Il dominio del mare
Nel corso del Quattrocento il commercio marittimo della Serenissima giunse a comprendere - nel contesto che si è convenuto di definire, sulla scorta di Fernand Braudel, economia-mondo - aree geografiche assai estese e lontane, a Ponente (Fiandre e Inghilterra) e a Levante (mar Nero, Egitto e Siria), anche sessanta giorni di viaggio. Al centro, il bacino del Mediterraneo con i suoi poli di attività.
Una regione sterminata, su cui Venezia pervenne a imporre la propria supremazia grazie al concorso delle forze della sua comunità nazionale, che trovavano espressione nel successo della sua flotta e della sua maestria mercantile.
Carta vincente della Repubblica fu l'aver saputo trarre vantaggio, attraverso l'impianto di una fitta rete di relazioni, dallo sviluppo congiunturale di entità economiche sottoposte a variazioni cicliche talvolta non sincrone. Potenza marinara riconosciuta, alla fine del Medioevo Venezia era anche una forza navale che incuteva timore e rispetto. La sua marina mercantile si articolava in due settori complementari, l'armamento della Repubblica - le galere da mercato, cui era affidato il commercio di largo respiro - e quello libero, composto per l'essenziale di navi tonde di proprietà di armatori indipendenti (1). All'inizio del secolo XIV la portata di una galera da mercato ammontava a circa 140 tonnellate, quanto cioè una nave tonda da 500 botti; ma le modifiche realizzate nel corso del secolo successivo la elevarono a 280 tonnellate - l'equivalente di un migliaio di botti - mentre le navi tonde ad alto bordo ne potevano stivare fino a 2.000 (2). Nel 1440 il senato vietava, per motivi di sicurezza, la costruzione nell'Arsenale di galere mercantili di grande portata, come quelle "a mensuris Flandriae" che superavano le 210 tonnellate, ma già nel 1481 la situazione doveva essere mutata se si registrano galere in grado di prendere a bordo 250 tonnellate (3): laddove è il caso di tener presente che il pagamento delle imposte si basava allora sul volume valutato dall'amministrazione, e ogni eccedenza era considerata fraudolenta.
Nell'ultimo decennio del Quattrocento la città non disponeva che di una trentina di galere mercantili dei due tipi; ciascuna di esse aveva una durata di poco superiore a dieci anni, ed era sicuramente inutilizzabile dopo tredici. Rispetto alle navi tonde, le galere da mercato sopportavano tonnellaggi modesti e, per maggiore sicurezza, viaggiavano in convogli ("mude"). All'inizio del secolo XV il senato deteneva la gestione esclusiva delle otto linee di navigazione allora in uso: Romània-mar Nero, Cipro-Armenia, Alessandria e Beirut a Levante; Fiandre, Barberia e Aigues-Mortes a Ponente. L'ultima "muda al trafego", istituita nel 1460, faceva la spola tra i due bacini del Mediterraneo. Ogni anno le "mude" partivano, a seconda della destinazione, in un periodo prefissato: tre di esse lasciavano la laguna per l'Oriente - rispettivamente per Costantinopoli e la Romània, Beirut e la Siria e infine Alessandria e l'Egitto. Prima, alla fine di luglio, partiva la "muda" diretta in Romània e nel mar Nero, in convogli di sei-otto galere. Dopo uno scalo in Istria, a Pola o a Parenzo per caricare legname e capi di bestiame - pollame e ovini -, la "muda" costeggiava il Golfo fino a Corfù dove la attendeva, in caso di necessità, una squadra militare; di lì faceva rotta per Creta donde un'altra squadra poteva scortarla fino in Eubea (Negroponte). Qui il convoglio si separava: due galere facevano cabotaggio lungo le coste greche, le altre quattro proseguivano per Costantinopoli e il mar Nero. Le altre due "mude" per il Levante salpavano invece insieme, alla fine di agosto, per separarsi al largo di Creta, donde quattro o cinque galere proseguivano per l'Egitto e altre quattro per Cipro e la Siria. Dopo un lungo scalo - un mese circa - la "muda" doveva affrettarsi a rientrare per giungere puntuale alla grande fiera invernale, prima di Natale, e preparare il trasbordo delle merci sulle galere di Ponente.
La "muda" più spettacolare era, però, forse quella di Fiandra: alla fine della primavera, quattro o cinque tra le galere più solide e capaci tra quelle prodotte all'Arsenale, salpavano per un viaggio di almeno un anno alla volta dell'Inghilterra e delle Fiandre: nel migliore dei casi infatti la tratta Venezia-Southampton richiedeva tre mesi di navigazione, ma talvolta addirittura il doppio, e la durata complessiva della spedizione variava tra i quattordici mesi e i due anni. Il libro contabile di Francesco Contarini, magistralmente analizzato da Ugo Tucci (4), descrive dettagliatamente uno di questi viaggi. Verso la fine del secolo XIV le date di partenza dei convogli erano globalmente slittate verso la metà o la fine dell'anno: così in quel caso la "muda" lasciò Venezia all'inizio di agosto per giungere in Inghilterra il 7 novembre e ripartirne poi alla volta delle Fiandre. Il viaggio di ritorno cominciò invece il 18 giugno dell'anno successivo e si concluse il 27 ottobre dopo aver fatto scalo a Ibiza, Maiorca, Palermo e Messina nel Mediterraneo, e ancora a Corfù, Curzola, Lesina e Parenzo nell'Adriatico, seguendo una rotta che rimase invariata per circa due secoli.
Tra il 1400 e il 1429, almeno centosedici galere mercantili percorsero la rotta atlantica che collegava Venezia ai porti del Nord Europa, solcando le acque impetuose del golfo di Guascogna senza interporre scalo alcuno tra Lisbona e le sponde inglesi. Benché la programmazione delle partenze tenesse conto delle variazioni stagionali e delle condizioni di navigazione, il viaggio rimaneva comunque estremamente penoso per gli equipaggi.
La fitta rete di linee di navigazione - la più rilevante dell'epoca - e la flessibilità delle spedizioni rispetto alla congiuntura economica consentono di seguire molto dappresso l'andamento degli affari. Un periodo di intense attività commerciali si situava tra il 15 dicembre e il 15 febbraio circa, dopo il rientro dei convogli partiti in estate; una seconda fiera animava la vita veneziana tra la fine di maggio e i primi di giugno, quando, con la bella stagione, i valichi alpini tornavano ad essere praticabili: ed è in questo periodo, la fiera dell'Ascensione (la Sensa), che le banche aumentavano al massimo il costo del denaro; un terzo periodo di intensi scambi interessava i mesi di marzo e aprile, quando partivano le "mude" d'Aigues-Mortes e della Barberia (5). Il ritmo annuale, scrupolosamente rispettato nonostante l'endemico ritardo che rallentava la marcia dei convogli, garantiva la rotazione di merci e capitali: il cotone sbarcato a Venezia in giugno veniva rivenduto ai Tedeschi nel corso dell'estate, mentre gli scambi si spostavano sui prodotti destinati alle galere che sarebbero partite per il Levante alla fine di agosto. La navigazione in convogli era stata posta in uso per evitare ritardi in corso di rotta grazie alla mutua assistenza che le galere si sarebbero prestate in caso di pericolo o di attacco da parte dei pirati. Ciò nonostante, tra il 1374 e il 1453, ottantuno delle novanta "mude" di Alessandria partirono da Venezia con grave ritardo, come cinquantasei delle settantaquattro in partenza per Beirut. E tuttavia la puntualità dei transiti era di capitale importanza, consentendo di evitare sfasature nei periodi di fiera tra Venezia e le piazze straniere. L'efficiente rotazione dei mercantili favoriva a sua volta la rapidità delle operazioni di consegna (6), ciò che indusse a regolamentare rigidamente la durata degli scali: quello per Alessandria ad esempio era fissato a venti giorni, oltre i quali i "patroni" delle galere erano soggetti a multa.
Il concetto di "rivoluzione nautica" è stato assunto per lo più in senso rigorosamente tecnico, limitato all'apparire e al diffondersi delle carte nautiche e delle tavole trigonometriche che tanto agevolarono la navigazione. I progressi tecnici tuttavia miravano anche a realizzare una migliore utilizzazione dei grandi capitali investiti nella cantieristica e, di conseguenza, nella gestione dei mercantili. La riduzione dei periodi di sverno e la migliore capacità di interpretazione dei segni celesti - la posizione degli astri - e del mare - venti e correnti assicuravano l'efficiente rotazione del ciclo di navigazione. E in questo contesto che si inseriscono, per la loro novità, le società mercantili.
Nel 1238 lo Stato veneziano - espressione diretta del patriziato - faceva richiesta ai propri mercanti che operavano in Egitto di formare un "cartello" per l'acquisto di pepe e cotone: decisione fondamentale nella storia del commercio veneziano poiché, se già per il passato la necessità di concentrare gli sforzi finanziari e controllare la concorrenza aveva dato luogo alla costituzione di società, era forse la prima volta che i mercanti si appellavano direttamente allo Stato affinché intervenisse a regolamentare l'andamento degli affari. Un anonimo cronista descrive, a partire dal 1290, la partenza di dieci galere grosse per la Romània: "e furono le prime galee grosse che mai fusseno state fatte in Venecia". Soltanto nel 1294 lo Stato si decise ad entrare direttamente nella gestione di una galera mercantile, segnando, da quel momento, l'assoggettamento dei capitali all'interesse generale (7). Talvolta, per promuovere la ripresa delle attività o per ovviare a un periodo di scarsa disponibilità di merci, lo Stato poneva all'incanto delle galere destinandole a operazioni private: si costituivano in questo caso delle società che finanziavano il capitale, coprivano le spese e acquistavano le merci; dunque i comproprietari delle galere, organizzate in convoglio, costituivano un unico pool, a Venezia detto "maona", in grado di raccogliere noli sufficienti all'impresa e soprattutto di realizzare profitti straordinari acquistando e poi rivendendo in blocco l'intero carico. Tuttavia gli inconvenienti che questo tipo di organizzazione provocò in seguito indussero il governo a proporre una gestione migliore (8). In seguito quest'ultima fu assunta direttamente dal senato, l'assemblea costituita dai centoventi nobili eletti dal maggior consiglio. Quando noleggiava le galere mercantili ai patrizi, il senato discuteva l'armamento e le procedure della messa all'asta; erano i patrizi a fissare il ritmo dei viaggi annuali, a scegliere le galere e a fissarne il numero, a stabilire gli itinerari, la durata degli scali, il tipo di carico e il prezzo del trasporto, dando luogo così a una stretta collaborazione tra Stato e imprenditori. Per la Repubblica il pagamento di una parte dell'incanto - il prezzo di locazione - costituiva un vantaggio finanziario rilevante, che consentiva praticamente di ammortizzare il costo dell'imbarcazione: in questo modo lo Stato si garantiva la riscossione di tutte le tasse a carico dei trasportatori. Gli imprenditori per parte loro si assicuravano la priorità sul carico delle merci pregiate e la possibilità di trattenere la metà dei noli percepiti per il trasporto - che dovevano ammontare a somme considerevoli, visto che oscillavano intorno al 2-3 per cento in funzione del valore delle merci (" ad valorem"). Ulteriore garanzia per il "patron" della galera era il monopolio del trasporto, che vietava a ogni altro mercantile di prendere a bordo e trasportare le medesime merci per le stesse destinazioni in un lasso di due mesi dalla partenza delle "mude".
In questa situazione, sia per gli imprenditori che per lo Stato, l'utile dipendeva essenzialmente dalla quantità di carichi imbarcati e dalla velocità del trasporto. Si tendeva quindi a potenziare il più possibile la marina mercantile, sempre tuttavia nel rispetto della semplice regola per cui le spese di protezione restavano legate al valore delle merci.
Contro i possibili rischi della navigazione il viaggio in convogli costituiva la soluzione migliore, peraltro assai incoraggiata dal senato con l'obbligo al trasporto di merci pregiate. Il meccanismo dell'asta per galere di proprietà comunale destinate a operazioni commerciali private si rivelò in tal modo estremamente redditizio per entrambe le parti. Evitando di privilegiare il guadagno immediato di singoli mercanti, il senato assicurò invece il vantaggio di lungo periodo determinato dalla regolamentazione e dalla pianificazione del traffico che consentiva una più agevole previsione degli scambi e la gestione delle scorte nei depositi portuali.
A Venezia il naviglio minore costituiva anche la forza navale dell'armamento privato che realizzava il naturale complemento degli scambi riservati alle grandi galere. I battelli disarmati si inserivano nell'attività marittima sfuggendo al traffico regolato dallo Stato. In questo caso occorre parlare di "navigazione libera", poiché noleggiatori e imprenditori stipulavano i contratti in tutta autonomia, anche se la loro validità giuridica e il rispetto delle tariffe doganali restavano scrupolosa cura dei servizi amministrativi. La flotta mercantile che usciva dai cantieri lagunari o del Dominio era a disposizione dei privati: finanziata e armata da commercianti facoltosi, poteva destinarsi sia alla navigazione d'alto bordo che al cabotaggio. Non erano rare le traversate di lungo corso dalla Siria alle Fiandre toccando la Barberia e la Castiglia: i vini cretesi, le granaglie siciliane e il sale di Ibiza erano i carichi più frequenti. Nel complesso, però, fino alla metà del secolo XV, le navi tonde di medio tonnellaggio venivano destinate al commercio regionale, per esempio nelle triangolazioni tra Grecia, Dalmazia e Puglie, o anche tirreniche tra Sicilia, Ifriqiya e Aragona. Analogamente, riguardo alle spedizioni nella Grecia orientale o tra Venezia e le colonie, i mercanti andavano raccogliendo e imbarcando tutto quel che capitava, sia articoli da destinare alla vendita che carichi da trasportare.
Questo settore della marina mercantile svolgeva nell'economia veneziana un ruolo insostituibile, e lo Stato ne favoriva particolarmente le attività, da cui dipendeva l'approvvigionamento alimentare della metropoli. Tuttavia il commercio marittimo direttamente controllato dallo Stato non si limitava soltanto alle galere maestose e "simili a veloci delfini". Una parte non trascurabile degli scambi veniva infatti affidata alle navi tonde, la cui navigazione a vela consentiva di ridurre gli equipaggi e le relative spese e, d'altra parte, di aumentare il tonnellaggio, che nel secolo XV si aggirava intorno alle 600 botti (= 150 tonnellate). Queste imbarcazioni erano specializzate nei carichi pesanti: derrate alimentari, granaglie, sale, olio, vino, e materie prime come l'allume, il cotone e le ceneri, indispensabili all'industria del sapone e del vetro. Talvolta queste cocche, noleggiate dallo Stato ad armatori privati, effettuavano sotto rigido controllo e a date precise delle spedizioni in Oriente o in Occidente con carichi di cotone, zucchero e uva passa, vini cretesi o anche di quelle spezie che le galere non avevano potuto trasportare per mancanza di spazio (navi "a rata").
La valutazione del tonnellaggio complessivo dell'armamento privato è estremamente ardua; qualche dato consente, però, di approssimarne il quadro e di censire queste navi che per le loro dimensioni - la larghezza era pari all'altezza - potevano essere paragonate a veri e propri carri di mare. Tra il 1420 e il 1450 la città poteva disporre di almeno trecento navi tonde della capacità minima di 100 tonnellate, di cui trenta o trentacinque superavano le 240 (9): stazze comunque considerevoli in rapporto alle 5.000 tonnellate complessive delle venticinque galere da mercato. Il sesto decennio del Quattrocento registrò la brusca caduta dei tassi di nolo, che precipitò la cantieristica in una fase di ristagno destinata a protrarsi almeno fino al 1485, e che rese le navi tonde così poco remunerative da indurre gli investitori a diminuirne l'impiego. Il governo prese allora a moltiplicare le iniziative che favorissero e sostenessero gli armatori privati, fino a offrire nel 1486 una sovvenzione alla cantieristica pari a 4 ducati per botte. Tali misure dovettero, però, sortire effetti assai modesti se l'anno successivo i senatori confessavano con sconforto che in tutta la città non c'era una sola nave in costruzione e che i marittimi, perse le residue speranze, stavano abbandonando la laguna (10)). L'armamento privato, non più in grado di sostenere le spese di gestione, si trovava nella più totale impossibilità di reagire, e l'aspra concorrenza, all'origine della caduta del prezzo dei noli, volgeva ora a svantaggio dei Veneziani. Fino ad allora infatti il corso dei noli aveva forse potuto godere di un incremento costante in ragione dello scarso tonnellaggio disponibile sul mercato dei trasporti, all'epoca in piena espansione; la loro vertiginosa caduta, del tutto improvvisa, compromise non solo le attività dell'armamento libero ma anche la cantieristica, poiché con il diradarsi delle commesse non era più possibile sostenere il ricambio della flotta. L'economia veneziana era in grave pericolo.
Il ribasso dei noli era tanto grave da far recedere la navigazione libera: il prezzo di trasporto dei vini cretesi in Inghilterra scese da 8 a 3-4 ducati il barile, e sorte non diversa subirono molte altre merci. Un'inversione di tendenza di cui la concorrenza basca, inglese, francese e soprattutto ragusana non fu la sola beneficiaria: il ruolo principale tornò infatti ai "patroni" delle galere, che non di rado trasportavano ormai carichi piuttosto inusuali, come vino, frutta (uva passa), cotone e perfino sale. La reazione del senato non si fece attendere, come dimostra l'ingiunzione di rimettere a terra i barili di vino greco scoperti nelle stive delle galere di Fiandra, e che evidentemente erano stati imbarcati in luogo delle spezie lasciate sulla banchina. Ma quanti di questi "patroni" sfuggirono alle ispezioni doganali?
Il governo tentò di opporsi al disarmo - espediente dalle conseguenze incalcolabili sull'economia nazionale - ma, nell'alternativa tra armamento comunale e privato, continuò a privilegiare il primo: si ricorderà come fu proprio in questi anni, nel 1460, che venne inaugurata la "muda al trafego" o che, per esempio, si dotò di una terza galera il convoglio per la Barberia. La crisi della cantieristica non significava dunque la recessione dei traffici marittimi, al contrario: tanto più che le navi tonde venivano costruite altrove, in Istria e, più tardi, a Curzola. Lo Stato, deliberata l'applicazione di una serie di misure discriminatorie tese a favorire la cantieristica lagunare, decise infine di prendere l'iniziativa commissionando, tra il 1475 e il 1487, quattro grandi vascelli da 600 a 2.400 tonnellate, e più tardi, nel decennio successivo, altre cinque navi da 1.200 tonnellate. Il censimento del 1499 mostrava già i sensibili effetti della manovra, registrando ventisei navi di almeno 240 tonnellate, ma la terribile guerra contro i Turchi - 1499-1500 - doveva in parte vanificare gli sforzi risparmiando soltanto sedici navi, mentre il numero delle galere da mercato non cessava di diminuire. Lo Stato non poteva più confidare nei ritorni del commercio marittimo, e anche le attività portuali ne furono gravemente danneggiate. Occorrerà attendere la cospicua riduzione dei viaggi delle "mude" perché si possa constatare, nel secondo decennio del Cinquecento, una significativa ripresa della cantieristica veneziana. Così, ci informa Lane, il numero e il tonnellaggio delle navi tonde tocca nel 1470 il suo minimo storico - ventuno unità per circa 10.000 tonnellate - e ciò in concomitanza con la massima espansione delle grandi galere da mercato. Soltanto nel 1502 comincerà a delinearsi un'inversione di tendenza a vantaggio dei vascelli d'alto bordo (11).
A partire dal 1400 la marina mercantile in piena espansione poté offrire al commercio maggiori possibilità del trasporto via terra, soprattutto per i tragitti lunghi, pericolosi e costosi. Illuminante è il caso delle relazioni con il Nord Europa: i primi viaggi per mare verso Ponente, cui Genova dette impulso nel 1277 seguita, nel 1298, da Venezia, costituirono una svolta decisiva per un sistema che non trova analogie nel Medioevo. I viaggi delle galere mercantili, introdotti progressivamente nel sistema di gestione collettiva controllato dallo Stato, furono dal 1317 il vanto e la fortuna del patriziato veneziano. Il mercato delle Fiandre era un obiettivo essenziale per l'economia delle repubbliche italiane, conteso peraltro da Francia e Inghilterra. Nella regione, dominio dei Borgogna, diversi centri di ragguardevoli dimensioni erano sia produttori che acquirenti di materie prime e alimentavano un settore artigianale all'avanguardia. La loro prosperità economica era tuttavia assai fragile, dipendente com'era dall'approvvigionamento estero, mentre la stretta e complessa interdipendenza politico-economica con i paesi rivieraschi del mare del Nord impose al commercio marittimo un andamento irregolare e deleterio per tutto il secolo XV. Ciò nonostante la natura complementare delle produzioni - lane e metalli in Inghilterra, lino e canapa nei Paesi Bassi - facevano di Londra e Bruges i fulcri del commercio nordeuropeo, richiamando, tra il 1315 e il 1464 - quando cominciarono a porsi le prime serie difficoltà -, trecentonovantatré galere mercantili veneziane.
Grande esportatrice di prodotti finiti, sia tessili che metallurgici, la regione era meta ineludibile degli importatori italiani di materie prime, che tanto scarseggiavano in queste aree a forte urbanizzazione. I traffici via terra e successivamente marittimi avevano per molto tempo provveduto a soddisfarne la domanda, ma all'inizio del secolo XV le ostilità tra i paesi rivieraschi del mare del Nord e della Manica ne mutarono l'andamento disturbando gli itinerari tradizionali, con gravissimo danno delle compagnie commerciali veneziane stanziate in Inghilterra e nelle Fiandre. Con la "muda" di Fiandra lo Stato tentò di rilanciare le esportazioni favorendo gli imprenditori con incentivi fiscali, l'innalzamento dei premi all'armamento ("dono"), il ribasso delle tasse e dei prezzi di trasporto. Il numero delle galere fu a più riprese adeguato alle esigenze del mercato: tre, quattro o addirittura cinque galere del massimo tonnellaggio imbarcavano le merci pregiate che i porti del Nord attendevano con impazienza. Dominatori incontrastati delle importazioni in Europa, i Veneziani non intendevano cedere il primato della riesportazione di prodotti così ricercati, e dato che il grosso delle importazioni veniva dal Levante, le "mude" erano chiamate allora a giocare un ruolo di primo piano.
Dati preziosi ci giungono dalla corrispondenza delle società commerciali: nel 1420 Francesco Corner riferisce dell'arrivo di 280 balle di pepe, quantità eccessiva che determinava la diminuzione dei prezzi sulla piazza di Bruges. Le spezie destinate ad uso alimentare o artigianale si vendevano bene, come confermano le testimonianze (12), e lo Stato incoraggiò allora chi volesse approfittare di questa tendenza, esonerando nel 1423 dal pagamento dei noli le spezie imbarcate sulle galere di Fiandra, con l'intenzione di facilitare lo smaltimento delle scorte. Gli appaltatori che rimanevano esclusi da questi provvedimenti noleggiavano comunque dei vascelli per non più di 7-800 ducati, accettando di buon grado tale obbligo poiché sapevano che i noli del ritorno - stoffe e lane, lingotti di stagno e lastre di rame - sarebbero bastati a rendere redditizia la spedizione. Certo l'ammontare degli incanti risultò la metà che nei due anni precedenti, dando così espressione al loro malcontento e a una certa resistenza al dirigismo dello Stato.
Nel 1429 il senato intese potenziare la "muda" di Fiandra aggiungendovi una quinta galera "per levar le specie se truova ase in Venexia" (13). Era necessario smaltire gli arrivi di spezie dall'Oriente e con ogni mezzo "estendere e incrementare il commercio che è il fondamento del nostro Stato veneziano". La forte richiesta da parte dei paesi nordici incrementò il volume d'affari delle compagnie: nel 1409 il valore delle merci imbarcate sulle galere di ritorno dalle Fiandre si stimava a 460.000 ducati - corrispondenti a più di una tonnellata e mezza d'oro; negli anni Trenta la media oscillò intorno ai 200.000 ducati. Illustri famiglie mercantili - i Barbarigo, i Contarini, i Cappello - parteciparono attivamente alla locazione delle galere e fondarono delle filiali in Inghilterra e nelle Fiandre. Naturalmente, però, le fluttuazioni del mercato e soprattutto la perenne incertezza della congiuntura politica finivano con l'avvantaggiare le grandi società, in grado di far fronte senza perdite eccessive alle possibili inversioni di tendenza. Per superare ogni evenienza era necessario quindi potenziare la rete delle relazioni commerciali, manovra comunque fondamentale quando la situazione del mercato fosse sfavorevole.
Così, il 1° agosto 1423 Francesco Corner constatava con sgomento che recarsi ad Anversa gli avrebbe cagionato più danno che profitto poiché l'accumulazione delle scorte di spezie sulla piazza di Bruges aveva provocato la caduta del corso dei generi più comuni, come pepe e chiodi di garofano (14). In linea generale la disponibilità di spezie all'arrivo delle galere veneziane era, come troviamo documentato per l'anno 1422, la seguente: pepe, da 250 a 300 balle; zenzero, da 100 a 130 balle; cannella, da 100 a 120 balle; cannella grezza, da 30 a 40 balle; chiodi di garofano, da 40 a 50 balle; noce di galla, da 30 a 40 balle; brasile, da 60 a 70 balle. In condizioni di mercato favorevoli, le fiere di Bruges e di Anversa vedevano le vendite aumentare fino a 150-200 balle al giorno di ogni tipo di spezia (15).
