mixtum imperium cum potestate gladii", erano riusciti a costruire una sorta di staterello sottoposto alla loro giurisdizione e dotato di ampie autonomie. I rappresentanti dell'ente ecclesiastico lamentavano di non poter visitare e di non poter controllare la conduzione di alcune "possessiones" che essi detenevano nelle prossimità del castello di San Salvatore, sottoposto ai Collalto; agli stessi risultava inoltre che quelle terre fossero "male tractate a laboratoribus earum [et] male in ordine", in diversi appezzamenti, addirittura "totaliter inculte et silvestres". Per tali motivi, entrambe le parti in causa chiedevano alla Serenissima Signoria di sancire la validità dello strumento stipulato che prevedeva la quota del passaggio di alcune delle proprietà e di alcuni livelli alla famiglia comitale, nonché l'estinzione, sotto la minaccia di un severo intervento dell'autorità pubblica, delle accese controversie civili che ancora si trascinavano presso i tribunali locali.
Attraverso modalità procedurali analoghe a quelle appena riscontrate, il senato confermava, sempre nel 1432, l'accordo sulla vendita di talune "possessiones et bona" cui erano addivenuti i procuratori della badessa e delle sue sottoposte del monastero di Santo Stefano di Padova con quelli di alcune "communitates" appartenenti al distretto vicentino (25). Nel corso della lunga controversia "ambe partes" risultavano essere "magnis laboribus et expensis distrate et fesse", fino al momento in cui si era raggiunta una composizione, vidimata dal rettore veneziano residente nel centro berico, il quale aveva ampiamente trattato "de ista materia [...] cum quampluribus notabilibus civibus paduanis".
L'elemento di maggior peso politico all'interno della compagine territoriale - destinato ad influenzare pesantemente gli equilibri tra centro e periferia e a costituire l'interlocutore privilegiato per Venezia - è rappresentato dalla presenza di numerose città dal cospicuo peso politico, economico, demografico (26). Il nuovo dominus doveva fare i conti con una rete fortemente strutturata di centri urbani, onusti di gloriose tradizioni, capaci di esprimere classi dirigenti in grado di affermare la legittimità delle proprie prerogative, dei propri privilegi, sospettosi di ogni tentativo di intrusione esterna nella gestione della politica e nella dislocazione delle risorse locali. È questo peso dei centri maggiori della Terraferma a determinare, assieme ad una diversa vocazione originaria, la particolare conformazione costituzionale dello Stato territoriale veneto, rispetto alle contemporanee esperienze milanese e fiorentina (27).
Gaetano Cozzi ha indicato le caratteristiche costitutive del modo di intendere il diritto vigente a Venezia: informalità, rapidità, ripudio del formalismo dei giuristi, centralità dell'elemento politico nel dirigere la decisione giudiziaria: il tutto riassunto nel dominio del criterio dell'equitas quale fonte e metodo del fare giustizia (28). Era questo un modo di intendere la legge legato alla particolare struttura socio-culturale del ceto dirigente della Serenissima, del suo essere, almeno fino agli anni della conquista dello Stato, orientato verso il mare, della sua dimensione mercantile, commerciale, pragmatica. Ma questo era anche un diritto che non poteva non entrare in crisi nel confrontarsi con quello vigente in un'altra realtà, tanto difforme da quella lagunare. Nell'ampio territorio che cade sotto la tutela della Repubblica marciana, lo ius dominante è certamente quello di origine romano-imperiale, anch'esso profondamente connaturato alla natura ed alle funzioni dei ceti eminenti locali. Tale diritto mostra la forte connotazione scolastico-formale propria di un ceto di giuristi che poteva dispiegare - attraverso la risoluzione di intricate vicende giurisdizionali o di difficili vicende familiari, grazie ad un prestigio alimentato dalla dimostrazione di una superiore cultura e, sovente, dal raggiungimento della condizione nobiliare - potere ed autorità nelle città di appartenenza (29). Saranno le conseguenze tra l'incontro e lo scontro di queste due realtà tanto lontane a caratterizzare, come avremo modo di accennare, la conflittualità tra capitale e centri soggetti, e sarà nella capacità di risoluzione di tale problema che Venezia potrà sperare di vedere riconosciuta la propria autorità.
Fin dal momento delle originarie deditiones si era deciso che il flusso dei rapporti tra Venezia e le realtà soggette sarebbe stato regolato dall'osservanza alla lettera delle pattuizioni stipulate al momento della conquista. In esse le varie città e le diverse comunità chiedevano il rispetto delle loro prerogative fiscali, amministrative, giurisdizionali. Ma soprattutto invocavano il mantenimento di quanto era sancito negli statuti locali. Qui si era depositato l'orgoglio ed il sentimento di appartenenza e di percezione della propria identità dei ceti dirigenti locali. Nell'ordinata successione delle norme civili, penali e procedurali, tese a regolamentare le competenze dei vari tribunali, l'ordine delle diverse nomine al consiglio civico, le attribuzioni dei componenti delle varie magistrature della città e del territorio, si evocava, ancor più di ciò che la città in concreto era, la proiezione di ciò che essa anelava ad essere: un'armonica composizione di meccanismi politico-istituzionali ben oliati, il cui corretto funzionamento era assicurato dalla non interferenza di un qualsiasi elemento esterno. Che poi tale pretesa e completa autonomia non potesse realizzarsi nei fatti risulta quasi ovvio, pensando ai bisogni di uno Stato che necessitava di risorse, che cominciava ad avvertire il dovere di controllare i diversi comportamenti dei sudditi per vedere legittimata la propria autorità, che inviava propri magistrati nei territori sottoposti alla sua giurisdizione. Si creava in tal modo un difficile equilibrio che può essere esemplificato dalla vicenda delle numerose riforme quattrocentesche degli statuti locali.
Venezia aveva sempre risposto affermativamente alle richieste di conservazione della normativa statutaria avanzate al tempo delle deditiones. La Serenissima, tuttavia, si era sempre riservata l'arbitrio di correggere o riformare, a seconda delle necessità che si sarebbero presentate, la lettera di quelle norme. È opportuno chiedersi attraverso quali modalità e secondo quali criteri di opportunità politica tale principio veniva affermato dalla Dominante. Fin dai primi decenni del Quattrocento, nei centri maggiori della Terraferma, si verifica un'alacre opera di revisione della normativa statutaria. Difficile definire con una formula univoca gli obbiettivi di fondo nelle diverse situazioni locali e l'occasione che determinò l'opera di riforma. A Verona, ad esempio, dopo un primo timido tentativo operato dal rettore veneziano, nel 1450 si diede inizio alla revisione statutaria in seguito alla delibera del consiglio cittadino di rivedere le competenze attribuite ad una carica minore, quale quella di giudice del procuratore: in quell'occasione si approfittava per informare la Serenissima dell'utilità di una "universalis reformatio", riprendendo il lavoro interrotto in anni lontani (30). A Vicenza, invece, la proposta di revisione statutaria venne avanzata esclusivamente dal ceto dirigente locale, e nel proemio all'edizione degli statuti del 1480 l'encomio del podestà Francesco Barbaro assume esclusivamente le caratteristiche di una laudatio retorica, anche se sembra che il patrizio avesse contribuito a quell'opera raccogliendo una serie di decreti veneziani utilizzati per la redazione definitiva, compilata sotto il suo governo nel 1425 (31).
Il tratto accomunante le diverse situazioni ora analizzate è costituito dalla non ingerenza della capitale nelle nomine dei doctores che avrebbero approntato i testi definitivi delle riforme. In tale contesto non è certo un caso che, tra i componenti delle commissioni nominate per quel motivo, compaiano alcuni tra i più prestigiosi giuristi locali, scelti all'interno dei prestigiosi collegia professionali cittadini come espressione diretta di una volontà autonomistica, in via di istituzionalizzazione e di riconoscimento da parte dell'autorità centrale (32). Sull'atteggiamento veneziano di fronte alle varie riforme manca ancora uno studio approfondito. Tuttavia, allo stato attuale delle conoscenze, sembra di poter dire che esso sia caratterizzato da una sostanziale accondiscendenza di fronte alle diverse istanze avanzate dai sudditi. Anche in questo caso i governanti, piuttosto che innescare un conflitto di competenze e affermare più direttamente la propria sovranità, adottano un atteggiamento duttile e sfumato, affidando la definizione delle attribuzioni e delle funzioni dei diversi poteri alle risposte date ai singoli capitula, presentati dai governati con frequenza sempre maggiore nella seconda metà del secolo e, soprattutto, attraverso l'opera di mediazione delle più importanti magistrature d'appello (33). In tal senso, se questa è la modalità di percezione della propria autorità da parte della Serenissima, può anche non apparire sorprendente che a Venezia nessuno si scompose troppo se solo nel 1419, a distanza di quindici anni dalla conquista del centro euganeo, i rappresentanti patavini si applicarono a chiedere di poter espungere dagli statuti sottoposti a revisione il nome ed il simbolo dei Carraresi, sotto il cui dominio quelli erano stati redatti (34). La preoccupazione veneziana consisteva esclusivamente nel creare degli interstizi entro cui far filtrare le proprie intenzioni politiche, nell'allargare gli ambiti di intervento attraverso risposte di tono ora ambiguo, ora apertamente elusivo, ora di decisa ripulsa (35).
Sovente si determinava tra governanti e governati un suggestivo gioco delle parti. Quando nel 1450 il consiglio civico veronese deliberò fosse giunto il momento per inviare a Venezia gli statuti per la ratifica conclusiva, gran parte del ceto eminente locale approvò una proposta in cui si diceva che "videretur tutius et utilius, quando id posset impetrari, si dicta confirmatio esset sine clausola illa salvo iure addendi minuendi etc., sed esset pura sub primo privilegio a bulla aurea", alludendo al privilegio concesso da Venezia il 12 luglio 1405, che prevedeva la conferma degli statuti nella loro totalità. Quando il consiglio civico della città atesina aveva deliberato, all'inizio del 1450, che si desse mano all'opera di revisione della normativa statutaria, aveva richiamato alla lettera una formula dell'antica deditio: "quod predicta universalis statutorum reformatio fiat sub confirmatione quidem veteri, contracta ab ill.mo nostro dominio tempore traditionis civitatis in privilegio a bulla aurea" (36). Venezia colse l'intenzione eccessivamente autonomistica contenuta nella petizione e, nella ducale di conferma, ritenne doveroso sottolineare la clausola tradizionale: "reservato tamen arbitrio et libertate nobis in eis addendi et minuendi corrigendi et mutandi" (37).
Potere di deroga che i governanti non tardarono ad applicare quando qualche anno dopo si presentarono a Venezia i rappresentanti della Patria del Friuli (la zona dello Stato da terra in cui era più diffusa e radicata la presenza signorile e feudale) protestando per l'intrusione del luogotenente veneziano in materie quali il controllo su strade e fiumi, le modalità di elezione al parlamento della Patria e le norme di diritto civile tese a regolare le successioni in linea femminile, in caso di estinzione di quella maschile, riguardanti famiglie detentrici di diritti feudali. Queste materie, in base alle Constitutiones friulane e a quanto promesso dalla Serenissima, rientravano nella giurisdizione dei nobili castellani e delle comunità, e i rappresentanti della Patria chiedevano pertanto che la capitale esprimesse a chiare lettere la volontà di rispettare la normativa locale. Il consiglio dei dieci (l'organismo nel quale, come avremo modo di vedere, si incarnava con più vigore nella seconda metà del secolo l'idea di sovranità che stava prendendo piede nella capitale) affermò che a tale petizione non era possibile rispondere "generaliter", ma solo "particulariter", senza procedere ad affermazioni di principio, ma entrando semplicemente nel merito delle singole questioni (38).
Vi è un atteggiamento di fondo che è possibile riscontrare quando, abbandonando le città di maggior importanza, ci si sposta verso le realtà minori, piccole sedi di podesteria, borghi fortificati, ville dalla tenue consistenza demografica e dalla ancora incerta definizione istituzionale all'interno del nuovo Stato. Nel corso del Quattrocento si registra nell'Italia padana un incremento nella stesura di normative statutarie da parte di "terre" e comunità rurali (39). Tale fenomeno sembra indotto da motivi endogeni e da motivi esogeni alle stesse comunità. Da una parte si verifica una crescita demografica lungo tutto il corso del secolo all'interno del mondo rurale, cui fa riscontro una contemporanea riorganizzazione e una istituzionalizzazione di certe funzioni burocratiche ed amministrative all'interno di quella società (40). Tutto questo comportava la sostanziale e progressiva disarticolazione di quel sistema normativo e consuetudinario, fondato su legami di solidarietà e di reciprocità nell'uso delle risorse comunitative, su cui si era fondata, nel periodo bassomedievale, la coesione della società. Un fenomeno questo, che non interessa solo la Terraferma veneta, ma che si estende a gran parte del continente.
La ridefinizione degli assetti locali di cui si sta discutendo era determinata dalla spinta concorde, anche se non univoca, proveniente dal ruolo giocato dalle città e dallo Stato. Anche in questo caso, il Dominio da terra segue ritmi di sviluppo di più ampia portata, che accompagnano la costituzione di altre realtà regionali italiane e di più ampi assetti europei: il ruolo della città, che tende a svuotare di significato le autonomie ed i privilegi goduti dai centri minori, attraverso un accentramento delle istanze di comando, con il riconoscimento che viene dalla capitale del diritto d'invio di vicari e giusdicenti di nomina urbana; il ruolo dello Stato, che si fa sentire esigendo tasse e gravezze ordinarie e straordinarie, ordinando lavori di manutenzione di strade, di arginatura di fossi e canali, obbligando le comunità ad alloggiare le milizie di San Marco, nei periodi di tensione militare, con le tragiche conseguenze di ogni occupazione. La sovrapposizione di questi diversi motivi inerenti alla stratificazione consuetudinaria propria delle comunità non poteva non creare i presupposti per una risistemazione delle norme su cui tali comunità si erano fino ad allora rette.
A differenza di Firenze (41), Venezia non pensò mai di avocare a sé l'approvazione delle normative statutarie, né tanto meno di ingerirsi direttamente nella loro stesura, che scaturiva dal profondo travaglio che è stato evocato. Fosse per calcolo lungimirante - il timore di un appesantimento dei compiti delle magistrature centrali e l'intenzione che certi pericolosi motivi di frizione si stemperassero all'interno del mondo dei sudditi -, fosse per il permanere di una differenza antropologica, cui si è già accennato, tant'è che mai - almeno per quanto si può cogliere dall'esame dei registri dei consigli sovrani - i rappresentanti di borghi e di valli presero la strada per la capitale lontana. La Serenissima preferiva delegare ai consigli civici dei centri maggiori delle varie province (Verona, Brescia, Padova) l'approvazione di quelle raccolte (42). È da sottolineare come anche questo atteggiamento si inquadri in una più generale linea di politica del diritto adottata da Venezia, consistente nel privilegiare la normativa statutaria urbana, e quindi il peso politico e giurisdizionale della città, come elemento di coordinamento e unificazione del territorio (43). Considerata questa peculiare intenzione, non può non sorprendere il fatto che Venezia si preoccupasse solo nel 1609 che gli statuti di Pordenone riportassero nel loro proemio la formula di giuramento ai duchi d'Austria, sotto il cui governo erano stati redatti, e che solo nella seconda metà del Seicento venissero espunti dalle raccolte statutarie delle tre podesterie del Polesine (Rovigo, Badia e Lendinara) i nomi degli antichi domini estensi (44).
Tali osservazioni ci consentono di introdurre un altro problema che l'amministrazione veneziana si trovò ad affrontare nel corso della sua esperienza quattrocentesca, e cioè quello del modo di rapportarsi con quei centri che sono stati recentemente definiti "borghi quasi città" (45). Di essi non è semplice cogliere la configurazione istituzionale in quanto costituivano delle organizzazioni di potere che esprimevano la propria volontà di essere assimilate alle realtà urbane, di godere dei privilegi di quelle, di porsi in diretto rapporto con la capitale, sfuggendo al controllo esercitato del centro urbano maggiore. È significativo che nel 1461 numerosi di questi centri - pensiamo, ad esempio, a Sacile e a Castelfranco - nel presentare le loro rimostranze ai sindaci veneziani, inviati in Terraferma per raddrizzare i torti subiti e per punire la cattiva amministrazione dei rappresentanti della Serenissima, definissero la loro realtà come civitas, e parlassero di ville e di communitates alludendo ai minori centri rurali che gravitavano attorno ad essa. Venezia, tuttavia, non legittimò mai tali pretese: nelle risposte alle suppliche, e nelle deliberazioni dei consigli, i patrizi della Serenissima non intesero mai applicare un lessico politico-istituzionale che potesse dare adito a pericolose tensioni, al gioco delle invidie, al rincorrersi delle rivendicazioni (46).
Negli atti amministrativi emanati nella capitale nel corso del Quattrocento, in linea con la volontà di non turbare gli instabili equilibri locali, ora si definiscono communitates le diverse entità - dalle grandi città della pianura veneta, alle minuscole ville appollaiate sulle montagne - sottoposte alla Dominante, esprimendo in tal modo l'intenzione di porre tutti i centri soggetti sullo stesso piano di fronte al potere sovrano, ora si richiamano, secondo un'ottica paternalisticamente orientata, termini anodini, che non rimandano ad alcuna particolare configurazione istituzionale o di potere, né ad una ridefinizione degli assetti costituiti (47).
