Il dossettismo. Dinamismi, prospettive e damnatio memoriae di un'esperienza politica e culturale
La vicenda storica dell’Italia unita, e particolarmente quella più intrinseca al cattolicesimo, è costellata di movimenti, gruppi e associazioni che hanno trovato il loro punto di coagulo attorno a un manifesto di principi o valori, ovvero attorno a una figura che ha incarnato questi ultimi nel modo più concreto e visibile. Il dossettismo, inteso come il gruppo, il movimento o la corrente che si raggruppò intorno al deputato della Democrazia cristiana Giuseppe Dossetti (1913-1996) negli anni del suo impegno politico, rappresenta indubbiamente uno di questi momenti o esperienze forti della storia repubblicana: anche se circoscriverne esaustivamente il profilo o delimitarne rigidamente l’estensione cronologica restano tutt’oggi operazioni che presentano un certo grado di aleatorietà. Perché se è vero che, da un punto di vista meramente cronologico, l’attività politica di Dossetti è racchiusa tra l’estate del 1945 e l’estate del 1952 – con una successiva appendice che si colloca tra il 1956 e il 1958 – è altrettanto vero che il dossettismo ha radici e intenzioni più remote e, soprattutto, anche a dispetto del suo ‘fondatore’, una proiezione successiva ben più estesa1.
Approcciare il dossettismo esclusivamente come una delle tante correnti che hanno caratterizzato la lunga storia della Democrazia cristiana è perciò metodologicamente errato e significa tralasciarne l’essenza ultima: vale a dire l’impulso eminentemente culturale che stava alla base dell’azione politica di Giuseppe Dossetti e dei suoi sodali. Non a caso Giuseppe Lazzati (1909-1986), che di Dossetti era stato molto più che un compagno di lotta politica, rigetterà ogni paragone tra i dossettiani e la sinistra democristiana di Giovanni Gronchi (1887-1978), che poteva forse vantare un rilievo storico per il suo richiamo all’esperienza del popolarismo sturziano, ma assolutamente una «scarsa prospettiva culturale»2. È proprio questa densità originaria, colta tanto dagli estimatori del deputato reggiano dentro e fuori la Democrazia cristiana quanto dai suoi immediati critici, che spiega perché solo attorno a Dossetti e non ad altri compagni di partito come Alcide De Gasperi (1881-1954), Amintore Fanfani (1908-1999) o Mario Scelba (1901-1991) – che pure hanno ricoperto ruoli dirigenziali nel partito o assunto incarichi ministeriali più rilevanti – si sia coagulata una compagine assimilabile a quella che ha percepito l’uscita di scena dalla politica di Dossetti come una perdita infungibile o in ogni caso un passaggio di svolta per le sorti della Repubblica. Si è scritto così della «grande originalità e dell’inespressa potenzialità» del dossettismo3; le dimissioni di Dossetti sono state raffigurate come un «impoverimento politico e culturale di tutta la Democrazia cristiana»4 e per altri ancora il dossettismo, con la scelta dell’abbandono da parte del suo leader, «è divenuto un mito irrisolto della cultura politica italiana»5. Ancora quarant’anni dopo le riunioni di scioglimento della corrente dossettiana avvenute a Rossena nel 1951 – e poco prima della fine dell’esperienza storica della Democrazia cristiana – si scriveva che il dossettismo, che non era tutto «risolvibile nel carattere, nella sensibilità, nelle idiosincrasie di Giuseppe Dossetti», forse costituiva
«più propriamente l’ambito di un’opportunità politica che, certo, si è interrotta alle soglie della sua istituzionalizzazione, ma che ha continuato a restare impressa, a un quarantennio di distanza, nella psicologia politica della Democrazia cristiana, o meglio: in tutti coloro, nella Dc e fuori, che hanno sentito il riverbero ideale di quell’esperienza; e anche di coloro che l’hanno contrastata»6.