Il mercante veneziano Girolamo Bragadin dà conto, in una lettera da Londra del 1425, delle tendenze del mercato, poiché, bene informato sulle merci scaricate dalle "mude" del Levante al porto di Venezia, è in grado di fornire al suo corrispondente lo stato delle scorte: tutte insieme, le galere portavano all'incirca 540 balle di spezie mentre i Genovesi erano in grado di offrirne soltanto 40-50 balle. Ovviamente i Veneziani importavano spezie e prodotti orientali di ogni genere, destinati all'uso alimentare o tintorio, per drogheria o farmacia. La cannella raggiunse il prezzo più alto mai registrato in un periodo di fiera, ma anche il pepe era assai richiesto; il macis - scorza della noce moscata - e l'incenso giocavano anch'essi un ruolo assai rilevante nelle importazioni veneziane, insieme allo zenzero proveniente da Malabar e impiegato per aromatizzare i dolci o nella preparazione di pesci e carni. Lo zenzero beledi, bianco e grosso, era molto richiesto e ben pagato, come pure il verzino, il borace, il cumino e lo zucchero - prodotti cui occorre aggiungere la frutta, fresca o secca, l'uva di Corinto o di Valenza, le sete, le perle d'Oriente, l'oro e l'argento. Il vino invece - secondo quanto riferisce il Bragadin - arrivava alle Fiandre soltanto su battelli disarmati.
È possibile rintracciare una correlazione tra i dati che ci sono pervenuti sul volume delle esportazioni inglesi - lane grezze in sacchi e stoffe - e le condizioni di gestione della "muda" di Fiandra. Sarà forse utile ricordare che un convoglio di cinque galere mercantili costituiva un carico complessivo di più di 1.000 tonnellate, per cui la cancellazione di una spedizione danneggiava in misura rilevante le attività del porto di Londra e di Southampton.
I primi anni del secolo XV videro una corsa entusiastica al nolo delle galere: tra il 1398 e il 1402 per i viaggi nelle Fiandre ne erano state noleggiate ventiquattro al prezzo di 2.218 lire di grossi; una ventina d'anni più tardi, tra il 1424 e il 1429, in Inghilterra ne giunsero ventisei, ma gli imprenditori avevano dovuto sborsare 4.198 lire di grossi. Comparando il volume delle importazioni registrate dalle dogane inglesi, ne risultano vendite eccezionali. Viceversa, nei periodi in cui le difficoltà, contingenti o di lungo periodo, affievolivano l'interesse del patriziato per queste linee, il volume delle esportazioni cadeva sensibilmente: basti ricordare, a titolo di esempio, il periodo tra il 1402 e il 1405 quando, in seguito all'interruzione della linea per la guerra tra Venezia e Genova, vennero armate soltanto nove galere, e per un prezzo assai basso, 161 lire di grossi; o ancora quando, in occasione di un ulteriore conflitto tra le due città tra il 1429 e il 1432, vennero noleggiate soltanto cinque galere per la somma risibile di 35 lire di grossi.
Non fosse bastato, in quegli stessi anni si era aperta una grave crisi tra l'Inghilterra e il Ducato di Borgogna, in conseguenza del divieto di importare tessuti inglesi nelle Fiandre promulgato dal duca Filippo il Buono nel 1428. Un'ulteriore crisi di inaudita gravità opponeva il sovrano d'Inghilterra alla comunità mercantile italiana residente nelle sue terre, anticipando quanto sarebbe accaduto più tardi in Francia durante il regno di Luigi XI. La disastrosa situazione finanziaria del consolato veneziano a Londra, determinata dal pesante indebitamento nei confronti delle autorità per il ritardo nel saldo delle tasse doganali, giustificò a più riprese l'energico intervento del senato (16). Le violente rivolte scoppiate nel 1456-1457 intesero colpire proprio gli Italiani, saccheggiando e dando alle fiamme negozi e depositi genovesi, fiorentini e veneziani. L'intensità e la ferocia di questi attacchi spinsero i consoli e i mercanti di Lucca, Firenze, Genova e Venezia a stipulare un mutuo accordo che prevedeva l'abbandono delle rive del Tamigi nonché l'attuazione di una serie di misure restrittive tese a limitare il volume degli scambi e a penalizzare il Tesoro e l'economia inglesi. Essi progettavano il completo boicottaggio delle importazioni e tentarono di convincere i mercanti catalani ad appoggiarli nella loro iniziativa per un periodo di tre anni. I Veneziani, in ottemperanza all'accordo, si trasferirono a Winchester, rinomata città di fiera soggetta all'autorità del vescovo locale e vicina al porto di Southampton, scalo consueto sul litorale inglese (17). La crisi delle relazioni anglo-italiane ebbe larghe ripercussioni sugli scambi internazionali, e il commercio marittimo della Serenissima ne patì gli effetti perversi per molti anni, senza riuscire mai a riprendersi davvero dalle limitazioni imposte dai sovrani di Francia e Inghilterra nel decennio 1460-1470.
Alla fine del secolo XV, e più precisamente a partire dal 1489, data del conflitto generalizzato contro i Turchi, i patrizi si mostravano estremamente restii ad affittare le galere se non a prezzi bassissimi e a patto di ottenere sovvenzioni sorprendenti, fino a 4.000 e 5.000 ducati rispettivamente nel 1492 e nel 1496. Fu in queste circostanze che il senato si pose il problema se mantenere o meno la linea di Fiandra, una delle più prestigiose del sistema delle "mude", tanto più che le potenti monarchie cui erano destinate stavano all'epoca lentamente conquistandosi l'indipendenza economica.
Con la guerra dei Cent'anni nuovi dati emersero nelle politiche commerciali dei sovrani, che d'ora in avanti, per promuovere la ricchezza nazionale, si misero al servizio dei mercanti più facoltosi: la guerra che oppose Francia e Inghilterra nel corso del secolo XV, trovava infatti nel fattore economico il motore determinante (18). L'Inghilterra era fonte di gravi inquietudini per il sovrano francese, poiché Enrico IV non aveva mai voluto rinunciare al titolo provocatorio di re di Francia, e così pure il suo rivale Edoardo IV, con cui le tregue temporanee non avevano mai portato a un autentico trattato di pace. In questa situazione le attività commerciali restavano soggette a incertezza, con grave danno ai progetti dei mercanti. Lo straordinario testo del Débat des Hérauts d'armes de France et d'Angleterre consente di apprezzare la radice della rivalità tra i due Stati: sostanzialmente, il controllo del passo di Calais. Redatta verosimilmente nel 1456, la Disputa pone il problema nella sua complessità: per poter vantare il titolo di "re del mare sopra ogni altro" il sovrano doveva avere il controllo dei mari. E tuttavia all'epoca Sluis era agli occhi di tutti il porto più grande del mondo e la flotta francese non era certo in grado di vincerlo; anzi, l'attacco inglese del 1457 rivelò la debolezza degli equipaggi francesi.
Al discorso dell'araldo di Francia fa eco il celebre Libelle of Englysche Polycye, che sottolinea anch'esso con insistenza come gli obiettivi più contesi del lungo conflitto fossero la sovranità sui mari e il ruolo dello scalo di Calais, e ciò a causa della vicinanza delle Fiandre la cui floridezza economica rimaneva esemplare. Anzi, i rapporti economici tra Francia e Inghilterra erano così strettamente dipendenti dalle Fiandre borgognone che, quando il re di Francia decise di soffocare questo vero e proprio polmone economico del duca di Borgogna, l'obiettivo del conflitto si spostò apertamente proprio in quella regione. Durante il suo esilio Luigi XI aveva avuto modo di apprezzare e valutare la ricchezza delle città industriali della regione e per competere contro i facoltosi mercanti fiamminghi non esitò a richiamare a sé i vecchi compagni di Jacques Coeur, in particolare Jean de Village e Guillaume de Varye. Il partito dei mercanti operò in modo da ottenere monopoli di distribuzione e privilegi commerciali nel tentativo di indebolire la politica del sovrano, tanto più che a Luigi XI era chiaro che, se avesse interferito nelle relazioni tra l'Inghilterra e la Borgogna, avrebbe potuto destabilizzare il potere del duca e minacciare la pace sociale dei Paesi Bassi. Dopo il 1467, il conflitto diffuso tra gli Stati del Nord Europa interruppe quasi completamente le relazioni marittime per lungo tempo. Approfittando dei disordini, la Lega anseatica impose un nuovo regolamento sui transiti commerciali nelle città olandesi (19). Del resto anche Luigi XI e l'imperatore Massimiliano si diedero non poco da fare per disturbare la vita economica dei Paesi Bassi, nel timore che Carlo il Temerario, duca di Borgogna, potesse riunire i suoi possedimenti nelle Fiandre con la Borgogna e la Franca Contea, magari sperando di creare tra la Francia e l'Impero un regno che si estendesse dal mare del Nord al Mediterraneo. In conseguenza degli eventi, i porti di Fiandra furono interdetti ai Veneziani. Al volgere del secolo la situazione andò ulteriormente peggiorando, e i volumi d'asta rispecchiano le difficoltà in cui questi paesi sempre in guerra venivano a trovarsi (20).
La frequente interruzione della linea per le Fiandre nel corso dell'ultimo decennio del Quattrocento cagionò gravi disagi in Venezia: non solo la disoccupazione colpiva ormai centinaia di marittimi, mentre il volume degli scambi diminuiva e scarseggiavano le lane per i laboratori tessili della città, ma - ed era l'aspetto più preoccupante - proprio nel momento in cui i marittimi erano rimasti senza lavoro, la mancanza di materie prime precludeva alle loro mogli le abituali occupazioni di filatura e tessitura. Nel tentativo di sedare il crescente malcontento, al senato giungeva da più parti la richiesta che si decretasse la fine del monopolio sulla lana da parte delle galere statali (21) : se nel decennio 1420-1430 le misure protezionistiche avevano favorito il rapido sviluppo delle industrie tessili cittadine, era lo Stato ora che doveva farsi carico di assicurare i rifornimenti di materia,- prima. Con decreto dell'8 luglio 1514 Si provvide a modificare la tassa differenziale sui tessuti di Ponente, supplemento dell'8 per cento "ad valorem" percepito sulle stoffe importate via terra per avvantaggiare le "mude" di Fiandra (22), riducendola al 4 per cento, con l'esplicito proposito di incrementarne gli arrivi a buon prezzo onde destinarli ai mercati d'Oriente. La necessità di favorire le importazioni di lane dall'Aragona e dall'Inghilterra decretava così la fine del monopolio.
Confrontando i volumi d'asta per le "mude" di Alessandria e di Fiandra nella prima metà del secolo XV si rileva una significativa equivalenza congiunturale: le enormi difficoltà connesse al conflitto tra Genova e Venezia, nel 1400-1405 prima, e successivamente nel 1430-1434, colpiscono in misura analoga entrambe le linee di navigazione. E tuttavia la "muda" di Fiandra è sempre quella più duramente danneggiata, sia per l'interruzione pura e semplice del traffico, sia per la vertiginosa caduta degli incanti, mostrando in tutta chiarezza la sua maggiore subordinazione alla situazione politica rispetto a quelle del Levante.
In Oriente Venezia mantenne sempre un ruolo privilegiato che né il blocco imposto dal Papato tra il 1345 e il 1370 né la guerra con Genova, seguita alla conquista di Tenedo del 1377 e all'attacco della Dominante a Chioggia del 1379, riuscirono mai seriamente a minacciare. La pace di Torino del 1381 sancì la supremazia della marina veneziana, e la città poté trarre i frutti di una situazione politica insperata. Nel 1395 Tamerlano attaccò e mise al sacco le città della Tana, di Sarai e Astrakan, scali consueti sulla via della seta. Il pericolo incombente sui traffici via terra spinse i mercanti arabi a ripristinare gli itinerari marittimi del golfo Persico via Ormuz, Damasco e Beirut, nonché quelli del mar Rosso via Aden, Il Cairo e Alessandria, regioni tutte in cui i Veneziani godevano di una posizione di forza e dove poterono, a partire da quel momento, incrementare i traffici a loro piacimento. Il secolo XV si apriva così sotto ottimi auspici, soprattutto considerando che la fine del secolo precedente era stata teatro di una svolta cruciale per la storia delle attività marinare del Mediterraneo. Si è evocata sovente la spartizione economica del bacino orientale tra Venezia e Genova: alla Serenissima spettavano gli scali di Egitto e Siria, in cui era molto radicata, alla rivale la parte orientale dell'Egeo e la Turchia. L'evoluzione del commercio marittimo diretto dallo Stato - per il quale disponiamo di maggiori informazioni - rispecchia le modificazioni fondamentali che toccarono particolarmente gli scambi con il Levante e sancisce l'incremento regolare del volume di traffico delle "mude" fino al crollo degli anni Venti del Cinquecento.
All'inizio del secolo XV l'avanzata folgorante di Tamerlano in Turchia dopo il sacco di Focea e in Siria con il saccheggio e l'incendio di Damasco del 1401 interruppe completamente gli scambi commerciali. L'assalto di Beirut da parte delle milizie genovesi capitanate da Boucicaut nel 1403 segnò una tappa decisiva verso la ripresa delle relazioni con l'Egitto, che era stato risparmiato dagli attacchi (23): il sultano Faraǧ, rifugiatosi al Cairo dopo il fallimentare tentativo di salvare Damasco e l'insuccesso delle trattative di pace condotte da Ibn Khaldun, chiese soccorso ai Veneziani. Il commercio marittimo con l'Egitto occupò da. allora il primo posto nel traffico delle galere statali con il 57 per cento del totale, a danno di quello con la Siria e Costantinopoli scesi rispettivamente al 27 e al 22 per cento. Durante gli anni 1443-1456, che videro una forte ripresa economica conclusasi con l'assalto turco alla capitale bizantina, le relazioni con i territori siro-egiziani nel loro insieme soppiantarono a poco a poco quelle con l'alta Romània (Costantinopoli e il mar Nero): il traffico con Alessandria oscillava intorno al 42 per cento, quello con Beirut al 32 per cento e con Costantinopoli al 26 per cento, fino all'abbandono definitivo della "muda" di Romània-mar Nero nel 1454 e alla riconduzione degli scambi sugli scali del Levante (24).
Il successo invidiabile della strategia mercantile veneziana nel Vicino Oriente alla fine del Medioevo dipendeva in misura determinante da due fattori decisivi: la supremazia del ducato sui mercati finanziari e l'incremento dei consumi in Europa occidentale. Il ducato era ormai moneta di scambio su tutte le piazze del Vicino Oriente, tanto più che la prosperità dell'area siro-egiziana sotto il dominio del sultano mamelucco del Cairo mostrava segni di decadenza. La principale risorsa della regione era la speculazione sulle spezie, importate e poi rivendute con grossi utili ai mercanti cristiani. Il ristagno dell'industria tessile annunciò la vittoria del ceto mercantile su quello artigiano. Quali mai sarebbero state le sorti dell'economia egiziana se fosse stata privata dello sbocco sul mare di Alessandria e, d'altra parte, della rete irachena e persiana senza Beirut, che ne rappresentava il naturale prolungamento? Il gruppo mercantile dei Karimi controllava in Egitto la maggior parte del transito delle spezie e il fondaco al-Karim del Cairo attirava mercanti dai paesi più lontani. Proprietari di immense ricchezze, frutto di queste attività estremamente redditizie, i Karimi divennero banchieri dei sultani impegnati nella lotta contro l'avanzata delle truppe mongole di Tamerlano, e a poco a poco ottennero, in cambio di un sempre più ingente sostegno finanziario, il monopolio sul commercio delle spezie. Quando, però, divennero creditori troppo esigenti e scomodi, i sultani decisero di liberarsi dalla loro stretta ormai insostenibile: nel 1429 Barsbay si accaparrò il monopolio esclusivo delle spezie e impose draconiane condizioni di scambio ai Veneziani, aumentando sia i prezzi che i volumi d'acquisto obbligatorio. Per qualche anno il mercato patì una certa disorganizzazione, poiché la via del mar Rosso assorbiva in modo quasi esclusivo il commercio dell'India. La brama degli ambiziosi governatori di quei porti - Gedda e Aden - non conobbe più misura: il sultano mamelucco prese allora il controllo di Gedda, abolendo le tasse più esose e assicurando la protezione dei convogli terrestri e marittimi diretti al Cairo.
Attratti dalla concessione di tali favori, i mercanti che importavano dalla Cina e dall'India abbandonarono di buon grado la via del golfo Persico per convenire su Aden. Subito le autorità egiziane cercarono di trarne il maggior profitto, dato il dissesto della bilancia commerciale nei confronti delle nazioni cristiane. In effetti, dopo i drammatici accadimenti del 1400-1405, le importazioni di prodotti finiti dall'Occidente al Levante siro-egiziano non cessarono di aumentare, visto che Tamerlano aveva privato la Cilicia, la Siria del nord e parte dell'Iraq dei suoi migliori artigiani fabbri, armaioli, tessitori e fabbricanti di sete - per deportarli a Samarcanda, sua nuova capitale, provocando una cronica carenza di manufatti destinata a durare molti anni e che determinò di conseguenza la crescita vertiginosa delle importazioni. Damasco, Aleppo, Hama e Emesa conobbero una recessione che solo la ripresa del commercio delle spezie poteva arginare. Nonostante la buona disposizione dei mercanti veneziani, il costo esorbitante dei prodotti orientali sulle piazze del Cairo, di Alessandria e di Beirut non contribuiva certo a tale ripresa degli scambi commerciali.
Il ducato tuttavia offriva ai Veneziani una chiave per modificare le regole del gioco imposto dal sultano del Cairo, avvantaggiandoli notevolmente sul fragile mercato monetario egiziano e sulla sua non più florida economia. La dinastia degli Ayyubiti (1178-1260) aveva abbandonato il dinaro - la moneta d'oro - per il dirham d'argento, imposto su tutto il Vicino Oriente: per soddisfare l'ingente richiesta di metallo, nel 1300 i Veneziani avevano cominciato a importarvi enormi quantità d'argento dalla Bosnia e dalla Boemia. Un secolo più tardi il sultano Faraǧ tentò di rimettere in circolazione un dinaro dal peso canonico di 4,25 grammi d'oro, fallendo, però, l'obiettivo per mancanza di metallo prezioso; un secondo tentativo, nel 1405-1406, con il conio di una nuova moneta, il dinaro ifranti, con un titolo di 3,40 grammi d'oro, falliva anch'esso. Barsbay decise allora, nel 1425 e successivamente nel 1430, di battere dinari dall'oro rifuso di fiorini e ducati: il dinaro ashrafi, dall'ottimo titolo, fu molto apprezzato fino al termine del secolo XV, ma tale soluzione determinò l'importazione massiccia di metallo prezioso, con grande soddisfazione dei Veneziani e un grave squilibrio per la bilancia dei pagamenti egiziana. Il ducato continuò a dominare incontrastato gli scambi di ogni genere nel Vicino Oriente fino alla metà del Quattrocento: basti ricordare quel che accadde ad Alessandria ai Fiorentini che inauguravano le galere mercantili nel 1422: l'unica moneta di pagamento ammessa era il ducato veneziano, e il primo ufficio dell'ambasciatore fiorentino fu richiedere la parità del fiorino. Da questa situazione i Veneziani trassero notevoli benefici, godendo dell'enorme potere d'acquisto offerto dal corso della loro moneta e, insieme, dall'inflazione che colpiva l'economia egiziana. La concomitante e generalizzata diminuzione del costo delle spezie non poteva che favorire ulteriormente i sudditi della Republica, nonostante non mancassero reazioni autoritarie da parte di alcuni sultani. Se, come talvolta poteva accadere, il margine di profitto si riduceva, esso veniva, però, ampiamente compensato dall'aumento del volume degli scambi che la forte domanda europea richiedeva. Padroni di uno strumento incomparabile, i Veneziani potevano soddisfare a volontà la richiesta inappagata di prodotti d'Oriente che continuava a provenire dalle piazze dell'Europa cristiana: con il controllo dell'oro e delle spezie, essi si erano accaparrati le gemme del commercio internazionale.
Sul volgere del Medioevo le spezie ricoprivano un'importanza decisiva nel quadro degli scambi. L'ambasciatore castigliano Ruy Gonzales di Clavijo descrive carovane di ottocento cammelli che arrivavano dalla Cina e dall'Asia centrale con pesanti carichi di seta, di taffetà, di mussole e rasi grezzi, ma anche di profumi, belletti, pietre preziose e pellicce. Ma per abbondanza e qualità le spezie provenienti dalle Indie avevano un posto speciale. Il trattato di commercio del Pegolotti si articola in trecentottantasei voci ed enumera, per esempio, diciassette qualità di zucchero e sei di zenzero (25). In effetti, nel secolo XV, le spezie erano fondamentali per un gusto gastronomico che si stava modificando e raffinando anche in ragione del successo di piatti e ricette straniere: pepe, cannella, zenzero, chiodi di garofano e noce moscata - ma non bisogna dimenticare lo zucchero - erano diventati indispensabili per l'arte culinaria medievale. Altrettanto indispensabili, le sostanze medicamentose e farmaceutiche, le gomme di ogni tipo, le resine animali e vegetali, il mastice e altri balsami; infine le sostanze tintorie, la noce di galla, la cocciniglia, l'indaco e tutti i prodotti di base dell'artigianato tintorio, senza dimenticare le ceneri, gli alcali e l'allume, utilizzato sia nell'industria tessile che per la concia delle pelli. Le spezie dunque erano tutto questo, e chi ne controllasse gli scambi controllava anche l'approvvigionamento dei centri produttivi. L'Europa della ripresa demografica e delle innovazioni tecniche, ma anche l'Europa devastata dalle micidiali epidemie o ancora quella in cui splendevano le corti principesche assetate di lusso per dimenticare le difficoltà del momento; tutta Europa dunque richiedeva senza posa merci e ancora merci. Ed era Venezia a rispondere a questa richiesta, poiché era essa che gestiva le relazioni tra le città d'Occidente e i mercati d'Oriente.
Due prodotti orientali, i cui scambi divennero ben presto essenziali nell'attività degli importatori veneziani, meritano particolare attenzione. Anzitutto lo zucchero, per la cui produzione una vera e propria industria era stata impiantata in Siria e a Cipro. A partire dal 1297 i Veneziani organizzarono un convoglio speciale per lo zucchero da trasportare in città. Tra il 1305 e il 1350, il convoglio annuale scaricava sulle banchine veneziane la produzione delle imprese agricole coloniali di Cipro - motivo del permanente conflitto con Genova - nonché i pani e la polvere di zucchero provenienti in quantità dalle valli del Tigri e dell'Eufrate e dalle pianure costiere della Siria. Dopo la sospensione di questa linea nel 1350, si prese a utilizzare, per il trasporto di carichi tanto preziosi, una galera della "muda" di Beirut ("galea zucharorum"), e in seguito il viaggio fu affidato a delle navi tonde, le "naves pulveris zuchari", che partivano con il convoglio delle cocche del Levante e facevano scalo, come in precedenza, a Pafo ed Episcopi nell'isola di Cipro. Dopo un'ascesa spettacolare tra la fine del XIV e l'inizio del XV secolo, il prezzo dello zucchero scese con regolarità fino alla fine degli anni Cinquanta del Quattrocento, attestandosi su livelli stabili e piuttosto abbordabili.
Anche l'altro prodotto di punta del Levante, il cotone, fu chiamato a giocare nell'economia europea un ruolo altrettanto determinante, tanto più valorizzato dalla rivoluzione che interessava in quegli anni l'industria tessile del continente. La progressiva riduzione della produzione di pesanti panni di lana a vantaggio del fustagno, più comodo e leggero, diede infatti ai Veneziani ulteriore vantaggio, poiché essi avevano subito investito nelle importazioni di cotone siriano ed egiziano da vendere prioritariamente ai mercanti tedeschi. Grazie alla loro impareggiabile organizzazione, i Veneziani, sempre attenti e pronti a cogliere ogni minimo fremito del mercato, seppero trarre profitto dalle strutture commerciali e amministrative già esistenti nelle città del Vicino Oriente. La presenza veneziana in Siria era piuttosto consistente e si faceva sentire: il console risiedeva a Damasco e i viceconsoli che lo assistevano a Beirut, ad Acri, ad Hama e più tardi, nel 1447, anche a Laodicea; un altro consolato fu aperto nel porto di Tripoli nel 1442, per agevolare l'acquisto e l'esportazione del cotone, la cui produzione locale rispondeva a stento alla domanda occidentale. È pur vero che piccoli centri del Meridione d'Italia o dell'Andalusia producevano, intorno alla metà del secolo XV, piccole quantità di cotone, riservate, però, al mercato locale. Ancora una volta i mercanti veneziani venivano a trovarsi in posizione favorevole: se le galere delle "mude", una volta completato il carico di spezie, zucchero e prodotti orientali, non avevano più spazio nelle stive, le eccedenze venivano imbarcate sulle navi tonde insieme alle balle di cotone, ai frutti canditi e alle merci pesanti come alcali e ceneri. Il trasporto del cotone era dunque appannaggio delle carovane di cocche che, dalla fine del Quattrocento, partirono due volte l'anno per il Levante: tra la fine di gennaio e l'inizio di febbraio il convoglio di primavera, e tra luglio e agosto quello d'autunno (26). Nel 1380 per esempio giunsero a Venezia ottomila sacchi di cotone grezzo, e ancor più negli anni successivi, grazie all'abilità dei Veneziani che nel frattempo avevano ottenuto il monopolio d'acquisto sulla produzione dei territori del sultano.
In Occidente il settore tessile non era più appannaggio di pochi centri privilegiati, ma coordinava attività complementari che concorrevano a fare del commercio marittimo internazionale un traffico di massa. Come già era accaduto per le produzioni laniere, i Veneziani furono tra i primi a rendersene conto. All'inizio del secolo XV il convoglio di primavera comprendeva prima da cinque a sette, poi da nove a undici navi tonde della portata media di 500 tonnellate - tenendo conto che in quegli anni la capienza delle cocche aumentava in continuazione e che i vascelli superiori alle 600 tonnellate non erano più così infrequenti. La tabella qui riprodotta illustra l'intensificazione del ritmo dei noli intorno alla metà del secolo.