In ogni caso l'interscambio e la compenetrazione tra ambiente veneziano ed ambiente veneto, l'incontro tra civiltà tanto differenti, sembra assai più pronunciato a livello delle realtà cittadine minori, rispetto ai centri più cospicui, con la formazione di un paesaggio particolare, con la creazione nella realtà territoriale veneta di una tonalità originale, destinata a perdurare a lungo (48). Tratti caratteristici che è possibile cogliere soprattutto nei luoghi deputati all'esercizio del potere.
Un elemento di notevole importanza allo scopo di definire con precisione lo stato dei rapporti tra centro e periferia è indubbiamente quello riguardante le trasformazioni urbanistiche dell'architettura pubblica e delle istituzioni: sia quelle provocate o suggerite dalla capitale, sia quelle promosse dai ceti dirigenti locali. Quali particolari modelli o stilemi architettonici della Dominante vengono recepiti - o elusi - dai governati? Con quali "intenzioni" e attraverso quali modificazioni e ibridazioni si realizza l'eventuale assorbimento delle immagini dell'auctoritas marciana da parte dei sudditi? È possibile scorgere un certo legame tra aspirazioni alla tutela ed al rafforzamento di una identità locale - messa in discussione dalle trasformazioni politico-istituzionali innescate dalla costituzione dello Stato regionale - e interessata ricezione, nei centri soggetti, di un linguaggio originale e particolarissimo elaborato nella città lagunare (49)?
"L'architettura, e in modo particolare l'architettura delle istituzioni, riassume il legame tra Venezia e i centri veneti: nella sua configurazione e nella sua localizzazione, essa incapsula gli intendimenti politici ed esprime, più di qualsiasi altro elemento, le ambizioni dei governanti e le aspirazioni dei governati" (50), così ha scritto Guido Zucconi nel tentativo di verificare nell'ambito delle sedi podestarili minori quella "creazione di un'unità ambientale" e quella "continua simbiosi" tra ambiente veneziano e ambiente veneto sulla quale si era già soffermato Gaetano Cozzi (51). Una compenetrazione che sarebbe quindi ascrivibile al tentativo, operato dai componenti della classe dirigente veneziana, di ampliare il senso della propria legittimità, fondandolo su un'immagine percepibile da chiunque, costituita da pochi ed essenziali elementi situati strategicamente al centro dell'abitato, riproducenti in sedicesimo fasti, liturgie e funzioni proprie della capitale. Il podestà, quasi un piccolo doge, esercita la sua autorità all'interno di un ambiente in cui le funzioni politico-giudiziarie, amministrative, fiscali, militari e religiose appaiono strettamente connesse, e risultano visualizzate topograficamente da quegli edifici che, pur con accentuazioni dialettali differenti da luogo a luogo, si ripetono con monotona insistenza nei vari capoluoghi amministrativi: la torre dell'Orologio, la campana del consiglio, l'antenna sormontata dal leone marciano, le lapidi elogiative che portano incisi i nominativi e le gesta dei rappresentanti veneziani.
Un simile sforzo di unificare metaforicamente capitale e centri soggetti segue cadenze differenti, a seconda che ci si sposti dalle città maggiori verso le entità di minor peso. Si pensi ad esempio alla costruzione delle logge podestarili e dei palazzi pretori: quanto nelle città minori esse riproducono, almeno a livello programmatico-ideologico, i segni di una identità nazionale, di una cementata collaborazione, in cui il travaglio dell'identità della piccola patria si stempera nella partecipazione a valori comuni, così, nei centri maggiori, l'architettura delle istituzioni sembra assumere un segno diverso. Non lingua universale, bensì riferimento ad una autorità eterogenea rispetto a quella marciana: il risentito orgoglio cittadino trova felici adempimenti. Si pensi ancora all'epigrafia classica, ad Antenore, a Plinio e a Catullo; o alla costruzione delle logge: emblematici i casi di Brescia e di Vicenza, dove la realizzazione viene affidata ad architetti locali, che nulla hanno da spartire con la cultura dominante nella Serenissima (52).
Il tema del processo di autoidentificazione nei centri minori sotto la specie della politica urbanistica, quella sorta di travagliato percorso in direzione di un ubi consistam, meriterebbe una ricerca ben più approfondita rispetto alle episodiche annotazioni che vengono fornite in questa sede. Si tratta di un terreno tematico che potrebbe essere arato con profitto, anche con i mezzi di una ricerca interdisciplinare: sarebbe interessante ad esempio comprendere se l'istituzione e la costruzione di una domus del comune in Valpolicella risponda ad una situazione locale assai particolare dal punto di vista politico-giurisdizionale, oppure possa essere comparata ad altre realtà (53); se quella tendenza sia in qualche modo facilitata da Venezia, o se incontri opposizioni, oppure ancora se sia autonoma o tangenziale nei confronti dell'ottica di governo della capitale.
Un indicatore significativo del duplice processo di adattamento e di trasformazione realizzato dalla Serenissima nei confronti delle realtà locali può essere fornito dal rapporto intercorrente tra le antiche sedi del potere e dell'autorità e quelle in cui si vengono ad insediare i rappresentanti del nuovo Principe. Le essenziali descrizioni del futuro diarista veneziano ci restituiscono l'attendibile immagine di una sostanziale omogeneità nella generalità dei centri visitati. A Sacile Sanudo era rimasto colpito da "una bella e grande piazza con un bellissimo palazo di Rason sopra la loza [...]; driedo di la piaza overo loza è uno castello quadro assà forte, ove habita el Potestà" (54). Un rapporto tra loggia e rocca che si può riscontrare in numerose piccole sedi di podesteria. È assai probabile che tale disposizione architettonica non dipendesse tanto da un calcolato progetto, ma scaturisse piuttosto dalla contingenza particolare e dalle modalità della conquista della Terraferma: le rocche degli Scaligeri, dei Carraresi, dei Caminesi come quelle viscontee, i castelli di Ezzelino da Romano e quello del patriarca di Aquileia, costituirono il primitivo alloggio del rappresentante veneziano e della sua guarnigione, nonché la sede deputata alle funzioni politico-amministrative che quello era chiamato a realizzare (55).
L'arroccamento sembra costituire soprattutto un iniziale espediente logistico: Venezia - diversamente da quanto accade nei centri maggiori e capitali di Stati signorili di una certa entità come Padova e Verona, in cui i simboli e le strutture del nuovo potere si sovrappongono a quelli delle precedenti dominazioni - cerca di interrompere il legame di continuità fisica e metaforica con i luoghi dell'ormai sorpassata autorità principesca. Con il trascorrere del tempo, nella seconda metà del XV secolo, la Serenissima sembra intenzionata a creare gli ambiti topografici della propria autorappresentazione attorno alle antiche sedi comunali. Un processo di progressivo decentramento che non è difficile cogliere in tre centri del padovano come Este, Montagnana e Monselice (56). In quest'ultima località ad esempio si può avvertire come già nel 1483 l'antico castello abbia perso le caratteristiche di baluardo militare e di centro da cui si diramano le funzioni politiche e amministrative: i Marcello, patrizi veneziani, dopo averne rilevata la proprietà, hanno deciso di adibirlo a dignitosa dimora per le discendenti nubili della famiglia (57).
Anche laddove le istituzioni veneziane restano inserite nel reticolo topografico costituito dalla preesistente struttura eretta a scopo militare-difensivo e di controllo del territorio, la volontà dei governanti di scrostare del tutto l'arcaica patina dell'età feudale-cavalleresca si esplicita senza tentennamenti, ma non senza risentimenti a livello locale. Caratteristiche di esemplarità si possono riscontrare nel caso di Conegliano. Qui l'antica domus communis, edificata nel corso del XIII secolo, viene radicalmente trasformata, ed assume le vestigia di un "palazzo" vero e proprio (58). Il ripristino della rocca, terminato nel 1467, sembra aver preso come modello le vicine logge di Ceneda e Serravalle: vari dipinti di Cima da Conegliano ci restituiscono l'immagine "di una fabbrica scandita da quattro grandi trifore e coronata da merli" (59). Una trasformazione che sembra unificare le varie lingue particolari sotto l'egida di un mos venetus, come icasticamente definì Marin Sanudo le sembianze assunte dal palazzo dei rettori di Maderno (60).
Anche in questo settore, quindi, e forse con ancora maggiore evidenza rispetto agli altri, non risulta difficile cogliere il complesso intreccio di reciproci imprestiti e concessioni, di resistenze e adattamenti, di spinte autoritative che caratterizza il rapporto tra governanti e governati nella Terraferma veneta del XV secolo.
In un sistema in cui l'impetrare e il concedere giustizia assumevano la centralità che abbiamo cercato di sottolineare, i giuristi, gli interpreti ed i pratici del diritto rivestivano un ruolo fondamentale. È necessario a questo punto interrogarsi sulla loro posizione all'interno dello Stato territoriale, sulla loro capacità di influenzare pratiche, modalità di intervento proprie dei rappresentanti veneziani, sul loro potere di condizionare la stessa emanazione legislativa dei consigli sovrani, nonché sul grado di ricezione della loro cultura, e delle loro intenzioni politiche, da parte della classe dirigente della Serenissima.
Si è già detto del prestigio esercitato all'interno della città dai collegi dei doctores legum. Era da questo corpo compatto che uscivano le petizioni più articolate miranti a circoscrivere con esattezza ambiti giurisdizionali, a tutelare norme sulle quali si ergeva l'autorità che gli stessi soggetti detenevano a livello locale. Una pressione, quella esercitata dal corpo dei giuristi e dei pratici del diritto, che non poteva non riversarsi e non investire il funzionamento delle istituzioni veneziane sotto diversi aspetti. Pensiamo ad esempio all'accoglimento nella legislazione e, soprattutto, all'assorbimento nella prassi dei tribunali d'appello della capitale di norme e pratiche che derivavano dalle raccolte statutarie locali. Indicativa a tale proposito la questione riguardante la giurisdizione del consilium sapientis. La particolarità di questo istituto consisteva nella opportunità offerta alle parti in causa, qualora fossero concordi, in caso di una qualsiasi differenza che vertesse tra esse in materia di diritto civile - questioni dotali, matrimoniali, ereditarie -, di demandare la risoluzione della controversia - o perché particolarmente irta di complicazioni dottrinali, o perché si temevano le estenuanti lungaggini procedurali proprie dei tribunali locali, e, in caso di appello, di quelli centrali - ad un esperto del collegio della città di appartenenza (61). Le proposte delle diverse ambasciate che si presentarono al senato negli anni Venti e Trenta del Quattrocento (Treviso nel 1424, Padova nel 1432, Vicenza nel 1433), tese a riaffermare la vigenza dell'istituto, perché messa in discussione dai rappresentanti in loco della Serenissima che rifiutavano di aderire alle richieste delle parti, verranno accolte a larga maggioranza (62). All'interno del patriziato veneziano si manifestò tuttavia la preoccupazione che una eccessiva disponibilità a demandare importanti funzioni giurisdizionali al consilium sapientis potesse apportare una diminuzione dell'autorità del rettore inviato dalla Dominante: il consiglio dei dieci emanava nel 1449 una parte con cui si sottraeva ai giuristi delle città suddite incaricati di stilare il consilium il potere di modificare o di intervenire su atti e pronunce dei podestà. In nessun caso quei giuristi avrebbero potuto arrogarsi il titolo di "tribunall", in quanto "istud verbum tribunal convenit solo Potestati, sed dicatur solitum banchum sui iuris" (63).
Non troppo dissimili da quello appena descritto risultano i percorsi istituzionali che porteranno all'unificazione per tutto il Dominio delle procedure inerenti le sentenze cosiddette late in arengo (emanate cioè secondo tutte le formalità definite dagli statuti, e da ritenersi, pertanto, definitive) (64), e la regola delle due "sentenze conformi", in base alla quale si stabiliva la non appellabilità su atti e pronunce di due differenti gradi di giudizio, che sancivano un medesimo principio o che affermavano la legittimità dei diritti della medesima persona giuridica (65). L'intenzione che sottostava all'avanzamento di tali petizioni era evidentemente indirizzata a limitare i poteri di intromissione e quindi di controllo delle magistrature veneziane, comprimendo in modo sostanziale le possibilità di interporre appello dai centri soggetti alla capitale. Dietro le elaboratissime formule giuridiche contenute nei capitula presentati alla Serenissima Signoria dai nunzi delle città suddite, si evidenziava una chiara volontà politica, che veniva percepita dai governanti come tale, e, come tale, pragmaticamente non elusa. In questo senso vanno interpretati i sicuri assensi che a quelle ambasciate venivano dedicati dai componenti dei consigli sovrani, e che si inscrivevano in quell'ampio processo di edificazione dell'immagine di un potere legittimo che si sta cercando di cogliere. Ma questo atteggiamento di fondo dei governanti non può andar disgiunto, per comprendere come, di fatto, si intendesse ottemperare o meno a quanto solennemente affermato, dal concreto operare delle istituzioni.
Nel corso del XV secolo, anche all'interno dello Stato territoriale marciano, pur con valenze del tutto originali, dovute all'intrecciarsi ed al sovrapporsi del diritto veneto (cioè della Dominante) con i vari diritti locali di impronta romanistica, si andava ridefinendo - analogamente a quanto accadeva in altre coeve formazioni statali della penisola (66) - il rapporto tra potere politico e cultura giuridica (67). Una cultura che non poteva non risentire di quell'ampliamento degli studia humanitatis che si verifica nel corso del Quattrocento che, anzi, direttamente la condiziona e che, partecipando di una generale istanza di rinnovamento, realizza gli scopi che quei medesimi studia si erano prefissi. Cultura che da una parte tende ad evidenziare le irredimibili differenze che oppongono ambiente veneziano ed ambiente veneto, e quindi ad esaltare una visione tutta particolaristica del Dominium, e dall'altra parte contribuisce, attraverso la formazione di una retorica politica mirante a illuminare e a definire i più oscuri meandri del potere, a solidificare l'idea di sovranità, a creare un linguaggio comune tra Venezia e il Veneto (68). Si viene così a costituire una realtà sottilmente ambigua. Con l'inizio del XV secolo, nella città marciana aveva ormai perso ogni vigore il dibattito sul rapporto tra diritto proprio, legge e consuetudine (69), e una legge emanata dal senato nel 1401 aveva ormai sancito la più completa esclusione dei doctores legum dal ruolo politico-interpretativo che avevano ricoperto in precedenza, demandandolo ormai interamente ai consigli sovrani, e imponendo agli avogadori di comun di cancellare tutte le pustille rinvenibili negli statuti (70). Ai detentori della scientia iuris non rimaneva che il compito "di organizzare la pratica giudiziaria e amministrativa, o di argomentare, tutt'al più, sul piano formale e ideologico le varie scelte politiche" (71).
Nella struttura istituzionale dello Stato territoriale veneto i maggiori giuristi della Terraferma erano, quindi, destinati ad occupare una posizione decisamente subalterna: impossibilitati ad accedere ai massimi livelli politico-decisionali della Repubblica, a causa della norma che consentiva l'elezione ai consessi sovrani ai soli membri del patriziato della Dominante, non rimaneva loro che decidere se assumere il ruolo di apologeti del potere costituito, esercitare, in modo nicodemitico, una critica all'assetto di governo che si andava costituendo, o trasformarsi in tecnici-funzionari al servizio del nuovo Principe.
L'eminente patavino Jacopo Alvarotti, esponente di una delle famiglie più in vista della città (72), affrontava indirettamente, nella sua Lectura in usus feudorum, il problema della preminenza gerarchica tra diritto veneto e diritto imperiale (73). Affermando la vigenza delle leggi feudali, in quanto recepite dalla legislazione imperiale e quindi valide per tutti i sovrani e per tutti i popoli, compresi quelli che "de facto non recognoscunt superiorem", e sottolineando come, pertanto, l'imperatore doveva essere considerato "dominus totius mundi", circoscriveva anche, allo stesso tempo, un ambito di sovranità particolare per la Serenissima, non contraddicente con quella precedentemente citata: pur dipendendo dall'autorità imperiale la legittimità della libertas di Venezia doveva ritenersi indiscutibile, in quanto "fundata in mari" (74). Una analoga elasticità ermeneutica dimostrava il veronese Bartolomeo Cipolla, eminente rappresentante del ceto di governo della città atesina e strenuo difensore delle sue autonomie. Nel De interpretatione legis extensiva, pubblicato nel 1469, pur dimostrandosi pronto a riconoscere, sulla scorta di Baldo e di altri classici, come il "Dominium Venetorum non recognoscat superiorem", affermava senza tentennamenti l'impossibilità di estendere alla Terraferma, anche in via sussidiaria, il diritto veneziano fondato sull'equitas (75). L'ambiguità e la instabile bipolarità dell'ordinamento instaurato da Venezia non poteva non informare la produzione dottrinaria e l'attività consultiva dei giuristi al servizio del Principe. In questo ambito appare quasi naturale che i governanti intenzionati ad affermare la piena legittimità del loro potere si rivolgessero a tecnici non originari dei territori sottoposti a San Marco. È il caso di Giason del Maino che, nell'ultimo decennio del Quattrocento, affermò in un consilium, di cui era stato richiesto, il pieno diritto della Repubblica di ricevere appelli, in quanto detentrice della sovranità, da ogni luogo sottomesso alla sua signoria, comprese le giurisdizioni ecclesiastiche e quelle feudali (76).