È significativo allora che il dossettismo, ancorché abbia subito una mutazione radicale7, non sia evaporato con le dimissioni di Dossetti, ma gli sia, in varie forme, sopravvissuto: sia per ciò che concerne il personale da lui inserito nell’amministrazione dello Stato, sia per quanto attiene alla rilevanza di alcuni temi di carattere politico e sociale da lui introdotti e che hanno continuato a trovare ascolto e promozione in alcuni settori del mondo politico e culturale italiano (basti pensare in questo senso all’opera svolta, tra gli altri, da Giuseppe Alberigo, Beniamino Andreatta, Achille Ardigò, Aldo Moro, Benigno Zaccagnini).
Un ulteriore aspetto che rimarca la rilevanza assunta dall’esperienza politica dossettiana e del dossettismo, ancorché sia più complesso da maneggiare con la strumentazione a disposizione dello storico, è il vero e proprio mito che è sorto intorno a Dossetti dopo il suo abbandono della scena politica8. Nel senso che la riflessione storiografica sul dossettismo, che pure è iniziata piuttosto repentinamente9, è stata spesso, in modo più o meno consapevole, caricata di una forte empatia: per cui la ponderazione dell’azione dello ‘sconfitto’ Dossetti è andata di pari passo con quella di coloro che, tanto sul versante politico (De Gasperi e Fanfani), quanto più tardi sul versante ecclesiale (Montini) erano risultati ‘vincitori’ rispetto al politico reggiano, ma i cui successi si erano appunto rivelati più effimeri di quanto essi stessi non avessero potuto immaginare. Significativamente Lazzati riconoscerà solo all’ex dossettiano Aldo Moro (1916-1978) – anche lui, come rileverà acutamente Leonardo Sciascia, trasfigurato in mito politico dai tragici eventi del 1978 – una capacità di visione politica paragonabile a quella di Dossetti10. Per alcuni settori del cattolicesimo italiano Dossetti assurgerà quindi sempre più a occasione perduta, a emblema di un vero e proprio «depauperamento della DC»11; diventerà, a posteriori, l’uomo che avrebbe potuto evitare la degenerazione della Repubblica dei partiti, un «profeta» inascoltato12. Con un Dossetti sempre attivo nell’ambito politico, s’è scritto, «avremmo avuto un’altra storia repubblicana e un altro destino di popolo d’Occidente»13. Persino un severo scrutatore delle vicende politiche ed ecclesiali italiane come Arturo Carlo Jemolo (1891-1981) si spingerà a chiedersi quale profilo avrebbe potuto avere una Chiesa cattolica che avesse avuto il coraggio di nominare arcivescovo di Bologna Giuseppe Dossetti14. E c’è stato anche chi, per un puro ma eloquente divertissement, ha provato a immaginare un’Italia in cui il Fronte democratico popolare vinceva le elezioni del 18 aprile 1948 e il presidente della Repubblica – Ivanoe Bonomi – affidava l’incarico di formare il governo proprio a Giuseppe Dossetti, che più tardi, al Congresso della Dc di Venezia, avrebbe anche conquistato la segreteria del partito: «questi forma un esecutivo moderato e riformista con Nenni all’Interno, De Gasperi agli Esteri, Togliatti alla Giustizia, Longo al Lavoro e politiche sociali, La Pira all’economia e finanze con delega al bilancio, Parri alla Difesa. Per l’Italia, senza più tensioni sociali, inizia un’era di pace e prosperità»15.
Certamente da un punto di vista metodologico è pienamente condivisibile l’osservazione formulata da Paolo Pombeni nel 1978 secondo la quale l’esperienza del dossettismo era «comprensibile solo nei termini della sua storia: cioè rapportata al suo tempo, ai suoi luoghi, alle sue azioni» e che perciò non era «paradigmatica, né ispira modelli di soluzione per l’oggi»16. Ma è anche vero che questa prospettiva finisce per far passare in secondo piano un fattore coessenziale alla vicenda di Dossetti e che ne spiega anche il fascino e la longevità (nonché le tenaci opposizioni): vale a dire l’intreccio tra la padronanza della meccanica parlamentare e partitica e l’incessante attitudine a dispiegare una riflessione politica e culturale calata in una prospettiva lunga e larga, in cui anche la più ristretta contingenza veniva letta come parte di un processo del quale si intuivano e descrivevano gli intrecci con ambiti che spaziavano ben oltre l’emiciclo parlamentare o Piazza del Gesù17.