È forse opportuno sottolineare come, nell'arco della fase più entusiasmante del commercio per mare (1422-1452), i convogli di cocche abbiano raggiunto la massima espansione nel decennio 1421-1430, durante il quale novanta di queste imbarcazioni fecero vela verso il Levante a complemento delle galere da mercato, anch'esse peraltro in numero straordinariamente elevato. Nel 1427 per esempio lasciarono la Siria sedici mercantili, e l'anno successivo tredici, cui occorre comunque aggiungere un certo numero di imbarcazioni private quando le circostanze lo consentivano. La quantità e la durata degli scali attesta l'importanza di questa linea: negli anni Trenta le imbarcazioni sostarono otto giorni ad Acri, dieci a Laodicea e otto a Tripoli. Alcune società, come la "fraterna" Soranzo, investivano in questi commerci capitali estremamente elevati, fino a 2-3.000 ducati l'anno, cifra peraltro agevolmente superata dalla compagnia dei Malipiero alla fine del secolo.
L'evoluzione dell'industria tessile verso un impiego più ampio del cotone a scapito delle lane può essere in parte attribuita alla concomitante riduzione dei pascoli per le greggi: nel Nord Europa infatti la pressione demografica e la conseguente necessità di sfamare una popolazione via via più numerosa richiedevano quantità sempre maggiori di terre coltivabili, ma favorivano anche gli scambi di beni di consumo a larghissima diffusione come il grano, il vino e appunto il cotone, nonché di tutte le sostanze chimiche legate alla lavorazione dei tessuti. L'evoluzione della moda e la domanda di colture erano fattori differenti che finivano comunque per favorire il profitto dei Veneziani, tanto più che il prezzo del cotone di Siria, dopo il forte aumento che lo aveva portato a 50-60 dinari nel primo ventennio del secolo, era sceso bruscamente a 30-40 dinari dopo il 1420, continuando a diminuire negli anni successivi fino ad attestarsi, nel 1450, intorno ai 16-2o dinari (27).
Ulteriore vantaggio che i Veneziani non mancarono di cogliere, lo Stato moltiplicava le iniziative volte a incoraggiare gli investitori a sfruttare le opportunità offerte dal nuovo mercato, aumentando le concessioni di trasporto agli armatori privati che avessero messo a disposizione della collettività i loro grossi mercantili. Per frenare la concorrenza lo Stato fissò anche il prezzo dei trasporti di cotone e concesse ai mercanti l'uso delle strutture utilizzate dalle galere statali: i porti del Levante siro-egiziano accolsero trecentotredici galere mercantili e trecentoventuno cocche durante la prima metà del secolo XV e addirittura quattrocentotrentatré galere e cinquanta cocche tra il 1451 e il 1498, cifre che testimoniano della rilevanza degli scambi levantini nell'economia delle linee di navigazione veneziane (28). Verso la fine del secolo la proporzione di galere statali continuava ad aumentare, in concomitanza con la crisi della cantieristica privata e con l'insicurezza dei mari infestati dai pirati, con grande profitto delle famiglie mercantili patrizie della nobiltà senatoriale. Ritrovata la regolarità dei transiti all'indomani della pace di Lodi (1454), il commercio marittimo visse un periodo di notevole espansione fino all'intervento francese del 1494. Certo vi furono difficoltà congiunturali che frenarono le attività, in particolare tra il 1483 e il 1509, lungo periodo recessivo che contrasta con l'esplosione del trentennio precedente. Tuttavia, se lo sviluppo economico dell'Europa poteva mantenere le distanze dalla situazione orientale, Venezia invece, intermediaria tra l'uno e l'altra, era costretta a tener conto dei differenti fattori di trasformazione del mercato.
Questa era peraltro la posta in gioco nei rapporti politici e diplomatici tra lo Stato veneziano e i sultani d'Egitto. Dall'inizio del secolo XV le relazioni col sultano Faraǧ (1398-1412) si erano fatte molto tese e i mercanti veneziani si erano trovati spesso in difficoltà, con scontri anche violenti temporaneamente risolti dal trattato stipulato il 30 aprile 1422, peraltro minacciato dalle frequenti incursioni di Catalani e Genovesi che spingevano le autorità musulmane a violenti propositi. Il sultano Barsbay (1421-1438), abbandonando la politica dei suoi predecessori, volle invece assumere il controllo del traffico delle spezie che transitavano sul suo territorio: le pesanti restrizioni imposte dal 1428 ai Veneziani fecero esplodere il conflitto. Con la forza imperturbabile e la serenità che sempre li contraddistinse i Veneziani ebbero ragione delle difficoltà, anche perché la crisi degli anni 1436-1438 provocava la sospensione dei viaggi e di conseguenza la profonda recessione dell'economia egiziana. Il regno del sultano Ǧaqmaq (1438-1453) vide dapprima l'approfondirsi della crisi, con l'ulteriore boicottaggio degli scali del Levante da parte delle galere veneziane nel 1441-1442, e infine il compromesso, cui seguì la ripresa dei traffici e l'incremento del volume d'affari parallelamente alla regolare discesa dei prezzi delle spezie in Oriente. È questo il periodo - 1460 - in cui si inaugura l'ultima "muda", detta "al trafego", e in cui si registra un forte incremento di spedizioni supplementari di galere o cocche, destinate al trasporto delle mercanzie che le galere già cariche avevano dovuto lasciare nei porti del Levante.
Le sedute di discussione degli incanti al senato erano intese alla previsione più approssimata possibile, su indicazione dei mercanti e dei consoli, del numero di galere da assegnare a ogni "muda". Data, però, la rapida evoluzione del mercato, le scorte preparate dagli agenti delle compagnie potevano superare anche di molto la capacità di carico delle galere: in questo caso il senato deliberava l'invio di una galera supplementare posta all'incanto alle condizioni abituali o di un mercantile dell'armamento libero affittato per l'occasione. Questo tipo di imbarcazione, che giungeva a destinazione direttamente e nel minor tempo possibile, era chiamata galera o nave "a rata". Tale operazione mirava anche a scoraggiare la concorrenza sleale tra i "patroni" delle galere, spesso soggetti a pressioni da parte di gruppi d'interesse che potevano essere tentati di praticare una certa discriminazione nei confronti di società rivali. Diverse testimonianze attestano, però, che tali pratiche si diffusero comunque nel corso del secolo XV e che il senato impotente non riuscì mai a imporre l'osservanza di regole precise e cogenti che impedissero simili abusi.
Tra il 1464 e il 1470 i patrizi versarono per il noleggio delle galere mercantili dirette a Levante una somma dieci volte superiore a quella offerta per le tre "mude" di Ponente messe insieme, cioè di Fiandra, Barberia e Aigues-Mortes. I primi viaggi portoghesi nell'oceano Indiano alla fine del secolo erano, però, destinati a mutare per lungo tempo gli equilibri del Mediterraneo orientale, senza che né i Veneziani né il sultano si rendessero conto che la sorte stava volgendo a loro sfavore. Il volume delle importazioni di spezie dalla Siria e dall'Egitto cadde vertiginosamente, tanto che già nel 1503 il prezzo del pepe era cinque volte più basso a Lisbona che a Venezia, dove l'aumento dei prezzi colpiva in uguale misura anche tutte le altre spezie. Finalmente consapevole del pericolo, il senato propose al sultano nuovi trattati di pace e di commercio, stipulati nel 1507 e nel 1512. Se il mercato oceanico sfuggiva rapidamente di mano ai Veneziani, essi mantenevano tuttavia il controllo di quello mediterraneo, come testimonia per esempio la situazione dell'Aragona dove conservarono una posizione dominante. Dopo il 1443, quando la corte aragonese si trasferì nel Regno di Napoli, la mobilitazione di tutte le forze disponibili alla conquista dell'Italia meridionale danneggiava il commercio marittimo, e infatti i Catalani di Barcellona denunciarono la grave recessione delle attività portuali (29). Furono le galere veneziane a garantire il flusso degli scambi, tanto più che, in questi anni difficili, le merci protette dal gonfalone di San Marco godevano di premi assicurativi dimezzati. I Veneziani trassero parimenti vantaggio dalla guerra civile che oppose Catalani e Aragonesi tra il 1462 e il 1472, conquistando la maggior parte del commercio di Barcellona. I destini del bacino del Mediterraneo erano ormai mutati, e sia in Aragona che nel Meridione d'Italia il ruolo dei Catalani tendeva a ridursi sempre più, mentre si affermava la supremazia veneziana in particolare per il traffico delle spezie, come mostra il volume delle importazioni realizzato a Valenza dai mercanti che operavano sulle "mude" di Barberia e Aigues-Mortes tra il 1488 e il 1494. Particolare rilevanza nell'economia aragonese aveva la piazza di Valenza, centro di ridistribuzione delle spezie verso il retroterra e insieme città nota per le sue conserve e la frutta candita esportate in tutta Europa (30). Le galere del viaggio di Aigues-Mortes giungevano a Valenza in agosto, quelle di Barberia in febbraio: in questo modo l'offerta rimaneva stabile per tutto l'anno e i mercanti veneziani in loco potevano trattare con Caat Ripoll e Abdallah Chocajre, speziali della "moreria".
I registri dei pedaggi portuali documentano dettagliatamente i carichi del 1488. Marco Malipiero e Matteo Pesaro, "patroni" delle galere di Aigues-Mortes, avevano previsto di fare a Valenza un breve scalo di otto giorni, durante i quali le attività fervettero ed essi proposero ai Valenziani 49.437 libbre di pepe - circa 17 tonnellate - corrispondenti al 78 per cento del totale delle importazioni annuali. Nicolò Balbi da solo prese in consegna 8.780 libbre. Furono anche scambiate 6.000 libbre di zenzero - l'88 per cento, come pure per i chiodi di garofano di cui furono vendute 15.268 libbre (31). Quantità così ingenti non erano, però, del tutto eccezionali se nel 1494 le galere veneziane di Barberia trasportarono 52.859 libbre di pepe (19 tonnellate), 6.828 libbre di zenzero, 8.407 di chiodi di garofano e 4.676 di cannella, per una media dell'80 per cento sul totale delle vendite nel porto aragonese.
La supremazia dei mercanti veneziani confermava la fondatezza della manovra tentata con la creazione delle "mude" del bacino occidentale del Mediterraneo, il cui straordinario successo coronava gli sforzi intrapresi in Aragona ma anche in Linguadoca e in Provenza, dove i risultati furono tali da spingere i mercanti locali a chiedere il sostegno delle rispettive monarchie, ansiose peraltro di poter dare nuovo impulso all'economia dei loro Regni in piena rinascita.
I successi dei mercanti veneziani in Oriente lasciavano spazio a progetti di ampia espansione in Occidente: nel 1402 infatti si potenziò la "muda" di Fiandra e in seguito, dopo le prove molto incoraggianti del 1403 e del 1405, nel 1412 anche la "muda" di Aigues-Mortes cominciò ad assumere un ritmo regolare. L'istituzione della "muda" era avvenuta gradualmente: da principio si era soltanto aggiunta una galera alla "muda" di Fiandra che attraccava a Londra e a Bruges: cinque galere proseguivano la rotta, la sesta faceva uno scalo di otto giorni ad Aigues-Mortes, dove lasciava il suo carico di spezie. Fu certo con comprensibile soddisfazione che i mercanti di Provenza e Linguadoca dovettero accogliere, il 15 maggio 1402, giorno di Pentecoste, l'arrivo della galera veneziana nel porto di Montpellier, dopo almeno sessant'anni che le galere veneziane vi mancavano. Una volta che i consoli della città ebbero accordato il salvacondotto richiesto dalle autorità veneziane, il capitano Lorenzo Contarini poté procedere alle operazioni di scarico delle spezie per un valore di 100.000 fiorini. L'anno successivo la durata dello scalo fu portata da otto a quindici giorni, segno dell'evidente entusiasmo con cui i mercanti veneziani avevano accolto il successo di tale iniziativa. Sospese le spedizioni per qualche anno, nel 1412 il senato ne decretava la ripresa con una galera autonoma che partiva da Venezia all'inizio della primavera e, costeggiata l'Italia, faceva vela verso la Provenza. Lo scalo ad Aigues-Mortes fu prolungato a diciotto giorni e i transiti divennero regolari.
Dopo qualche incertezza dovuta a un difetto d'organizzazione, il sistema fu migliorato, e non bastò il rifiuto del senato di discutere gli incanti nel 1414 per smorzare gli entusiasmi dei patrizi. Nel 1415 il contratto d'asta prevedeva l'esonero dal prezzo di trasporto - detto nolo - delle spezie dirette ai porti del Mezzogiorno francese, mentre restava fissa per le altre mercanzie la tariffa normalmente richiesta per i viaggi nelle Fiandre: la delibera del 1411 era stata esplicita nel dare priorità assoluta a spezie e cotone in ragione dell'eccedenza delle scorte a Venezia. Successivamente gli incanti non cessarono di aumentare raggiungendo nel 1423 e nel 1424 le cifre record di 280 e 560 lire di grossi: "un prezzo mai visto" (32). Attratto dai profitti della "muda", il senato decise a quel punto di organizzare due viaggi annuali, uno alla fine della primavera e l'altro in estate. La durata delle spedizioni prese ad allungarsi man mano che si individuavano nuovi scali - Port de Bouc, Agde e Collioure - fino a richiedere, nel 1424, otto mesi in luogo dei precedenti sei. Inoltre i mercanti espressero il desiderio di proseguire il viaggio fino in Catalogna per rifornirsi di lane e tessuti, per cui ormai il viaggio comprendeva le tappe di Messina, Palermo, Napoli, Gaeta, Pisa, Aigues-Mortes, Montpellier e Barcellona, con puntate episodiche a Tortosa e Valenza.
Con l'infuriare della guerra tra Genova e l'Aragona, nel 1425 si decise di sospendere il viaggio per evitare nuovi incidenti. Dopo il sacco di Marsiglia ad opera dei Catalani e la distruzione della flotta mercantile provenzale, i flussi di scambio si trovarono profondamente mutati. L'età d'oro del commercio provenzale era terminata: i mercanti che partivano da Marsiglia e da Montpellier per Cipro o per l'Egitto non potevano più rifornirsi direttamente di spezie o di droghe, e la presenza dei mercanti di Linguadoca ad Alessandria divenne minima dopo il 1426, il che spiega facilmente il successo della "muda" di Aigues-Mortes dopo che la catena del porto di Marsiglia non fu più che un ornamento della cattedrale di Barcellona. Lo sviluppo di questa linea fu tale che nella primavera del 1424 furono noleggiate due galere per un prezzo assai elevato, e un'altra galera partì nell'estate per rispondere alla forte domanda delle piazze di Linguadoca. Ma i mercati del Sud della Francia erano oggetto d'interesse anche per i rivali di Venezia. Già nel 1423 si era dovuta anticipare la partenza delle galere, poiché al senato era giunta voce che i Fiorentini stavano progettando un sistema analogo a quello delle "mude". Dopo il 1426 il ritmo delle rotazioni dei convogli cominciò a rallentare sensibilmente, fino all'interruzione degli anni 1430-1434 a causa della guerra veneto-genovese in Oriente che mobilitò la flotta e vietò la navigazione nelle acque di Genova: interruzione che risultò estremamente dannosa per Venezia, tanto più che Jacques Coeur stava nel frattempo cominciando a realizzare il sogno del re di Francia di limitare l'egemonia degli importatori di spezie italiani (33). Dopo la ripresa delle attività nel periodo 1434-1440, sostenuta ma di breve durata, la lunga sospensione del decennio successivo denunciava i limiti dell'impresa veneziana, tanto che tra il 1451 e il 1499, data della chiusura della lirica, soltanto un convoglio all'anno faceva scalo nei porti della Linguadoca e proseguiva per Tortosa per far carico di lane aragonesi.
Comparando il valore degli incanti delle "mude", è giocoforza rilevare come la linea di Aigues-Mortes si trovi in posizione molto bassa anche nel suo periodo più florido, tra il 1426 e il 1443: il carico delle galere si aggirava in media intorno a un valore di 60.000 ducati, di gran lunga inferiore ai 150-200.000 ducati delle galere per il Levante. Qualche volta le galere di Aigues-Mortes giunsero a fruttare soltanto 1.850 ducati, cifra irrisoria se commisurata agli investimenti e ai rischi (34).
Tutto questo consente facilmente di spiegare perché, dopo decenni di rischioso servizio, questa linea fosse comunque mantenuta in uso benché non fosse certo di grande riuscita. Lo straordinario successo nel Levante, sancito da massicci acquisti di spezie e dal controllo pressoché totale degli scambi con l'Occidente, aveva determinato la necessità di sviluppare le relazioni marittime con il Ponente. Le città rivali avevano già da molto tempo affermato la propria potenza nel bacino occidentale del Mediterraneo, e tutte - Barcellona, Genova, Firenze - intendevano mantenere i mercati conquistati così a caro prezzo. I Fiorentini non avevano perso tempo, mostrando con la creazione del consolato di mare, dopo l'acquisto di Porto Pisano, le loro pretese. Incerti per qualche tempo sulla scelta dell'imbarcazione cui affidare l'espansione dei loro traffici marittimi, si erano risolti infine, prendendo esempio, com'era naturale, dai Veneziani, per la galera, e in capo a pochi anni costituirono una flotta che comprendeva undici galere grosse e quindici sottili. I Veneziani compresero che una terribile minaccia gravava sui loro traffici con la Linguadoca e la Catalogna, giacché nel 1414, periodo di grandi difficoltà per i mercanti di Linguadoca e Marsiglia, le galere fiorentine in partenza per l'Oriente non esitarono a fare una deviazione per Marsiglia e Aigues-Mortes (35). I Catalani, male accetti dopo il loro sanguinoso attacco nel 1423, attesero diversi anni prima di riprendere il cammino di Montpellier e di Marsiglia, ma la loro efficienza li rendeva interlocutori apprezzabili per i mercanti del Sud che collaboravano con loro (36). Ormai gli accomandatari dei mercanti della Linguadoca sapevano dell'intensa attività nei porti meridionali e desideravano incrementare gli scambi con questa regione ricca e produttiva.
È a questo punto che Jacques Coeur riuscì a far valere le proprie intenzioni utilizzando il potenziale delle strutture portuali di Narbona e Montpellier. Nel 1443, alla rottura tra Aragonesi e Provenza in seguito alla conquista di Napoli, egli prese a ordire manovre di grande portata. I mercanti della Linguadoca conoscevano le regole del commercio internazionale, che peraltro praticavano da molto tempo: grazie ai loro consolati a Rodi e in Egitto, riuscivano ad assicurare una piccola parte delle importazioni locali. Forte dell'appoggio del re di Francia, il gran tesoriere riaprì le porte dell'Oriente. Carlo VII fece costruire una grande galera, la Notre-Dame, che partì puntualmente nell'aprile 1445: a bordo vi erano probabilmente dei mediatori incaricati di proporre un trattato di pace tra i cavalieri di Rodi e il sultano d'Egitto, i cui rapporti si erano nuovamente guastati. I risultati furono all'altezza delle aspettative, anche perché l'assenza dei Veneziani consentiva ampia libertà di manovra. L'anno successivo Jacques Coeur acquistò un'altra galera mercantile a Rodi e da allora due galere cominciarono a prendere regolarmente la rotta d'Oriente facendo scalo in Catalogna, in Italia meridionale e in Ifriqiya. Nel 1448 ritroviamo Jacques Coeur a Barcellona dove, protetto dalla sincera amicizia del re d'Aragona Alfonso V, commercia in spezie. I Catalani non apprezzarono affatto i privilegi concessi ai Francesi, che sottraevano loro il commercio delle spezie: anzi il consiglio di Barcellona protestò energicamente per il fatto che i mercanti di Aigues-Mortes detenessero il monopolio delle spezie per il Sud della Francia, con grave danno dei porti di Roussillon, Perpignan e Collioure (37). Qualche tempo dopo, grazie ai successi diplomatici di Jean de Village, nipote di Jacques Coeur, presso il sultano d'Egitto Gaqmaq, la piccola flotta si arricchiva di altre due galere, e il consolato francese ad Alessandria raggiungeva per importanza quello italiano. Nel 1449 Marsiglia divenne la base di una flotta di galere agli ordini di comandanti di provate capacità: Guillaume de Varye, Guillaume Gimart e lo stesso Jean de Village. Le galere - Notre Dame-Saint-Michel, Sainte-Madeleine, Notre Dame-Saint-Jacquese Notre Dame-Saint-Denis - trovavano sempre buona accoglienza in Egitto e raramente si verificarono incidenti.
La situazione non poteva che destare grandi preoccupazioni presso i Veneziani che si vedevano minacciati anche sulle piazze d'Oriente proprio nel momento in cui stavano perdendo il controllo dei porti della Linguadoca. Il 1° marzo 1449 il senato inviò Lorenzo Tiepolo presso il sultano Ǧaqmaq per discutere delle relazioni amichevoli tra le due nazioni, rilanciando così per qualche tempo gli scambi commerciali. La sorte infausta di Jacques Coeur destò soddisfazione negli Italiani, ma gli scambi non ritrovarono mai un ritmo così sostenuto poiché il re di Francia aveva ormai compreso che era possibile sottrarsi all'egemonia degli importatori italiani. Impedimenti fiscali e doganali cominciarono da quel momento a recare grave danno al commercio veneziano, fino alla cessazione della "muda" di Aigues-Mortes nel 1494. Con l'inaugurazione della "muda" di Barberia si intendeva rispondere alla necessità di riequilibrare le esportazioni con il bacino occidentale del Mediterraneo completando la rete di distribuzione verso i porti dell'Africa settentrionale e del Regno di Granada. I prodotti orientali - spezie, sete - ma ugualmente i tessuti italiani e i metalli - rame, ferro, piombo e argento - venivano venduti o scambiati con lana a buon prezzo ma di scarsa qualità, con abbondante olio d'oliva, con pelli, cereali, sale, con grandi quantità di corallo, tanto richiesto al Levante, o ancora con schiavi africani e oro sudanese. Tunisi, Gerba e Tripoli, città di contatto tra mercanti cristiani e carovanieri provenienti dal cuore dell'Africa, divennero sedi di scambi redditizi.
Il senato sancì la creazione della "muda" di Barberia il 10 dicembre 1436 (38): con una maggioranza schiacciante - centoquindici voti contro tredici - fu messa all'incanto una galera con destinazione Barberia e Spagna. I patrizi non ignoravano certo i pericoli che l'impresa avrebbe comportato per i Veneziani in rotta per l'Ifrigiya nel caso in cui fossero sorti dei malintesi con gli Hafsidi di Tunisi. I mercanti dovettero, però, rispondere favorevolmente, se Gerolamo Morosini riuscì ad aggiudicarsi la galera a prezzo elevato, 351 lire di grossi. Il nolo della galera - di "mensuris grossis", circa 250 tonnellate - era integrato da una sovvenzione di 1.200 ducati da parte della Repubblica.
La nuova linea di navigazione, organizzata in modo del tutto analogo alle precedenti, conobbe tra il 1436 e il 1533 alterne fortune. Nel periodo di "rodaggio", 1436-1440, il viaggio era effettuato da una galera soltanto, poi, fino al 1457, da un convoglio di due che toccava Siracusa, Tripoli, Tunisi, Bugia, Malaga e Valenza. In seguito, tra 1458 e 1482 i patrizi ottennero tre galere, mentre il numero e la durata degli scali aumentavano ancora toccando Orano, Algeri e anche Tortosa, porto d'imbarco delle lane aragonesi. Durante l'ultima fase di sfruttamento della "muda", fino al 1508, le numerose difficoltà affrontate dalle due galere che effettuavano il viaggio ne mostrarono la pericolosità, e la sua remuneratività fu messa in dubbio.
L'intervento degli Spagnoli in Nord Africa per la conquista di Algeri, Orano e altri porti del litorale, la massiccia presenza di pirati e il volume ridotto degli scambi, scoraggiavano gli investitori, e il prezzo medio del nolo di una galera scese in questi anni al livello di 97 lire di grossi. E tuttavia la linea rispondeva alle necessità dei partners commerciali di Venezia: se sulle sponde settentrionali del Mediterraneo molti ne avrebbero accolto con favore la sospensione, sulle coste meridionali accadeva il contrario.
In Ifriqiya gli emiri Hafsidi, gli sceicchi di Tripoli e di Tlemcen richiedevano con insistenza il transito delle galere e non esitavano, a ogni interruzione, a scatenare rappresaglie contro gli interessi veneziani, come accadde a Tunisi con il sequestro di quasi 6.000 ducati di corallo pronto per essere imbarcato. A più riprese nel 1500, 1503 e soprattutto nel 1506 - furono inviate ambascerie per spiegare al doge come il commercio marittimo veneziano fosse di vitale importanza per l'economia della regione; ma in effetti, se il senato accettò di varare dei convogli nel 1517, 1519 e 1520, fu più per sedare la crisi sociale che covava tra i marittimi disoccupati che per dare soddisfazione ai sovrani musulmani. Vi era a Venezia chi avrebbe voluto utilizzare le galere della "muda" di Barberia per il trasporto delle spezie dell'oceano Indiano e dello zucchero delle Canarie disponibili a Lisbona, ma i colloqui incoraggianti con l'ambasciatore portoghese Gonzalo Alvarez non ebbero alcun seguito (39).
Il progetto fu abbandonato e la "muda" di Barberia non sopravvisse agli sporadici viaggi del secondo decennio del Cinquecento.
Di fronte alla supremazia dei monarchi di Francia e Inghilterra, i Veneziani incontrarono difficoltà tali da non essere più in grado di trarre alcun vantaggio definitivo e durevole dalla loro potenza navale. I risultati economici diedero ragione alla perseveranza di Luigi XI, che andò moltiplicando le restrizioni a svantaggio degli Italiani: tra il 1462 e il 1469 il commercio marittimo francese raggiunse a Barcellona il 45 per cento del movimento totale. In questa zona di attività la lotta era selvaggia, e i soci cambiavano secondo il vento della politica, come dimostra, meglio di ogni altro esempio, la storia delle relazioni con la Linguadoca.