Vi erano anche altri canali, ancora più diretti, attraverso cui la cultura e l'influenza dei giuristi di Terraferma poteva condizionare la politica del diritto che Venezia tentava di adottare. Venezia, analogamente a quanto si verificava nel Ducato milanese o nella Repubblica fiorentina, aveva stabilito che i rettori scelti all'interno del corpo sovrano e inviati a governare le maggiori città del Dominio fossero assistiti da un certo numero di tecnici, gli assessori, per giudicare in civile e in penale (77). Un corpo, quello degli assessori, che, proprio nella seconda metà del Quattrocento, comincia ad assumere caratteri e funzioni che ne segneranno la vicenda nei secoli successivi (78). Uno di questi tecnici del diritto, operante nello Stato da terra tra fine XVI e inizio XVII secolo, precisava come rientrasse tra i compiti dei rettori veneziani quello di nominare i propri assistenti tra i "Dottori di leggi" laureati a Padova, con la ingiunzione, simile a quella prevista dalla legislazione medievale per l'elezione del podestà, che "devono essere forestieri et non di quella città dove hanno da giudicare" (79). A fine Cinquecento il numero degli assessori che svolgevano le loro mansioni all'interno del Dominio ammontava a trentuno: a Padova e Verona ne venivano eletti quattro; tre a Brescia, Bergamo e Vicenza; due a Udine, Treviso, Rovigo e Crema; uno soltanto in centri minori quali Feltre, Belluno, Cividale del Friuli, Salò, Palma e Conegliano. Per il periodo di cui ci stiamo occupando è necessario aggiungere Ravenna, perduta nel corso delle guerre d'Italia, dove il podestà e capitano veneziano era assistito da un vicario. Vi era ovviamente una gerarchia delle sedi maggiormente ambite, così come, all'interno di una medesima corte, si stabiliva una gerarchia delle cariche: così l'incarico di vicario a Padova, Brescia o Verona, risultava assai più ambito di quello analogo a Salò o a Feltre, così come per un giurisperito che intendesse mettere in luce le proprie capacità non doveva essere indifferente esercitare, ad esempio, a Verona, la funzione di vicario o di giudice del maleficio, piuttosto che quella di giudice delle vittuarie o del grifone. Dal punto di vista della definizione degli equilibri interni allo Stato, era importante per la Dominante creare un ceto di esperti di diritto comune che potessero, con il proprio sapere e la propria abilità dialettica, rintuzzare in sede locale le mai sopite velleità particolaristiche rappresentate dai doctores dei collegi: in tal senso le pur occasionali frizioni giurisdizionali tra corti pretorie e istituzioni giudiziarie delle città soggette assumono una valenza strutturale e non meramente aneddotica (80).
Per alcuni giurisperiti della Terraferma si presentava la possibilità di una diversa forma di legittimazione all'ombra del Principe rispetto a quelle tradizionali, in un momento di ancora incerta strutturazione degli assetti istituzionali. Ed infatti, negli ultimi due decenni del secolo, è possibile notare che, come risulta dall'esame dei registri che riportano i nominativi degli eletti alle corti di Terraferma, alcuni individui comincino ad occupare le cariche maggiori con una certa continuità. Pensiamo, ad esempio, alle notevoli carriere dei patavini Conte Alvarotti e Bonifacio Bonfilio, o dei vicentini Girolamo Ferramosca e Giovanni Scroffa (81).
Numerosi sintomi stanno a testimoniare di un flusso di informazioni e di un interscambio culturale sempre crescente, sotto il segno del giuridico, lungo tutto il secolo, tra governanti e governati in entrambe le direzioni. Al di là delle barriere tradizionali che vischiosamente si frapponevano a tale processo, era nella forza delle cose che si creassero nuove funzioni all'interno di uno spazio politico tanto ampliato. Nel 1456, il consiglio dei dieci poteva ben legiferare ingiungendo ai rettori di bloccare alla fonte le troppo numerose e troppo frequenti ambasciate che da ogni angolo del Dominio giungevano a Venezia, obbligandoli a controllarne i titoli di legittimità (82). Ciò non evitava che negli ultimi due decenni del secolo le aule dei tribunali d'appello, dei capi del consiglio dei dieci, e dei consiglieri ducali, risuonassero di tante querele e fossero oberate da una mole di lavoro così ingente da sbrigare, da dover richiamare alcuni patrizi avvertiti a mettere mano a riforme procedurali, che, tuttavia, non modificarono i termini del problema (83). E se il senato, nel 1441, aveva opposto un secco diniego ai nunzi berici che impetravano la costruzione di una loro domus nella città marciana, allo scopo di potersi meglio occupare delle numerose controversie, di natura fiscale, amministrativa, giurisdizionale, che opponevano Vicenza a Venezia, creando in tal modo i presupposti di una rappresentanza stabile (84), alla fine del secolo l'atteggiamento della Serenissima sembra essere notevolmente mutato. Infatti, nel 1492 e nel 1500, è possibile vedere il consiglio dei dieci teso a regolamentare la gestione di alcune case delle nunziature del Dominio (85).
Nel corso della seconda metà del secolo, Verona, prima fra tutte le città della Terraferma, aveva ottenuto dalla Serenissima il privilegio di poter mantenere, ovviamente a spese della stessa comunità atesina, un proprio advocatus stabile nella capitale (86). Sembra che Venezia cominci ad avvertire i vantaggi apportati dalla presenza al suo interno di uomini dello Stato da terra e dalla frequente, quasi quotidiana, riproposizione di problemi provenienti dal Dominio: un controllo più diretto e meno intermittente esercitato sui governati e una maggiore possibilità di condizionamento e di appianamento delle tensioni che agitavano il mondo della Terraferma.
A scorrere i documenti legislativi prodotti dalle diverse magistrature si deriva la sensazione che la capitale dimostri una crescente capacità di attrazione, quasi una forza gravitazionale. Già nel 1436 il presidente della quarantia ed i consiglieri ducali, interpretando l'atteggiamento interno al patriziato di marca più tradizionale, sollecitavano il senato ad approvare una legge severa, che fosse capace di impedire a "certi advocati et doctores forenses" di placitare tanto frequentemente cause presso i tribunali ed i consigli della Serenissima, contravvenendo in tal modo alla consuetudine per cui ai soli patrizi veneziani era consentito di esercitare quella funzione (87). Tuttavia, alla fine di una serrata discussione, si era preso atto delle difficoltà che si sarebbero presentate nell'adottare un simile provvedimento, e si era preferito approvare una formula maggiormente elastica ed ambigua (88).
Lo sviluppo della funzione pubblica produceva, quindi, un ampio rimescolamento di uomini, norme, linguaggi, dalle origini più disparate, dando vita ad un organismo composito in cui il portato della cultura giuridica classica si frammischiava a modalità di interpretazione e di risoluzione dei conflitti di impianto decisamente meno tradizionale. Si generavano nuovi interessi, si creavano strutture, più o meno informali, entro cui si sviluppava il rapporto tra centro e periferia. Dietro la retorica moralistica di numerosi provvedimenti legislativi emanati in questo periodo, emergono tentativi di opposizione e di resistenza alla creazione di una più ampia rete di rapporti tra sudditi e Principe. Nel 1479, ad esempio, il podestà di Bergamo Sebastiano Badoer, appena tornato a Venezia, faceva votare in senato una parte, molto probabilmente sollecitata dal ceto dirigente, assai interessato, della città che aveva lasciato, con cui si stigmatizzava severamente il comportamento di quei "malignos homines" che si recavano frequentemente nella capitale "multas et varias lites suscitando, cum incredibili iactura miserabilium personarum", in quanto facevano sostenere alle comunità da loro rappresentate eccessive spese giudiziarie (89).
Un flusso che andava anche nella direzione opposta. Ancora nel 1479, i senatori riprovavano una "pessima consuetudo" introdotta da qualche tempo nelle città e nelle terre del Dominio. Da numerose relazioni giunte nella capitale risultava, infatti, che alcuni patrizi veneziani "advocant et agunt causas coram quibuscumque magistratibus, rectoribus et iudicibus nostris", proferendo sovente, a detrimento della pubblica immagine dell'autorità - e questa potrebbe essere la giustificazione di ordine moralistico tendente a legittimare la severità del provvedimento rispetto alla consuetudine - "verba inconvenientia et ignominiosa [...] cum dedecore suo et parvo honore nostri Dominii" (90).
L'immagine fin qui evocata di un crescente avvilupparsi delle necessità di chi governa con le ragioni di chi è governato, dei contrasti e delle resistenze che da quel contatto scaturivano, nonché dei molteplici legami e di nuove forme istituzionali e di potere che intessevano il rapporto tra centro e periferia, risulta probabilmente meglio definita se si sposta l'attenzione dall'esame della legislazione di ordine più generale all'analisi delle funzioni rappresentate, della autorità detenuta, e del concreto modo di operare di quegli organismi di governo cui la costituzione veneziana aveva delegato principalmente l'amministrazione del Dominio: i rettori, gli avogadori di comun, gli auditori novi, il consiglio dei dieci.
Fin dagli inizi del XIII secolo, reggendo la carica di podestà nei centri della Marca trevigiana, così prossima e così affine al mondo delle lagune, e poi in maniera sempre più cospicua, nel corso del XIV, raggiungendo i centri della penisola istriana già orbitanti attorno al fulcro marciano, bordeggiando le inquiete coste dalmatine fino a toccare le remote isole del Levante, motivo di lustro e fonte di ricchezza per la Serenissima, chiamati infine a sostenere il duro carico di reprimere e di placare riottosità endemiche nelle città del più ampio e instabile entroterra veneto, che i diversi regimi signorili dei Caminesi, Carraresi e Scaligeri non erano riusciti a compattare (91), i patrizi della Repubblica avevano patito traversie e goduto dei vantaggi apportati dall'essere nominati a governare realtà esterne ed irriducibili rispetto al peculiare ambiente veneziano. Non certo una vocazione sollecitata da irrequietezza o da volontà di evadere da un ambiente percepito come soffocante, ma neppure una vicenda episodica destinata a non incidere sulla memoria politica di una élite sovrana. Sembra tuttavia, a scorrere i densissimi ed ordinatissimi registri di cancelleria redatti nel corso del Quattrocento, che solo con la conquista del Dominio da terra il problema del governo e del controllo su vie, boschi, passi montuosi, microregioni, divenga un quotidiano impegno di interpretazione e di risoluzione di istanze e di conflitti, si traduca in un difficile sforzo di creazione di una struttura amministrativa.
Fondamentale cinghia di trasmissione della volontà del Principe ai sudditi e delle inclinazioni di chi doveva obbedire alla legge rispetto a coloro che la legge erano tenuti ad emanare, la funzione rettoriale era composta da una pluralità di motivi spesso in conflitto l'uno con l'altro e postulava un'ardua ricerca di equilibri. Su di essa si proiettavano una sorta di mitologica e atemporale immagine del buon governo, come anche gli accomodamenti congiunturali, le proposte più spregiudicate e gli arretramenti più timorosi che attraversavano la classe dirigente veneziana.
Al rettore verranno demandati peculiari compiti di mediazione e di neutralizzazione di conflittualità che coinvolgevano il mondo della Terraferma inasprite e sollecitate dalla formazione dello Stato territoriale, o ereditate dalle precedenti dominazioni: città opposte ai loro contadi sulla ripartizione delle quote d'estimo o sull'allargamento del controllo giurisdizionale; controversie originate all'interno dei borghi di media importanza o delle stesse comunità rurali sulla vigenza di determinate consuetudines, sull'uso delle terre comuni, sulla preponderanza di gruppi familiari o fazioni che gestivano un potere limitato, ma invidiato (92).
Le funzioni inerenti la carica rettoriale erano avvolte da sostanziale ambiguità; difficile intuire quanto realmente congegnata dai saggi estensori delle leggi. I vari rappresentanti della Serenissima nel Dominio avrebbero dovuto da una parte comunicare ai sudditi l'idea di una giustizia saggia e paterna, ma anche capace di colpire inesorabilmente; dall'altra i margini di un intervento discrezionale erano limitati dal controllo esercitato dal centro per via legislativa o giudiziaria, dalla selva dei privilegi goduti e delle prerogative detenute dai corpi particolari soggetti. Indicativa di questo stato di cose è la irresolutezza di fondo per cui, in diverse località del Dominio da terra, si consentì che coesistessero - in un intreccio destinato a divenire fonte di rinnovate conflittualità, ma anche precondizione per un'espansione dell'intervento pubblico - fonti giuridiche, entrambe legittimate dall'autorità sovrana, quali le commissioni dei rettori - raccolta di norme procedurali cui i rappresentanti veneziani dovevano strettamente attenersi - che permettevano in diverse occasioni l'uso dell'arbitrium, prescindendo da ogni altra considerazione, e gli statuti locali, che, come si è avuto già modo di accennare, presupponevano una ben diversa cultura politico-giuridica (93).
Importante, a leggere le diverse parti emanate dal senato o dal consiglio dei dieci nel corso del secolo, che le popolazioni soggette non avvertissero come un corpo estraneo e perturbatore la presenza del rappresentante della Serenissima; ma, insieme a tale sollecitudine, emergeva anche il timore che il rapporto quotidiano dell'elemento veneziano con i ceti eminenti locali potesse favorire la creazione di legami privilegiati all'interno della struttura costituzionale, potesse illudere gruppi di interesse di aver trovato, anche in seguito alla partenza del rettore dalla città che gli era stata affidata, un accondiscendente interprete presso il Principe delle proprie rivendicazioni. Indicativa della permanenza di questo problema, la vicenda delle influenti famiglie vicentine dei Porto e dei Loschi, che nel 1526 provarono ad orientare la nomina del rappresentante da inviare nel centro berico, facendo pressione su alcuni patrizi chiamati ad eleggerlo perché scegliessero un elemento loro particolarmente gradito (94).
Decisamente da riprovare erano le inclinazioni dei patrizi chiamati a reggere le città della Terraferma, quali l'eccedere nell'illustrazione della maestà del Principe, o l'inclinare pericolosamente verso l'autocelebrazione. Già nel 1407 i senatori, recependo evidentemente un'istanza che sortiva dalla irritata suscettibilità di chi deteneva il potere nei centri soggetti, ordinavano che i rappresentanti veneziani dovessero astenersi dalla pratica per cui, terminato il loro incarico, conducevano "in sua comitiva multos ex nobilibus et civibus dictorum locorum", al punto che questi ultimi erano costretti ad abbandonare uffici ed occupazioni "cum sinistro suorum agendorum" (95). Ancora il senato, nel corso del 1425, formalizzava il rituale cui si dovevano conformare i rettori al momento di assumere e di abbandonare la località loro assegnata, e ne delegava l'osservanza all'avogaria (96). Nella parte, approvata a larga maggioranza, si raccontava della pessima consuetudine per cui i due rappresentanti veneziani pronunciavano interminabili "sermones", destinati a non provocare presso le popolazioni soggette "illum bonum et notabilem effectum" che il loro agire avrebbe dovuto suscitare. Da allora in avanti i rettori, quello entrante e quello uscente, incontrandosi alle porte della città, si sarebbero dovuti astenere da ogni lungaggine, limitandosi alle sintetiche espressioni "ego vobis consigno istud regimen nomine illustrissimi Dominii Venetiarum", "ego accepto".
Orientata da criteri di giudizio analoghi a quelli della parte appena analizzata, un'altra pronuncia senatoria stigmatizzava l'intenzione autolaudativa per cui numerosi rettori "pro honorando ingressus ad regimina eis dessignata" facevano accorrere in città gli armigeri stanziati "sub illa jurisditione", con grave danno per le comunità rurali costrette a sostenere le spese straordinarie degli alloggiamenti (97).
Nello stesso anno, il 18 giugno, venivano approvate altre due norme disciplinari, anch'esse miranti, attraverso la delega del potere di controllo all'avogaria di comun, a limitare l'eccessiva disinvoltura con cui i rettori tendevano ad interpretare i compiti loro affidati. Con la prima veniva interdetto l'uso, adottato da qualche tempo da molti di loro, di impetrare al collegio la "gratia" di poter vendere i cavalli che la commissione istitutiva attribuiva ai rappresentanti veneziani (98). Con la seconda si condannava sia la frequenza con cui i rettori richiedevano sia la larghezza con cui il senato concedeva "licentie" e deroghe agli obblighi amministrativi, grazie alle quali i primi riuscivano ad eludere i loro doveri, rimanendo per numerosi giorni "pro negociis suis, extra regimina et officia sua" (99).
È necessario distinguere, anche se la definizione del problema meriterebbe un maggiore sviluppo, la funzione propria dei rappresentanti inviati nei centri maggiori da quella degli incaricati delle città di media importanza. Domenico Morosini dedicava una pagina del suo trattato De bene instituta alla definizione degli scompensi apportati dall'attività dei rettori e suggeriva alcune praticabili modalità di riforma (100). Uno dei motivi dell'incrinarsi presso le popolazioni soggette dell'immagine del buon governo della Serenissima era da ricercarsi nell'attività di tanti rappresentanti veneziani, soprattutto di quelli inviati nei centri di minor peso, sovente patrizi di secondo piano o di giovane età, che interpretavano la carica con eccessiva spregiudicatezza, talvolta come mezzo di arricchimento personale. Si potrebbero citare a tale proposito alcuni processi condotti dagli avogadori di comun, alla cui giurisdizione appartenevano, come si avrà modo di vedere, ampie facoltà di controllo sull'attività dei giusdicenti veneziani. Nel 1410 Matteo Viaro podestà di Motta, piccola sede di rettorato nel distretto trevigiano, verrà condannato ad una pena pecuniaria, al risarcimento dei danni alle parti lese e alla privazione di tutti gli offici e benefici, per aver obbligato gli abitanti della comunità al taglio di alberi in alcuni boschi, contro le loro antiche consuetudini, e a vendere il frumento sulla pubblica piazza ad un prezzo da lui arbitrariamente stabilito (101).