Come molti politici della sua generazione, Dossetti giunge all’attività politica senza una specifica preparazione e comunque senza vantare, da cattolico, contatti con l’esperienza del Partito popolare. È un giurista che ha compiuto un importante itinerario di studi canonistici dapprima all’Università di Bologna e poi all’Università Cattolica del Sacro Cuore18, l’ateneo che nelle intenzioni del rettore Agostino Gemelli doveva forgiare i quadri dirigenti di uno Stato cattolicamente ispirato: sia per reagire all’anticlericalismo di matrice liberale che aveva contraddistinto il processo politico postunitario, sia per strutturare una reazione al rafforzamento delle forze di ispirazione socialista e comunista19. La formazione di Dossetti è quindi tutta giocata all’interno di una struttura che sostiene apertamente il regime fascista, ma quando all’inizio degli anni Quaranta gli eventi bellici prendono una piega sempre peggiore, Dossetti intravede la necessità di impostare una riflessione sullo Stato postfascista e sul futuro ruolo dei cattolici, proprio perché è evidente che le sorti del regime mussoliniano sono inestricabilmente legate all’andamento del conflitto, ormai perduto. A questo scopo coinvolge alcuni amici e colleghi (Giuseppe Lazzati, Amintore Fanfani, Antonio Amorth, Sofia Vanni Rovighi, Giorgio La Pira, Umberto Padovani, padre Carlo Giacon, don Carlo Colombo, Gustavo Bontadini) in una serie di incontri nei quali si svolge un serrato confronto sul tema dell’assetto del futuro Stato ed è proprio in queste riunioni clandestine che si deve individuare la genesi del dossettismo20.
L’idea di fondo condivisa dal gruppo, che troverà espressione in un «documento programmatico» andato perduto21, è che dalla morte del fascismo non dovesse scaturire una rinascita dello Stato liberale, che dell’avvento di Mussolini era indicato come il primo responsabile. Occorreva piuttosto dare vita a una vera democrazia che, accantonando la prospettiva elitaria perseguita sino alla crisi del 1922, fosse finalmente capace di inserire nel circuito decisionale della vita del paese le masse popolari: occorreva in definitiva uno Stato che ponesse al vertice della propria autorealizzazione la persona umana. Le riunioni milanesi si collocano su un piano differente – e in una certa misura alternativo – rispetto a quelle che, clandestinamente, anche altri partiti, inclusa la neonata Democrazia cristiana, avevano iniziato a svolgere22. Dossetti e i suoi interlocutori sviluppano infatti in questa fase una fondamentale ostilità verso l’idea di un «partito cattolico»: non ne vedono la necessità (e anzi ne censiscono i limiti)23; tantomeno immaginano di impegnarvisi direttamente. Per essi resta piuttosto essenziale un lavoro di carattere culturale rivolto ai cattolici italiani, al fine di ‘alfabetizzarli’ dopo il periodo di forzosa esclusione dalla vita politica, e dopo le gravi compromissioni clerico-fasciste, per dare vita a quella che essi chiamano la «Civitas humana». Condividono in definitiva l’idea che i cattolici italiani non siano ancora sufficientemente maturi per formulare una propria proposta politica e che occorra prepararli a questo passo con un paziente lavoro educativo.