In Francia, gli ῾Stati' della Linguadoca, che promuovevano le attività portuali delle città del litorale mediterraneo - Montpellier, Aigues-Mortes e, più tardi, Marsiglia - e dunque si mostravano oggettivamente alleati dei Veneziani, entrarono in conflitto con l'amministrazione regia, che dal 1470 intendeva favorire lo sviluppo delle fiere di Lione, concedendo alla città quattro periodi di fiera all'anno, ciascuno della durata di quindici giorni. La novità mirava ad attirare il commercio terrestre che in quel periodo convergeva invece su Ginevra, ma, di ritorno, rischiava di mettere in pericolo i circuiti marittimi tradizionali degli importatori veneziani. I mercanti delle città della Linguadoca, interessati anch'essi alle attività del settore marittimo, decisero di battersi contro il crescente successo del trasporto via terra, reso possibile dalla stabilità politica delle regioni interessate. La riattivazione della rete viaria alpina deviava su Lione gran parte del traffico delle spezie e della seta: i consoli delle città della Linguadoca reclamarono allora la chiusura dei valichi alpini agli importatori d'Oltralpe, trovando finalmente soddisfazione nel 1484, quando Carlo VIII, meglio disposto del suo predecessore, accettò di sospendere per dieci anni le fiere di Lione, a vantaggio di quelle di Linguadoca, cui accordava inoltre il monopolio delle importazioni di spezie e di seta. Con questa decisione, il re intendeva ridare splendore al blasone delle città della Linguadoca, gettate nella più completa rovina dal successo dei mercanti lionesi.
Nel 1465 i Medici trasferirono la loro succursale da Ginevra a Lione, trascinando con sé le altre compagnie toscane: nel 1503 infatti vi si potevano contare quarantadue società fiorentine, sicuramente all'origine della prima borsa del Regno, inaugurata nel 1506. La città di Lione, felicemente situata alla confluenza del Rodano e della Saona, vicina ai valichi alpini con la Svizzera, la Germania e l'Italia, traeva ogni vantaggio dalla sua favorevole collocazione geografica. La frequentazione assidua di mercanti tedeschi e fiamminghi e degli importatori italiani alimentava gli affari e dirottava la parte essenziale del traffico dal corridoio del Rodano verso il Nord, disertando così le rive del Mediterraneo. Dopo la decisione degli Stati Generali del Regno di Tours, nel 1484, i Fiorentini e i Milanesi minacciarono di trasferirsi nuovamente a Ginevra. I Veneziani erano nell'imbarazzo: pur dando priorità alla conservazione delle attività marittime, non potevano certo consegnare nelle mani dei loro rivali italiani la distribuzione delle spezie che importavano in Italia. In ogni caso i Veneziani avevano fondate speranze di trarre comunque vantaggio da tale congiuntura. Questi i fatti: i Lionesi vantarono i meriti del commercio marittimo veneziano, argomentando che le città della Linguadoca non avevano mai potuto rivaleggiare con strutture mercantili come le "mude". I Veneziani, grazie alle galere mercantili e alla loro posizione di forza nel Levante, erano in grado di vendere le spezie al 20 per cento in meno rispetto ai mercanti francesi. I Lionesi inoltre ricordarono con ironia gli scacchi subiti in Oriente dalle compagnie francesi, nonostante l'aiuto del re e il talento degli antichi compagni di Jacques Coeur. In un primo tempo i Veneziani approfittarono del rivolgimento della situazione: dopo l'annuncio della sospensione delle fiere di Lione, il senato tentò di approfittare del colpo di mano delle città della Linguadoca, nella speranza di riprendere piede nella regione grazie alla "muda" di Aigues-Mortes. Sfortunatamente la guerra di Ferrara aveva esaurito le risorse della città, e anche le galere mercantili delle "mude" di Ponente erano state requisite per la guerra. Il "partito del mare", consapevole dell'importanza della posta in gioco, tentò un colpo clamoroso e volle provare al patriziato la fondatezza di un'iniziativa estremamente azzardata.
Sempre pronta ad adattarsi alle circostanze, Venezia mise a punto una tattica alternativa che le consentiva di raggiungere i porti del Sud della Francia evitando le coste italiane. La "muda" di Barberia fu incaricata di aggirare l'ostacolo, e di mantenere il contatto con la Linguadoca e la Catalogna. Nell'arco di tre anni, dal 1484 al 1486, essa venne rinforzata, passando a cinque galere nei due primi anni, e a quattro nel successivo, mentre solo tre erano quelle destinate all'Africa del Nord. Le modificazioni attuate resero la rotta molto più lunga, richiedendo agli equipaggi uno sforzo considerevole. Una volta giunte a Tunisi, le galere si dirigevano verso Marsiglia, poi ripartivano per Algeri e proseguivano in direzione della Spagna.
Nel 1484 la partenza da Venezia, fissata per il 10 giugno, ebbe luogo effettivamente soltanto un mese più tardi, visto che marinai e "patroni" contestavano le modalità dell'impresa, e solo dopo non meno di sei animatissime sedute si riuscì a raggiungere l'accordo fra i patrizi. I "patroni" - Francesco Navagero, Francesco Bragadin, Pietro Contarini, Alvise Bondumier e Carlo Valier - accettarono di prendere le galere soltanto in cambio di vantaggi consistenti: non solo ottennero un prestito di 3.500 ducati per galera, ma strapparono ai senatori l'autorizzazione ad aumentare di un terzo il prezzo dei noli. L'ammontare delle offerte per questo primo viaggio non fu molto elevato, 124 lire di grossi per le cinque galere (40).
Nel 1485 il senato, resosi conto di quanto navigazioni così lunghe risultassero faticose per gli equipaggi, propose ai "patroni" una soluzione differente: la "muda" di Barberia avrebbe costeggiato l'Africa fino all'altezza di Valenza, e di lì avrebbe fatto vela verso Marsiglia. Incoraggiati dai buoni risultati del viaggio precedente e da queste modifiche, i "patroni" alzarono notevolmente le offerte, che raggiunsero complessivamente 679 lire di grossi per cinque galere. Intervenne, però, la flotta catalana, e il viceconsole veneziano di Valenza inviò alcuni messaggeri al capitano della "muda" di Barberia per avvertirlo che una delle galere di Fiandra era stata catturata. Il capitano decise di evitare gli scali del Regno di Granada, Malaga e Almeria, e puntò direttamente su Valenza tra mille precauzioni. Per il 1486 si mantenne lo stesso itinerario, visto che la soluzione prescelta aveva soddisfatto tutti, ma soltanto quattro galere effettuarono il viaggio, mentre l'ammontare delle offerte passò a 604 lire di grossi. Per la "muda" non c'era nessun problema, visto che la pace del 23 settembre 1484 fra Venezia e la Francia veniva effettivamente rispettata dai firmatari: già nel 1487 la situazione si era normalizzata, e le "mude" poterono riprendere la rotta abituale per qualche anno, ma la riapertura delle fiere di Lione nel 1494 e i preparativi per l'intervento francese in Italia impedirono l'invio delle galere fino al 1499. In quell'anno, il doge stesso si espresse contro il mantenimento della linea di Aigues-Mortes (41); le navi vennero requisite per combattere i Turchi, e raramente ripresero la rotta di Marsiglia o di Aigues-Mortes.
Un secondo elemento contribuisce a spiegare lo sviluppo del commercio terrestre in direzione di Lione a discapito delle linee marittime: si tratta dell'esportazione delle sete, la cui produzione nel Dominio veneto era, alla fine del secolo XV, in costante aumento.
La legge del 1451, molto restrittiva per Bergamo, completata da quella del 1457 che sanciva la proibizione di vendere la seta grezza in tutto il Dominio direttamente dai centri di produzione, provocò rivolgimenti fatali, come nel caso dell'industria tessile di Verona: da quel momento le sete, ma anche i damaschi e i broccati dovettero passare per la dogana di Venezia. I disordini seguiti alla guerra di Ferrara provocarono un allentamento dei controlli e consentirono alle città interessate di aggirare la legge e di inviare a Lione quantità considerevoli di seta via terra. Le merci di lusso - le più redditizie - sfuggirono spesso all'obbligo di trasporto esclusivo sulle galere da mercato. Le perdite erano evidenti per i "patroni", che constatavano con grave disappunto la disaffezione dei clienti per la linea di Aigues-Mortes. La politica fiscale repressiva che Luigi XI aveva inaugurato nel 1466 nei confronti degli Italiani, e dei Veneziani in particolare, andava a tutto vantaggio della città di Lione, che diventava così il punto d'ingresso esclusivo della seta nel Regno di Francia.
La tendenza trovò conferma, all'inizio del secolo XVI, nell'enorme successo di tale tessuto, il cui prezzo non aveva confronti: a parità di peso, sul mercato europeo, la seta valeva centoventi volte la canapa e quasi dieci volte la lana. I mercanti italiani non poterono fare a meno di approfittare di tale situazione, trasferendosi in massa, dal 146o e fino al 1510, a Lione e abbandonando i porti della Linguadoca, sprofondati in pieno marasma economico.
È in questa situazione che si andava preparando, per la metà del Cinquecento, il successo esemplare dell'asse Lione-Milano, divenuto ormai un'arteria essenziale del commercio europeo a scapito dei circuiti marittimi tradizionali. Ciò non significava comunque che i Veneziani si ritirassero totalmente dalla regione, ma era soltanto la conseguenza di una repentina inversione di tendenza, ora sfavorevole al commercio marittimo che le decisioni del senato avevano trascurato. In effetti, i Lionesi avevano constatato con evidente piacere che, nonostante la proibizione regia e la riapertura della linea di Aigues-Mortes, le spezie giungevano in città attraverso i valichi alpini. Il tentativo delle città della Linguadoca era dunque destinato al fallimento, come apparve sempre più evidente nei primi anni del secolo XVI, dopo la definitiva sospensione della "muda" di Aigues-Mortes. Tra il 1500 e il 1501, dalle città italiane, arrivarono a Lione attraverso i valichi alpini 1.093 balle di spezie, di cui 365 di pepe. Tre anni più tardi, gli scambi lionesi interessarono 2.000 balle, metà delle quali di pepe. Nel 1522 la percentuale delle spezie provenienti da Aigues-Mortes precipitò sotto il 2 per cento (42)!
Fu sicuramente a causa dello scarso successo nel Ponente alla fine del secolo XV che i senatori decisero di rinforzare con una nuova "muda" le relazioni marittime con il Levante.
Nel momento in cui in Francia, in Inghilterra e nelle Fiandre le difficoltà si accumulavano, e la guerra civile catalana devastava l'Aragona, il commercio marittimo veneziano con il Ponente veniva duramente colpito dalla rischiosa congiuntura economica. I Veneziani, che del resto ne erano avvertiti e forse speravano anche di porre rimedio alla situazione così compromessa, si impegnarono nella creazione di una nuova "muda" destinata a collegare i due bacini del Mediterraneo: in realtà c'era ancora a Venezia chi credeva nella potenzialità delle "mude" per promuovere una significativa ripresa dei commerci marittimi. L'Ifriqiya era una regione florida e ricca di prodotti da esportare, ma pativa la scarsa disponibilità di mercantili: il suo traffico marittimo dipendeva praticamente dalle flotte cristiane. I prodotti locali - sale della Tripolitania, olio di Gerba, cereali e prodotti della pesca del golfo di Gabes, pelletteria di Tunisi o corallo di Mars al-Kharaz - godevano della priorità d'imbarco sui mercantili delle nazioni cristiane, e del resto gli stranieri vi accorrevano numerosi vista l'eccezionale posizione geografica della regione.
Cristiani e musulmani si accalcavano nei fondachi e sulle banchine del porto di Tunisi. Il senato, tenuto minuziosamente al corrente dei cambiamenti politici ed economici che potevano indebolire o incrementare gli interessi veneziani dalle vette alpine fino agli scali del Levante, seppe cogliere in quel momento l'opportunità che si offriva. Per promuovere il proprio sviluppo economico i Regni dell'Africa del Nord non potevano fare a meno delle flotte cristiane: i mercanti delle città costiere dell'Europa occidentale assicuravano a queste regioni il rifornimento di prodotti orientali - spezie e tinture - ed europei, principalmente metalli e tessuti. I Veneziani avevano già tentato a più riprese, come si è detto, di promuovere il commercio fra Ifriqiya e Oriente, e da diverso tempo gli Hafsidi di Tunisi premevano per contatti più frequenti con i porti del Levante, in particolare con Alessandria e Beirut. Bisognerà, però, attendere il 1460 perché il senato si decida finalmente a istituire una linea commerciale esplicitamente destinata al trasporto dei mercanti musulmani e delle loro merci verso tutti i porti del Mediterraneo orientale. Missione della "muda" era il cabotaggio "ad traficum Barbarie et Alexandrie". Il sistema di gestione era analogo a quello impiegato per le altre "mude" (43). Approfittando di un'interruzione della linea di Barberia, i senatori indissero una gara d'appalto per due galere del "trafego". L'idea trovò buona accoglienza presso i mercanti veneziani, che infatti versarono forti somme per il noleggio delle galere: Jacopo da Mosto per esempio offrì 300 lire e 6 ducati e Andrea Foscolo 301 lire e 4 ducati. Una potente minoranza patrizia diffidava tuttavia dell'utilità della nuova "muda", forse intimorita dal primo apparire della crisi economica. Rivelatrice dello stato d'animo di alcuni senatori è una delibera del primo incanto del "trafego": occorreva dare priorità alla "muda" di Barberia; Lorenzo Bembo propose addirittura la rinuncia pura e semplice al progetto. È comprensibile dunque l'imbarazzo dei senatori che, consapevoli ormai delle difficoltà incontrate dalla "muda" di Barberia, erano restii a investire il denaro della Repubblica in una nuova linea commerciale. La questione che destava maggiori perplessità nei patrizi era come la "muda de trafego" potesse inserirsi fra le altre "mude": la sua rotta, infatti, prevedeva scali in Ifriqiya - almeno Tunisi e Tripoli, e Alessandria e Modone di passaggio - che già erano meta abituale delle galere veneziane: occorreva dunque evitare a ogni costo che si instaurasse una certa concorrenza fra le diverse "mude". Ancora nel 1461 le perplessità non dovevano essere del tutto scomparse, se Nicola Bernardo insisteva presso i suoi pari per un differimento dell'avvio della "muda de trafego". Il suo suggerimento fu, però, disatteso, e il progetto mantenuto. Due erano i motivi che rendevano la creazione di questa "muda" particolarmente importante agli occhi dei mercanti veneziani: da un lato la possibilità di raggiungere con frequenza regolare i porti della Tripolitania e della Cirenaica, e dall'altro la creazione di un collegamento diretto fra l'Ifrigiya e il Levante. I più interessati all'iniziativa erano, però, di fatto i commercianti musulmani, e tutto lascia credere che le pressioni esercitate dagli Hafsidi abbiano giocato un ruolo decisivo nel forzare le decisioni del senato: da quel momento infatti Tunisi entrava in relazione con gli altri grandi porti del Mediterraneo, e 1' Ifrigiya diventava uno dei fulcri del circuito di distribuzione delle merci europee, africane ed orientali.
Non è facile ricostruire il percorso tipo della "muda al trafego" dato che, a seconda delle circostanze, furono numerose le variazioni della rotta di servizio degli scali mediterranei; ma il problema principale è capire cosa spingesse i senatori a proporre "uno viazo, uno viazo e mezo" e "do viazi". Il criterio per cui veniva scelto un percorso piuttosto che un altro sembra basarsi esclusivamente sulla sicurezza delle galere. In ogni modo la vocazione precipua della "muda" rimase sempre quella di servire da complemento alle altre, caricando la maggior quantità di merci possibile: i musulmani potevano così disporre di una flotta mercantile. Attratti dalle garanzie giuridiche dei convogli statali e dai prezzi dei noli, piú bassi in ragione dell'esiguità dei premi assicurativi, i mercanti magrebini ed egiziani potevano confidare nel successo dell'impresa. D'altra parte le autorità veneziane avevano probabilmente inteso regolamentare il traffico interregionale, controllato da imprese private che spesso non rispettavano i regolamenti amministrativi e commerciali. Malgrado queste favorevoli condizioni, la "muda de trafego" presentò notevoli difficoltà di gestione: non solo infatti incontrava gli stessi problemi organizzativi della "muda" di Barberia, ma proprio per la necessità di inserirsi nel sistema di navigazione statale, si trovava di fronte a condizioni particolari. Tra tutte le "mude" il viaggio del "trafego" era il più lento, non solo per la notevole distanza da coprire, ma anche per il grande numero di scali. Nel 1461, per esempio, il convoglio si fermò quindici giorni a Tunisi, quindici a Tripoli, ventotto ad Alessandria e dieci a Modone e quell'anno il viaggio comprendeva un solo giro. La "muda de trafego", che fu istituita per ultima e sospesa fra le prime, ebbe una storia movimentata: nella fase entusiastica che seguì la creazione della linea, tra il 1461 e il 1465, il convoglio era costituito da tre galere; in seguito, nel decennio successivo, il lungo periodo di interruzione determinato dalla guerra veneto-turca non impedì ai patrizi di manifestare il loro attaccamento a questa "muda". Così, tra il 1475 e il 1480, la graduale ripresa con due galere preparava le buone annate dal 1480 al 1499, quando di nuovo tre galere facevano vela per l' Ifrigiya e il Levante.
Durante le prime sedute di discussione, i senatori esigevano che le galere fossero di grandi dimensioni "propterea pericula navigacionis", vista la lunghezza del viaggio e il rischio di attacchi nel Mediterraneo orientale (44). Dopo il 1480, per garantire la sicurezza del convoglio, le galere "al trafego" facevano la rotta di ritorno a Venezia insieme a quelle del Levante: quello che si presentava nel bacino di San Marco era allora un convoglio di dieci o dodici galere mercantili.
La messa a punto della linea "al trafego" dovette superare numerosi ostacoli legati alla congiuntura economica, come l'impossibilità di equipaggiare al meglio le galere e l'opposizione politica di una parte dei senatori. Quando poi le merci non erano sufficienti a completare il carico di tutte le galere, il rischio di concorrenza fra le mude "al trafego" e quelle di Alessandria e di Beirut diventa estremamente reale: le rivalità tra i "patroni", che non esitavano a mettersi fuori legge pur di conquistare il mercato, si facevano in quel caso feroci. Gli incidenti erano assai frequenti, e i regolamenti, benché molto precisi, non venivano rispettati, anche se le pene erano severe: Zorzi da Canal per esempio, capitano della "muda" di Siria, fu sospeso dalle funzioni per aver effettuato le operazioni di carico in ritardo sulla data autorizzata. La "muda de trafego" e quella di Alessandria si trovavano in Egitto nello stesso periodo, e i mercanti non mancavano di approfittare della rivalità che si creava tra i "patroni" dei due convogli: "Ad Alessandria i nostri mercanti, nella speranza di vedere arrivare le galere del ῾trafego', ritardano le operazioni di carico della ῾muda' di Alessandria per trarre profitto dalla concorrenza e far lievitare il prezzo delle spezie". Sulla base di queste circostanze precise, risulta più comprensibile l'importanza della regolarità degli arrivi ad Alessandria. Il senato del resto tentò di evitare questa pessima strategia commerciale, proponendo di mantenere molto bassi i costi dei noli per incentivare i mercanti ad investire. Nonostante le spese notevoli - su tragitti così lunghi, i salari rappresentavano una grossa fetta del prezzo di costo - i due viaggi del "trafego", un'andata Venezia-Tunisi-Alessandria e un ritorno Alessandria-Modone-Tunisi, costituivano infatti un buon investimento, dato che la grande libertà di movimento della "muda" le consentiva di trovare comunque in ogni porto merci da caricare.
Un problema di coabitazione si poneva poi con i musulmani, presenti in gran numero a bordo delle galere del "trafego": nelle loro intenzioni infatti lo scopo di questa linea era creare un contatto fra l'Ifrigiya e il Levante. Ma già nel 1463 i Veneziani si lamentavano del comportamento dei loro clienti con cui avevano frequenti contrasti. Il senato richiese dapprima uno sforzo da parte dei Veneziani, e in seguito rese ancora più intransigente la sua posizione, esigendo la riparazione dei danni causati ai mori imbarcati sulle galere della Repubblica.
Alla fine del secolo XV, la rete di navigazione della linea copriva tutta l'estensione del bacino mediterraneo, costituendo così un formidabile strumento nelle mani del patriziato che rafforzava la posizione dominante di Venezia nell'ambito del commercio marittimo. Sia chi ne fruiva, che il governo, avevano fatto in modo che il sistema funzionasse efficacemente, e così fu per circa due secoli. Ma all'entusiasmo fece seguito il dubbio: la società veneziana reagì allora in maniere differenti all'adattamento necessario alla nuova situazione.
Venezia era una città ricca e popolosa: "Opulentissima e populosissima", la definisce Francesco Filelfo nel 1461. La buona sorte vegliava sulla città, e l'abbondanza ne suffragava il successo: al riparo da carestia e fame, questa "è la città più bella e più potente del secolo, piena di bellezza e di ogni ben di Dio, e le merci scorrono per le vie come l'acqua nelle fontane". Martin da Canal, testimone tra i tanti di questa opulenza, sapeva bene che ogni palazzo patrizio era anche un deposito dove si ammassavano le merci più diverse. Venezia era infatti una capitale, ma anche la metropoli di un impero coloniale dove confluivano molti stranieri.
Al livello più basso della scala sociale, si trovavano anzitutto gli schiavi, ancora sottomessi o recentemente affrancati, giunti dalla lontana Tartaria sulle navi, insieme alle pellicce, al pesce salato, alle spezie e ai tessuti di seta. Nei pressi dei palazzi si potevano trovare Circassi, Russi e Alani che erano stati venduti a Rialto nel campo San Giacomo. Tutte le famiglie nobili infatti compravano schiavi, segno esteriore di ricchezza, per accudire ai lavori domestici affidati alle donne, mentre gli uomini erano impegnati in lavori pesanti come la manutenzione dei canali, i lavori di fatica o anche per la piantagione e l'aratura nelle zone agricole e nei vigneti. Uno schiavo costava caro, tra i 40 e i 60 ducati, secondo i casi, quando a un veneziano del popolo 20 ducati bastavano per vivere un anno intero e un architetto navale fra i più stimati guadagnava all'Arsenale 130 ducati. Su una popolazione complessiva di circa centomila abitanti, la città contava circa cinquemila schiavi, e Venezia rimase per molto tempo un importante centro del traffico di schiavi in Europa. Ma la chiusura degli Stretti, dopo il disastro del 1453, interruppe la rotta del mar Nero, dove i Veneziani, nelle loro piazze alla Tana, ma anche a Trebisonda e Costantinopoli, erano soliti acquistare gli schiavi provenienti dall'Asia centrale. Da allora questi sventurati che arrivavano dall'altro capo del mondo furono a poco a poco sostituiti dalle poverissime popolazioni dei vicini Balcani e dagli schiavi africani. Da sempre i Veneziani avevano commerciato in schiavi dall'Europa centrale, dal mar Nero e poi dall'Africa, ma per loro non si trattava solamente di merci molto remunerative, ma anche di un elemento indispensabile alla vita economica.
L'essenziale della manodopera a buon mercato non poteva tuttavia venire da questi paesi lontani, perciò i Veneziani fecero fruttare le risorse umane disponibili nei dintorni della città. I1 governo della città-stato sa gestire con cura tali risorse, indispensabili alla perennità della Repubblica. L'impero coloniale infatti, oltre alle ricchezze delle materie prime e dei suoi territori, era anche il fornitore privilegiato della gente di mare. Venezia pescava nel vivaio dei paesi rivieraschi dell'Adriatico e del mar Egeo, e vi reclutava marinai, rematori, ma anche architetti navali e tecnici della navigazione. Furono i Greci per esempio a offrire alla cantieristica veneziana i suoi titoli di nobiltà nel secolo XV: Teodoro Baxon, suo nipote Nicolò Palopano e il figlio di questi, Giorgio detto il Greco, si succedettero via via all'Arsenale e i miglioramenti tecnici da essi apportati alla struttura della galera mercantile furono apprezzati da tutti.
Ma Venezia non aveva solo bisogno di tecnici di alto livello, la cui fedeltà era conquistata a peso d'oro: essa reclamava continuamente marinai e rematori. Già all'epoca della creazione della linea delle Fiandre i savi agli ordini constatavano nel 1321 la mancanza di equipaggi. Inoltre, dopo la recessione che aveva seguito la Peste Nera del 1348, e le guerre devastanti del 1356 contro gli Ungheresi e del 1377-1381 contro i Genovesi, Venezia si trovava nella necessità di rimpiazzare le perdite umane. Il senato si prodigò allora per attirare in città un gran numero di stranieri, "perché la Nostra Terra aveva tutti gli uomini di cui aveva bisogno, ma ne sono rimasti pochi": circostanza significativa, in un'epoca in cui gli uomini erano rari dopo le devastazioni della fine del secolo, e che mostra quanto le autorità veneziane facessero affidamento sulle popolazioni sottomesse al Dominio. In effetti, i territori d'Oltremare, la Dalmazia, l'Albania e la Grecia orientale costituivano una riserva di manodopera instancabile e prodiga, e le montagne, i "Balcani", fornivano uomini destinati al servizio, di cui Venezia si avvaleva con grande profitto. Non era più sufficiente infatti reperire marinai, rematori e manodopera in grado di occuparsi dei carichi pesanti a bordo delle navi e nei depositi; la Repubblica aveva bisogno di soldati che difendessero i territori conquistati in Terraferma. Non di rado le truppe messe a disposizione dei capi militari provenivano da queste regioni poverissime da dove, spinti dalla miseria, avevano raggiunto in massa le città veneziane del litorale adriatico. Era vitale che Venezia riuscisse a rimpiazzare gli uomini che la malattia e le guerre le avevano tolto, e la marina mercantile, come pure le squadre da combattimento, potevano mantenere la supremazia sui mari solo se la collettività avesse accettato di pagarne il prezzo. Nel secolo XV la flotta non cessava di ingrandirsi; se nel 1307 la legge aveva fissato a centottanta uomini l'equipaggio delle galere mercantili, nel 1412 i "patroni" ne dovevano arruolare duecentodieci, in ragione delle dimensioni sempre maggiori delle imbarcazioni, tanto che intorno al 1490 erano circa quattromila i marinai occupati a bordo della flotta statale. All'inizio del Trecento Venezia aveva compiuto una precisa scelta politica scommettendo sulle galere da mercato proprio quando Genova ne stava abbandonando l'uso. Certo il loro impiego nelle attività mercantili era più costoso, ma garantiva la sicurezza dei carichi e rendeva le navi disponibili in ogni momento a dar manforte alla squadra da guerra; lo svantaggio era inoltre compensato dalla fiducia degli imprenditori, attratti da tassi molto bassi dei premi di assicurazione. Ma per equipaggiare una simile flotta ci volevano braccia. La determinazione dell'aristocrazia nel realizzare l'ambizioso progetto si rifletté nel processo di reclutamento di marinai e rematori indispensabili al rilancio economico. Venezia rappresentava un tale polo di attrazione per il mondo balcanico, dove regnavano miseria e nomadismo, che, con qualche misura di incentivazione, i candidati alle diverse occupazioni erano numerosissimi.