Una punizione analoga veniva decretata nel 1424 per Lazzaro Moro, rettore a Rovereto, in quanto aveva cercato di colpire un suo sottoposto, il connestabile Bertolo da Urbino, investendolo con una serie di improperi ("proditor, ribaldus, poltronus, rofianarus") (102). Il risentimento era generato dal fatto che il connestabile, evidentemente contrastando le intenzioni del rappresentante veneziano, si era permesso di rendere esecutive alcune lettere ducali che prevedevano la liberazione di un tale incarcerato. Ancora nel 1424 gli avogadori sottoponevano al giudizio del senato, in seguito a denunzia avanzata dai "distrectuales" di Portobuffolè, una dozzina di articolatissimi capi d'accusa rivolti al rettore di quel luogo (103). Tra i soprusi addebitatigli figurava quello consistente in una sorta di giustizia sommaria esercitata nei confronti di alcuni uomini, colpevoli, a suo vedere, di aver impetrato l'intervento delle magistrature della capitale per difendere i loro diritti. Casi limite, che non dovrebbero comunque favorire troppo semplicistiche interpretazioni scandalistiche, tendenti a costruire a partire da una documentazione archivistica ridotta, ed amplificata ad arte - un "antimito" da contrapporre ad un mito del governo della Serenissima non meglio identificato criticamente (104).
Episodi in ogni caso sintomatici di un disagio di fondo, della difficoltà o dell'incapacità di coprire l'estesa area sottoposta alla Repubblica con una rete di amministratori integri e capaci. Di fronte a tale problema Domenico Morosini proponeva di ridurre drasticamente il numero, a suo dire eccessivo, di Veneziani che, come rettori, capitani o camerlenghi, trovavano occupazione in qualche sede del Dominio. Una presenza tanto diffusa di persone che non dimostravano alcuna dimestichezza con un ruolo così difficile e che, in ogni caso, erano costrette, a causa dei tempi stabiliti per un incarico pubblico, a lasciare la giurisdizione loro assegnata non appena avevano iniziato a impratichirsi, non poteva che provocare, presso i governati, insofferenza e fastidio. Per tale motivo, Morosini suggeriva di nominare alle podesterie maggiori patrizi di indiscutibile prestigio, anziani e già esperti dell'arte dello Stato, magari dotandoli di poteri di intervento più ampi e più certi. L'opera di coinvolgimento ideologico dei sudditi era comunque delegata ad altri rappresentanti del corpo sovrano, gli ecclesiastici, che, in quanto maggiormente tutelati da inframmettenze e controlli, avrebbero potuto meglio espletare i loro compiti "politici".
L'istituto dell'appello riveste nel sistema costituzionale veneziano un'importanza centrale. Attraverso la ricezione delle diverse istanze di revisione di sentenze civili e penali emanate dai rappresentanti veneziani inviati nel Dominio si rendeva infatti possibile esercitare una sorta di sindacato sull'attività giurisdizionale degli stessi; intuire quali potessero essere i motivi dello scontento dei sudditi, ed evitare quindi azioni amministrative o emanazioni di normative che rischiassero di provocare una delegittimazione dell'autorità veneziana; rappresentare una primaria funzione sovrana. Data la confusione e la sovrapposizione dei modelli giuridici sui quali ci siamo già soffermati, il problema dell'interpretazione delle norme non poteva che giocare un ruolo centrale. La frammentazione dei centri ai quali era attribuita una certa autorità e la pluralità dei diritti vigenti all'interno dello Stato territoriale, ciascuno dotato di una sua legittimità, assieme alla funzione sfumata ed ambigua attribuita ai rettori, l'incertezza e la reticenza ad affrontare in modo diretto i problemi dell'amministrazione della giustizia, testimoniata da numerose parti del consiglio dei dieci o del senato, tutti questi elementi facevano ricadere sui giudici d'appello l'onere di districarsi nella fitta selva costituita dall'intrecciarsi di disposizioni sovrane, rubriche statutarie, norme consuetudinarie, decisioni di giusdicenti e interessi particolari.
In tale sistema una posizione di primo piano era rivestita dall'avogaria di comun (105). Le originarie attribuzioni giurisdizionali della magistratura risultano ignote. Di fatto essa si era venuta caratterizzando, nel corso del XIV secolo, nella funzione di tutela dei diritti del Commune Veneciarum - fiscali, economici, giurisdizionali - di fronte a tutti coloro che avessero osato metterli in discussione. In una fase, quale quella cui abbiamo modo di assistere nel corso del Quattrocento, di proliferazione legislativa e di intensificazione dei compiti dell'autorità pubblica, il ruolo degli avogadori, eletti nel numero di tre, per la durata di sedici mesi, si era andato progressivamente focalizzando. Richieste individuali e deleghe dei consigli sovrani avevano attribuito all'avogaria il compito di provvedere alla supervisione ed al controllo della legalità degli atti emanati dai componenti del patriziato, quando questi ricoprivano una qualche carica pubblica.
Un'idea di governo, quella rappresentata dall'avogaria, esaltata da numerosi trattatisti contemporanei, e progressivamente ammantata dai colori del mito. Polo Morosini, nel suo De rebus ac forma Reipublicae Venetae scritto a metà Quattrocento, definiva quello degli avogadori "supremum et auctoritate perspicuum tribunal" (106).
Un patrizio dagli intenti ottimatizi quale Domenico Morosini sottolineava, a fine Quattrocento, nel De bene instituta le principali funzioni della magistratura: "tuetur leges, libertatem defendit, vim persequitur et civitatem in securitate et equalitate et legum observantia continet", e orgogliosamente affermava come nessuna repubblica presente o passata era illustrata da una istituzione così prestigiosa ed incorrotta, e come nessuna "philosophorum traditio" aveva garantito una così perfetta fusione di integerrima azione giudiziaria e di consonanza ai più alti valori ideali (107). Una attività alacre ed ininterrotta, a detta del trattatista veneziano, indirizzata a colpire "sicarios, latrones, homicidas", a condannare i falsificatori di monete e i "violatores" di vergini, ad espellere dal consorzio dei boni cives i "fures sacrarum edium" ed i bestemmiatori. Strenua difesa della legalità che non si esauriva semplicemente - come per le fattispecie criminose appena citate - nel perseguire i delitti commessi all'interno della città lagunare, ma che si estendeva ad un settore assai più ampio, cioè al controllo esercitato sulle procedure adottate dai diversi tribunali civili e penali e sulla conformità delle sentenze emanate dagli stessi alle norme legislative, il che significava soprattutto disponibilità nel recepire e nel valutare la fondatezza delle suppliche interposte dai sudditi del Dominio.
Marin Sanudo nello stesso giro di anni si soffermava, nel suo De origine, situ et magistratibus urbis Venetae, su ciò che connotava l'avogaria in maniera più originale (108). Nessuna deliberazione emanata da un consiglio della capitale poteva ritenersi legittima se a quello non aveva preso parte almeno un componente della magistratura. Individualmente o collegialmente gli avogadori potevano partecipare alle riunioni dei tribunali e alle sessioni dei maggiori organismi legislativi della capitale - con l'eccezione, importante, del consiglio dei dieci, sulle cui motivazioni di ordine politico avremo modo di tornare - detenendo la facoltà di "metter parte" (di avanzare cioè proposte di legge, o di suggerire sanzioni e pene), e di "metter ballotta" (di partecipare cioè alla votazione). Sanudo, distinguendosi in tal modo da Polo Morosini, indicava con chiarezza il venir meno, tra tardo Quattrocento e primo Cinquecento, delle prerogative avogaresche, soprattutto nel settore della giustizia civile. Una preoccupazione che emerge ulteriormente dalle pagine di un breve trattato di analogo contenuto, redatto dallo stesso autore nel corso del 1515 (109).
In un altro contributo di questo volume si tratta della vicenda costituzionale interna della Serenissima tra Quattro e Cinquecento, di cui la crisi dell'idea di legalità incarnata dall'avogaria costituisce un nodo centrale, e sulla quale pertanto non ci soffermiamo ulteriormente (110). Al di là dell'incrinarsi di quell'importante funzione, permane, anche in chi non sembra particolarmente incline a difendere le prerogative avogaresche nella loro pienezza, una sorta di mito della magistratura. Gasparo Contarini, negli anni centrali del XVI secolo, affermava, ricalcando quasi letteralmente gli antichi trattatisti, che il "principale officio" degli avogadori consisteva nella "guardia delle leggi, cioè che in parte veruna non si offenda le leggi" (111).
Dalla lettura delle diverse opere analizzate si evince come l'intervento dell'avogaria si articolasse su una pluralità di livelli. Da una parte i componenti della magistratura fungevano da giudici di primo grado per questioni agitate all'interno della capitale; dall'altra essi figuravano quali giudici d'appello - di secondo o di terzo grado - su sentenze pronunciate sia a Venezia, che nei Domini da terra e da mar. Si deve precisare come, in quest'ultima veste, gli avogadori non avevano facoltà di "tagliare", cioè annullare, gli atti in esame se non dopo aver sottoposto le loro proposte al voto e al vaglio della corte o del consiglio che fosse loro sembrato maggiormente adatto a pronunciarsi. Questa procedura, nel linguaggio amministrativo-giudiziario veneziano, era definita intromissione (112). Disponendo della serie completa delle intromissioni realizzate dagli avogadori nel corso del Quattrocento, è possibile cogliere, ed è quello che interessa ai fini del nostro discorso, un progressivo spostamento del controllo di legalità dalla città capitale alla realtà territoriale soggetta (113). Se prendiamo, ad esempio, l'anno 1434 possiamo vedere come delle 24 intromissioni calcolabili per il Dominio da terra e la città capitale, ben 18 - pari al 75% - interessino la seconda, contro le 6 riguardanti il primo. Una percentuale che comincia a mutare sostanzialmente di segno nel corso del decennio 1441-1450. In tale periodo, infatti, le intromissioni su atti di rettori, consiglieri ducali, o auditori novi si attestano attorno al 64% del totale, per salire nel decennio successivo al 74%, ed assestarsi ad una media del 77% per gli anni che vanno dal 1481 al 1500.
Un intervento che si orienta quindi sempre più verso la realtà del Dominio e che si manifesta lungo l'arco del secolo in una pluralità di modelli, di accenti, di culture politiche, che rendono difficile il tentativo di definizione dello stesso in forme univoche. La capitale comincia a divenire il punto di riferimento, e il luogo della mediazione e della decisione, per piccole comunità che protestano per l'estinguersi delle loro antiche prerogative, per città che lamentano offese al proprio prestigio, per gruppi consortili, per detentori di diritti signorili o feudali, per notai, giudici, avvocati, cancellieri, per membri di corporazioni cittadine, appartenenti alle diverse arti, per i sindaci delle prime rudimentali organizzazioni comitatine, per chiunque, insomma, riteneva di aver visto le proprie ragioni disattese da una pronuncia o da un intervento di un rappresentante della Serenissima. Ragioni e diritti ora particolari, determinati dalla congiuntura, modellati dall'urgere degli eventi, ora di ordine più generale, incardinati nella complessa gerarchia sociale.
Lo stile dell'avogaria non poteva non essere influenzato dalla molteplicità delle voci dei soggetti che alla magistratura si rivolgevano, ma era anche attivamente modulato dai diversi atteggiamenti politici dei membri che la componevano, ora intransigenti difensori della sovranità della Repubblica, inclini all'adozione di criteri giuridici eminentemente equitativi, ora timidi o convinti assertori di una politica più duttile, tendente ad allargare la sfera dell'intervento pubblico attraverso il riconoscimento e la legittimazione dei diversi iura particolari (114). Nella prima tipologia potrebbero rientrare alcuni interventi risoluti nel dirimere controversie, di natura fiscale o giurisdizionale, sorte tra cives e rustici: una conflittualità endemica negli Stati tardomedievali e della prima età moderna (115). L'avogadore Pietro Priuli accoglieva, nel 1479, la supplica avanzata dai "distrectuales" patavini (116). I consiglieri ducali avevano decretato che la "differentia" che opponeva cittadini e comitatini sulla messa a coltura di alcune terre e sull'occupazione di alcuni boschi, fosse risolta a favore dei primi. Una pronuncia, a detta del Priuli, emanata "contra omnem iustitiam et equitatem", in quanto i cittadini a causa di quella "remanserunt et remaneant in possessione ad damnum et preiuditium dictorum rusticorum". Allo stesso modo, nel 1492, Domenico Bollani ingiungeva al podestà e capitano di Treviso di far inflessibilmente osservare l'"antiquissima consuetudo" diffusa in molte comunità del distretto per cui "bona ipsa communalia nullatenus possint dividi" (117).
In direzione, invece, della legittimazione dei diritti locali vanno tutta una serie di risoluzioni avogaresche con cui vengono annullate alcune pronunce dei rappresentanti veneziani inviati in Terraferma. Nel dicembre del 1431 veniva cancellata una sentenza di bando perpetuo dalla città e dal territorio emanata dal podestà di Vicenza (118). Da un esame delle scritture processuali emergeva con chiarezza che il delitto non era stato commesso con premeditazione, bensì era proceduto "ex pura et simplice rixa", e che per questo, secondo la normativa statutaria del centro berico, non meritava una sentenza tanto severa, quanto piuttosto un bando limitato nel tempo. Analogamente nel 1483 l'avogadore Marco Pesaro accoglieva l'appello di un tale che, accusato di un rapimento, era stato bandito dal podestà di Bassano (119). Tale sentenza, a giudizio dell'avogadore, non ottemperava alle clausole degli statuti locali riguardanti i delitti per i quali fosse prevista la "penam amissionis vitae".
Le deliberazioni avogaresche che destano un maggior interesse risultano quelle in cui si tentava di contemperare il più armonicamente possibile l'esigenza della tutela delle prerogative dei sudditi con la più diretta affermazione dell'autorità pubblica. Si pensi all'appello interposto da tali Silvestro di Albertino da Arzignano e da Pietro di Giovanni da Chiampo (120). Il podestà di Vicenza, Pietro Venier, nel novembre del 1408, li aveva condannati al bando perpetuo da tutte le terre sottoposte alla Serenissima, e ad essere "impune offensi" nelle loro persone in caso fossero rientrati in questi confini. Il rappresentante veneziano li accusava di essere autori di due "atroci" omicidi, che dovevano essere collegati ad una sorta di faida scoppiata tra famiglie di due grossi borghi del vicentino ("ad alique discordie et inimicitie suborte inter homines et communia Arzignani et Chiampi") delle cui origini ormai non esisteva uomo che avesse memoria. Gli avogadori, concludendo l'esame dell'incartamento processuale che avevano avocato a Venezia, proponevano l'annullamento della sentenza adducendo una duplice motivazione, in cui l'elemento "interpretativo" e discrezionale ed il richiamo al rispetto della legislazione vicentina, secondo quanto promesso nelle pattuizioni, si rinforzavano vicendevolmente. Innanzitutto la sentenza era stata pronunciata "contra Deum, jus et justiciam, rigide procedendo et inhumane"; in secondo luogo aveva contraddetto alla norma che riservava al solo senato il potere di concedere ai rettori la facoltà di comminare bandi per tutto il Dominio. Senza tale deroga ai loro poteri, essi si sarebbero dovuti attenere alle norme previste dagli statuti locali.
Che un tale modo di procedere non fosse semplicemente determinato dalla particolare congiuntura e dagli ancora malcerti esordi della politica da attuare verso il Dominio di Terraferma è testimoniato da una intromissione realizzata, ad oltre mezzo secolo da quella appena analizzata, dall'avogadore Francesco Foscari nel 1465, in risposta ad una supplica interposta dai procuratori della comunità di Orzivecchi, nel territorio bresciano, infeudata ad Agostino Martinengo (121). In essa si chiedeva l'annullamento di una lettera ducale con cui, obbedendo ad una istanza espressa dallo stesso giusdicente, si ordinavano la costituzione di un notaio "ad banchum vicariis", un aumento del salario che gli uomini della comunità avrebbero dovuto versare allo stesso, e la costruzione di un carcere. Decisioni che, a detta dell'avogadore, negavano gli antichi diritti di Orzivecchi, che andavano in ogni caso tutelati, ma che erano altresì lesive di una legge dello Stato, emanata dal consiglio dei dieci, con cui si era decretato che nessuna ducale poteva ritenersi legittimamente emanata, se non fosse stata precedentemente sottoscritta da almeno quattro consiglieri.
A questo punto è forse opportuno notare come, nella maggior parte dei casi, le motivazioni con le quali gli avogadori cercavano di rendere esecutive le loro sentenze non superano la secchezza e la sinteticità di quelle appena citate, con la conseguente impressione, da parte di chi legge, di una costante e sostanziale uniformità nelle voci e nei caratteri, che pure dovevano differenziarsi, e della mancanza di un dibattito interno, che pure si doveva produrre in un periodo quale il Quattrocento in cui la conflittualità politico-istituzionale appare notevolmente pronunciata. Va anche osservato che quei caratteri di elementarità e uniformità nella registrazione delle intromissioni avogaresche sembrano crescere con il secondo Quattrocento, con cui si propone l'annullamento di atti e terminazioni dei rettori o degli auditori, con la motivazione che sarebbero andati "contra id quod facere poterant aut debebant". Si deve quindi prestare attenzione alle sfumature, all'apparire o al tramontare di certe formule, di certi stilemi. Non si può, ad esempio, ritenere privo di significato che, in una civiltà in cui le formalità, i rituali, i linguaggi politici sembrano rispecchiare l'immutabile struttura del cosmo, dello stesso sistema sociale politico e giuridico, certe considerazioni fossero poste in maggior rilievo rispetto ad altre.