L’idea sopravvive anche dopo che nell’estate 1943 il crollo del regime rende impossibile la prosecuzione dei contatti del gruppo milanese: Dossetti si impegna nella lotta partigiana nell’Appennino reggiano, ma dedica una parte cospicua dei mesi di clandestinità per approfondire lo studio delle vicende del movimento cattolico, ricavando la convinzione delle pesanti responsabilità della Chiesa nel radicamento del regime fascista24; è di fatto il membro della futura corrente dossettiana che più di tutti può vantare un rapporto significativo con il Partito comunista, con il quale si trova a collaborare nell’ambito del Comitato di liberazione25. Ed è forse anche questa prossimità che lo convince della necessità di superare le consuete posizioni polemiche per svolgere un serio approfondimento dell’essenza dell’ideologia marxista. In una lettera inviata ad alcuni parroci dell’Appennino reggiano nel marzo 1945 scriverà a questo riguardo che le critiche dei cattolici rispetto all’ideologia comunista dovevano essere
«oggettive, […] scientifiche e perciò fondate su una conoscenza esatta e possibilmente diretta della dottrina criticata. Purtroppo in Italia sinora tale conoscenza non esiste; quasi nessuno ha letto un testo marxista o almeno ha un sommario preciso e sicuro di quella dottrina. È questa nostra grande inferiorità [aggiungeva Dossetti] che ci espone spesso al pericolo di fare confutazioni erronee e sfocate o anacronistiche; noi “presumiamo” di conoscere il nocciolo delle “attuali” dottrine comuniste, e invece non ne conosciamo che una contraffazione, dovuta in parte alle stesse esagerazioni dei vecchi estremisti ormai ben superate e in parte alle falsificazioni sistematiche della propaganda fascista»26.
Dossetti produrrà così alcuni schemi di lezioni sul «materialismo storico» rivolti appunto ai partigiani cattolici, ma che ben presto – con alcuni omissis – circoleranno anche con un certo successo tra le brigate comuniste27.
Lazzati dopo l’8 settembre viene internato in Germania, ma anche nel lager si impegna in un’intensa opera didattica rivolta ai compagni di prigionia28. Qui fa la conoscenza di Alessandro Natta (1918-2001), futuro segretario del Pci, che più tardi ricorderà il dialogo sempre più stringente intercorso con il cattolico milanese circa l’avvenire dell’Italia:
«punto di partenza fu il convincimento che nulla di più esemplare poteva venirci dal passato e che il profilo dell’Italia libera dovesse essere ridisegnato totalmente a partire dal protagonismo di quelle masse popolari che erano state sempre escluse dalla guida del paese. Doveva trattarsi [ricorderà Natta] di una democrazia sostanziale, di una democrazia del dialogo e della solidarietà tra i protagonisti della rinascita, di un libero pluralismo connesso però da valori di trasformazione, progresso, giustizia»29.
Anche Fanfani, rifugiatosi in Svizzera, mantiene un contatto ideale con le discussioni dei mesi precedenti ed è sintomatico il titolo che appone alla rivista ciclostilata messa in piedi con l’ausilio di altri italiani espatriati a partire dal gennaio 1945: «Civitas humana»30. Nell’editoriale di quello che sarà poi l’ultimo numero della rivista Fanfani scriveva che
«la “Civitas Humana” come noi la pensiamo non esiste che in una realtà semi-caricaturale. Come deve essere la desideriamo in molti; in pochi veramente la vogliamo costruire. Per prepararne l’avvento s’è dato mano a questi quaderni, come si poteva in esilio. La sproporzione tra l’inizio ed il fine è tanto grande da muovere a riso. Ma il nostro sforzo è da considerare come contributo. E come contributo alla costruzione della “Città per l’uomo” lo continuiamo»31.
Differentemente da Dossetti e Lazzati il professore toscano si sente però fortemente sollecitato a un impegno politico diretto e il diario compilato durante i mesi trascorsi Oltralpe testimonia questa oscillazione tra una fedeltà agli orientamenti emersi a casa Padovani e il loro superamento in vista di un pieno coinvolgimento nella Democrazia cristiana ormai costituita32.
Quando nell’agosto 1945 Dossetti viene cooptato come vicesegretario nella direzione della Dc e viene nominato membro della Consulta, una delle sue prime preoccupazioni è quella di riallacciare i contatti con coloro che avevano condiviso le discussioni a casa del professor Padovani33. Solo pochi mesi prima, ancora nella clandestinità, nella ricordata lettera ai parroci, Dossetti aveva manifestato nel modo più diretto le sue idee riguardo al nuovo partito dei cattolici, che di fatto avrebbero poi improntato gli anni successivi del suo impegno politico: per lui la Dc non voleva né poteva essere
«un movimento conservatore, ma […] un Movimento tutto permeato della convinzione che tra l’ideologia e l’esperienza del Liberalismo capitalista e l’esperienza, se non l’ideologia, dei nuovi grandi movimenti anti-capitalistici, la più radicalmente anticristiana non è la seconda, ma la prima; ed è perciò [aggiungeva Dossetti] che i cristiani, se sono stati sinora energici e zelanti critici ed oppositori delle varie tendenze rivoluzionarie socialiste (perché materialiste, atee e violente), oggi debbono divenire assai più di quanto non siano ancora stati, anche se critici ed oppositori altrettanto energici e zelanti delle varie tendenze reazionarie, che sotto l’apparenza della legalità e della giustizia in effetti possono nascondere illegalità violente ed ingiustizie non meno gravi, anche se meglio dissimulate, di quelle cui talvolta trascendono gli oppressi incompresi e ridotti alla disperazione».