La situazione politica ed economica della fine del secolo XIV e dell'inizio del secolo XV favorì l'immigrazione straniera. Le città costiere della Dalmazia, Segna, Zara, Pago, Spalato, Lesina, Curzola, quelle di Albania, Scutari e Durazzo, e i porti della Grecia occidentale, Corone e Modone, furono le prime ad essere invase dai "villani forestieri", subito reclutati per lavorare la terra, ripopolare le zone desertiche di Creta e di Eubea, e nella flotta. Questa prima fase trovò la sua naturale prosecuzione nella partenza per la metropoli. Nel corso dell'importante fase migratoria degli anni 1430-1440, Greci, Dalmati e Albanesi, sudditi della Dominante, furono assunti in gran numero nella flotta veneziana, e poi nell'esercito, sempre più imponente. Venezia, impegnata senza interruzione in una guerra terrestre dal 1404 al 1454, aveva sempre più bisogno di soldati e cavalieri, e i condottieri reclamavano continuamente truppe (45). Le genti delle colonie risposero con coraggio e costanza all'appello lanciato dalle autorità, stabilendosi con le loro famiglie in determinati quartieri della città.
Una seconda fase del flusso migratorio ebbe inizio invece negli anni Sessanta, dopo le tappe decisive dell'avanzata turca nei Balcani, quando un'enorme massa di profughi - contadini greci e slavi - si cominciò ad ammassare nelle città veneziane di Messenia e Tessaglia. Lo Stato non intendeva più assorbire queste popolazioni, spinte dalla paura e prive di mezzi, e per combattere l'immigrazione clandestina a Venezia prese dei provvedimenti restrittivi, mettendosi parallelamente in contatto con i principati dell'Italia centrale e della costa occidentale dell'Adriatico, di modo che la maggior parte degli emigranti lasciasse i Balcani per le Marche e le Puglie. I Malatesta e i Montefeltro seppero a loro volta approfittare con destrezza dell'arrivo di questi uomini rotti alla fatica, che non si risparmiavano nel mettere a frutto il duro suolo marchigiano e nel difenderlo con coraggio. Tale politica tuttavia determinava lo spopolamento del Dominio e non riusciva comunque a porre rimedio alla crescente penuria di manodopera del principio del secolo XVI. Le numerose indagini amministrative sugli ultimi possedimenti d'Oltremare denunciavano lo stato di sfascio economico, che minacciava pericolosamente le riserve di manodopera dell'Adriatico e delle coste ioniche.
Nel 1554, Paolo Giustinian, capitano della guarnigione di Zara, confessava al senato che "per quello che riguarda le isole, sono divenute i giardini delle nostre galee, e se dico giardino è perché ogni volta che c'è bisogno di uomini si va in giro da quelle parti per rifornirsi, dimodoché queste povere terre sono esaurite e per metà deserte: le donne rimangono senza uomini" (46). Nella capitale gli immigrati dalle colonie si facevano ogni anno più numerosi: le donne sostituivano ormai gli schiavi nei lavori domestici, mentre gli uomini si arruolavano come soldati o marinai. Riunitisi a poco a poco in associazioni, essi tentavano di organizzarsi in confraternite di mutuo soccorso. Gli Albanesi furono i primi a chiedere nel 1442 il riconoscimento degli statuti della Scuola di San Gallo e San Severo al consiglio dei dieci; concentrati nelle parrocchie di San Moisè, Santa Maria Formosa e San Severo, ottennero l'approvazione, rinnovata poi nel 1454. Gli Slavi poterono a loro volta, nel 1451, approfittare degli stessi benefici in seno alla Scuola di San Giorgio e Trifone dei Dalmati. Negli ultimi anni del secolo XV i combattimenti a Oriente contro i Turchi e a Occidente contro i Francesi e i loro alleati andarono moltiplicandosi, e su tutti i fronti ci si avvalse del servizio delle truppe coloniali. Anche gli stradioti greci di passaggio nella capitale desideravano disporre di un luogo di culto di rito ortodosso, ma le reticenze del Patriarcato delusero le loro speranze, manifestate nel 1456 e anche dopo la campagna militare negli anni Sessanta; solo nel 1498 la comunità greca di Venezia, gravitante intorno al campo dei Greci, ottenne la creazione della "Scuola e nazione greca". Nel 1511 i rappresentanti della confraternita reclamarono nuovamente il diritto di professare il loro culto in una chiesa di dimensioni adeguate, dato che la cappella concessa nel quartiere di San Biagio era troppo piccola, e ottennero soddisfazione nell' aprile del 1514 (47).
Metropoli sicuramente cosmopolita - come del resto erano Genova, Napoli, Barcellona e Valenza negli stessi anni la città fu anche invasa dai mercanti alla ricerca di venditori e acquirenti. I Milanesi, i Lombardi e i Toscani, per molto tempo privi di flotta, si approvvigionavano a Venezia, ma lo Stato bloccò il mercato, proibendo loro scambi diretti, imponendo tasse elevate sulle transazioni e nominando sensali incaricati di sventare le frodi e controllare l'origine dei prodotti. Anche i consolati dei Catalani, dei Genovesi e dei Provenzali stabiliti nella capitale erano sottomessi a stretti controlli da parte delle autorità. Era inoltre interdetto a questi mercanti stranieri, quale che fosse il loro rango e patrimonio, caricare merci a bordo delle navi veneziane, riservate esclusivamente ai cittadini della Dominante. L'esempio più noto è quello dei mercanti tedeschi, ma talvolta anche svizzeri e austriaci, che arrivavano in laguna da Magonza, Augusta e Ratisbona attraverso il colle dello Spluga, o da Münster e Colonia attraverso il Brennero, o ancora da Vienna attraverso il valico di Tarvisio: specializzati nell'importazione di armi, manufatti metallici e metalli grezzi, essi compravano prodotti orientali di ogni genere, in particolare spezie, alluminio e cotone, che offrivano poi ai laboratori tessili della Germania e dei Paesi Bassi, pronti a inondare il mercato con i loro fustagni. Come i mercanti toscani di passaggio a Venezia, i Tedeschi rischiavano di entrare in concorrenza con il traffico della navigazione di linea: essi furono dunque obbligati a vendere esclusivamente i prodotti della loro regione d'origine, rifiutando i manufatti francesi, olandesi e inglesi. Poco a poco, le grandi compagnie commerciali della Germania centrale divennero imprese artigianali specializzate nella fabbricazione e nella vendita della loro produzione. Acquirenti esigenti, perfettamente informati sulla domanda e la qualità dei prodotti richiesti Oltralpe, numerosi artigiani si stabilirono in città dove esercitavano il loro mestiere e talvolta sposavano, dopo qualche anno, donne immigrate dai Balcani; altri, che commerciavano in legname, si recavano con regolarità in val di Montona in Istria o nei boschi del Montello nel Trevigiano di cui utilizzavano le risorse forestali sotto stretta sorveglianza statale; altri ancora infine si impegnavano nello sfruttamento delle miniere scoperte nel Dogado (48). Chi dedicava tempo e denaro all'arte del commercio era obbligato a risiedere in città, in un albergo-magazzino, il fondaco dei Tedeschi, di proprietà statale fin dal 1228. Al suo arrivo in città, il mercante deponeva le armi, ed entrava sotto la responsabilità dei rappresentanti dello Stato, doganieri e sensali, che ne valutavano i mezzi finanziari e controllavano la validità giuridica dei contratti. Tutti gli affari dovevano essere conclusi esclusivamente con Veneziani, e all'interno del fondaco. Prima di lasciare la città, il mercante pagava l'affitto del suo alloggio, lasciava sul posto le merci invendute e l'eccedenza di numerario ai suoi fideiussori. Dal momento dell'arrivo a quello della partenza egli era sotto la responsabilità dell'amministrazione veneziana, che vigilava per limitare le frodi e mantenere l'esclusività dei contratti. I Veneziani non intendevano dividere con nessuno le loro ricchezze: era dunque una falsa impressione credere che "chi vuoi fare fortuna deve venire qui". I patrizi infatti badavano gelosamente alla salvaguardia dei loro privilegi.
Da chi era composta l'aristocrazia mercantile? A Venezia l'impresa commerciale era concepita dallo Stato e gestita dalle famiglie. Onde evitare ogni concorrenza nociva alla nazione, all'inizio del secolo XIV i lignaggi dell'aristocrazia avevano messo a punto di comune accordo un sistema di gestione e organizzazione del commercio internazionale marittimo affidandolo allo Stato, istituzione creata e organizzata dal patriziato stesso e del quale essa era il frutto. In questo modo, concentrando gli sforzi per ottimizzare i risultati dell'iniziativa ma evitando al tempo stesso la concentrazione del potere economico nelle mani di poche famiglie, i patrizi organizzavano attraverso il senato lo sfruttamento delle linee di navigazione e orientavano di fatto le scelte in materia di politica economica. Questo passaggio fu decisivo nella modernizzazione del sistema veneziano, poiché lo Stato veniva percepito non piú come un vincolo, ma anzi come una risorsa destinata a regolamentare e a smussare le tensioni in seno al patriziato, evitando lotte fratricide. L'interesse generale diventava così la preoccupazione principale e la motivazione delle imprese commerciali.
L'aristocrazia senatoria, rappresentata all'epoca da trenta famiglie illustri, prese in mano le sorti del commercio marittimo, dato che solo ai patrizi era concesso il comando delle galere mercantili. Un prezioso indizio consente di comprendere il ruolo reale che queste imprese familiari aristocratiche esercitavano all'interno del sistema di sfruttamento delle galere statali: si tratta dei registri dell'avogaria di comun, speciale ufficio amministrativo incaricato di verificare la conformità delle procedure di acquisizione delle partecipazioni finanziarie nel capitale di esercizio delle galere da mercato. L'avvio di un convoglio, infatti, richiedeva capitali consistenti che rimanevano immobilizzati per parecchi mesi, talvolta anche per uno o due anni, e su cui si dovevano mettere in conto i fattori sia umani - gli uomini dell'equipaggio - che tecnici - la qualità delle imbarcazioni - nonché i rischi della navigazione. Una semplice regola sosteneva l'intera organizzazione: il meccanismo finanziario consisteva nel piazzare i ventiquattro carati (parti del capitale investito) presso gli investitori. Il "patron" di una galera, cioè colui che aveva pagato le offerte più alte per il noleggio della nave, tentava di ottenere il controllo della maggioranza del capitale, così da essere l'unico a poter prendere decisioni in corso di rotta. Le parti del capitale erano divisibili in frazioni, così che all'operazione poteva prendere parte un grande numero di investitori o "caratadori".
Poiché era facoltà del "patron" scegliere i propri collaboratori, i membri della sua famiglia e gli alleati contattati in via prioritaria formavano una vera e propria holding. Poteva, però, accadere che una volta definito l'accordo finanziario, studiato e concluso prima della seduta d'asta della galera, gli investitori delegassero un patrizio, esperto nel commercio marittimo, a prendere il controllo del mercantile e a difendere i loro interessi; il "patron" si trovava in tal caso a dipendere da scelte operate da altri. Questo tipo di gestione sottolinea l'importanza della famiglia nei ceti mercantili del patriziato veneziano. Esaminando i registri dell'avogaria per gli anni 1445-1451, l'epoca più fiorente della navigazione di linea, s'impongono alcune evidenti constatazioni (49). Anzitutto, ben di rado il "patron" figurava a proprio nome come il maggior investitore nel capitale di una galera; tuttavia, grazie al sostegno della rete familiare, giungeva spesso a controllare la maggioranza delle parti.
Significativo al proposito è il caso delle galere di Romània tra il 1445 e il 1451, periodo di incanti estremamente elevati - i più forti dall'inizio del secolo. Gli armatori registrati all'avogaria possedevano in proprio otto carati e mezzo su ventiquattro di media, e solamente sei sui ventitré iscritti avevano a titolo personale la proprietà maggioritaria del capitale. Qui si inseriva allora il ruolo della "fraterna": a Venezia per legge i membri di una stessa famiglia che abitassero insieme e gestissero affari in comune figuravano giuridicamente come soci senza necessità di sanzione con un atto notarile. La norma travalicava, però, l'ambito strettamente commerciale, estendendosi anche al diritto privato e in particolare alle eredità, che entravano nei conti delle "fraterne" (50). Era così che, attraverso la società familiare, un "patron" poteva raggiungere il controllo della maggioranza del capitale e influire sulle decisioni riguardanti le transazioni commerciali, prima, durante, e al rientro dal viaggio.
Gli utili globali del convoglio, cioè il premio del trasporto - da cui dovevano essere dedotti le spese di rimessaggio dell'imbarcazione, il rimborso dei prestiti concessi dal governo e il pagamento delle tasse doganali -, venivano divisi in parti uguali tra i "patroni", confermando la solidarietà fra gli imprenditori nelle suddivisioni dei profitti come nell'ammortamento delle perdite. Infatti, se durante una tempesta il capitano della "muda" decideva di buttare a mare una parte del carico per evitare il naufragio, il mancato guadagno e il danno stimato venivano suddivisi
fra tutti i "patroni" di galere - con una procedura detta "varea" - onde non penalizzare i più sfortunati. In questo caso, si prelevava una piccola tassa straordinaria sul carico superstite in modo da indennizzare chi aveva subito perdite.
A ogni occasione la legge badava a porre in evidenza il principio della gestione collettiva delle galere mercantili, cui del resto partecipavano famiglie patrizie unite fra loro da legami molto stretti. All'interno delle casate illustri dell'aristocrazia senatoria, tutte molto numerose, la partecipazione dei membri maschili era determinante, e i legami tra padre e figli, e quelli con gli zii, i nipoti e i cugini, senza dimenticare i generi, tessevano la trama del successo. Senza dubbio le liste dell'avogaria sono talvolta difficili da decifrare, e sarebbe necessario estendere le ricerche per ricostruire queste ramificazioni (51). Ma i fatti sono evidenti: Alessandro Contarini, "patron" di una galera della "muda" di Alessandria, possedeva otto carati, e il suo gruppo familiare dodici e mezzo: egli poteva quindi contare su una partecipazione maggioritaria di venti carati e mezzo. L'anno successivo Ludovico Contarini controllava, con i suoi associati, diciassette carati, mentre Giovanni Ruggero Contarini comandava una galera di Beirut con dodici carati e suo cugino Michele era "patron" di una galera di Fiandra con quattordici carati. A tutto questo bisogna aggiungere i vincoli matrimoniali, che costituivano dei veri e propri legami di clan, e delineavano dei gruppi di pressione impegnati nei dibattiti politici del senato, di cui i registri delle deliberazioni danno ampia testimonianza.
Per l'onnipotente gruppo familiare tre strategie, secondo il caso, erano allora possibili: acquisire una partecipazione fortemente maggioritaria in una galera per un solo viaggio, acquistare più carati su diverse galere per un solo viaggio, moltiplicare le partecipazioni finanziarie a bordo di diverse galere per più viaggi. Tenendo conto dell'importanza numerica di certe famiglie (il "gran parentado"), tutelate nel corso del viaggio dalla presenza fisica dei mercanti, le prime due soluzioni, una volta ottenuto il controllo del finanziamento, offrivano vantaggi considerevoli nella conduzione degli affari. La famiglia Contarini per esempio riuscì a distribuire i propri membri come "patroni" di galere nel modo che possiamo così schematizzare: nel 1445, una galera di Beirut e una delle Fiandre; nel 1446, una galera di Beirut; nel 1446, 1447, 1448 l'unica galera di Cipro messa all'incanto in quegli anni. Nel 1451 il gruppo familiare delegò uno dei suoi "patroni" per una galera di Romània, di Alessandria e di Beirut;, l'anno successivo a una galera di Beirut, una di Alessandria e una delle Fiandre (52). Nel periodo tra il 1444 e il 1505, uno dei Contarini è "patron" di una galera di Barberia, in particolare nel 1491, 1492, 1493, 1495 e 1496, e ancora di una nave della "muda al trafego" nel 1487, 1488, 1493, 1494 e 1495. È chiaro che se una strategia commerciale trovava la propria realizzazione nell'affitto di una galera mercantile, raggiungeva il trionfo quando un membro della famiglia veniva eletto console: nel 1455 Andrea Contarini era console a Tunisi e Francesco Contarini a Valenza, mentre Pietro Contarini era in carica a Siracusa nel 1458. Numerosi sono i casi in cui famiglie alleate cercavano di ottenere il predominio sul traffico delle "mude": una strategia che nel corso degli anni implicava notevoli investimenti. Non stupisce quindi trovare alcuni membri della famiglia Contarini a capo di un ufficio di assicurazioni marittime: i quattro figli di Antonio Contarini negli anni Quaranta del Quattrocento trattarono un gran numero di contratti, e i sei figli di Alessandro Contarini succedettero loro vent'anni dopo.
Il sistema di gestione delle "mude" dunque favoriva di fatto la concentrazione familiare, per la quale possiamo fornire prove sicure. Quando, in caso di malattia o di morte, un "patron" non poteva assolvere agli impegni presi, si proponeva all'avogaria la ridistribuzione delle sue partecipazioni finanziarie. Nella maggior parte dei casi, si sostituivano i garanti e gli azionisti con quelli presentati dal nuovo "patron", soprattutto quando questi non apparteneva alla stessa famiglia; in questo caso il rinnovamento della lista era totale.
Nell'ultimo decennio del Quattrocento cominciò a delinearsi una più forte concentrazione in seno alle famiglie patrizie impegnate nel commercio per mare, forse dovuta al ritiro temporaneo o definitivo delle altre. Non di rado qualche aristocratico possedeva la quasi totalità dei carati: nel 1519 per esempio Alvise Pisani controllava quarantasei dei quarantotto carati delle due galere del convoglio di Barberia: un autentico paradosso, visto che lo Stato auspicava anzi che si evitassero simili situazioni di monopolio, frequenti prima della gestione comunale. Il controllo finanziario dell'operazione determinava anche l'intromissione nelle transazioni commerciali: sempre più spesso si constatava l'esistenza di patti fra "caratadori" e "patroni", che con accordi illeciti miravano a limitare la concorrenza a bordo per escludere i rivali. Nel 1504 una galera del convoglio delle Fiandre sotto il comando di Francesco Contarini era di fatto in mano a pochi mercanti: su ventiquattro carati di capitale, otto erano di Nicolò da Pesaro, otto di Piero da Pesaro e del suo socio Alvise Priuli, quattro della "fraterna" di Alvise, cioè Bernardo e Zuan Priuli, e infine gli ultimi quattro, ufficialmente appartenenti al "patron", erano in realtà del già citato Piero da Pesaro (53). Così la concentrazione del capitale, che si accentuò in modo irreversibile nel primo decennio del Cinquecento fino alla fine dello sfruttamento delle galere da mercato, determinò il predominio di alcune famiglie sul commercio via mare. In effetti si disegnava la tendenza al monopolio di questo settore da parte di un gruppo ben rappresentato al senato, cui si dà il nome di "partito del mare". Poiché i rischi connessi a tali pratiche erano a tutti evidenti, nel secolo XV si fece divieto al capitano di un convoglio - rappresentante dello Stato e designato dal maggior consiglio per vegliare che i "patroni" rispettassero le leggi - di possedere partecipazioni in una società di investimenti sulle galere, o anche solo di avere un figlio o un fratello "patroni" di galera. Questa deliberazione, più volte ripetuta, non teneva abbastanza conto del potere delle parentele e dei legami familiari che univano investitori e "patroni" delle galere: gli elenchi degli autori delle offerte e dei capitani mostrano infatti singolari somiglianze. Non tutta l'aristocrazia approfittò di questa evoluzione: in seno al patriziato c'erano anche gli esclusi. Anzi alla fine del secolo XV, e in particolare intorno al 1490, la povertà colpì parte della nobiltà e il patriziato divenne inquieto per gli evidenti rischi di depauperamento. Nel 1498, per esempio, Nicolò Morosini fece costruire trentasei case per gli aristocratici più a mal partito, e i registri del senato evocano lunghe liste d'attesa per l'attribuzione di un posto di balestriere a bordo delle galere mercantili, prova che i giovani patrizi, sempre più numerosi, cercavano di procurarsi un reddito, per modesto che fosse. Ma è proprio nel momento in cui la navigazione di linea rimaneva l'unica risorsa che segnali allarmanti rivelavano il cattivo funzionamento del sistema delle "mude".
Fra gli elementi di disorganizzazione che contribuivano a destabilizzare il corretto funzionamento del sistema delle "mude" alla fine del secolo XV e all'inizio del XVI, la pressione degli avvenimenti esterni - la guerra contro i Turchi da un lato, e l'ostruzionismo delle grandi monarchie di Francia, Spagna e Inghilterra dall'altro - assunse dimensioni inedite. Non mancavano, però, anche le cause interne. I registri del senato mettono in vista delle vere e proprie incoerenze della politica economica veneziana, con l'espansione del commercio per mare incoraggiata e poi frenata per favorire la ripresa dell'investimento, già trascurato, nella marina da guerra. Due tappe, corrispondenti a momenti ben precisi della storia della Repubblica, consentono di illustrare le scelte politiche effettuate dallo Stato. Dopo aver coltivato il settore della marina mercantile, lo Stato, pressato dagli eventi, dovette lanciare un programma finanziario senza precedenti in favore della flotta da guerra, indispensabile alla salvaguardia dell'Impero. Ma proprio nel momento in cui il pericolo, peraltro da lungo tempo latente, si ripresentava con nuova intensità, la dolorosa riconversione non fu condotta con reale coerenza, né con decisione.
In effetti negli anni Venti del Quattrocento la scelta delle autorità veneziane a favore delle "mude" aveva negativamente influito sulla navigazione libera. Gli imprenditori infatti avevano reclamato con sempre maggiore insistenza che lo Stato si assumesse l'onere di garantire la sicurezza dei mari, onde limitare l'azione di pirati e corsari, che pullulavano nel Mediterraneo e agivano in totale libertà. Lo sviluppo formidabile delle galere da mercato infatti era stato realizzato a scapito della protezione delle navi disarmate, in particolare tra il 1420 e il 1440, quando le difficoltà della marina mercantile erano tali che lo Stato preferiva incrementare l'attività delle galere, piuttosto che investire denaro nell'equipaggiamento di navi incaricate di proteggere le linee commerciali. L'aggressività dei Genovesi era estremamente brutale, come testimoniano le temibili imprese della flottiglia di Giovanni Spinola che riuscì a paralizzare le relazioni commerciali fra Sicilia ed Egitto. Nell'estate del 1420 parecchie imbarcazioni veneziane furono catturate nella più totale impunità. I pirati catalani inoltre imperversavano nelle acque siciliane, ma anche al largo di Rodi e di Alessandria, tanto che l'attacco al grande porto egiziano nel 1416 portò alla cattura di una nave veneziana, e da allora fino al 1429 gli scontri disastrosi per i mercanti della laguna si concretizzarono nell'aumento delle catture.
E poiché i Baschi e i Francesi non erano da meno, la minaccia incombente sul commercio marittimo veneziano era altrettanto reale nelle acque del golfo del Leone che nel bacino orientale del Mediterraneo. La sicurezza delle navi che viaggiavano da sole non era più garantita, e le attività si spostarono allora sulle galere da mercato. La creazione della "muda" di Aigues-Mortes nel 1412 e di quella di Barberia nel 1436 fu concepita come una risposta al problema della sicurezza. È possibile che lo Stato trascurasse il settore della navigazione libera proprio per assicurarsi al meglio il successo della propria impresa? Alcuni fatti sconcertanti consentono di crederlo. Anzitutto, il commercio con la Linguadoca. La terribile guerra che aveva opposto Genova all'Aragona aveva lasciato tracce durevoli; le flotte mercantili ne pagavano il pesante tributo, cui la temporanea sospensione delle relazioni commerciali non costituiva certo una risposta adeguata, visto che in quello stesso periodo lo Stato veneziano si era impegnato nel tentativo di riequilibrare gli scambi con l'Occidente. A partire dal 1426 si provvide infatti a rinforzare sensibilmente l'armamento delle galere della "muda" di Aigues-Mortes, reclutandovi dieci arcieri in più rispetto ai trenta richiesti dal regolamento. I patrizi naturalmente non gradivano tutti questi costi aggiuntivi, e avrebbero preferito un'imbarcazione di scorta che avrebbe potuto utilmente difendere il gonfalone di San Marco. In risposta alle proteste, il senato accettò di farsi carico della spesa onde non penalizzare gli appaltatori.
Dopo la lunga interruzione del traffico tra il 1429 e il 1434, per il conflitto fra Genova e Venezia, il senato dichiarava alla ripresa della linea "che in ogni modo bisogna armare due galere sulla linea di Aigues-Mortes, perché una sola non sembra abbastanza sicura"! La politica del senato è chiara; per rispondere tanto alle inquietudini sociali - la disoccupazione - quanto a quelle fiscali - gli incassi doganali - occorreva armare delle galere commerciali. Nondimeno tutto lascia credere che in quel momento l'invio nel golfo del Leone di alcune navi armate a spese della Repubblica avrebbe garantito una qualche tregua nei combattimenti. Tra le motivazioni dei senatori interveniva anche un altro elemento di primaria importanza, la crisi nella cantieristica. La guerra interminabile che colpiva la penisola provocava enormi devastazioni, e la sottomissione di vasti territori nel Nord dell'Italia disturbava i vicini di Venezia, allarmati dalle mire espansionistiche della Repubblica. Inoltre la lotta contro i Visconti di Milano non si limitava ad operazioni militari terrestri, ma il rapido allestimento di un'enorme flotta fluviale sul Po, sui suoi affluenti e nei laghi interni ne faceva una vera e propria guerra navale.