È opportuno inoltre rimarcare come la grande maggioranza degli appelli che rivendicavano l'osservanza della normativa statutaria giungevano nella capitale dai centri maggiori della Terraferma, prodotti ed orientati dai membri delle famiglie eminenti, investite di diritti particolari, cariche di un esacerbato sentimento dell'onore, sovente offeso dalle fastidiose intrusioni dei rappresentanti veneziani. Si pensi all'istanza con cui i fratelli veronesi Omobono e Bartolomeo Melchiorri si erano rivolti agli avogadori per lamentare una pronuncia dei sindaci che, annullando le cedole di pignoramento da loro detenute nei confronti dei beni di alcuni contadini, impediva loro la riscossione di una somma di duemila lire veronesi (122). Oppure all'appello interposto nel 1483 dal "civis" bresciano Giovanni Tamino e introdotto dagli avogadori Luigi Lando e Antonio Venier in quarantia (123). Secondo l'appellante, l'intervento dell'auditore Vittore Marcello, che invalidava una sentenza a lui favorevole, pronunciata dal vicario del podestà nella causa che lo vedeva opposto ad un altro cittadino sulla proprietà di alcune terre, doveva ritenersi di nessun valore, in quanto per il dettato statutario "solum a sententiis et terminationibus factis ex capitis Potestatis Brixie" si poteva far ricorso agli auditori, mentre l'appello sugli atti dei componenti della sua corte doveva spettare allo stesso rappresentante veneziano.
L'ultimo intervento citato ci ha fatto intravvedere la peculiare funzione di controllo e di mediazione tra governanti e sudditi affidata alla magistratura degli auditori novi-sindaci, sulla quale è opportuno fissare la nostra attenzione (124). Istituiti significativamente nel 1410 allo scopo di far fronte alla crescita degli appelli in materia civile provenienti dall'appena conquistato Dominio da terra - alleggerendo in tal modo i compiti degli avogadori, ma innescando contemporaneamente una pericolosa conflittualità che accompagnerà la vita delle istituzioni nel corso del XV secolo -, gli auditori noni venivano ben presto incaricati di un diverso e più delicato compito consistente nel sindacamento dell'operato dei rappresentanti veneziani in Terraferma, da realizzarsi direttamente attraverso un itinerarium che i tre magistrati eletti alla carica per la durata di sedici mesi avrebbero dovuto compiere al termine del loro mandato ordinario. Un'operetta anonima redatta negli anni centrali del Quattrocento ci consente di percepire quali fossero le categorie peculiari dell'agire degli auditori nel momento di maggior fortuna della magistratura, e di intendere come venisse concepito dal legislatore il loro rapporto con le popolazioni soggette, quali fossero l'estensione ed i limiti attribuiti al loro intervento (125).
Innanzitutto era necessario definire con precisione la gerarchia delle fonti di diritto cui i sindaci si sarebbero dovuti attenere: osservate rigorosamente la disciplina stabilita nei patti di dedizione con le città soggette - affermava il decreto istitutivo della magistratura - rispettando alla lettera "leges et statuta" locali. Un compito che, come avremo modo di esemplificare tra breve, non sempre i sindaci riterranno di dover eseguire, adottando piuttosto criteri equitativi nella risoluzione delle controversie loro sottoposte.
In nessuna occasione i sindaci avrebbero dovuto tralignare dall'obbligo di rappresentare il più benevolmente possibile l'immagine della Serenissima presso le popolazioni soggette, realizzando al contempo un'opera di pacificazione sociale del Dominio e di informazione politica al centro: avrebbero infatti dovuto "in tota jurisdictione veneta omnibus populis humanitate et vultus hilaritate jura describere et nihil non scriptum relinquere et super omnia semper retinere authoritatem maximam huius magistratus fidei suae commissi". Una particolare attenzione era dedicata dal legislatore a delineare i limiti della giurisdizione dei sindaci nei confronti dei rappresentanti ufficiali della Repubblica in Terraferma, in modo da evitare fastidiose frizioni tali da incrinare l'immagine dell'autorità veneziana. I sindaci, prima del loro arrivo, dovevano notificare ai rettori la data precisa di ingresso nel territorio sottoposto alla loro giurisdizione, in modo che essi potessero far pubblicare un proclama in volgare con il quale si invitavano i sudditi, che ritenevano i loro diritti lesi da un atto o da una sentenza emanata da un rappresentante veneziano, a notificare le loro querele ai giudici itineranti.
Precisi dosaggi cerimoniali ritmavano fin dall'inizio e fin nei più minuti particolari il rapporto tra sindaci e rettori. Questi ultimi dovevano preoccuparsi di approntare per i magistrati straordinari una "domus idonea cum lectis et aliis rebus necessariis", senza far gravare le spese di tale incombenza sulle comunità sottoposte. I rettori erano inoltre tenuti ad attendere i sindaci due miglia fuori della cinta muraria cittadina, con l'eccezione di quelli inviati a reggere Padova e Verona. Altre norme attorno ai diritti di precedenza nel percorrere le principali vie cittadine e nel dare udienza sembrano stare ad indicare il timore radicato presso i governanti che l'istituto sindacale potesse rappresentare per i sudditi un mezzo per limitare l'autorità dei rettori, e quindi indirettamente il potere di impatto della giustizia veneziana. Per questo, nel corso della laica processione attraverso la città, i rappresentanti stabili della Serenissima avrebbero preceduto quelli straordinari; questi ultimi invece nel conferire "publicam audientiam" avrebbero occupato una posizione gerarchicamente superiore. In forza del medesimo programma ideologico, i sindaci non avrebbero dovuto mostrare "malum animum" nei confronti di quei rettori che si fossero portati bene, mentre quelli che avessero osservato la legge sarebbero stati lodati "coram populo".
La retorica del proclama in volgare, cui abbiamo già fatto cenno, nella sua enunciazione sembra offrire ampi margini equitativi e discrezionali all'intervento dei sindaci; tale impressione deve tuttavia essere corretta dall'obbligo di osservanza della normativa statutaria locale e dalla imposizione di un filtro consistente: nella fase di accertamento della legittimità delle denunce loro rivolte i sindaci sarebbero stati infatti affiancati da dodici "ex primariis civibus", prescelti tra coloro che avessero tenuto una qualche "practicam et familiaritatem" con i rappresentanti veneziani stabili. Una sostanziale ambiguità - determinata che fosse da una sottile volontà politica del legislatore, o dovuta all'incapacità o all'impossibilità di decidere nell'uno o nell'altro senso - tra intervento diretto e intervento mediato che accompagna la produzione legislativa riguardante i sindaci e che attraversa il loro stesso operare (126).
Un intervento, quello sindacale, che a leggere i non troppo cospicui documenti dell'epoca sembra articolarsi su una pluralità di piani. Pensiamo ad esempio all'itinerario realizzato per il Dominio dai tre "Auditores novi sententiarum, Advocatores, Provisores et Sindici generali a parte Terre" nel corso del 1461 (127). Gran parte degli atti da loro realizzati riportati in un registro fittamente annotato non sembrano mettere in discussione i poteri forti, minare alle basi l'autorità dei "nidi grossi", per usare il termine machiavelliano, quanto piuttosto adempiere ad un compito di pacificazione di microconflittualità diffuse a livello di piccole comunità rurali e di sedi di podesterie minori. Era a questo livello che l'adozione dell'arbitrium da parte dei giudici itineranti aveva modo di concretizzarsi, venendo in tal modo a creare, attraverso la decisione giudiziaria, un sistema normativo in alternativa o in sovrapposizione a quello sancito dalle consuetudini locali o dalla lettera degli statuti delle città, che, come già ricordato, estendevano la loro giurisdizione sulle comunità del distretto. I tre sindaci, nel marzo del 1461, risolvevano a Portobuffolè un conflitto sorto all'interno della cittadina sul prezzo della legna da pagare sul pubblico mercato (128). Con estrema speditezza accoglievano nel distretto di Oderzo le suppliche degli abitanti delle comunità di Villanova e San Michele e invalidavano alcuni ordini di pignoramento su beni rurali emanati dal rappresentante veneziano dietro richiesta di alcuni cives opitergini (129). Nella stessa occasione eccepivano sulla legittimità di una sentenza del rettore della comunità accusandolo di non aver considerato le ragioni di due contadini della villa di Pagnano denunciati dai rappresentanti di Crespano per indebita occupazione, pascolo, e danneggiamento dei loro "bona communis" (130).
Interventi che sembrano caratterizzare in modo peculiare l'operato dei sindaci e contribuire alla formazione di quell'idea di saggio e paterno buon governo che stava alla base delle loro occupazioni. Episodicamente, ma con la coda di alate proteste presso la Dominante, l'attività dei giudici itineranti si poteva anche esplicitare in una più diretta lesione del prestigio degli orgogliosi ceti urbani. Pensiamo ad esempio al modo con cui venne risolto il caso del nobile udinese Francesco di Belgrado contro il quale era stato istituito dal luogotenente della Patria un processo per violenza carnale (131). All'arrivo dei sindaci veneziani tale procedimento giudiziario giaceva inespedito a causa dei cavilli capziosamente interposti dagli avvocati dell'influente civis. Per tale motivo i giudici itineranti ordinavano al rappresentante della Serenissima di proseguire nell'azione processuale da lui intrapresa secondo il criterio dell'equità e secondo la qualità del caso nel più breve tempo possibile. Analogamente, sempre nel 1461, un "livellario" del nobile vicentino Francesco Loschi riusciva ad ottenere ascolto presso i sindaci e a far sì che una vertenza che lo vedeva opposto al proprietario non fosse discussa di fronte al tribunale locale del consolato - composto da membri delle più notevoli famiglie del centro berico - bensì giudicata dal foro prefettizio, composto dal podestà veneziano e dai suoi assessori (132).
Gasparo Contarini nel suo trattato Della Republica et Magistrati di Venetia, dopo la conclusione delle terribili guerre d'Italia che avevano sconvolto la penisola nei primi decenni del Cinquecento ridisegnandone la geografia politica e che avevano provocato profondi sommovimenti all'interno della società e della costituzione veneziana, accentuando l'indirizzo autoritativo in materia di ordinamento giurisdizionale e nelle misure di disciplinamento adottate nei confronti dei sudditi (133), scriveva che il "magistrato" degli auditori era stato un tempo "molto illustre", funzionale ad una particolare concezione della politica del diritto della Serenissima, ma che ormai doveva ritenersi definitivamente "oscurato" (134). Alla crisi della magistratura avevano concorso molteplici fattori: anzitutto la giovane età dei magistrati eletti alla carica, spesso privi dell'esperienza politica necessaria per realizzare a pieno quell'opera di mediazione politica che era nella mente del legislatore, sovente portati ad anteporre al rispetto delle regole e alla oculata considerazione politico-giudiziaria delle questioni loro sottoposte una accentuata volontà di protagonismo, l'intenzione del gesto clamoroso. A conferma di una tale tendenza potrebbe essere citata la scarsa dimestichezza con il diritto vigente nella Terraferma, testimoniata dal numero di addottorati in diritto presso lo Studio patavino (su 99 patrizi nominati alla carica nel periodo 1466-1502 solo 5 di questi avevano conseguito il prestigioso titolo). Altra caratteristica - che non appartiene solo alla magistratura in esame, ma che riguarda il sistema amministrativo veneziano nella sua complessità, e che nel caso degli auditori risulta maggiormente pronunciata è quella della mancata conoscenza dei meccanismi che determinavano il corretto funzionamento dell'istituzione: si pensi che nessuno dei 99 auditori esaminati venne rieletto alla carica (135).
I motivi che avevano provocato l'incrinatura di tutto ciò che la magistratura rappresentava erano tuttavia da ricondurre a ragioni di ordine più generale, ad un mutamento non occasionale del modo con cui la parte più avvertita del ceto dirigente veneziano, quella che deteneva le leve del potere politico, percepiva il rapporto con le popolazioni soggette. Un diverso modo di intendere la propria funzione sovrana che aveva portato a considerare diversamente che per il passato i problemi della struttura degli appelli, della costituzione delle magistrature incaricate di controllarli, del peso della legislazione locale, della funzione incarnata nella figura del rettore. Per comprendere meglio l'insieme di questi temi è necessario spostare la nostra attenzione sull'istituzione che meglio rappresenta l'emergere di questa istanza di coordinamento autoritativo: il consiglio dei dieci.
A metà Quattrocento Polo Morosini, in un significativo passaggio del suo trattato sulle istituzioni veneziane, scriveva: "est preterea decemvirorum consilium, in quo princeps sexque consultores assistunt, et si quem in principem principatumque deliquisse constiterit indelibili illa pena mulctatur. Maximo itaque terrore exctat consilii huius tremenda sententia" (136). L'immagine di segretezza, di maestosa severità, di inesorabile certezza nell'azione disciplinare destinata ad avvolgere la vicenda del consiglio dei dieci per tutto il corso dell'età moderna, si andava dunque definendo già attorno alla metà del Quattrocento. Si deve tuttavia sottolineare come nelle pagine appena citate quella particolare funzione era ancora posposta alla rappresentazione della legalità incarnata dall'avogaria di comun. Marin Sanudo nella sua breve descrizione De origine, situ et magistratibus, situabile cronologicamente nell'ultimo decennio del secolo, capovolgeva il rapporto gerarchico tra le due magistrature (o per lo meno indicava il venir meno di quell'equilibrio tra momento dell'autorità e momento della legalità) e affermava che le originarie ristrette prerogative del consiglio - casi di tradimento, questioni in cui apparisse in pericolo la quiete dello Stato - si erano decisamente allargate: "governa altre cosse et casi severi" tanto che lo si può definire "magistrato molto tremebondo et secretissimo" (137). Nello stesso torno di anni, ancora più ellitticamente, Domenico Morosini elogiava incondizionatamente il potere raggiunto dai dieci: "hic magistratus tenet locum principis tiranni, si non ex toto ex maxima parte", tanto che non si dovevano porre limiti alla sua autorità, necessaria per salvaguardare la Repubblica col controllare e col reprimere i "mali mores" (138). La peculiare funzione del tribunale, creato nel 1310 per evitare il ripetersi di una congiura come quella ordita da Marco Querini e Baiamonte Tiepolo, si era andata quindi arricchendo di numerose attribuzioni sul piano del controllo giurisdizionale, politico, amministrativo (139).
Nel 1468 il maggior consiglio emanava una severa parte con cui si cercava di ridurre il consiglio alla giurisdizione ideata dai saggi "progenitores", e di conseguenza elencava i settori di competenza del supremo tribunale: i già menzionati casi di tradimento, la repressione dei "tractatus terrarum", di "proditiones et sectas", l'occhiuta vigilanza su ogni questione che potesse apportare una qualche "turbationem pacifici status nostri", la punizione del "vitio nefando" della sodomia (140), competenza su tutto quello che riguardava le maggiori associazioni caritative e assistenziali della città - le Scuole grandi (141) -, e sulla complessa struttura burocratica, la cancelleria ducale (142). Già questo non era poco. Tuttavia Domenico Malipiero - nei suoi Annali, redatti nel 1497, echeggiando le altre testimonianze coeve - riprovava uno stato di cose percepito ormai come profondamente innervato nel reticolo costituzionale della Serenissima: "certo il conseio di pochi è pericoloso", e denunciava il fatto che, ignorando volutamente la menzionata correzione del 1468, i dieci "sotto ombra de far le cose più segrete i se assume purassà cose che no spetta a loro" (143).
Il modus procedendi proprio del consiglio dei dieci era costituito dal rito inquisitorio che garantiva segretezza per i testimoni, certezza della punizione del reo, rapidità nell'emanazione della decisione definitiva ed inappellabile (144). Nell'intricata tessitura di linguaggi politici, forme associative, giuridiche e culturali che provocavano lo stringersi di Venezia al suo entroterra, ed il crescente gravitare di sudditi di Terraferma verso la nuova capitale, nella confusione e nella sovrapposizione delle voci, nel contrappunto che opponeva esigenze di una maggior integrazione tra ragioni dei governanti e necessità dei governati, non poteva non emergere - sia a livello di istituzioni sovrane centrali, che di poteri diffusi nel Dominio - l'istanza di una funzione di autorità, capace di interpretare le diverse esigenze, di mediare tra di esse, di sanare le conflittualità più diffuse, senza che per questo le parti in causa perdessero una loro sfera di legittima autorità, fosse essa esercitata sulle dimensioni ridotte di una isolata confraternita rurale, di una sperduta pievania montana, di una alacre vicinia di villaggio, che su quelle più cospicue di una ricca prebenda ecclesiastica cittadina - vescovati, capitoli di una cattedrale -, di un orgoglioso consiglio civico, di una irriducibile giurisdizione separata. Non si deve inoltre dimenticare che i processi di costruzione statale avviati nel corso del Quattrocento erano per un verso contraddetti, per un altro intensificati dall'endemico stato di tensione militare che coinvolgeva i potentati della penisola. Venezia non poteva non essere lambita da questo destino comune. Una maggior pressione fiscale per finanziare una macchina militare assai articolata (145), la necessità di esercitare una giustizia per via straordinaria e di controllare i gangli più resistenti del potere locale, generavano nuove conflittualità sia all'interno che all'esterno del sistema costituzionale veneziano, ed assieme a queste suggerivano ai governanti di esperire nuove modalità attraverso cui realizzare una più completa opera di disciplinamento.