La novità più significativa di questo testo – e quella che segnava lo scarto più importante rispetto ai dibattiti clandestini milanesi – era data dalla decisione di accettare l’idea di un partito cattolico. È probabile che Dossetti vi fosse giunto per la convinzione dell’eccezionalità della congiuntura, che imponeva appunto la ‘fatica’ dell’impegno politico per fronteggiare la drammatica crisi in atto, che era anzitutto una crisi culturale del cattolicesimo di fronte a una modernità che si mostrava sempre più determinata a farne a meno: «non si può nemmeno lontanamente pensare che la presente crisi possa essere superata», aveva scritto nello stesso documento, «se non riusciamo a distogliere gli uomini più retti e competenti da quell’assenteismo e da quel disinteresse per ogni attività e responsabilità politica, che è ormai divenuto una secolare tradizione della vita italiana»34.
Una volta ricostituitosi a Roma, le attenzioni del gruppo si rivolgono dapprima verso il languente ufficio Studi e propaganda della Dc (Spes), proprio con l’intenzione di impiegarlo come leva per quel lavoro di carattere culturale da essi giudicato sempre più irrinunciabile e che troverà una prima significativa espressione nel Dizionario sociale edito nel 194635. Dossetti è consapevole della necessità di strutturare una base di consenso più estesa per portare avanti le proprie istanze – anche perché sa di essere stato cooptato al vertice della Dc proprio perché giudicato tutt’altro che ingombrante36 – e si impegna con successo per costruire una rete di contatti che vada anche oltre la provincia reggiana37. L’affastellarsi degli impegni non diminuisce la determinazione dossettiana a continuare a svolgere un minuto lavoro di educazione culturale rivolto ai giovani: tanto a Reggio Emilia quanto a Milano, dove i contatti con l’Università Cattolica sono rimasti saldi. In questi incontri l’antico canonista Dossetti è propenso ad adottare una prospettiva di analisi di carattere storico, certo mosso anche da una sempre più marcata consapevolezza dell’inadeguatezza della strumentazione giuridica per dare risposte e prospettive alla congiuntura postbellica38.
Il gruppo che si riunisce attorno a Dossetti, e che incontra particolarmente il favore delle generazioni più giovani, sviluppa anche una serie di strumenti per rendere più solida la propria presenza sul territorio nazionale: nel settembre 1946 inizia ufficialmente la propria attività Civitas humana, un’associazione che si riallaccia idealmente all’esperienza di casa Padovani e che si radica a Milano, Torino e Genova, coinvolgendo tra gli altri Augusto Del Noce, Gianni Baget Bozzo, Ermanno Gorrieri, Aldo Moro, Giuseppe Glisenti e il domenicano Enrico di Rovasenda. Lo scopo che veniva assegnato all’associazione era quello di stimolare un’animazione cristiana delle strutture dello Stato; congiuntamente si maturavano proposte per spingere la Democrazia cristiana a un vero processo di riforma sociale39. In parallelo a Civitas humana – e con una coincidente finalità formativa e culturale, rivolta però esclusivamente ai giovani – erano sorti i Gruppi Servire, che nell’intenzione di Giuseppe Lazzati – che più degli altri membri del gruppo dossettiano se ne incarica – dovevano stimolare nelle nuove leve una reale attitudine al servizio: al 31 maggio 1948 se ne censiranno 308 in tutto il paese40. È proprio nel contesto della casa editrice impiantata da questi Gruppi che nel maggio 1947, poco dopo la drastica conclusione del governo tripartito, nasce anche una rivista del movimento che fa perno attorno a Giuseppe Dossetti, «Cronache sociali», la quale diventerà, a dispetto delle enunciazioni programmatiche che indicavano come la nuova rivista non intendesse «essere giornale di partito, o della corrente di un partito», uno dei principali strumenti dialettici di quella che stava diventando sempre più chiaramente una corrente della Dc alternativa alla maggioranza allineata con De Gasperi41. Nel numero d’apertura si leggeva che «Cronache sociali» nasceva per dedicarsi a un impegno di «valutazioni sociali e politiche» che, significativamente, non intendeva «ristretto ai contrasti della politica minore, bensì esteso e preoccupato soprattutto nella ricerca di quelle connessioni che sono radicate nella sostanza viva dei problemi dell’uomo contemporaneo. In questa ricerca e valutazione sta oggi, a nostro avviso, la vera e maggiore politica, la politica umana»42.