Le energie e lo sforzo finanziario sperperati in queste operazioni, condotte fra il 1423 e il 1430, mobilitarono centinaia di lavoratori nell'Arsenale di Venezia o sugli argini dei fiumi. I Turchi, informati delle difficoltà della Repubblica, ripartirono all'attacco dei territori veneziani. Lo Stato riuscì a far fronte alle urgenze, ma replicò con incerta efficacia: per proteggere il traffico marittimo con il Levante egiziano, nel 1427 e nel 1428 il senato decise di equipaggiare le galere commerciali più grandi - quelle "a mensuris Flandriae" - per la rotta di Alessandria. Ciascuna delle quattro imbarcazioni era dotata di dodici balestrieri più della norma, e nello scalo di Creta furono reclutati sessanta soldati. A più riprese il senato ammetteva che "bisogna prendere provvedimenti per assicurare la salvaguardia delle navi", ma in realtà si limitava a interdire la navigazione. Talvolta furono attaccate anche delle galere, e "ciò capita spesso", visto che la sorveglianza sui mari era del tutto insufficiente. Nell'agosto del 1429 le acque di Creta erano infestate dai pirati turchi, e il commercio via mare fu sospeso proprio quando Candia ospitava uno dei più formidabili arsenali veneziani!
Per alcuni mesi i traffici marittimi ne furono notevolmente turbati, soprattutto dopo la caduta di Tessalonica, presa dai Turchi nel 1429: ai Veneziani era sfuggita una base marittima di primaria importanza, e la scarsa disponibilità di vascelli faceva rapidamente aumentare l'insicurezza della regione. Alla fine del 1429 il senato stabilì che tutte le navi disarmate con destinazione Creta partissero in convoglio, e nel dicembre successivo dichiarò l'interdizione totale della navigazione al di là degli Stretti. Solo nell'aprile 1430 lo Stato si decise infine a inviare sul posto una squadra incaricata di dare la caccia ai pirati turchi, riducendo, però, a dieci le imbarcazioni, inizialmente previste in numero di quattordici (54). La questione prese rilevanza nel corso di una vivace discussione al senato, a proposito dell'interruzione totale del commercio col Levante tra i mesi di maggio e giugno del 1430. Dato che a luglio non era stata ancora presa alcuna decisione, il senato stabilì di consentire il traffico esclusivamente alle galere da mercato, mettendo in atto ancora una volta la stessa procedura. In ogni modo a Venezia la carenza di navi era tale che fu proprio l'impossibilità di trovare imbarcazioni in buono stato a far annullare la partenza della "muda" del cotone. All'inizio del 1431, questa rotta fu aperta da una spedizione di sole sei navi dotate di equipaggio rinforzato: ottanta uomini sull'imbarcazione del comandante e sessanta sulle altre; le spese erano beninteso a carico dello Stato. In mancanza di vascelli disponibili, la "muda" del vino di Creta fu a sua volta requisita qualche tempo più tardi per combattere i corsari genovesi, determinando perdite commerciali così importanti da indurre lo Stato a rimborsare i commercianti di vino di Retimo che l'iniziativa aveva gettato in rovina.
Tutti gli approvvigionamenti erano ormai minacciati e il mercato degli schiavi provenienti dal mar Nero si stava rapidamente esaurendo: in una lettera dell'agosto 1431 Andrea Barbarigo scrive "che c'è un gran bisogno di schiavi" visto che non passano più le navi in arrivo dalla Romània (55). Proprio in questo momento cruciale dell'estate del 1431 le autorità veneziane, pressate dagli eventi, mostrarono una volta di più l'ambiguità della politica da esse perseguita. Il 9 giugno 1431, in piena guerra veneto-genovese, la nave di Bartolomeo da Canal faceva ritorno da Alessandria completamente carica di prodotti orientali; il senato, temendone la cattura, decise finalmente di intervenire, ma in maniera assai particolare: anziché inviare una imbarcazione di soccorso o distaccare dalla squadra del Golfo qualche galera "Sottile", mandò invece in fretta e furia due brigantini a cercare la nave e ad avvertire il capitano sulla effettiva realtà della minaccia! Decisione ancor più sorprendente, presa all'unanimità dai centoquaranta votanti, l'ammontare della spesa - venticinque ducati - sarebbe rimasta a carico dello sfortunato da Canal, che dovette così sbrigarsela da solo per evitare il confronto sia con i corsari turchi, sia con le navi genovesi!
Qualche settimana più tardi, in luglio, il senato decise finalmente di intervenire decretando l'interruzione totale del commercio via mare in direzione del Levante; del resto già da parecchi giorni alcuni armatori avevano rifiutato l'autorizzazione a salpare, chiedendo ai capitani di rimanere in porto. Ovvia conseguenza, il denaro per pagare i salari e il vitto dei marinai, peraltro improduttivi, si esaurì rapidamente: il senato allora, adducendo a pretesto la sicurezza dei cittadini della Repubblica, intervenne, e per calmare le proteste autorizzò i "patroni" a sospendere il pagamento degli stipendi, obbligandoli soltanto a fornire il vitto agli equipaggi fino alla revoca dell'interdizione. Soltanto il 3 agosto si organizzò finalmente un convoglio per Creta: il senato, fedele alla propria politica, aveva così evitato di armare delle imbarcazioni di scorta per le navi mercantili.
In realtà i piú grossi motivi di preoccupazione erano altrove: l'intensità della guerra, che si sviluppava su un'area considerevole nelle acque del bacino orientale del Mediterraneo, pesava con conseguenze drammatiche sugli insediamenti veneziani nel mar Nero. Già nel 1430 le imbarcazioni di Creta chiamate in rinforzo a scortare la "muda" di Romània non poterono prendere il mare per mancanza di remi (56), compromettendo gravemente la sicurezza delle galere da mercato adibite alla linea di Romània con destinazione Costantinopoli e la Tana. Tutte le galere erano sì poste al servizio della nazione ma, proprio per questo, gli investitori e i mercanti perdevano fiducia nel sistema volgendo altrove la loro attenzione. È il primo grande segnale d'allarme del cattivo funzionamento nella gestione delle "mude" i cui contraccolpi si avvertivano a Venezia quanto più il sistema dei rapporti marittimi rimaneva perturbato. Nel settembre 1431 ad esempio, Andrea Barbarigo scriveva al cugino per avvertirlo che la "muda" del Levante composta da sei grandi galere comandate da Vido da Canal era stata annullata, e che anche la partenza del convoglio "ad gotonum" era in forse. Né la tensione si era attenuata nell'agosto 1432, dando luogo all'interdizione della navigazione per il Levante fino alla fine di novembre, quando finalmente fu organizzato un enorme convoglio, che comprendeva le galere da mercato, le "navi ad gotonum" e qualche imbarcazione privata. All'epoca erano in effetti disponibili dieci galere grosse e qualche galera bastarda, ma la partenza fu posticipata al marzo successivo. Le "mude" del Levante furono fatte deviare dalla loro rotta abituale per pattugliare la zona degli Stretti e dare manforte in caso di bisogno alla squadra di Andrea Mocenigo, del tutto insufficiente.
Gli esempi concernenti le "mude" di Aigues-Mortes, di Romània e di Barberia mostrano il radicale cambiamento nell'orientamento della politica veneziana. L'urgenza della situazione infatti imponeva sempre più di frequente l'impiego delle galere da mercato nel quadro di specifiche operazioni militari condotte a scapito delle relazioni commerciali. Bisogna dire, però, che, se l'armamento libero risultava gravemente danneggiato dall'insicurezza dei mari, le galere traevano paradossalmente vantaggio dalle nuove condizioni. I premi di assicurazione erano infatti meno elevati per i carichi delle galere da mercato che per quelli destinati alle navi disarmate: la grande disorganizzazione del traffico marittimo - il ritardo nelle partenze, la cancellazione e talvolta l'attacco o la cattura delle imbarcazioni determinava infatti nei periodi di crisi un forte aumento dei premi assicurativi; intorno alla metà del secolo XV, il sistema delle "mude", reputato per sicurezza e affidabilità, in grado di offrire ai mercanti buone condizioni di trasporto, autorizzava tassi di assicurazione molto bassi, nell'ordine del 3 per cento, mentre le navi disarmate, molto esposte, erano coperte da premi che raggiungevano il 1 o per cento del valore del carico. Tale situazione, riferita agli anni tra il 1454 e il 1461 - periodo di tregua relativa nei combattimenti navali - ci fa capire quanto fosse vantaggioso per i mercanti affidarsi alle galere veneziane. Altri dati consentono il confronto con i tassi dei premi assicurativi in periodi difficili: nel 1437 per esempio per le navi disarmate essi toccarono il 20 per cento, passando al 18 nel 1441 per ripiombare poi al 9 per cento, mentre per le galere da mercato non subirono praticamente alcuna variazione (57).
D'altro canto, lo sviluppo del traffico delle "mude" nel bacino occidentale del Mediterraneo determinava un'intensificazione degli scambi commerciali che andava a vantaggio dei Veneziani, anche se in linea prioritaria dei grandi investitori (Barbarigo, Cappello, Zorzi) aggiudicatari delle "mude". La percentuale italiana dei trasporti nel bacino occidentale non cessò di svilupparsi, e i Veneziani parteciparono attivamente a questa crescita. Nel 1428 Venezia controllava il 17 per cento del volume di trasporto in partenza da Barcellona, e nel 1453 circa il 65 per cento del traffico della rotta atlantica: incontestabile testimonianza del successo della politica commerciale veneziana, giocata sull'intensificazione delle spedizioni delle galere. È allora sorprendente la debolezza delle reazioni ufficiali al cattivo funzionamento della gestione commerciale delle "mude", e in particolare all'attività del cantiere navale dell'Arsenale, che non era più in grado di fornire galere mercantili in misura sufficiente. Fin dalla metà del secolo la crisi della cantieristica si era fatta evidente: nel 1453, ad esempio, il senato richiese ai proti dell'Arsenale una produzione sostenuta di galere sottili in previsione di un attacco turco; insieme lo Stato accettava di versare una sovvenzione per iniziare la costruzione di nove galere mercantili. Ma nell'ottobre 1454 la catastrofica situazione dell'Arsenale non aveva permesso la realizzazione del programma: così per la "muda" del Levante non c'erano che tre galere, già vecchie di tredici anni. Qualche settimana più tardi il senato decise di concedere galere nuove agli investitori del viaggio delle Fiandre, ma il cantiere mancava di legname: "l'Arsenale è stato fagocitato dalla flotta militare". Il mercato della flotta da guerra andava a gonfie vele, ma quello della marina mercantile stava lentamente affondando. Il male era radicato, dato il persistere dell'indecisione: si imponeva una scelta di priorità che, però, avvenne a scapito di uno dei pilastri dell'economia marittima veneziana. Del resto, come abbiamo constatato, lo Stato non intendeva, almeno per il momento, penalizzare le "mude" da mercato.
Tuttavia la volontà di mantenere alto il livello delle attività esisteva ancora, così come era chiara la preoccupazione di conciliare i due impegni. Gli anni Sessanta segnarono una nuova tappa nello sfruttamento sistematico delle galere commerciali per operazioni militari di grande portata. Già nel 1443 i senatori avevano costretto il capitano della "muda" di Romània a fermarsi a Creta parecchie settimane per collaborare nella difesa di Candia minacciata da un assalto turco. Analogamente nel 1449 la "muda" di Beirut fu obbligata a rimanere di stanza per una settimana. Qualche anno più tardi, le galere di Aigues-Mortes dovettero attendere il convoglio di Barberia al largo di Valenza per portargli soccorso. La drammatica riduzione del numero di imbarcazioni era un dato costante nella seconda metà del secolo XV, e la tendenza si accentuò ulteriormente nel corso della guerra veneto-turca tra il 1463 e il 1479. A turno, o talvolta contemporaneamente, le galere da mercato venivano messe a disposizione del capitano generale da mar: la lunga lista delle requisizioni è nei registri del senato, insieme alle lamentele dei mercanti. Nell'Egeo, le galere da mercato erano continuamente chiamate a combattere contro i corsari turchi. Dal 1464, la proibizione di navigare imposta all'armamento privato previde la confisca della nave e un anno di reclusione per il capitano colpevole: provvedimento che favorì temporaneamente l'armamento comunale e quindi le galere da mercato, anche se il vantaggio fu ridimensionato dalle requisizioni delle stesse "mude": nel 1474 le "mude" di Aigues-Mortes e di Barberia rimasero al largo delle coste albanesi, minacciate da un'armata turca; qualche tempo dopo, a loro volta, tutte le "mude" eccetto quella di Fiandra furono mobilitate alla difesa di Scutari; nel 1479 la "muda" di Alessandria rimase un mese davanti a Durazzo minacciata; ancora, nel 1484 la "muda" di Aigues-Mortes perse quarantacinque giorni nel Golfo all'inseguimento di una flotta turca. Le requisizioni si fecero così frequenti che il senato fu costretto ad approntare rapidamente un tariffario degli indennizzi: nel 1454 i "patroni" delle galere di Beirut ebbero 400 ducati per il pagamento di un primo acconto agli equipaggi, e 1.100 ducati di risarcimento; quello della galera di Cipro ottenne soltanto 1.200 ducati. Mentre i "patroni" delle galere da mercato ricevevano questo indennizzo finanziario, gli armatori delle navi private eventualmente requisite anche se si trattava davvero di casi eccezionali - venivano semplicemente esentati dalle tasse doganali.
Talvolta, in caso di estrema necessità, la galera dei pellegrini in navigazione veniva rapidamente riconvertita per usi bellici: nel 1470 Lorenzo Loredan scriveva ad Andrea Morosini, capitano della galera di Jaffa, intimandogli di raggiungerlo, ma il rifiuto categorico costò all'interpellato una pesante condanna. In caso di urgente necessità l'ammiraglio poteva, in qualsiasi momento, richiamare le galere, come accadde nel 1499 quando il capitano generale, che aveva bisogno della galera, fece sbarcare i pellegrini a Modone, dove furono alloggiati a spese della Repubblica in attesa del passaggio successivo. Lo Stato avversava simili espedienti per procurarsi le navi, giudicandoli "un gran peccato ed un inconveniente per la città" (58). Quando correva voce di una possibile requisizione, i mercanti evitavano di affidare i loro beni ai "patroni" delle galere, che per parte loro diventavano nel corso degli anni sempre più restii tanto più che i tassi delle offerte scendevano; ma ormai era troppo tardi, poiché lo Stato aveva provocato la chiusura dei cantieri navali privati, vanificando così ogni possibilità di sostituzione, data la scarsa disponibilità di navi d'alto bordo. Benedetto Bembo, "patron" di una galera di Barberia, si lamentava del fatto che "le galere che erano destinate al commercio siano divenute battelli corsari, e che siano molto spesso obbligate a combattere" (59). Il senato ebbe a sua volta motivo di preoccuparsi quando tutte le galere commerciali furono requisite nel 1469 per combattere i Turchi, cosa che non si era mai verificata dal 1379, durante la guerra di Chioggia. I disordini in città si facevano sempre piú diffusi, dal momento che le condizioni economiche non erano favorevoli a un'interruzione generale del commercio via mare. Bisogna dire che Maometto II comandava personalmente una flotta turca di trecento navi alle quali potevano opporsi soltanto le settantatré unità della squadra veneziana.
Alla fine del secolo, due conflitti di diversa natura ma di analoga ampiezza preannunciarono la rovina irreversibile delle "mude". Il primo è esemplare, poiché obbligava Venezia a ingaggiare un combattimento in zone molto lontane dalle sue tradizionali posizioni. La flotta doveva assicurare il trasporto delle truppe, il loro approvvigionamento e il supporto navale legato a quest'impresa di sbarco. Nel 1495 Venezia, il duca di Milano, il re d'Aragona e il papa si riunirono in una lega che intendeva opporsi alle mire del re di Francia Carlo VIII sull'Italia. I Veneziani fornirono grossi contingenti militari, che sbarcarono nell'Italia del Sud; le truppe francesi allora abbandonarono Monopoli, Brindisi e Otranto. Ma in quel momento la flotta era del tutto insufficiente per adempiere alla sua missione: il 6 giugno 1496 Marco Trevisan, eletto capitano generale, riceveva sì una nuova galera per raggiungere la flotta veneziana di stanza a Napoli ma, in mancanza di altre imbarcazioni, dovette partire senza scorta. È a quel punto che si lanciò l'ordine di requisizione generale, "per requisire tutte le navi e le grandi galere commerciali". Le unità navali veneziane erano allora sparse fra Napoli e Rodi: gli attacchi francesi erano feroci, e parecchi mercantili veneziani, privi di protezione, furono catturati; anche il capitano della "muda" di Barberia dovette suo malgrado partecipare alla caccia ai corsari. Marco Trevisan allora tentò di mettere insieme una flotta di una ventina di galere: si requisirono anzitutto undici galere mercantili, poi gradualmente sostituite con altre galere equipaggiate dalle città della Dalmazia - Zara, Lesina, Sebenico, Spalato, ecc.
I1 censimento programmato nel 1496 denunciava l'inferiorità navale di Venezia: "In acqua ci sono troppo poche navi armate" (60). Sorprende per la sua ingenuità la spiegazione di Marino Sanuto, che aggiunge: "Ci sono poche navi perché ora non temiamo il Turco"; si vedrà in seguito quali drammatiche conseguenze era destinata a provocare tale noncuranza. L'impiego sistematico di galere sottili armate sul posto da città dell'Impero veneziano d'"Ultramare" alimentava la sottomissione delle comunità urbane e d'altro canto alleviava il fardello finanziario degli abitanti del Dogado, anche se di fatto l'apporto di queste galere rimaneva comunque molto al di sotto delle necessità della guerra navale. Per rilanciare il traffico commerciale, nel corso dell'estate del 1497 prese il mare un convoglio impressionante, che comprendeva insieme le "mude" di Alessandria, di Beirut e quella "al trafego" e ancora due navi disarmate. Una scorta di tre galere partì da Corfù per incrociarle in corso di rotta, onde assicurare una protezione supplementare. Poco dopo, la "muda" di Barberia, isolata al largo delle Baleari, fu a più riprese attaccata, e il capitano fu costretto a chiedere urgente aiuto, dato che gli equipaggi erano ormai esausti.
Qualche anno più tardi, nel luglio 1499, a Zonchio, poco prima di dare battaglia, il senato ordinò ai "patroni" delle galere mercantili requisite per l'occasione di obbedire unicamente agli ordini del capitano generale da mar, Antonio Grimani, e di non tener conto, pena la morte, delle decisioni dei "patroni": bella prova di fiducia alla vigilia di un combattimento decisivo! La battaglia, in queste condizioni, cominciò male perché le galere delle "mude" erano molto mal equipaggiate e impreparate al combattimento: Troilo e Vincenzo Polani potevano disporre di equipaggi ridotti, e rifiutarono di prendere parte al conflitto; Andrea Basadonna preferì addirittura fuggire. Malattia e malnutrizione inoltre indebolivano la resistenza dei marinai, che dovevano affrontare un'estate molto calda. In tali condizioni le successive battaglie navali furono altrettante prove fatali. In occasione del conflitto al largo di Cefalonia, all'inizio dell'anno 1500, le galere mercantili erano così male equipaggiate che il capitano generale Marco Trevisan, memore della sfortunata avventura di Grimani, progettava di rimandare indietro le galere commerciali requisite, ma si trovò a sua volta di fronte alla cattiva volontà dei "patroni", la cui opposizione, insieme all'abbattimento degli equipaggi demoralizzati, provocarono un nuovo scacco. Ma il peggio doveva ancora arrivare. Nel 1500 la difesa di Modone mobilitò tutti gli effettivi disponibili: ancora una volta le galere mercantili vennero chiamate a rinforzo, e il capitano generale Benedetto de Ca' Pesaro accusò apertamente i "patroni" delle galere di aver fallito il loro compito. La perdita della città, conquistata a viva forza dai Turchi, provocò un vero trauma nei Veneziani, e la cattura di seimila prigionieri, cinquecento cannoni e dieci galere ancorate in porto, per non dire delle perdite subite dall'esercito, aprì una ferita terribile.
Indagando sui responsabili della sconfitta, il senato denunciò i "patroni" delle galere mercantili: Alvise e Lorenzo Pasqualigo e Fantin Querini, "patroni" delle galere di Fiandra; Jacopo Moro, Girolamo Capello, di quelle di Barberia; Giovanni Morosini, Giacomo Corner e Leone da Molin, della "muda" di Beirut; Alvise Marcello, "patrono" di una galera del "trafego", e infine i tre "patroni" della "muda" di Alessandria. Dopo tre movimentate sedute, il senato ne riconobbe la colpevolezza, pronunciando una pesante condanna. Qualche giorno più tardi tuttavia, nonostante il coraggioso intervento del procuratore Nicolò Michiel che reclamava l'applicazione delle pene, l'assemblea votò un'ampia amnistia, con quarantasette voti contro sette. Una decisione esemplare che ben compendia la fine di un sistema ormai privo di efficacia: i patrizi, fattisi più forti nel confronto con lo Stato, non accettavano più di sacrificare il loro interesse per il solo beneficio del bene comune. Poiché un'adeguata volontà politica non aveva sostenuto la necessaria ridefinizione del ruolo specifico della "muda" da mercato, la crisi di fiducia si tramutò rapidamente in manifesta opposizione.
I grandi investitori dell'aristocrazia senatoriale avevano preso le redini della politica commerciale della Repubblica, scegliendo liberamente di promuovere la gestione statale dei convogli commerciali. Prima del 1450 l'organizzazione delle "mude" aveva raggiunto l'apogeo. I piccoli armatori, scoraggiati dalle pastoie commerciali, fiscali e burocratiche, e minacciati dall'incertezza generale, erano stati costretti a difendersi da soli, visto che il senato interveniva raramente in loro favore. Nella seconda metà del secolo XV, la stessa aristocrazia senatoriale che aveva ottenuto per il passato vantaggi considerevoli non riuscì a mantenere i privilegi accordati alle "mude da mercato" per la pressione della congiuntura internazionale. Lo sforzo bellico si faceva ormai preponderante, mentre il "partito del mare" aveva sempre meno influenza sulle decisioni in materia. Le galere mercantili, riconvertite in fretta e furia in navi da combattimento, non assolvevano più alla loro funzione originaria, con gravi conseguenze sull'insieme del commercio marittimo, visto che anche il settore della cantieristica era stato sacrificato. La riorganizzazione dell'Arsenale, troppo tardiva per essere efficace, non permise al cantiere navale di far fronte alle necessità della difesa dell'Impero né al mantenimento del traffico marittimo. I primi decenni del secolo XVI, età di grandi cambiamenti, segnarono dunque l'inizio non solo dell'abbandono del sistema delle "mude" da mercato, ma anche del crollo dell'Impero veneziano.
I fatti fin qui brevemente esposti ci obbligano a considerare un fattore troppo spesso ignorato: il ruolo dei convogli di galere mercantili nella politica complessiva della Repubblica.
Lo Stato poteva, su richiesta del senato, utilizzare le galere, peraltro di sua proprietà, per la difesa dell'interesse generale della nazione. Tutti i testi degli incanti precisavano che le galere, essendo armate "per la guerra e per il commercio", dovevano accettare le missioni "al servizio della Signoria", quale che ne fosse la natura. Si è appena visto come le esigenze militari allontanassero sempre più spesso le galere mercantili dalla loro primitiva vocazione. Un altro tipo di requisizione, benché meno violenta, disturbava molto i "patroni", che si vedevano sconvolto il piano di viaggio per l'ordine di trasportare un personaggio prestigioso, come accadde con Giovanni di Portogallo, che nel 1434 fu preso a bordo di una galera di Aigues-Mortes che doveva coprire senza scali la rotta Pisa-Collioure, o ancora per il viaggio improvviso di Jean de Lastic, gran maestro dell'ordine dei Cavalieri di San Giovanni, che chiese un passaggio da Marsiglia a Rodi nel 1438. Gli ambasciatori e i visitatori di rango preferivano le grandi galere. Man mano che le decisioni prese dalla Repubblica, volte a consolidare la difesa dello Stato da mar, imponevano una partecipazione sempre più attiva da parte dei capitani dei convogli mercantili, questi si trovavano investiti di sempre nuovi incarichi, come l'ispezione delle guarnigioni e delle fortificazioni di Corfù, Nauplia, Modone o il trasporto di materiali strategici e di truppe nelle città d'Oltremare. Spesso l'adempimento delle commissiones senatoriali prolungava la durata delle soste negli scali e il sovraccarico delle galere, mettendo a repentaglio i carichi. Poco a poco lo scontento dei "patroni" divenne così evidente da indurre il senato a pagare il nolo dei trasporti forzosi: era una prima vittoria dell'aristocrazia.