Uno dei settori in cui emerge con maggior evidenza, dalla parte dei governanti, la volontà di un intervento più incisivo e diretto sugli uomini, sulle istituzioni, sulle procedure - nella eccezionalità della congiuntura, ma con effetti di ricaduta sul lungo periodo - è sicuramente quello annonario. Non si vuole certo qui avviare una discussione su questo tema fondamentale nella costituzione di una società di antico regime, che coinvolge l'insieme dei rapporti di produzione, l'equilibrio economico tra città e contadi, ma che investe anche il livello delle istituzioni, del potere e la sfera degli atteggiamenti di fronte all'autorità. Ci soffermiamo su questa tematica in quanto ci sembra che essa possa costituire il migliore esempio della consistente modificazione degli equilibri tra centro e periferia, sui cui principali attori ci siamo già soffermati. Analoghe considerazioni si potrebbero proporre e simili dinamiche si potrebbero evidenziare per altri problemi nevralgici della vita dello Stato sui quali il consiglio dei dieci ebbe modo di intervenire quali il sistema degli appelli, con una diversa dislocazione rispetto al passato del ruolo rivestito da avogadori e da auditori; la formalizzazione del flusso di informazioni tra Venezia e la Terraferma - le modalità di sottoscrizione delle lettere vergate dai consiglieri ducali, ad esempio - con effetti più generali di legittimazione dell'autorità; un più continuo e più efficace interscambio di notizie con i rappresentanti veneziani inviati nel Dominio, con il risultato di una ingente, anche se sovente non univoca, legislazione riguardante beni comunali, falsificazione monetaria, allocazione di benefici ecclesiastici, normativa premiale e bannitoria, autonomie di signorie rurali e feudi, vigenza dei patti di dedizione e delle pattuizioni successive.
È stato notato come la questione annonaria costituisca "uno dei terreni importanti di analisi dell'evoluzione dei sistemi degli stati italiani dell'età moderna e dei rapporti di forza tra le tendenze all'accentramento e quelle alla difesa delle autonomie delle comunità locali" (146). Cerchiamo di capire come si pone, sul terreno politico e giurisdizionale, l'insieme di questi problemi all'interno dello Stato territoriale veneto.
Una parte emanata dai dieci il 22 agosto 1455 lamenta la penuria di frumento e di grani a Venezia ed addebita il fatto agli incettatori, a chi vende sul mercato ad un prezzo maggiorato, con grave iattura per i "pauperes" che non hanno di che nutrirsi (147). In questa fase la preoccupazione principale dei governanti era eminentemente di ordine politico ed era tutta concentrata sulla capitale: "cum una de principalibus rebus qua in hac urbe nostra possint inducere maximam confusionem si penuria frumenti et fames qua populi civitatum portare non possint". I capi dei dieci, per far fronte all'emergenza, avevano inviato precise disposizioni alle magistrature dei governatori alle entrate e dei provveditori al sal, allo scopo di approvvigionare la città (148). Ben presto era emersa in tutta la sua drammaticità la difficoltà di rifornire il mercato realtino con i grani provenienti da mercati esterni alle province venete (149). Era pertanto inevitabile intensificare l'opera di controllo e reperimento all'interno dei confini dello Stato da terra. Questa necessità portava alla luce, in tutta la loro evidenza, alcuni problemi di fondo della politica veneziana nei confronti della Terraferma: la difficoltà di rendere esecutive le decisioni determinate dalla Serenissima, le manchevolezze dell'istituzione rettorale, come momento di mediazione tra centro e periferia, le resistenze innescate dai corpi locali.
Il 12 novembre di quell'anno gli avogadori si erano presentati ai capi dei dieci: i rettori ai quali avevano chiesto piena collaborazione, tramite l'invio di lettere, risultavano renitenti. Non solo avevano tralasciato di rispondere ai mandati avogareschi, ma avevano anche dimostrato di essere chiaramente conniventi con i Veneziani che godevano di proprietà nei distretti di Treviso, Padova e Legnago. Per questo motivo si concederanno agli avogadori pieni poteri allo scopo di rendere effettiva la parte del 22 agosto: "in effectu habeant omnimodam libertatem providendi, mandandi et in effectu faciendi" (150). Nelle determinazioni del consiglio del periodo successivo si avverte una sfumatura diversa: la crisi era tutt'altro che in via di risoluzione, ed i mesi invernali avevano prodotto un effetto moltiplicatore di disagi e drammi nella vita delle campagne, e le voci angosciate dei "pauperes districtuales", che quella mattina avevano affollato le stanze del consiglio, trovano una eco suggestiva nella parte proposta dai capi il 18 febbraio 1455, che così esordiva: "quia clarissime videtur districtuales terrarum et locorum nostrorum et presertim territorii paduani et tarvisini patiuntur maximam famem et penuriam bladorum [...] multi ex eis vivunt e solis herbis, et nisi eis sucurra[n]tur fame peribunt" (151). Il 4 febbraio era stata approvata a larga maggioranza un'altra proposta dei capi del consiglio, in cui risulta centrale la preoccupazione che la "penuria" di frumento e degli altri cereali inferiori potesse avere delle ripercussioni incontrollate, aggravare le tensioni sociali, tra le città e i loro contadi, tali da mettere in discussione il compito di tutela e pacificazione, attraverso cui la Serenissima tentava di legittimare la propria autorità (152).
Il controllo rigido del flusso granario che dalla Terraferma avrebbe dovuto, secondo l'intenzione dei patrizi, raggiungere Venezia allo scopo di approvvigionare l'emporio realtino e favorire il sostentamento degli abitanti della capitale era chiaramente espresso da leggi e decreti. Ma questa volontà politica incontrava non poche resistenze, sia da parte degli stessi membri del corpo sovrano, che da parte dei rappresentanti dei corpi locali (153). Si delineava ormai chiarissima la tendenza che emergeva dalle tante discussioni che si erano tenute all'interno del consiglio e che si cristallizzò nel severissimo dispositivo della legge del 4 febbraio: da allora in avanti nessun veneziano, né "cives" né "populares" né alcun abitante "terrarum et locorum nostrorum", avrebbe potuto, "sub aliquo colore, forma vel ingenio", acquistare "frumentum" "in aliqua terra castello villa [...] pro incanipando revendendo aut faciendo mercantiam de illo, sub pena perdendi frumentum sic emptum". Le pene previste non mancavano certo di severità, sancendo la perdita del diritto politico ad essere nominati a offici, benefici e consigli, tanto "de intus" che "de extra", per i contravventori che appartenessero al patriziato veneziano; per i "cives" della Serenissima e per i sudditi dello Stato da terra si era stabilita invece la comminazione della pena del bando, fino a diversi anni, dalla città e distretto di appartenenza. Quello che risulta di maggior interesse, ai fini del nostro discorso, è comunque il ruolo che venivano ad assumere i rettori e le facoltà di intervento di cui venivano investiti: dovranno procedere, si ingiungeva, contro i presunti colpevoli per via di inquisizione, allo scopo di accertare la verità con maggior celerità possibile - quindi trasferendo, anche se solo in via straordinaria, il rito proprio del consiglio ai rappresentanti inviati in Terraferma (154) -, e, come logica conseguenza di tale determinazione, la "libertas" concessa ai rettori non poteva essere revocata in dubbio da appelli interposti a sindaci, auditori o avogadori: le sentenze da loro pronunciate "sint valide et firme", così si concludeva, dal momento che vengono notificate per via di lettera ai capi del consiglio.
Controllo sempre più serrato esercitato sui rappresentanti della Serenissima inviati nel Dominio, subordinazione delle magistrature d'appello e del momento della legalità ad un'istanza di natura più nettamente politica, limitazione delle prerogative e dei diritti detenuti dai ceti eminenti locali, ridefinizione delle categorie politiche sulle quali Venezia aveva fondato la legittimità del proprio potere, emergere del penale come momento qualitativamente fondante di una sorta di gerarchizzazione delle istanze di ordine diverso che si muovevano all'interno della società: sono questi gli elementi caratterizzanti l'attività del consiglio dei dieci che emergono con maggior chiarezza dai registri del "supremo tribunale" a partire dalla seconda metà del Quattrocento (155). Il processo di coordinamento del momento prettamente politico ed autoritativo con quello amministrativo-giudiziario, che trionferà all'inizio del XVI secolo con le guerre d'Italia, assieme alla chiusura oligarchica, con la riduzione nelle mani di pochi del potere decisionale (156), sembra avere solide radici quattrocentesche. Una inequivocabile linea di tendenza che trova ulteriori conferme nella posizione di assoluta preminenza che, a partire dagli ultimi anni del secolo, vengono ad assumere all'interno del consiglio i suoi capi (157).
Una funzione che ha modo di esplicarsi certamente nel settore della giustizia penale, ma che arriva a coinvolgere numerose altre realtà sulle quali quell'entità non ancora ben definita che denominiamo come "Stato" cerca di allargare la propria influenza. A tale proposito è interessante sottolineare come anche nel delicatissimo settore della giurisdizione ecclesiastica è possibile notare un incremento del potere di intervento e dell'autorità detenuti dai capi del consiglio. Un'autorità che, ancor meglio che nei casi clamorosi di aperta lesione delle prerogative sovrane della Serenissima, aveva modo di esplicitarsi sopra una miriade di questioni solo apparentemente di minor conto e che stava ad indicare una sempre più continua e pervicace intenzione di sovrapporre l'ombra sospettosa dell'autorità pubblica ad una serie di privilegi e particolari modalità di intervento a livello locale, le quali, assai più che intenzioni eversive, sembrano rappresentare disattenzione o disconoscimento delle rette procedure cui ogni suddito di una ben ordinata repubblica si doveva attenere.
Tre delle molte lettere inviate dai capi del consiglio nel corso del 1494 possono risultare indicative di quanto detto. Il 22 agosto di quell'anno i presidenti del supremo tribunale notificavano al podestà e capitano di Feltre di annullare la cassazione del vicario "in spiritualibus" della diocesi, l'arcidiacono Giovanni Diolaiuti, ordinata dal decano e dai canonici dell'"ecclesia" locale, ingiungendo a questi ultimi di "nihil innovare": lo stesso rappresentante veneziano aveva infatti informato i capi della probità e dell'integrità dell'arcidiacono (158).
Allo stesso modo, il 16 settembre, si comunicava al rappresentante della Serenissima a Crema di "suspendere et non permittere procedi ad ulteriora sine licentia nostra" a proposito dell'inizio della costruzione di un non meglio precisato monastero, che avrebbe dovuto accogliere, secondo quanto era stato riferito ai capi, alcune monache dell'ordine benedettino residenti fino ad allora a Treviglio e nella zona della Ghiara d'Adda, introdotte in città "opera et studio [...] certorum presbiterorum" (159).
Intenzionati a tutelare le ragioni di Francesco Griffi, pievano di Urbana, piccola comunità del distretto patavino, i capi inviavano un mandato al rettore veneziano del centro maggiore con il quale lo si informava di ingiungere ai membri della influente famiglia cittadinesca dei Capodivacca che, qualora avessero perseverato "in protervitate eorum" nel pretendere il versamento del quartese, avrebbero presto conosciuto quanto dispiacesse a Venezia la disobbedienza a "littere Capitum" (160).
In altre occasioni i conflitti che si aprivano attorno ai non certo troppo cospicui benefici rurali non si acquietavano al momento in cui le parti in causa ricevevano le severe reprimende dei capi del consiglio, né si placavano attraverso forme di accomodamento o di composizione favorite dalla stessa autorità pubblica. Una tonalità di più diretta violenza, di non sopiti rancori, di costituzione di rudimentali reti di protezione che, allo scopo di ottenere quanto rivendicato, non si arrestavano facilmente in presenza della troppo esile o remota figura del rappresentante veneziano in loco, attraversa alcune suppliche interposte direttamente dai sudditi ai capi, alimentando ulteriormente le facoltà di controllo e di intervento che questi già possedevano. Il 30 agosto 1498, i presidenti del supremo tribunale imponevano al podestà di Brescia l'osservanza della loro littera con la quale si confermavano i diritti vantati dal presbitero Alessandro de Negrinis sull'arcipresbiterato di una piccola comunità appartenente alla Quadra di Asola (161). Alle pretese dell'appellante si opponeva tale Luca de Ducis, che poteva vantare gli appoggi del rappresentante veneziano. Il conflitto era stato reso possibile dal fatto che il beneficio risultava vacante in quanto il precedente arcipresbitero, definito, secondo ciò che riporta la lettera, "homo scelestis", ne era stato privato a causa dei suoi demeriti. Il gioco degli interessi evocato dalla supplica (le diverse parti in causa che si appoggiavano, chi al podestà bresciano, chi a Venezia, forti della tutela offerta dai rispettivi fronti parentali); l'intervento attivo degli "homines" della comunità; la simbolica sottrazione di "indumenta sacra" e di una croce; soprattutto il ricorso al giudice ecclesiastico, con il concreto pericolo che la causa fosse avocata dal tribunale della Rota a Roma, costituiscono l'insieme degli elementi che hanno determinato nei capi del consiglio tanta risolutezza e tanta severità nell'emanazione del loro mandato.
Un ordine di analoga durezza raggiungeva, all'inizio del 1499, i rettori di Brescia (162). "Dici profecto non posset quantum animo commoti fuerimus quantamque displicentia concepimus" nel sentire le querimonie presentate dal presbitero Domenico de Mutonibus: così esordivano i capi del consiglio al momento di investire i rappresentanti veneziani di ampi poteri discrezionali. A detta del supplicante, il presbitero Giorgio da Luzaco, titolare della chiesa parrocchiale di una piccola comunità del distretto, gli impediva la cura d'anime cui era chiamato grazie all'ausilio di "complices et satelites" che avevano realizzato "violentias, iniurias et damnas", e che riuscivano a scampare all'intervento della forza pubblica entrando nelle terre del duca di Mantova, con cui la villa confinava, anche se apparteneva alla diocesi bresciana. Per tale motivo i capi decidevano di inviare precise informazioni al vescovo di Brescia perché contribuisse alla cattura con i rappresentanti del potere laico. Il 13 giugno 1500 capi decidevano di avocare a Venezia e di giudicare personalmente "secundum jus justiciam et honorem Dei" tutti coloro i quali avessero osato "infringere" le clausole di un contratto di locazione stipulato tra i sacerdoti ed i rettori delle chiese parrocchiali di due comunità del distretto con tale Matteo di Martino de Sotiis, i cui frutti sarebbero andati "in ornamentum et restaurationem ecclesiarum et campanearum ambarum villarum"; locazione che tendeva "ad usum et commodum ambarum universitatum, ad honorem Dei et spiritualem animarum consolationem" (63).
6. Marin Sanuto, Itinerario [...] per la Terraferma Veneziana nell'anno MCCCCLXXXIII, a cura di Rawdon Brown, Padova 1847. Sulla composizione di quest'opera cf. Gaetano Cozzi, Marin Sanudo il giovane: dalla cronaca alla storia, "Rivista Storica Italiana", 80, 1968, p. 299 (pp. 289-354).
7. Cf. M. Sanuto, Itinerario, p. 25.
8. Sul complesso problema delle dedizioni a Venezia delle città soggette e sul fattore determinante dello ius belli quale momento fondativo della legittimazione del potere cf. Angelo Ventura, Nobiltà e popolo nella società veneta del '400 e '500, Bari 1964, pp. 40-45. La discussione su tale fondamentale tematica è stata ripresa in Gaetano Cozzi, La politica del diritto nella Repubblica di Venezia, in Id., Repubblica di Venezia e Stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino 1982, pp. 257-263 (pp. 2 17-318). Un rimando necessario a completamento di quanto scritto in questo saggio è Angelo Ventura, Il Dominio di Venezia nel Quattrocento, in AA.VV., Florence and Venice: Comparisons and Relations, Florence 1979, pp. 167-190. Per un ulteriore approfondimento dei caratteri costitutivi dello Stato veneziano interessanti osservazioni sono in Antonio Menniti Ippolito, Le dedizioni e lo Stato regionale: osservazioni sul caso veneto, "Archivio Veneto", 117, 1986, pp. 5-30. Al di là del caso specifico trattato, una convincente interpretazione del carattere delle pattuizioni in John E. Law, Venice and the Closing of Venice Constitution, "Studi Veneziani", n. ser., I, 1977, pp. 69-75 (pp. 69-103).
9. Sulla posizione di questi giuristi e sulla dialettica tra riconoscimento e opposizione all'autorità veneziana cf. Aldo Mazzacane, Lo Stato e il Dominio nei giuristi veneti durante il "secolo della terraferma", in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/I, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 591-593 (pp. 577-650). Sul rapporto tra giuristi e nuovi poteri negli Stati italiani tra XIV e XVI secolo cf. Mario Ascheri, I giuristi consulenti d'Ancien Régime, in Id., Tribunali, giuristi ed istituzioni dal Medioevo all'età moderna, Bologna 1989, pp. 185-258.
10. A.S.V., Senato Secreta, reg. 14, cc. 35v-36v.
11. Citata in John E. Law, Verona and Venetian State in the Fifteenth Century, "Bulletin of the Institute of Historical Research", 52, 1979, p. 11 (pp. 9-22).
12. Roberto Bizzocchi, Chiesa e potere politico nella Toscana del Quattrocento, Bologna 1987.
13. Secondo quanto desume Giuseppe Del Torre, Stato e Chiesa nella Repubblica veneta: fiscalità ecclesiastica e provvista dei benefici maggiori, relazione presentata nella giornata di studio "Problemi e aspetti della politica ecclesiastica degli Stati italiani fra Quattrocento e Cinquecento", Parma 1984; per un quadro più generale cf. Id., La politica ecclesiastica della Repubblica di Venezia nell'età moderna, in Fisco religione Stato nell'età confessionale, a cura di Hermann Kellenbenz - Paolo Prodi, Bologna 1986, pp. 387-426.