Un'ulteriore questione di ben altra rilevanza si delineò nell'attività delle galere mercantili del Levante negli anni Trenta del Quattrocento. Si trattava di utilizzare le "mude" come arma economica. Nel corso del lungo conflitto che oppose Venezia ai sultani mamelucchi tra il 1428 e il 1450, l'eventuale sospensione delle "mude" era la minaccia permanentemente ventilata nelle discussioni diplomatiche. L'espediente fu esteso anche nei confronti dei sovrani d'Inghilterra e di Francia, dei duchi di Borgogna e degli emiri Hafsidi di Tunisi. Il boicottaggio di un territorio o di uno scalo, realizzato consapevolmente e con gradualità, dava risultati molto positivi. All'uso della forza Venezia, nelle vertenze commerciali, preferiva l'impiego di questa terribile arma economica, nonostante il considerevole disturbo, pur temporaneo, arrecato ai mercanti. Tali circostanze, a nostro avviso eccessivamente sottovalutate, rimettono in causa una lettura troppo superficiale del volume degli incanti, che senza dubbio costituiscono spesso un indice economico delle tendenze del mercato o delle ripercussioni sulla domanda di trasporto marittimo, ma non mettono in luce la reticenza degli imprenditori che, manifestando scarso spirito di collaborazione, speravano di arginare le costrizioni imposte dallo Stato affittando le galere a prezzi molto bassi. Malgrado i tumultuosi interventi al senato, il patriziato non poteva rifiutarsi ostinatamente di obbedire agli ordini. Due furono le tappe decisive di questo processo di degrado del sistema delle "mude". La prima ebbe luogo durante la guerra veneto-turca, epoca di numerose requisizioni militari, tra il 1463 e il 1470.
L'ostruzionismo dei "patroni" era tale che, nel 1467, il senato intervenne per sottolineare con forza l'obbligo degli aggiudicatari di piegarsi alle decisioni dello Stato. A più riprese le galere della "muda" di Beirut o di Alessandria furono inviate a fare servizio di sorveglianza nelle acque al largo della Sicilia o della costa dell'Ifriqiya. Anche la "muda" di Barberia fu assai spesso incaricata di questo servizio "perché ci sono solo uno o due mercanti e così poche merci" e talvolta fu costretta ad intervenire direttamente per sostenere le città assediate di Scutari e Cattaro, al posto della squadra del Golfo. La seconda tappa riguarda invece la guerra di Ferrara (1482-1484), che pure doveva rimanere prettamente terrestre, ma degenerò veloce-mente esplodendo in tutta la penisola, non solo nel Nord dell'Italia ma anche in Toscana e nelle Puglie. Ancora una volta si decise di avvalersi delle galere da mercato: nel 1482 la "muda" di Barberia non poté salpare perché "tutti gli uomini sono sulla flotta del Po", mentre l'anno successivo fu utilizzata per il trasporto di duemila stradioti di Morea venuti in rinforzo (61). Un po' più tardi fu la grande galera di Cristoforo Duodo a puntellare un ponte di barche nei pressi di Ferrara, mentre altre grandi galere mercantili trasportavano truppe ed equipaggiamenti: situazione che anticipava gli eventi del 1499-1500, quando tutte le galere da mercato furono requisite per assicurare il trasporto o gli approvvigionamenti delle forze militari impegnate nel conflitto (62).
Simili episodi mettevano a dura prova l'organizzazione della navigazione di linea, sconvolgevano la vita politica della città e gettavano oscuri presagi sulla sopravvivenza del sistema delle "mude". In effetti, la crescente opposizione, all'interno dello stesso senato, tra chi intendeva salvaguardare gli interessi degli armatori, e chi invece preferiva concentrare tutte le forze navali disponibili nella difesa dell'Impero, raggiunse l'apice al collegio. I tre gruppi di savi eletti dal senato, cioè i cinque savi da Terraferma, cinque savi agli ordini e sei savi del consiglio, si scontrarono duramente a partire dagli anni Ottanta. A poco a poco la rivalità fra i savi da Terraferma, incaricati della difesa e della sicurezza militare, e i savi agli ordini, specializzati negli affari marittimi, volse a sfavore di questi ultimi, cui i savi da Terraferma rimproveravano praticamente di tutelare gli affari di poche casate a scapito dell'interesse collettivo della nazione - così almeno la testimonianza precisa e documentata di Marino Sanuto, anch'egli più volte membro di questi consigli. L'influenza dei savi da Terraferma in seno al collegio era preponderante, per cui l'esercito divenne l'interesse prioritario e certi obiettivi commerciali passarono in secondo piano (63). Il "partito del mare" riuscì a mantenere la gestione delle "mude" e tentò di riprendere l'iniziativa reclamando l'elezione di due provveditori sopra le navi che esaminassero la fondatezza delle requisizioni delle galere mercantili, valutassero i danni subiti e proponessero gli indennizzi finanziari.
Ancora una volta si scontrarono i diversi gruppi di pressione, e poiché Antonio Tron e Leonardo Grimani rifiutavano caparbiamente la proposta, la discussione si inasprì e "ci furono molti alterchi riguardo alle galere inviate nella flotta". Girolamo Priuli e Pietro Dolfin erano consapevoli del paradosso: Venezia non era più in grado di mantenere intatto il raggio d'azione dei suoi traffici marittimi senza rischiare di compromettere la propria difesa. Priuli, per parte sua, premeva per rilanciare i convogli mercantili "visto che anche compromettendo il traffico di un anno intero non siamo riusciti a prendere ai Turchi nemmeno una piccola fortezza". Dal canto loro, gli amministratori del Tesoro, come i dazieri delle intrade, reclamavano anch'essi la ripresa della navigazione di linea onde assicurare le entrate fiscali e doganali indispensabili proprio al finanziamento della guerra! Conseguenze ancora più gravi si profilavano. Allorché il confronto deflagrò, le galere mercantili già non trasportavano più le spezie, in quanto impegnate nella guerra per mare. I mercanti tedeschi, spaventati dalla repentina impennata dei prezzi, minacciarono di abbandonare il loro fondaco. Nel 1498 un carico di pepe costava 56 ducati, poi 100 nel 1500, e addirittura 130 ducati l'anno successivo. Il rientro nel margine, inferiore ma pur sempre elevato, di 62 ducati, lasciava poche speranze nella regolare ripresa delle consegne provenienti dal Levante, tanto più che a Venezia era ormai noto che i Portoghesi stavano facendo il loro ingresso nel mercato europeo. Era su questo dibattito di fondo che si giocava l'avvenire della navigazione di linea, e l'aristocrazia, ormai divisa, si trovava a fronteggiare contraddizioni fino ad allora del tutto insospettate. Il secolo XVI si apriva criticamente per Venezia, poiché alle disfatte militari incalzò la minaccia della rovina finanziaria, e anche a Rialto dominava lo sbigottimento. Nel 1502, dopo un'interruzione di due "mude" per il Levante, di cui in città si patirono amaramente gli effetti, il viaggio delle galere di Beirut si concluse con uno scacco strepitoso, il rientro delle galere, a febbraio, con un carico irrisorio di spezie. E, due anni più tardi, fu la "muda" di Alessandria a fare il viaggio a vuoto! A poco a poco il ritmo delle spedizioni rallentò sempre più, e il volume dei carichi diminuì, mentre altrove, e per altri, si preparava un avvenire pieno di promesse.
Il tempo in cui il patriziato mercantile di Venezia operava come una compagnia commerciale, il cui consiglio d'amministrazione era il senato, era ormai finito. Ora "l'interesse personale del mercante non coincide più con quello del bene pubblico" (64). L'analisi del libro contabile di una galera della "muda" delle Fiandre per l'anno 1504 conferma completamente quest'impressione: le spese complessive di gestione raggiungevano quasi i 9.200 ducati, ma la sovvenzione dello Stato ammontava a 6.5oo ducati, coprendo il 70 per cento della somma e assicurando il profitto dei "patroni" e dei finanziatori che essi rappresentavano, anche nel caso il risultato commerciale dell'impresa avesse lasciato a desiderare. È questo il prezzo che il governo doveva pagare per mantenere le attività della sua marina mercantile, limitare gli effetti della crisi sul mercato del lavoro e mantenere operative le forze navali in caso di guerra. Tutto questo accrebbe a dismisura i profitti di un gruppo ristretto di patrizi, e il Sanuto poté scrivere "nave n'è assà, e si va facendo per il don, li dà la Signoria" (65). Le grandi famiglie del patriziato veneziano, che avevano impegnato il loro capitale nel commercio marittimo internazionale, si trovarono di fronte a una situazione inedita: le testimonianze pervenuteci attraverso le numerose corrispondenze, così importanti nel commercio medievale, ci consentono di apprezzare le reazioni del mercante veneziano di fronte ad avvenimenti cui non era certo preparato.
In quest'epoca più che mai, gli strumenti essenziali dell'azione economica e di governo della Repubblica rimanevano la compilazione e il regolare aggiornamento della documentazione amministrativa. Il sistema oligarchico veneziano si appropriò di questo strumento decisivo e tentò di estendere la propria autorità organizzando, grazie a un'invadente burocrazia, un'efficace centralizzazione. La creazione di differenti corpi amministrativi alla fine del secolo XV, e la proliferazione di magistrature di ogni tipo deputate a regolamentare la vita pubblica, non miravano soltanto a procurare cariche pubbliche per i patrizi che si ritiravano dagli affari, ma tendevano ad assicurare una base più ampia al funzionamento dello Stato. Ovviamente, però, ne traevano beneficio solo pochi patrizi; a stento il mercante veneziano stabilitosi Oltremare riusciva a non farsi emarginare per mancanza di informazioni certe, e ripiegava sulle alleanze familiari per far fronte a un futuro sempre più incerto. I cambiamenti politici sopraggiunti con l'intervento dei Regni d'Occidente, più forti e conquistatori che mai, lo sconvolgimento delle rotte marittime dopo i viaggi di Vasco de Gama nell'oceano Indiano e di Cristoforo Colombo verso le Americhe, e lo sfaldamento della coesione sociale in Venezia stessa spiegano la disfatta della navigazione di linea. Questo sistema esemplare, ripreso anche dai Francesi e dai Fiorentini, ammirato e temuto da tutte le potenze commerciali dell'epoca, dopo due secoli di incontestabile successo non era più in grado, nel Cinquecento, di superare gli ostacoli che impedivano di adattarsi ai tempi nuovi. Molti a Venezia non vollero accettare il ruolo marginale nel commercio mondiale, ma non seppero convincere i patrizi; altri invece, consapevoli dell'enorme mutamento, volsero le spalle al passato e si impegnarono per risollevare il gonfalone di San Marco.
Alla metà del secolo XVI Venezia era ancora una grande forza marinara, ma aveva perso il primato sulle potenze navali del mondo mediterraneo. A partire dalla metà del secolo XV, la ripartizione delle zone di mercato era diventata la posta di subdole transazioni commerciali; alcuni mercanti non avevano esitato a servirsi di mezzi illeciti per ritardare la partenza delle galere di Stato e favorire così le navi disarmate della loro compagnia: un atteggiamento comprensibile se si considera l'impatto delle misure protezionistiche in favore delle "mude", come la garanzia di carichi riservati - metalli preziosi o spezie - e il divieto per le navi disarmate di fare vela verso gli scali frequentati dalle galere per due mesi dalla loro partenza. Così Marco Bembo raccomandava al suo agente di ritardare la partenza delle galere da Costantinopoli, prevista per il 10 settembre 1479, in modo che la nave della sua compagnia arrivasse per prima (66). Nonostante che i provveditori incaricati di sorvegliare i movimenti del porto fossero inflessibili contro chi fosse sorpreso a contravvenire ai regolamenti, la feroce concorrenza fra galere dello Stato e navi disarmate provocava ogni tipo di eccesso, che l'amministrazione riusciva difficilmente a controllare e a reprimere poiché la frode, minaccia permanente sulle pubbliche finanze, era ormai generalizzata: l'abbondanza di richiami all'ordine, e l'esiguo numero di condanne provano tutta l'abilità dei "patroni" delle imbarcazioni disarmate. I consoli avevano invece il compito di verificare la natura dei carichi in arrivo, ma la loro vigilanza fu spesso colta in fallo: messo sull'avviso dai mercanti, il console di Bruges denunciava al senato l'arrivo di spezie su navi disarmate, o addirittura su imbarcazioni straniere battenti bandiera delle compagnie veneziane, causando grave danno alle galere della "muda" di Fiandra. L'interdizione del 1329 era ormai da lungo tempo dimenticata e pochi "patroni" rispettavano questo sorpassato regolamento anche se, in caso di flagrante contravvenzione, erano soggetti a un'ammenda di 1.000 ducati. Pietro di Belveder, che aveva noleggiato una nave per Aigues-Mortes al di fuori del periodo autorizzato, al rientro a Venezia dovette lasciare l'imbarcazione alla dogana.
Gli effetti della recessione si facevano sentire anche in seno al ristretto circolo dei "patroni" di galere; quando la "muda al trafego" e quella di Alessandria si trovavano contemporaneamente nel porto egiziano, i mercanti, approfittando della rivalità tra i "patroni", desiderosi di ripartire a pieno carico, ottenevano prezzi di nolo più bassi del solito. Talvolta anzi i mercanti non esitavano a imbarcare le spezie a Tripoli o a Jaffa, beneficiando di tariffe preferenziali da parte dei mercanti musulmani: nel 1457 i mercanti veneziani della "muda" di Beirut appresero con dispetto che a Tripoli il carico di pepe si vendeva a 60 ducati, quando il prezzo ufficiale fissato dal sultano era di 100 ducati. Il senato, temendo le reazioni del sultano, chiese allora al console di Damasco di denunciare i Veneziani, ma un richiamo del 28 settembre 1464 testimonia dell'inefficienza dell'intervento del console veneziano (67). In queste circostanze, il patriziato ritrovò la coesione che gli consentì di mantenere i vantaggi acquisiti, e la potenza delle imprese familiari si rafforzò a ogni livello. Dall'istituzione delle "mude", le associazioni fra famiglie per l'affitto di alcune galere commerciali, due per la Romània, una per Cipro e più tardi una per Aigues-Mortes, avevano fondate speranze di dirigere le operazioni commerciali durante le operazioni di carico, ma soprattutto al ritorno, al momento della vendita delle merci: un'operazione ben congegnata poteva portare a un accordo illecito sul prezzo di vendita della totalità dello zucchero importato da Cipro, del cotone siriano o della lana inglese; si trattava ovviamente di un abuso sleale del monopolio di trasporto. Quanto poi ai verdetti dei giudici di petizion, magistratura specializzata negli affari commerciali, bisogna aggiungere a questi comportamenti la possibilità - sempre troppo frequente - di rifiutare alla nave l'accesso in porto: i mercanti così discriminati dovevano allora contattare degli armatori privati per riuscire a scaricare le loro merci, cosa particolarmente difficile nei periodi in cui l'incertezza faceva considerevolmente aumentare i tassi dei premi assicurativi, o le navi scarseggiavano. Lo Stato tentava di evitare simili deviazioni, ma bisogna ammettere che il personale amministrativo non sempre era degno di fiducia, e gli incidenti con commercianti delusi per non aver potuto condurre gli affari a modo loro erano sempre più frequenti. Diverse inchieste svelarono malversazioni o sottrazioni di fondi, o ancora prove inconfutabili di flagrante incompetenza, tanto che i "patroni" delle galere si trovarono sempre più spesso in conflitto con i rappresentanti del consiglio dei dodici.
Marco Bembo ad esempio, rimase stupefatto nell'apprendere che i "patroni" delle galere della "muda" di Fiandra avevano rifiutato di caricare le sue merci; ancora, le balle di spezie di Girolamo Michiel rimasero in attesa di una nave sulle banchine del porto di Alessandria, visto che non potevano essere caricate sulla "muda" del Levante benché nelle stive ci fosse ancora spazio. A Costantinopoli alcuni mercanti veneziani insoddisfatti presero posizione contro i "patroni" delle galere che si rifiutavano di importare a Venezia le loro lastre di rame, preferendo sbarcarle a Modone, dove potevano caricare le spezie provenienti dal Levante e incassare così dei noli più alti. A Tortosa Alvise Garzoni fu più fortunato: il risultato dell'inchiesta sollecitata presso il capitano del convoglio di Barberia obbligò il "patron" di una delle galere a imbarcare l'indaco che il mercante non era ancora riuscito a farsi trasportare. I "patroni", contravvenendo al testo degli Incanti, decisero di scegliere da sé i propri clienti, e i frequenti abusi scoraggiarono chi appartenesse a compagnie commerciali di piccole dimensioni. Un testo singolare, datato al 21 ottobre 1475, svela l'ampiezza del fenomeno: un "patron" della "muda" di Barberia non poteva noleggiare la sua stiva a un veneziano senza l'accordo di uno degli altri due "patroni". In generale il potere reale dei "patroni" si accrebbe nel corso degli anni. Ad esempio, per sottrarsi al controllo che la compagnia Cappello avrebbe potuto esercitare sui suoi affari, Andrea Barbarigo creò una compagnia a Bruges diretta da Alvise e Girolamo Bembo. Tra questi e Vittorio Cappello scoppiò, però, una disputa, e per la cura dei propri affari a Londra Andrea Barbarigo decise di avvalersi di Bertuccio Contarini, uno dei quaranta Veneziani che risiedevano sul posto. Era difficile tuttavia mantenere il segreto sulla faccenda, perché le galere di Fiandra erano in genere noleggiate da membri della famiglia Cappello o da loro alleati, e la lista dei soci accomandatari era nota al comandante, che poteva così rifiutarsi di caricare le merci, oppure imbarcarle in cattive condizioni. Se fossero sorti dei problemi a bordo della galera di Bruges, diretta da Alban Cappello nel 1437, Girolamo Bembo avrebbe dovuto falsificare il sigillo di Andrea Barbarigo, in modo che le merci arrivassero senza ostacoli a Londra nelle mani di Bertuccio Contarini; inoltre il Barbarigo chiese al proprio agente londinese di caricare le merci a nome di quest'ultimo, cosicché il nominativo di Andrea Barbarigo non comparisse sulle liste di carico (68).
Sarebbe forse opportuno cercare le cause di questo ripiegamento nel processo di disgregazione della famiglia veneziana e della sua espressione privilegiata, la "fraterna". Una storia della famiglia e della sua coesione sulla base di vincoli commerciali resta ancora da scrivere, ma l'abbondanza delle testimonianze permette di registrare per questo periodo il declino dell'etica della corresponsabilità. Già nel 1423, Nicolò Malipiero dichiarava davanti a un notaio l'esistenza di una tacita società che lo legava al fratello Bartolomeo. Il ruolo della famiglia, nel corso del secolo XV, andò a poco a poco riducendosi, mentre l'individuo riacquistava una certa autonomia di scelta.
Eppure la "fraterna" aveva dato buone prove di sé, per esempio durante la crisi degli anni Cinquanta del Quattrocento nelle Fiandre, quando Domenico Zorzi e i fratelli Giacomo e Bartolomeo si erano accordati fra loro per pagare i 15.000 ducati richiesti a Bruges per la liberazione di Domenico, che rischiava multa e reclusione. I problemi nacquero più tardi, quando si trattò di fare i conti: in assenza di fiducia reciproca, le alleanze fra parenti infatti finivano sempre più spesso davanti ai giudici. Nel novembre 1472, Francesco Contarini non accettava che i suoi fratelli mettessero in dubbio le sue capacità nella direzione della filiale che gli era stata affidata. Gli interrogativi e le contestazioni sulla fondatezza di tale sistema aumentarono verso la fine del secolo XV. I processi in effetti testimoniano della volontà precisa di porre fine a tali pratiche: nel 1482 un cancelliere, copiando una sentenza sul suo registro, scrisse per abitudine, accanto al nome del querelante, la formula "fradeli de fraterna", che fu immediatamente obbligato a cancellare. Simili lotte e dissensi in seno al patriziato, fruitore esclusivo e preferenziale di un settore fondamentale dell'economia veneziana, esistevano molto prima di questi tempi difficili, ma alla fine del secolo XV l'incertezza accresceva il disagio e scatenava le rivalità. Le intese di monopolio rafforzarono i loro vincoli, precludendo l'ingresso a estranei. Lo Stato aveva agevolato la costituzione di queste intese per evitare la dispersione del capitale e dell'esperienza dei mercanti; ma nel corso del secolo XV le famiglie costituivano dei gruppi di pressione che tentavano di forzare a loro vantaggio le decisioni senatoriali. Il controllo dello Stato era ormai debole e incapace di limitare la concentrazione dei capitali nelle mani di poche famiglie patrizie tra le più influenti: la lotta si espresse allora attraverso l'opposizione di partiti ben organizzati. I nuovi orientamenti dello Stato, caratterizzati dalla restrizione della zona d'influenza del commercio via mare e dalla priorità assegnata alla conservazione del Dominio di Terraferma, posero un brusco freno alla vecchia consuetudine di mettere in comune le risorse e dividere poi i profitti.
La crisi strutturale della navigazione di linea alla fine del secolo XV, e le ripercussioni in seno al patriziato come in tutta la società veneziana, modificarono i comportamenti in profondità. I rovesci militari e le delusioni commerciali provocarono il ripiegamento su investimenti meno incerti. Girolamo Priuli, ardente sostenitore delle "mude", non accettava che una parte non trascurabile dell'aristocrazia avesse deliberatamente sacrificato ciò che era stato la gloria e la ricchezza della Repubblica per favorire gli investimenti finanziari nei domini agricoli di Terraferma. I giovani, inclini alla pigrizia e al lusso, vivendo di rendita avevano dimenticato i valori del passato, il lavoro, il risparmio, l'onestà. C'era chi vedeva in questo succedersi di sconfitte una punizione divina; altri, tra i quali il Priuli, arrivavano anche ad augurarsi il crollo della città nella speranza che ciò valesse a restituire ai giovani aristocratici il senso degli antichi valori abbandonati dopo "la fuga dal mare" (69).
Come dimenticare la determinazione e la sete di avventura di Alvise da Mosto, esempio tra i più rappresentativi di questa aristocrazia? Consapevole dell'importanza di questa fase di iniziazione, inevitabile per chi volesse raggiungere il vertice della scala sociale, egli spiegava a un cugino come "dopo aver navigato in varie parti del Mediterraneo aveva deciso di fare quest'altro tipo di viaggio in Fiandra sia a scopo di guadagno, sia per esercitare la sua gioventù in ogni modo per accrescere le sue capacità, così da riuscire, in età più avanzata, a distinguersi onorevolmente grazie a una completa conoscenza del mondo" (70). Una parte del patriziato cercò anche di reagire: il partito del movimento, quello del commercio marittimo, intendeva salvare l'essenziale, e auspicava una ridefinizione degli antichi criteri sui quali si era fondato il sistema commerciale. Alvise Arimondo, l'anziano console di Alessandria, già nel 1501 metteva chiaramente in luce il problema delle "mude" del Levante. Poiché in Egitto le difficoltà si moltiplicavano, occorreva modificare lo scalo di Alessandria e attraccare a Bechieri, porto che consentiva alle galere libertà di manovra (71). Con una debole maggioranza, novantadue voti contro settantadue e venti schede bianche, questa proposta fu respinta dopo la prova di alta oratoria di Antonio Tron, fermamente avverso a ogni cambiamento: convinto che il sultano cercasse di far pressione sui prezzi fingendo che la via del mar Rosso fosse interrotta, egli non intendeva credere all'importanza del traffico portoghese. Visto che il dibattito si svolgeva al senato, tutti i patrizi erano ormai al corrente della situazione. Nessuno poteva più permettersi di ignorare la gravità della crisi della cantieristica e il cattivo stato della flotta delle galere da mercato: in ogni caso i regolari rapporti dei capitani delle "mude" illuminavano ogni giorno di più gli increduli (72).
Le critiche evidenziano il crescente malcontento dell'aristocrazia riguardo al sistema delle "mude". Il governo ricorse anche al parere di esperti, ma la loro opinione non poteva che registrare le possibilità di miglioramento di una situazione acquisita e già sorpassata; confondendo spesso l'effetto con la causa, perdevano di vista l'interpretazione generale di questi segnali in un contesto di là da venire. A loro volta Antonio Giustiniani, Alvise Contarini e Antonio Cappello denunciarono l'equipaggiamento insufficiente delle galere mercantili e il numero eccessivo di marinai non operativi. Il senato era sommerso da simili rapporti e il suo rifiuto di rinnovare il sistema delle "mude", ormai obsoleto, "dove talvolta i capitoli degli Incanti si contraddicono l'uno con l'altro", era causa di grande difficoltà (73). I periti lamentavano l'apatia e l'indifferenza dei senatori, e inquadravano la questione fondamentale denunciando l'assenza di volontà politica; per parte loro, "essi sono ansiosi di salvare il servizio pubblico": la res publica non è finita (74). La frattura era irreparabile. Come dice giustamente Alberto Tenenti, "la realtà storica di Venezia si sfascia in profondità". L'impressione è confermata dai contemporanei, come Domenico Morosini che nel De bene instituta re publica proponeva di escludere i mercanti dalle cariche di governo. Quanto era cambiata la Repubblica (75)!
Gli interessi privati ripresero il sopravvento; quando erano minacciati dalla concorrenza generale, spingevano lo Stato a un particolarismo economico sempre più chiuso, per combattere la legge elementare della concorrenza. A Venezia molto presto il crescente assoggettamento della politica all'economia aveva lasciato ben poco spazio al caso e alle circostanze nella costruzione di un patrimonio individuale o familiare autonomo. L'interesse economico legato all'impiego dei convogli mercantili della navigazione di linea era collettivo, com'era nella volontà del governo per far partecipare il maggior numero di investitori e farli collaborare all'incremento della ricchezza della comunità nazionale. Talvolta, quando le condizioni del mercato non permettevano un buon rendimento delle "mude", il governo incentivava le attività accordando una sovvenzione all'armamento di galere commerciali. Di ammontare variabile tra i 1.000 e i 5.000 ducati, e talvolta anche oltre, la riscossione di questa somma diventò presto la posta di tutte le sedute di discussione degli incanti: il patriziato mirava sistematicamente a ottenere l'affitto delle galere commerciali a prezzo molto basso, e ciò nonostante voleva anche accaparrarsi grosse somme a titolo di sovvenzione. Era questa la prima fase nel processo di gestione collettiva di una "muda". La solidarietà fra le casate mercantili dell'aristocrazia veneziana si esprimeva apertamente non solo in seno alle "fraterne", ma anche nel contesto di alleanze più vaste. La formula di legge "ad unum denarium eundo, stando et redeundo" rafforzava questa solidarietà, obbligando i comandanti delle galere alla divisione in parti uguali dell'ammontare dei noli. L'utile veniva ripartito proporzionalmente alla somma investita alla partenza. Dunque, divisione dei rischi e degli utili: così fu per molto tempo.
Ma le disfunzioni del sistema e le difficoltà di sfruttamento esclusero di fatto le società commerciali più deboli dal gruppo di imprenditori che prendevano parte alla gestione delle "mude": una requisizione per una battaglia navale, il boicottaggio di un territorio, e l'utile dell'investimento sfumava. Solo le compagnie dirette dagli aristocratici più facoltosi poterono superare le prove del decennio 1499-1509, a maggior ragione nel caso delle "mude" del Levante, "le più vantaggiose e quelle fondamentali per la nazione". Nel corso degli anni Quaranta del Quattrocento, il numero degli investitori che acquistarono partecipazioni finanziarie nell'armamento di una galera mercantile superava mediamente la dozzina, e proveniva da un ventaglio di parecchie famiglie. Negli anni Venti del secolo successivo furono solo due, e spesso addirittura uno, a comprare la totalità dei ventiquattro carati di capitale. Fra il 1519 e il 1528, su quarantasei operazioni finanziarie riguardanti le galere del Levante, si contavano soltanto novantadue "caratadori"! Tra essi, per esempio, Lorenzo e Girolamo Priuli, sicuramente i banchieri più ricchi della piazza, possedevano nel 1520 quasi tutte le partecipazioni di una delle galere di Alessandria (76); ma ancora c'erano i Garzoni, proprietari dei ventiquattro carati di una galera del Levante nel 1525, i Malipiero, titolari anch'essi di tutte le partecipazioni per le galere di Alessandria nel 1527 e nel 1528. Altri prestigiosi banchieri, rimessisi in fretta dai fallimenti del primo decennio del secolo, rilanciarono gli investimenti nella gestione delle "mude": sono i da Molin, gli Arimondo, e i Pisani che impegnarono circa 40.000 ducati nel viaggio di Ponente. Le famiglie mercantili più illustri erano nettamente in maggioranza: i Contarini del ramo della Madonna dell'Orto, ad esempio, controllavano nel 1517 e nel 1521 l'intero capitale di una galera di Beirut e di una verso Alessandria nel 1525. I Contarini di San Luca possedevano una galera di Alessandria nel 1523, 1525 e 1526 e quelli di San Silvestro nel 1519, senza dimenticare i Basadonna di San Stae e i Polani di San Cancian (77).
Da sole queste famiglie, unite da vincoli matrimoniali molto stretti ad altre casate alleate, si impadronirono dunque a loro vantaggio della gestione comunale dei convogli mercantili. Da diversi lustri la strategia del patriziato, fedele al commercio marittimo internazionale, perseguiva sempre lo stesso scopo (stornare l'utilizzo di un bene pubblico in favore di interessi privati) con un arrogante disprezzo della legge: "contra le lezze", non smettono di ripetere i savi di Terraferma e i senatori. Tutte le testimonianze - le dispute al collegio, i dibattiti al senato, le descrizioni dei cronisti - confermano questa tendenza irreversibile, giunta ormai all'apice, visto che tutte le operazioni finanziarie che precedono la partenza del gruppo delle "mude" riflettono l'ampiezza del fenomeno. L'epoca in cui la partecipazione alle iniziative commerciali era stata estesa a gran parte delle famiglie di medie possibilità economiche del patriziato veneziano era finita. Dopo la creazione della "muda al trafego", negli anni Sessanta del Quattrocento, la disponibilità di galere era tale da consentire a molti di afferrare l'opportunità di far fortuna nel finanziamento delle "mude": le famiglie di recente nobiltà ("case nuovissime") si affannavano allora a sollecitare il comando di una galera, o anche la carica di capitano, trovando spesso possibilità d'accesso alle cariche richieste. Le modalità del finanziamento, la divisione delle parti in frazioni - alcuni addirittura acquistavano un mezzo o un terzo di carato - lasciavano spazio a ogni speranza. Mezzo secolo più tardi tutto era cambiato. La riduzione del numero di convogli dopo i drammi del primo decennio del secolo XVI sancì l'assoggettamento della maggior parte dei capitali nelle mani di poche famiglie a scapito dell'interesse generale. Così, all'inizio dell'età moderna, il senato si trovava ad affrontare la stessa situazione di cartello che aveva combattuto con successo all'inizio del secolo XIV.
La situazione permette di comprendere le esitazioni e poi le vive reticenze del senato a riformare il sistema delle "mude". Il governo, per lungo tempo pressato da imperativi sociali e militari, non era in grado di porre fine a tutti gli abusi che gli osservatori più attenti denunciavano con veemenza al senato: allo scontro frontale con i sostenitori del "partito del mare", ricchi ed influenti, si preferì attendere la "morte naturale" delle "mude", condannate dalla nuova congiuntura internazionale. L'emarginazione di chi aveva fino ad allora approfittato del sistema stava per compiersi da sola: e in effetti, quando, dopo il 1520, l'armamento comunale entrò nella fase di declino e non restavano che poche galere per formare i convogli, l'armamento libero conobbe un'autentica rinascita e riprese il suo posto nei circuiti degli scambi marittimi nel Mediterraneo come nell'Atlantico.
Nonostante la situazione fosse già da molti anni chiaramente delineata, il patriziato senatorio fingeva di credere a una possibile riorganizzazione del sistema delle "Mude", e la mole di delibere dedicate ai problemi di gestione dei convogli di galere mercantili rifletté l'imbarazzo dei senatori. Il male era penetrato in profondità, poiché chi deteneva il potere economico reclamava sempre maggiori privilegi, per lo più ottenuti per concessione del legislatore.
Alla fine del secolo XV, la coesione sociale era ormai un ricordo e l'individuo aspirava a riprendere un ruolo di primo piano. Tuttavia ancora si levavano voci per denunciare "il grande disordine nella fabbricazione delle nostre galere commerciali", lontana eco dei vani tentativi di riforma iniziati nel 1455 e nel 1482, che condannavano con durezza "il disordine totale che affligge i nostri viaggi". Il senato oppose un categorico rifiuto a tutte queste iniziative: gli unici consigli accettati dall'assemblea riguardarono il piano di navigazione delle "mude". Mai, in nessun caso, si iscrisse all'ordine del giorno la ricerca di migliorie tecniche per la cantieristica, anzi tutti rimpiangevano i fondi investiti su questo terreno. Nel 1520 i proti dell'Arsenale, su richiesta dei "patroni", si mostrarono propensi ad aumentare la lunghezza della galera, per ottenere un maggiore volume dello scafo, ma furono sconfessati dai provveditori. Il miglioramento della tenuta delle galere era tuttavia vitale per l'insieme del commercio marittimo, e mal si comprendono le contraddizioni della politica senatoriale che rifiuta gli investimenti indispensabili alla realizzazione della sua politica sociale dell'occupazione.
Dopo il 1520, il degrado delle galere da mercato era tale, che gli imprenditori, estremamente insoddisfatti, rifiutavano di accettare imbarcazioni così vetuste (78), al punto che prima di partecipare alle sedute degli incanti e di pagare il prezzo di nolo i "patroni" esigevano di salire a bordo delle galere per esaminarne le condizioni. Nel 1526 per esempio Giovanni Badoer, Bartolomeo Zorzi e Antonio Contarini rifiutarono le galere e restituirono l'indennità che era stata loro accordata; nel 1528 il senato respinse l'offerta di Alvise Bembo perché pretendeva di visitare la sua galera di Alessandria prima di versare la somma.
Di nuovo si registrò la riluttanza del patriziato sia a mettere in discussione i "patroni" dell'Arsenale, provenienti dalla più alta aristocrazia, sia a contestare il funzionamento del cantiere navale diretto dallo Stato. Già nel 1517 il senato rifiutava di convocare i capi dell'Arsenale, messi sotto accusa da alcuni "patroni" insoddisfatti che chiedevano loro di impegnarsi sotto giuramento ad armare le galere delle "mude" prima che venissero messe all'asta. La proposta fu rifiutata da una larga maggioranza (79). La replica dei capi dell'Arsenale era ridicola: precisavano infatti che, se le galere fossero rientrate in buono stato dai viaggi, essi non avrebbero avuto tante difficoltà per rimetterle in ordine. Nel 1526 alcuni consiglieri proposero con insistenza la costituzione di un comitato composto dai mercanti più influenti e dai savi alla mercanzia per decidere i miglioramenti da apportare alle "mude"; ma il senato non accettò nemmeno questa proposta, sebbene essa fosse di grande interesse (80). Tale atteggiamento determinò la rimessa in discussione dell'insieme del sistema commerciale pazientemente elaborato nel corso di due secoli, e contribuì alla condanna del principio delle "mude" peraltro già agonizzante dal 1510 ma che comunque era stato all'origine della fortuna degli aristocratici, che ora invece se ne disinteressavano apertamente. Al punto che, durante una drammatica seduta al senato, i relatori dell'assemblea, scioccati dall'indifferenza generale a proposito della riorganizzazione delle "mude" del Levante, dovettero intervenire per costringere i patrizi a partecipare alla seduta e ad emettere un parere costruttivo. Nel 1531 di fronte alle stesse difficoltà, una multa di 500 ducati colpì chiunque si rifiutasse di votare pro o contro il mantenimento delle "mude" e si rifugiasse dietro l'anonimato del voto "non sincero". Fatti altrettanto sconcertanti davano ragione a chi parteggiava per le conquiste territoriali in Lombardia e in Romagna, sostenendo che Venezia non era più in grado di recuperare la supremazia sui mari, perduta da lungo tempo. Eppure i dogi Nicolò Tron, eletto nel 1471, Andrea Vendramin nel 1476 e Antonio Grimani nel 1523, e tanti altri ancor prima di loro, avevano potuto accedere a quella suprema magistratura proprio grazie al loro successo nel commercio marittimo.
Fra il 1300 e il 1550, dei trentasei dogi eletti a capo dello Stato, quattordici erano stati commercianti di contro a nove soltanto che non lo furono, mentre per tredici le informazioni sono incerte. L'aristocrazia delle "mude", nel corso del secolo XV, aveva a poco a poco modificato le regole di gestione a proprio vantaggio. La concentrazione del potere economico nelle mani di poche famiglie ne aveva determinato, nell'ultimo difficile decennio del secolo, l'isolamento: divenute minoritarie nell'assemblea del pregadi, la loro perdita di influenza sulle decisioni in materia di politica economica non consentiva più di mantenere una legislazione che fino ad allora era stata loro assai favorevole.
Prima degli anni Ottanta, la spinta del patriziato era stata decisiva e il senato non cessava di sviluppare l'armamento della Repubblica. La creazione di una nuova linea e il rinforzo delle altre favorirono l'occupazione e la sicurezza dei convogli contro i pirati, e aumentavano le difese dell'Impero in caso di necessità. Benché questo sistema avesse dato buone prove nel passato, già nei primi anni del secolo XVI mostrava la propria inadeguatezza. In effetti, per una serie di vincoli esterni - lo sviluppo delle flotte nazionali, l'estensione territoriale e l'ampiezza dei conflitti in Italia o in Oriente - l'armamento della Repubblica non era più in grado di assicurare i rifornimenti alla città. La priorità militare dirottava le galere dal traffico marittimo: l'artigianato pativa la scarsa disponibilità di materie prime, protette dal monopolio di trasporto, e il Tesoro perdeva le entrate fiscali necessarie al finanziamento della guerra.
Il senato, di fronte a tali contraddizioni, esitava a sospendere il monopolio (nel 1514 per le spezie e la lana) e tardava nel promuovere il rilancio della cantieristica privata, che avrebbe condannato la galera da mercato ormai non più competitiva. Così la maggioranza dell'aristocrazia senatoria si rifiutò di perseguire le antiche strategie commerciali, e tentò per così dire la carta del futuro. Pienamente consapevoli dell'anacronismo del sistema delle "mude", i grossi mercanti cercarono di sbarazzarsi di questo sistema poco redditizio che lo Stato metteva loro a disposizione. Ma il senato, lungi dall'impegnarsi nel miglioramento dello strumento indispensabile alla ripresa delle relazioni marittime internazionali, non consentì di realizzare la riorganizzazione della navigazione di linea. La concorrenza straniera poté quindi impadronirsi senza grandi difficoltà di consistenti fette di mercato fin dentro l'Adriatico, e prendere senza fatica il controllo del commercio europeo. Per il mercante veneziano era difficile accettare di rimettere in discussione le certezze consolidate nel passato: solidamente ancorato a valori ancestrali, protetto da un clan familiare rassicurante ed efficiente, maestro nell'arte di esercitare il commercio su larga scala, il veneziano perse a poco a poco il contatto con le nuove realtà. In breve tempo la situazione politica europea subì una notevole evoluzione cui la Repubblica faticò ad adattarsi. Anche all'interno della società, la coesione familiare era scossa, e il carattere delle imprese finanziarie o commerciali dovette essere ristrutturato. Inoltre le relazioni fra il personale statale - la folla di burocrati, subalterni o la piccola minoranza influente sul potere esecutivo e chi aveva parte attiva negli affari, erano deteriorate tanto da una reale mancanza di comprensione, quanto da una definitiva perdita di fiducia.
All'inizio del secolo XVI l'obiettivo comune volto ad assicurare il trionfo della Serenissima era svanito e lo spirito di collaborazione nazionale appariva molto compromesso.
La storia della marina mercantile a Venezia alla fine del Medioevo è quella di una perpetua lamentela. L'armamento comunale, dopo una fase trionfale (1330-1490), fu gestito in un contesto di crisi, condizione persistente per l'intero periodo dal 1490 al 1540. Tutti i problemi di cui si è parlato, tecnici ed economici - protezionismo doganale abusivo, eccessivo peso delle cariche amministrative, incidenza delle leggi sociali sui costi di gestione - si ripresentavano cronicamente, ma ad essi si sommarono elementi nuovi: lo svantaggio geografico di fronte alla crescita del traffico atlantico e dei flussi di scambio nell'oceano Indiano, e la crisi di fiducia dell'aristocrazia nei confronti del sistema delle "mude". Alla metà del secolo XVI, il senato riconobbe che l'insieme di questi fattori comportava lo sfruttamento incompleto o quanto meno non concorrenziale delle galere da mercato, e decise che l'armamento della Repubblica abbandonasse la navigazione di linea. A causa di queste numerose difficoltà, il tentativo di riconversione commerciale non produsse i frutti sperati. Quando i Veneziani permisero ai Fugger di spostarsi ad Anversa nel 1508, fra il Nord e il Sud dell'Europa si creò uno squilibrio. I concorrenti di Venezia a poco a poco ripresero il sopravvento, e divennero i vettori via mare dei mercanti veneziani, a loro volta imponendo tariffe e condizioni. La comparsa dei Ragusani, dei Francesi e degli Inglesi, all'inizio timida e poi prepotente, obbligò lo Stato ad abbandonare i suoi obiettivi. Il commercio con il Mediterraneo orientale era per i Veneziani in gran parte perduto. Nel 1536 Francesco I strappò un accordo al sultano, e gli Inglesi, poco tempo dopo, crearono la Levant Company e poi la Turkey Company, neutralizzando definitivamente i Veneziani.
Traduzione di Katiuska Bortolozzo e Anna Segna
1. Si veda il volume Il Mare, di questa stessa opera.
2. A.S.V., Senato Misti, reg. 60, c. 249; ivi, Senato Mar, reg. 1, c. 13.
3. Frederic C. Lane, Il naviglio veneziano nella rivoluzione commerciale, in Id., Le navi di Venezia, Torino 1983, p. 4 n. (pp. 3-23); Jean-Claude Hocquet, Il sale e la fortuna di Venezia, Roma 1990.
4. Ugo Tucci, Mercanti, navi, monete nel Cinquecento veneziano, Bologna 1981, pp. 61 ss.
5. Gino Luzzatto, Storia economica di Venezia dall'XI al XVI secolo, Venezia 1961, p. 180.
6. Bernard Doumerc, La crise structurelle de la marine vénitienne au XVe siècle: le problème du retard des "Mude", "Annales E.S.C.", 40, 1985, p. 612 (pp. 605-625).
7. Frederic C. Lane, Storia di Venezia, Torino 1978, p. 27.
8. Ibid., p. 199.
9. Id., Il naviglio veneziano, p. 5.
10. Id., Navires et constructeurs à Venise pendant la Renaissance, Paris 1965, p. 226.
11. Ibid., p. 100.
12. A.S.V., Procuratori di San Marco, citra, b. 281.
13. Antonio Morosini, Annali, in Extraits de la chronique de Morosini relatifs à l'histoire de France, II, Paris 1888, p. 3.
14. A.S.V., Procuratori di San Marco, citra, b. 281, lettera del 22 agosto 1423.
15. Ibid., lettera del 23 maggio 1425.
16. Ivi, Senato Mar, reg. 5, c. 153.
17. Ibid., reg. 6, c. 33; Jacques Heers, Les Génois en Angleterre: la crise des années 1458 et 1464, in AA.VV., Studi in onore di A. Sapori, II, Milano 1957, pp. 810 ss. (pp. 807-882).
18. AA.VV., Storia economica Cambridge, III, La città e la politica economica nel Medioevo, Torino 1977.
19. Jean Van Houtte, Bruges et Anvers marchés nationaux et internationaux, in Recueil de la Société Jean Bodin, V, Bruxelles 1953, p. 450 (pp. 405-451)
20. Norman J. Kerling, Commercia) Relations of Holland and Zeeland with England from the Late XIII Century to the Close of the Middle Ages, Leiden 1954, p. 121.
21. A.S.V., Senato, Incanti di galere, reg. 2, c. 13; ivi, Senato Mar, reg. 20, c. 41 v.
22. Domenico Sella, Les mouvements longs de l'industrie lainière à Venise aux XVIe et XVIIe siècles, "Annales E.S.C.", 12, 1957, pp. 29 ss. (pp. 29-45).
23. Jacques Heers, Il commercio nel Mediterraneo alla fine del Trecento e nei primi anni del Quattrocento, "Archivio Storico Italiano", 64, 1955, p. 212 (pp. 206-242).
24. Freddy Thiriet, Quelques observations sur le trafic des galères vénitiennes d'après les chiffres des Incanti (XIVe et XVe siècles), in AA.VV., Studi in onore di A. Fanfani, III, Milano 1962, pp. 495 ss. (pp. 493-522).
25. Francesco Pegolotti, La pratica della mercatura, a cura di Allan Evans, Cambridge 1936.
26. Frederic C. Lane, La marina mercantile della Repubblica, in Id., Le navi di Venezia, Torino 1983, p. 24 (pp. 24-44). Si v. inoltre Doris Stockly, Le transport maritime d'Etat à Chypre complément des techniques coloniales vénitiennes: l'exemple du sucre, in Méthodes d'expansion et techniques de domination dans le monde méditerranéen, Actes du Colloque International C.N.R.S., Toulouse 1991, in corso di stampa.
27. Eliyahu Ashtor, Histoire des prix et des salaires dans l'Orient médiéval, Paris 1969, pp. 251, 247.
28. Id., Levant Trade in the Later Middle Ages, Princeton 1984, pp. 255, 319.
29. Mario Del Treppo, I mercanti catalani e l'espansione della corona d'Aragona nel secolo XV, Napoli 19732, p. 42.
30. Jacqueline Guiral - Hadziiossif, Valence port méditerranéen au XVe siècle (1410-1525), Paris 1986, p. 299.
31. Ibid., p. 301.
32. A.S.V., Senato Misti, reg. 46, c. ii; ibid., reg. 50, c. 187v.
33. Bernard Doumerc, Le trafic commercial de Venise au XVe siècle: le convoi d'Aigues-Mortes, in Actes du III Congrès National des Sociétés Savantes, Montpellier 1985, II, Paris 1986, p. 179 (pp. 179-185).
34. F.C. Lane, Navires et constructeurs, p. 131.
35. Michael E. Mallet, The Fiorentine Galleys in the Fifteenth Century, Oxford 1967, p. 32.
36. Claude Carrère, Barcelone centre économique au temps
des difficultés (138o-1462), II, Paris 1967, p. 562.
37. Michel MoLLAT, Jacques Coeur ou l'esprit d'entreprise,
Paris 1988, p. 165.
38. A.S.V., Senato Misti, reg. 59, c. 187.
39. Victor Magalhaes Godinho, L'économie de l'empire portugais au XVe et XVIe siècles, Paris 1969, p. 591; Ruggiero Romano - Alberto Tenenti - Ugo Tucci, Venise et la route du Cap: 1499-1517, Méditerranée et Océan Indien, in VI Colloque International d'Histoire Maritime (Venise 1962), Paris 1970, pp. 109-139.
40. A.S.V., Senato Mar, reg. 19, c. 143; ibid., reg. 20, c. 39; Si veda anche ivi, Senato, Incanti di galere, reg. 1, cc. 90, 104v.
41. Marino Sanuto, I diarii, I, a cura di Federico Stefani, Venezia 1879, col. 476. Si veda anche Fernand Braudel, civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV- XVIII), III, Il tempo del mondo, Torino 1982, pp. 101-123; A.S.V., Senato, Incanti di galere, reg. 2, cc. 22, 31v, 40v.
42. Richard Gascon, Un siècle du commerce des épices à Lyon, fin XVe et XVIe siècles, "Annales E.S.C.", 15, 1960, p. 636 (pp. 63o-665).
43. A.S.V., Senato Mar, reg. 6, c. 207.
44. Ibid., reg. 8, c. 3.
45. Michael E. Mallett, Venice and Its Condottieri, in Renaissance Venice, a cura di John R. Hale, London 1973, pp. 121-145.
46. A.S.V., Senato Secreta, Relazioni, b. 55; Alberto Tenenti, Cristoforo da Canal. La marine vénitienne avant Le'pante, Paris 1962, p. 76 n. 42.
47. AA.VV., Les chemins de l'exil. Bouleversements de l'Est européen et migrations vers l'Ouest à la fin du Moyen-Âge, Paris 1992, p. 208.
48. Philippe Braunstein, La popolazione tedesca di Venezia, in Strutture familiari, epidemie, migrazioni nell'Italia medioevale, a cura di Rinaldo Comba - Gabriella Piccini - Giuliano Pinto, Napoli 1984, p. 513.
49. A.S.V., Avogaria di Comun, reg. 178, cc. 147, 159v.
50. Frederic C. Lane, Società familiari e imprese a partecipazione congiunta, in Id., I mercanti di Venezia, Torino 1982, p. 238 (pp. 237-255); Id., In Search of the Venetian Patriciate, in Renaissance Venice, a cura di John R. Hale, London 1973, pp. 47-90.
51. Stanley Chojnacki, Kinship Ties and Toung Patricians in Fifteenth Century Venice, "Renaissance Quarterly", 38, 1985, p. 242 (pp. 240-270); Donald E. Queller, Il patriziato veneziano, la realtà contro il mito, Roma 1987, p. 71.
52. A.S.V., Avogaria di Comun, reg. 178, c. 147v.
53. U. Tucci, Mercanti, navi, monete, p. 182.
54. A.S.V., Senato Misti, reg. 57, cc. 168, 208. 55
55.Alessandro Sassi, Lettere di commercio di A. Barbarigo, mercante veneziano del '400, Napoli 1951, lettera nr.1, p. 4.
56. A.S.V., Senato Misti, reg. 59, c. 91.
57. M. Del Treppo, I mercanti catalani, p. 454.
58. B. Doumerc, La crise structurelle de la marine vénitienne, p. 605.
59. Domenico Malipiero, Annali veneti dall'anno 1457 al 1500, a cura di Tommaso Gar - Agostino Sagredo, "Archivio Storico Italiano", ser. I, 7, 1843-1844, p. 659.
60. M. Sanuto, I diarii, I, col. 30.
61. A.S.V., Senato Mar, reg. 11, cc. 126, 146.
62. Michael E. Mallett, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, Roma 1989, pp. 159, 248; Robert Finlay, La vita politica nella Venezia del Rinascimento, Milano 1982, p. 211.
63. Marino Sanuto, I diarii, III, a cura di Rinaldo Fulin, Venezia 1880, coll. 132, 151, 168.
64. U. Tucci, Mercanti, navi, monete, p. 58.
65. Ibid., p. 216.
66. A.S.V., Miscellanea di carte, b. 29, Copialettere, c. 12.
67. Ivi, Senato Mar, reg. 6, c. 5v; ibid., reg. 7, c. 192.
68. Frederic C. Lane, Andrea Barbarigo, mercante di Venezia (1418-1449), in Id., I mercanti di Venezia, Torino 1982, pp. 109-110 (pp. 3-121).
69. Girolamo Priuli, I diarii, in R.I.S.2, XXIV, 3, vol. I, a cura di Arturo Segre, 1912-1921, p. 50.
70. F.C. Lane, Storia di Venezia, p. 399.
71. A.S.V., Senato Mar, reg. 16, c. 17.
72. Marino Sanuto, I diarii, XXI, a cura di Federico Stefani - Guglielmo Berchet - Nicolò Barozzi, Venezia 1887, coll. 27 ss.
73. A.S.V., Senato Secreta, Relazioni, b. 61, c. 29. 74. Ibid., b. 73, c. 42.
75. Gaetano Cozzi, Domenico Morosini e il "De bene instituta re publica", "Studi Veneziani", 12, 1970, p. 424 (pp. 405-458).
76. A.S.V., Senato Mar, reg. 19, c. 53v; per il ruolo del commercio a Venezia, si veda Inoltre Guido Perocco - Antonio Salvadori, Civiltà di Venezia, II, Il Rinascimento, Venezia 1974, p. 609.
77. A.S.V., Avogaria di Comun, reg. 179, cc. 207, 210; si veda anche F.C. Lane, Società familiari, pp. 237-255, nonché Id., I banchieri veneziani 1496-1533, in Id., I mercanti di Venezia, Torino 1982, pp. 221-236.
78. A.S.V., Senato Mar, reg. 21, c. 188; Benjamin Kedar, Mercanti in crisi a Genova e a Venezia nel '300, Roma 1981.
79. A.S.V., Senato, Incanti di galere, reg. 2, c. 3.
80. Ivi, Senato Mar, reg. 22, c. 41.