14. Su tale problema è da vedere G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, pp. 236-244.
15. Ibid., p. 239.
16. Domenico Morosini, De bene instituta re publica, a cura di Claudio Finzi, Milano 1969. Sulla composizione di quest'opera e sull'ideologia di Morosini cf. Gaetano Cozzi, Domenico Morosini e il "De bene instituta re publica", "Studi Veneziani", 12, 1970, pp. 405-458, e Corrado Vivanti, Pace e libertà in un'opera di Domenico Morosini, "Rivista Storica Italiana", 84, 1972, pp. 617-618 (pp. 617-624).
17. A.S.V., Senato Misti, reg. 55, c. 1, 11 marzo 1424.
18. J.S. Grubb, Firstborn of Venice, p. 223.
19. Legge del consiglio dei dieci.
20. G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, p. 236.
21. Ibid., pp. 237-238.
22. Ibid., pp. 239-240. Dati interessanti sono riportati in Cesare Cenci, Senato veneto: "Probae" ai benefici ecclesiastici, in Celestino Piana-Cesare Cenci, Promozioni agli ordini sacri a Bologna e alle dignità ecclesiastiche nel Veneto nei secoli XIV-XV, Quaracchi-Firenze 1968, pp. 313-354.
23. A.S.V., Senato Terra, reg. 8, c. 113v, 21 dicembre 1480.
24. Ivi, Senato Misti, reg. 58, c. 95, 3 febbraio. Per una delineazione dei diritti detenuti dalla importante famiglia dei Collalto sui castelli di S. Salvatore e Collalto, e sulle ville di Barbisano, Refrontolo, Colfosco, Susegana, S. Lucia, Falzè e Sernaglia, sulle vaste proprietà terriere che poteva vantare e sui diritti di giuspatronato sopra la grande abbazia benedettina di S. Eustachio, sono da vedere Giuseppe Del Torre, Il Trevigiano nei secoli XV e XVI. L'assetto amministrativo e il sistema fiscale, Venezia 1990, p. 38, e Sergio Zamperetti, I piccoli principi. Signorie locali, feudi e comunità soggette nello Stato regionale veneto dall'espansione territoriale ai primi decenni del '600, Venezia 1991, pp. 53-65.
25. A.S.V., Senato Misti, reg. 58, cc. 100v-101, 22 agosto 1432.
26. Sul tema in generale del rapporto tra città e Stati nel tardo medioevo e nella prima età moderna cf. Giorgio Chittolini, Introduzione, a La crisi degli ordinamenti comunali e le origini dello stato del Rinascimento, a cura di Id., Bologna 1979, pp. 7-50, e il saggio di Michael Knapton, City Wealth and State Wealth in Northeast Italy, 14th and 17th Centuries, in AA.VV., La ville, la bourgeoisie, et la genèse de l'état moderne (XIIe-XVIIIe siècle), Paris 1988, pp. 183-209.
27. Per un interessante paragone tra le strutture costituzionali della Repubblica veneziana e del Ducato milanese sotto gli Sforza cf. John E. Law, Un confronto tra due Stati rinascimentali: Venezia e il Dominio sforzesco, in AA.VV., Gli Sforza a Milano e in Lombardia e i loro rapporti con gli Stati italiani ed europei (1450-1530), Milano 1982, pp. 397-414. Su questi problemi fondamentali v. i saggi di Giorgio Chittolini, Alcune considerazioni sulla storia politico-costituzionale del tardo medioevo: alle origini degli "Stati regionali", "Annali dell'Istituto Italo-Germanico in Trento", 2, 1986, pp. 401-419; Ricerche sull'ordinamento territoriale del Dominio fiorentino agli inizi del secolo XV, in Id., La formazione dello stato regionale e le istituzioni del contado. Secoli XIV-XV, Torino 1979, pp. 292-352; Governo ducale e poteri locali, in AA.VV., Gli Sforza a Milano e in Lombardia e i loro rapporti con gli Stati italiani ed europei (1450-1530), Milano 1982, pp. 27-41; "Quasi città". Borghi e Terre in area lombarda nel tardo medioevo, "Società e Storia", 47, 1990, pp. 3-26.
28. Sul significato più profondo dell'applicazione di criteri equitativi è da vedere G. Cozzi, La politica del diritto, pp. 261-263.
29. Su tali problemi cf. lo studio di A. Mazzacane, Lo Stato e il Dominio, pp. 577-650.
30. Gian Maria Varanini, Gli statuti delle città della terraferma veneta nel Quattrocento, in Statuti, città, territori in Italia e Germania tra Medioevo ed Età Moderna, a cura di Giorgio Chittolini - Dietmar Willoweit, Bologna 1991, pp. 247-317
31. Ibid., p. 277. Cf. anche J.S. Grubb, Firstborn of Venice, p. 52.
32. La bibliografia sui collegi dei giuristi in area veneta per il periodo che qui interessa risulta piuttosto scarsa, e comunque limitata ad una descrizione esterna delle procedure d'ammissione, degli statuti, delle funzioni giurisdizionali, cf. Roberto Mistura, I giudici e i loro collegi. Ricerche sul territorio veneto, Milano 1984; Bianca Betto, Il collegio dei notai, dei giudici, dei medici e dei nobili in Treviso (sett. XIII-XVI), Venezia 1981. Più interessato alla pratica dei doctores e alla loro attività consultiva, Melchiorre Roberti, Il collegio padovano dei dottori giuristi: i suoi consulti, le sue tendenze, "Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche", 25, 1903, pp. 171-259.
33. Su tali problemi mi permetto di rinviare ad Alfredo Viggiano, Governanti e governati nello Stato veneto della prima Età Moderna. Legittimità del potere ed esercizio dell'autorità sovrana, Treviso 1993.
34. A.S.V., Senato Misti, reg. 55, c. 91.
35. Per alcuni esempi a questo proposito per quanto riguarda le pattuizioni cf. Antonio Menniti Ippolito, "Providebitur sicut melius videbitur". Milano e Venezia nel bresciano nel primo '400, "Studi Veneziani", n. ser., 8, 1984, pp. 26-50; Id., La dedizione di Brescia a Milano (1421) e a Venezia (1427): città suddite e distretto nello stato regionale, in Stato, società e giustizia nella Repubblica veneta (sec. XV-XVIII), a cura di Gaetano Cozzi, II, Roma 1985, pp. 17-58. Numerosi esempi di risposte a capitula relativi ai patti di dedizione in A. Viggiano, Governanti e governati, pp. 205-229.
36. Ampi dettagli su questa vicenda offre G.M. Varanini, Gli statuti, p. 284. Sulla vicenda sono anche da vedere G. Cozzi, La politica del diritto, p. 266 e J.E. Law, Verona and Venetian, State in the Fifteenth Century, p. 16.
37. La citazione dagli statuti è in G.M. Varanini, Gli statuti, p. 390. Per altre questioni legate alla riforma e all'approvazione di statuti nella città atesina cf. Id., Il distretto veronese nel Quattrocento, Verona 1980, pp. 140-141.
38. A. Viggiano, Governanti e governati, pp. 226-227.
39. Cf. ad esempio, Giorgio Chittolini, Legislazione statutaria e autonomie nella pianura bergamasca, in AA.VV., Statuti rurali e statuti di valle (secc. XIII-XVIII). La provincia di Bergamo, Bergamo 1984, pp. 93-114.
40. Su tali fenomeni, per ciò che riguarda l'area sottoposta a Venezia, cf. Diego Parzani, Il Territorio di Brescia attorno alla metà del Quattrocento, "Studi Bresciani", 12, 1983, pp. 49-75; Ferruccio Vendramini, Le comunità rurali bellunesi (secoli XV-XVI), Belluno 1979; Gian Maria Varanini, Il distretto veronese del '400. Vicariati del comune di Verona e vicariati privati, Verona 1980.
41. Cf. l'ampia disamina su tale problema di Elena Fasano Guarini, Gli statuti delle città soggette a Firenze tra Quattro e Cinquecento, in Statuti, città, territori in Italia e Germania tra Medioevo ed Età Moderna, a cura di Giorgio Chittolini - Dietmar Willoweit, Bologna 1991, pp. 69-124. Inoltre G. Chittolini, Ricerche sull'ordinamento territoriale.
42. Per un aspetto particolare di tale questione cf. James S. Grubb, Alla ricerca delle prerogative locali: la cittadinanza a Vicenza, 1404-1509, in Dentro lo "Stado italico". Venezia e la Terraferma tra Quattro e Seicento, a cura di Giorgio Cracco - Michael Knapton, Trento 1984, pp. 177-192.
43. G. Cozzi, La politica del diritto, pp. 260-263.
44. Ibid., p. 265.
45. Su tale problema importante l'articolo di G. Chittolini, "Quasi città". Borghi e Terre in area lombarda.
46. Numerosi documenti a suffragio di questa tesi in
A.S.V., Auditori novi, b. 180.
47. Suggestive pagine a questo proposito ha scritto J.S. Grubb, Firstborn of Venice.
48. Gaetano Cozzi, Ambiente veneziano, ambiente veneto. Governanti e governati nel Dominio di qua dal Mincio nei secoli XV-XVIII, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/II, Il Seicento, Vicenza 1984, pp. 495-539.
49. In questa direzione, con suggestive ipotesi, ha iniziato la discussione Guido Zucconi, Architettura e topografia delle istituzioni nei centri minori della Terraferma (XV e XVI secolo), "Studi Veneziani", n. ser., 18, 1989, pp. 27-49.
50. Ibid., p. 27.
51. G. Cozzi, Ambiente veneziano, ambiente veneto, pp. 501 e 539.
52. Gino Benzoni, La storiografia e l'erudizione storico-antiquaria. Gli storici municipali, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/II, Il Seicento, Vicenza 1984, pp. 88-92 (pp. 67-93), e G. Zucconi, Architettura e topografia, pp. 46-49.
53. Gian Maria Varanini, La Valpolicella dal Duecento al Quattrocento, Verona 1985.
54. Ibid., p. 130.
55 G. Zucconi, Architettura e topografia, pp. 32-33.
56. M. Sanuto, Itinerario, pp. 33 e 37.
57. G. Cozzi, Ambiente veneziano, ambiente veneto, p. 509.
58. Per una ricostruzione delle vicende che portarono a questa trasformazione, alle discussioni che agitarono il consiglio comunale e alle provvisioni che scaturirono, cf. il documentato studio di Antonio Vital, Il Castello di Conegliano. Ricostruzione storico-topografica, Conegliano 1905.
59. G. Zucconi, Architettura e topografia, pp. 33-34.
60. M. Sanuto, Itinerario, p. 29.
61. Sul consilium sapientis in generale cf. Giuseppe Rossi, Consilium sapientis judiciale. Studi e ricerche per lo studio del diritto romano canonico (secoli XII-XIII), Milano 1958. Per la diffusione di tale istituto in area veneta cf. G. Cozzi, La politica del diritto, pp. 281-282, 288-289.
62. Per questi capitula cf. A.S.V., Senato Misti, reg. 55, c. 37r-v, e reg. 58, cc. 44, 99r-v.
63. Citazione in G. Cozzi, La politica del diritto, p. 282.
64. Su questo problema cf. A. Viggiano, Governanti e governati, pp. 213-220.
65. Cf. quanto dice J.S. Grubb sulla derivazione di esse da norme di diritto comune in Firstborn of Venice.
66. Soltanto la Repubblica fiorentina, tra tutti gli Stati italiani della prima età moderna, dispone di un'opera di una certa ampiezza su quest'argomento, Lauro Martines, Lawyers and Statecraft in Renaissance Florence, Princeton, N.J. 1968.
67. Oltre a G. Cozzi, La politica del diritto, un ampio esame dei problemi qui trattati in A. Mazzacane, Lo Stato e il Dominio.
68. Sull'insieme delle tematiche qui evocate cf. Manlio Pastore Stocchi, Storia e cultura umanistica tra due secoli, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/I, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 93-121.
69. Cf. Giorgio Cracco, La cultura giuridico politica nella Venezia della "Serrata", ibid., 2, Il Trecento, Vicenza 1976, pp. 238-271.
70. Enrico Besta, Su talune glosse agli statuti civili di Venezia composte nei secoli decimoterzo e decimoquarto. Note e osservazioni, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", ser. VII, 8, 1901, pp. 100-110 (pp. 100-121).
71. A. Mazzacane, Lo Stato e il Dominio, p. 580.
72. Antonio Fano, Notizie storiche sulla famiglia e particolarmente sul padre e fratelli di Sperone Speroni degli Alvarotti, "Atti e Memorie dell'Accademia Patavina di Scienze, Lettere ed Arti", 23, 1907, pt. III, pp. 218-224.
73. A. Mazzacane, Lo Stato e il Dominio, p. 581.
74. Sull'idea di sovranità veneziana e della libertas fundata in mari, cf. Ugo Petronio, "Civitas Venetiarum est edificata in mari", in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 171-185.
75. Per un primo inquadramento di quest'opera cf. A. Mazzacane, Lo Stato e il Dominio, p. 597. Ho potuto consultare l'edizione del 1557 del De interpretatione legis extensiva, Venetiis, alle cc. 38v-39, nella quale si può leggere un passo particolarmente significativo delle propensioni ideologiche dell'autore: occupandosi delle magistrature e dei tribunali d'appello della capitale - quali gli auditori novi e le quarantie - Bartolomeo Cipolla non esitava ad affermare che le istituzioni di potere veneziane erano tenute a seguire "rigorem iuris civili vel Statuta scripta, omissa equitate non scripta, sicut tenebatur primi iudices Padue vel Verone, quia iudex appellationis in sententiando tenetur observare illud ius quod tenebatur observare iudex cause principalis, quia eis succedit ut confirmator vel infirmator, ut dicit eleganter Baldus".
76. Su questa posizione di Giason del Maino, cf. Corrado Pin, Introduzione, a Venezia, il patriarcato di Aquileia e le "Giurisdizioni nelle patriarcali del Friuli" (1420-1620). Trattato inedito di fra Paolo Sarpi, Udine 1985, pp. XXIX.
77. Sul tema degli assessori, giuristi al servizio del Principe è da vedere Claudio Povolo, Il Giudice Assessore nella Terraferma Veneta, introduzione a L'Assessore. Discorso del Sig. Giovanni Bonifaccio, in Rovigo MDCXXVII, a cura di Claudio Povolo, Pordenone 1991. Per il rapporto tra assessori e potere politico nella Repubblica di Venezia del Quattrocento, cf. G. Cozzi, La politica del diritto, p. 281. Michael Knapton, Tribunali veneziani e proteste padovane nel secondo Quattrocento, in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 168-169 (pp. 151-170), ha sottolineato una non ancora ben definita configurazione di tali giudici, sospesi, almeno per quanto riguarda Padova, tra radicamento nella città nativa (collegio dei giuristi e Studio) e impiego al servizio del Principe in una dimensione sovracittadina.
78. A. Viggiano, Governanti e governati, pp. 36-40.
79. L'Assessore, discorso del Sig. Giovanni Bonifaccio, p. 49.
80. Per alcuni esempi di carriere di giuristi provenienti dalle più diverse realtà della Terraferma, cf. A. Viggiano, Governanti e governati, pp. 35-40.
81. A.S.V., Consiglio dei X, Giuramenti dei rettori, reg. 1, passim.
82. Ivi, Consiglio dei X, Misti, reg. 15, c. 47.
83. Su questo problema cf. A. Viggiano, Governanti e governati, passim.
84. Sulla formazione delle rappresentanze stabili cf. Carla Scroccaro, Dalla corrispondenza dei legati veronesi: aspetti delle istituzioni veneziane nel secondo Quattrocento, "Nuova Rivista Storica", 70, 1986, 5-6, pp. 625-636; Emilio Morpurgo, Le rappresentanze delle popolazioni venete della Terraferma presso il governo della Dominante, "Atti del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere, ed Arti", ser. V, 36, 1877-78, pp. 869-880 (pp. 869-888).
85. G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, p. 220.
86. Su tale aspetto numerosi esempi sono riportati da C. Scroccaro, Dalla corrispondenza dei legati veronesi.
87. Silvia Gasparini, I giuristi veneziani e il loro ruolo tra istituzioni e potere nell'età del diritto comune, in Diritto comune, diritto commerciale, diritto veneziano, a cura di Karin Nehlsen von Stryk - Dieter Nörr, Venezia 1985, pp. 67-105.
88. Sul problema della presenza e del radicamento degli avvocati nella città marciana, del loro potere di condizionamento e di influenza sull'attività giurisprudenziale, cf. G. Cozzi, La politica del diritto, pp. 310-312 e 315-316, anche per il tentativo di sistemazione legislativa dell'avvocatura.
89. A.S.V., Senato Terra, reg. 8, c. 36, 29 gennaio 1479.
90. Ibid., c. 41, 6 marzo 1479.
91. Per un primo approccio a questo tema cf. Marco Pozza, Podestà e funzionari veneziani a Treviso e nella Marca trevigiana e veronese (secc. XIII-XIV). Sulle tracce di G.B. Verci (Atti del Convegno, Treviso 25-27 settembre 1986), a cura di Gherardo Ortalli - Michael Knapton, Roma 1988, pp. 291-303.
92. Per una definizione in questo senso sono da vedere G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, pp. 216-2 19 e Giovanni Scarabello, Nelle relazioni dei rettori veneti in Terraferma. Aspetti di una loro attività di mediazione tra governanti delle città suddite e governo della Dominante, in Atti del Convegno Venezia e la Terraferma attraverso le relazioni dei rettori (Trieste, 23-24 ottobre 1980), Milano 1981, pp. 485-491
93. Su questo cf. G. Cozzi, La politica del diritto, pp. 271-275.
94. L'episodio è riportato da Marino Sanuto, I diarii, a cura di Federico Stefani et al., I-LXIII, Venezia 1879-1903: XLIII, col. 100.
95. A.S.V., Senato Misti, reg. 47, c. 152v, 8 agosto 1407.
96. Ibid., reg. 55, c. 101.
97. Ivi, Senato Terra, reg. 4, c. 76v.
98. Ivi, Senato Misti, reg. 55, c. 128v.
99. Ibid., c. 129v.
100. D. Morosini, De bene instituta, p. 190.
101. A.S.V., Avogaria di comun, Raspe, reg. 3646, c. 77.
102. Ibid., reg. 3647 (II), cc. 74v-75. Con la condanna il Moro viene privato in perpetuo di ogni carica pubblica, sia nella capitale che nei Domini da terra e da mar. Su Rovereto e la sua particolare posizione all'interno dello Stato veneto, cf. Marco Bellabarba, Istituzioni politico-giudiziarie nel Trentino durante la dominazione veneziana: incertezza e pluralità del diritto, in La "Leopoldina". Criminalità e giustizia criminale nelle riforme del Settecento europeo, XI, Le politiche criminali del XVIII secolo, a cura di Luigi Berlinguer - Floriana Colao, Milano 1990, pp. 175-231; Michael Knapton, Per la storia del dominio veneziano nel Trentino durante il '400: l'annessione e l'inquadramento politico-istituzionale, in Dentro lo "Stado italico". Venezia e la Terraferma tra Quattro e Seicento, a cura di Giorgio Cracco - Michael Knapton, Trento 1984, pp. 33-115.
103. A.S.V., Avogaria di comun, Raspe, reg. 3647 (II), c. 82r-v.
104. Si pensi ad esempio all'opera per molti versi provocatoria di Donald E. Queller, Il patriziato veneziano. La realtà contro il mito, Roma 1987. Una più convincente ed equilibrata discussione su un caso di corruzione, perché inquadrata nella crisi interna al patriziato a metà Quattrocento, e nelle possibilità di guadagno offerte ad un patrizio inviato in Terraferma, in Michael Knapton, La condanna penale di Alvise Querini, ex rettore di Rovereto (1477): solo un'altra smentita del mito di Venezia?, "Atti dell'Accademia Roveretana degli Agiati", ser. VI, 28, 1988, pp. 303-332. Per una buona sintesi sulle tendenze di fondo della storiografia veneziana sul problema del mito di Venezia in rapporto alla costruzione dello Stato, cf. J.S. Grubb, When Myths, pp. 42-94.
105. Fondamentali osservazioni sulla posizione e le funzioni rappresentate dall'avogaria di comun all'interno della struttura costituzionale veneziana - oltre alla trattatistica coeva analizzata in questo testo - sono in Gaetano Cozzi, Autorità e giustizia a Venezia nel Rinascimento, in Id., Repubblica di Venezia e Stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino 1982, pp. 81-144. Per alcuni esempi della tipologia di intervento sviluppata dalla magistratura nel corso del Quattrocento, cf. Id., Note sopra l'Avogaria di Comun, in Dentro lo "Stado italico". Venezia e la Terraferma tra Quattro e Seicento, a cura di Giorgio Cracco - Michael Knapton, Trento 1984, pp. 547-557.
106. Polo Morosini, De rebus ac forma Reipublicae Venetae, in Giuseppe Valentinelli, Bibliotheca manuscripta ad S. Marci Venetiarum, III, Venezia 1870, p. 256.
107. D. Morosini, De bene instituta, p. 101.
108. Marin Sanudo, De origine, situ et magistratibus urbis Venetae, ovvero La città di Venetia, a cura di Angela Caracciolo Aricò, Milano 1980, pp. 97-98.
109. Ibid., p. 240.
110. Cf. il contributo di Giuseppe Gullino, L'evoluzione costituzionale, in questo volume, pp. 345-378.
111. Gasparo Contarini, Della Republica et Magistrati di Venetia, Venezia 163o, pp. 91-92.
112. Per una descrizione della procedura d'intromissione, cf. Marco Ferro, Dizionario del diritto comune e veneto, I, Venezia 1778, p. 242; Zeffirino Grecchi, Le formalità del processo criminale nel Dominio veneto, I, Padova, 1790, pp. 217-218; Cefarino Caro Lopez, Gli Auditori novi ed il dominio di Terraferma, in Stato, società e giustizia nella Repubblica veneta (sec. XV-XVIII), a cura di Gaetano Cozzi, I, Roma 1980, pp. 271-272 (pp. 259-316); G. Cozzi, La politica del diritto, pp. 287-288; Bruno Dudan, Sindacato d'Oltremare e di Terraferma, Roma 1935, pp. 132-133; Giannino Ferrari, I Contraddittori nelle magistrature d'appello di Venezia e nei consigli di Padova e Venezia, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 19, 1910, pp. 119-120 (pp. 112-138).
113. A questo proposito sono state analizzate le intromissioni contenute in A.S.V., Avogaria di comun, Raspe, dal reg. 3647 al reg. 3667.
114. Per questo aspetto particolare cf. Alfredo Viggiano, Interpretazione della legge e mediazione politica. Note sull'Avogaria di comun, in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 121 -131.
115. Per l'area che qui interessa cf. John E. Law, "Super differentiis agitatis Venetiis inter districtuales et civitatem". Venezia, Verona e il contado nel '400, "Archivio Veneto", ser. V, 116, 1981, pp. 5-21; Gian Maria Varanini, Il distretto veronese del '400. Vicariati del comune di Verona e vicariati privati, Verona 1980. Per un quadro più ampio i vari saggi di G. Chittolini, in Id., La formazione dello stato regionale.
116. A.S.V., Avogaria di comun, Raspe, reg. 3655 (I), cc. 1-2v.
117. Ibid., Lettere, reg. 677, c. 261, 6 settembre 1492.
118. Ibid., Raspe, reg. 3648 (I), c. 52, 18 giugno 1431.
119. Ibid., reg. 3655, c. 78r-v.
120. Ibid., reg. 3646, cc. 62-63. Intromissione approvata in minor consiglio il 29 maggio 1409.
121. Ibid., reg. 3654 (I), c. 19, 9 giugno 1465.
122. Ibid., reg. 3655 (II), c. 38v, 27 marzo 1482.
123. Ibid., reg. 3655 (II), c. 74r-v, 4 aprile 1483. Può esser interessante notare come, in questi due ultimi casi, le motivazioni con cui gli avogadori avevano cercato di sostenere le loro intromissioni, incontrarono non poche opposizioni. Per far passare la prima dovettero aspettare la quinta votazione, dove la loro proposta prevalse con 16 voti a favore, 5 contrari e ben 8 "non sinceri"; mentre la seconda ebbe 16 voti favorevoli, un solo contrario, ma ben 15 "non sinceri". Difficile capire se dietro questa evidente difficoltà ci fosse scarso convincimento negli stessi avogadori, sollecitati più dalle pressioni degli avvocati delle parti - che avevano buon gioco a mettere in luce le "disattenzioni" commesse dagli auditori -, che mossi dallo spirito di giustizia ed, equità che doveva caratterizzare la loro azione. Oppure se nell'ambiente delle quarantie si cominciasse a recepire con fatica, non tanto il protrarsi delle cause in più sedute, che anzi era vantaggioso per i patrizi che vi sedevano (e questo può spiegare il perché del prevalere, così frequente nella documentazione archivistica del secondo Quattrocento, dei "non sinceri" nelle prime votazioni), quanto piuttosto quella cavillosità, quel ridurre tutto a considerazioni formalistiche, che riducevano il contenuto emotivo ed etico del fare giustizia, e che quei patrizi sentivano come un linguaggio estraneo alla loro cultura.
124. Sull'origine dell'istituzione cf. G. Cozzi, La politica del diritto, pp. 288-292; B. Dudan, Sindacato d'Oltremare, pp. 5-25; C. Caro Lopez, Gli Auditori novi, pp. 259-316; A. Viggiano, Governanti e governati, pp. 147-150.
125. Per il breve trattato citato ampiamente nelle pagine successive, cf. M. Sanuto, Itinerario, pp. I-IV.
126. A. Viggiano, Governanti e governati, pp. 150-160.
127. A.S.V., Auditori novi, Sindacato, b. 184.
128. Ibid., alla data, 17 marzo.
129. Ibid., alla data.
130. Ibid., alla data.
131. Ibid., alla data, 13 marzo 1461.
132. Ibid., alla data, 20 aprile 1461.
133. Cf. le pagine di Innocenzo Cervelli, Machiavelli e la crisi dello Stato veneziano, Napoli 1974.
134. La citazione è in G. Contarini, Della Republica, p. 110.
135. A. Viggiano, Governanti e governati, pp. 166-170.
136. La citazione è in Donato Giannotti, Della Repubblica de' Viniziani, in Opere politiche, I, a cura di Furio Diaz, Firenze 1974, p. 128.
137. Sulla composizione di questo trattato cf. Rudolf Von Albertini, Firenze dalla repubblica al principato.
Storia e coscienza politica, Torino 1970, pp. 145-166.
138. Ibid.
139. Andrea Da Mosto, L'Archivio di Stato di Venezia, I, Roma 1937.
140. Su questo particolare aspetto è da vedere Gabriele Martini, Il "vitio nefando" nella Venezia del Seicento. Aspetti sociali e repressione di giustizia, Roma 1988.
141. Sulle Scuole è ancora fondamentale l'opera di Brian Pullan, La politica sociale della Repubblica di Venezia, I-II, Roma 1982.
142. La cancelleria ducale ed il ceto di burocrati che la componeva e ad essa sottostava è stata oggetto di numerose ricerche recenti. Cf. su questo Matteo Casini, Realtà e simboli del Cancellier Grande veneziano in età moderna (secc. XVI-XVII), "Studi Veneziani", n. ser., 22, 1991, pp. 195-250; Mary Neff, Chancellery Secretaries in Venetian Politics and Society, 1480-1533, Ph.D. Diss., University of California, Los Angeles, 1985; Giuseppe Trebbi, La cancelleria veneta nei secoli XVI e XVII, "Annali della Fondazione Luigi Einaudi", 14, 1980, pp. 65-125; Id., Il segretario veneziano, "Archivio Storico Italiano", 144, 1986, pp. 35-73; Andrea Zannini, Burocrazia e burocrati a Venezia in età moderna: i cittadini originari, Venezia 1993.
143. La citazione è in Domenico Malipiero, Annali veneti dall'anno 1457 al 1500, a cura di Francesco Longo - Agostino Sagredo, "Archivio Storico I-taliano", 7, 1843, p. 492.
144. Sulle caratteristiche del rito inquisitorio v. le notevoli pagine di Gaetano Cozzi, La giustizia e la politica agli albori dell'età moderna, in Id., Repubblica di Venezia e Stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino 1982, pp. 157-158 (pp. 81-216).
145. Su questo tema cf. Michael E. Mallet, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, Roma 1989. Importanti a questo proposito anche le considerazioni di Luciano Pezzolo, L'archibugio e l'aratro. Considerazioni preliminari per una storia delle milizie rurali nei secoli XVI e XVII, "Studi Veneziani", n. ser., 7, 1983, pp. 59-80.
146. Ivo Mattozzi, Per una ricerca sui rapporti tra comunità di Ravenna e poteri centrali nel Cinquecento. Appunti sulla questione annonaria, in Persistenze feudali e autonomie comunitative negli Stati padani fra Cinque e Settecento, a cura di Giuseppe Tocci, Bologna 1988, pp. 221-246; dello stesso autore, per un giudizio assai articolato che va al di là del caso specifico ravennate, cf. La politica annonaria veneziana e le città suddite: il caso di Ravenna nel XV secolo, in Ravenna in età veneziana, a cura di Dante Bolognesi, Ravenna 1986, pp. 101-127.
147. A.S.V., Consiglio dei X, Misti, reg. 15, c. 75. Agli avogadori si era ordinato di "videre et diligenter examinare et perquirere omnia magazena" che ci sono a Venezia, indagare sulle modalità della distribuzione. I dieci, ed è questo un elemento particolarmente interessante in funzione di quanto detto, stabiliranno inoltre che tutto ciò che in futuro verrà deciso "in facto bladorum" rimarrà "secretissimum". Il 22 ottobre dello stesso anno, (ibid., c. 75r-v), i poteri degli avogadori venivano ulteriormente ampliati. Da una serie di denunce risultava che nelle mani di alcuni "nobiles et cives" veneziani vi fosse "magna quantitas frumenti incanipata". Gli avogadori avrebbero dovuto cominciare a descrivere dettagliatamente le varie situazioni, estendendo la loro indagine anche a Treviso e Padova con i relativi distretti. Infine, si proibiva a cittadini e nobili veneziani colà residenti di vendere frumento senza aver ottenuto una licenza dal consiglio dei dieci.
148. Ibid., c. 75, 22 ottobre 1455. Le navi inviate in Sicilia erano tornate vuote, per tale ragione, aggravandosi vieppiù la carenza di grani, si consentiva ai governatori alle entrate e ai provveditori al sal di contrarre un mutuo con le casse dello Stato, rispettivamente di 6.000 e di 3.000 ducati.
149. Il 5 novembre i capi incaricavano un mercante, l'egregius Antonio de Vico, di acquistare una certa quantità di "biada" nelle Marche; il 26 dello stesso mese, davano facoltà al consiglio di eleggere un uomo di fiducia, da inviare in Dalmazia, allo stesso scopo (rispettivamente, ibid., cc. 76 e 79). I dieci avevano anche incaricato un loro segretario, Bertucci Nigro, di intercedere presso il sommo pontefice, perché concedesse il trasporto del frumento sulle terre sottoposte al suo dominio, ma non essendo quell'officiale ben considerato presso la Corte papale, si stabilì che dovesse recarsi a Roma uno dei più eminenti patrizi veneziani, più volte consigliere dei dieci e avogadore, il dottore Barbone Morosini (ibid., c. 79, 17 dicembre 1455, per le notizie sul segretario, e c. 80v, 7 gennaio 1455).
150. Ibid., c. 77. Il 26 novembre, lamentando ulteriori connivenze da parte dei rappresentanti veneziani, si ordinava anche di esercitare un controllo straordinario sulle strutture ecclesiastiche, anche se con qualche cautela: "de prelatis et monasteriis et aliis personis ecclesiasticis, ordinetur, quod idem advocatores taxare debeant et limitare illam quantitate frumenti [...] conveniens et honesta pro usu et victu suo" (ibid., c. 78v).
151. Ibid., c. 83v. I dieci stabiliranno che essendoci "bonam quantitatem millei" nei granai veneziani i provveditori alle biave potevano prelevare fino a 10.000 staia di frumento, da vendere alle comunità di quei distretti al prezzo politico di tre lire per staia.
152. Ibid., c. 82, 4. febbraio 1456. Questo "era sempre stato al sommo dei nostri pensieri", così avevano esordito i capi del consiglio, "pro evitandis inconvenientiis et periculis" che la fame poteva provocare sia a Venezia sia "inter populos nostros subditos quorum magnam est multitudinem". Il patriziato veneziano, in quanto grazie alla "divina bonitate" era investito del "dominium" di così "notabilium civitatum cum suis districtibus a parte terre", aveva anche il compito di punire severamente coloro che, "cum spe indebiti et iniusti lucri", avevano tentato di approfittare della situazione che si era creata per arricchirsi.
153. Ibid., c. 87, 10 marzo 1456. Gli ambasciatori della Patria del Friuli avevano lamentato ai capi del consiglio gli "incommoda, dispendia et inconvenientia", che erano seguiti nell'applicare la legge.
154. Claudio Povolo, Aspetti e problemi dell'amministrazione della giustizia penale nella Repubblica veneta (secoli XV-XVIII), in Stato, società e giustizia nella Repubblica veneta (sec. XV-XVIII), a cura di Gaetano Cozzi, I, Roma 1980, pp. 151-252, ha dimostrato come la facoltà concessa ai rettori da parte del consiglio dei dieci di procedere nei casi di maggior gravità con il rito cominci a diventare una pratica diffusa solo a partire dall'ultimo decennio del XVI secolo, in concomitanza con la ripresa di violenze nobiliari, con la diffusione del banditismo e con un fenomeno di generale impoverimento del ceto contadino. Anche se per il periodo coperto da questa ricerca questa è una procedura scarsamente adottata, vale tuttavia la pena sottolinearne incidenza e modalità.
155. Oltre a M. Knapton, Il Consiglio dei Dieci, mi permetto di rinviare per l'insieme di questi temi a A. Viggiano, Governanti e governati, pp. 194-253.
156. Per le modalità del verificarsi di tale serrata cf. l'analisi di G. Cozzi, Autorità e giustizia a Venezia nel Rinascimento, pp. 83-103.
157. Cf. quanto dice sui capi del consiglio Donato Giannotti, fuoriuscito fiorentino dalle simpatie repubblicane, nell'interessante trattato sulla costituzione della Serenissima, Della Repubblica de' Viniziani, pp. 115-116.
158. A.S.V., Capi del Consiglio dei X, Lettere, b. 7, c. 72.
159. Ibid., c. 85.
16o. Ibid., c. 93, 26 settembre 1494.
161. Ibid., b. 8, c. 97.
162. Ibid., c. 160, 29 gennaio 1499.
163. Ibid., c. 310.