Effettivamente già nel convegno di Civitas humana svoltosi a Milano nel novembre 1946, i cui esiti sono però a conoscenza dei soli partecipanti, era stato possibile vagliare il livello di critica della linea ufficiale del partito assunto dalla corrente dossettiana. Dossetti, in polemica con De Gasperi, aveva già lasciato in febbraio la vicesegreteria e in settembre la direzione del partito: ciò che sostanzialmente il deputato reggiano aveva imputato da subito alla leadership degasperiana era sia il merito sia il metodo assunto rispetto alla prossima scelta istituzionale tra monarchia e repubblica. Dossetti, favorevole all’opzione repubblicana perché giudicata essenziale a una vera spinta riformatrice – al punto di affermare molti anni più tardi di aver dato un «contributo decisivo» all’affermazione di quest’ultima43 – non aveva infatti condiviso l’agnosticismo istituzionale assunto da De Gasperi e da questi imposto al partito. Ma soprattutto non aveva accettato che questa scelta fosse stata determinata al di fuori delle sedi di discussione previste e accusava il capo del governo di averlo estromesso, insieme ad altri membri della direzione, «da tutte le decisioni di maggior rilievo, da ogni possibilità di influsso sulla politica del partito»; in tal modo, aggiungeva Dossetti, si era fatta prevalere una prassi di «manovra governativa» e di «patteggiamento di gabinetto» che svilivano l’«azione organica di partito, formativa e suscitatrice in strati sempre più vasti di uno slancio collettivo vitale e rinnovatore». È importante però rilevare come Dossetti in questa occasione avesse argomentato la scelta delle dimissioni anche richiamando ciò che i «molti amici», specialmente presenti nell’«Alta Italia», si aspettavano da lui44.
Pochi mesi più tardi, di fronte ai colleghi di Civitas humana, Dossetti tornava su questa vicenda spostando il fuoco dell’attenzione da De Gasperi alla Democrazia cristiana. In ultima analisi riconosceva che i limiti dell’azione di governo non erano tanto ascrivibili al leader trentino, quanto alle carenze strutturali della Dc, partito giudicato incapace di esprimere una classe dirigente, un piano per il paese (cosa diversa da un programma di governo) nonché un metodo: tutte cose che, viceversa, era possibile rinvenire nel Partito comunista che, pur con tutti i limiti che Dossetti ben conosceva e dichiarava – conformismo, machiavellismo, carenze intellettuali, anticlericalismo, pregiudizio antidemocristiano –, si preoccupava pur sempre di svolgere una «educazione delle masse». Una Dc condannata dalla sua stessa forza elettorale e dalla congiuntura internazionale a governare a tempo indefinito, ma al contempo priva di un reale progetto di riforma del paese, rappresentava dunque nella prospettiva dossettiana un reale pericolo per l’Italia, che proprio perché limitata nelle sue prospettive rischiava di trasformarsi in un «paese levantino»: segnato dal decadimento del costume pubblico, dove tutto si compera, lo Stato diventava una «grande greppia» e in cui «l’arrangiarsi è legge generale». Ma Dossetti condivideva con i suoi compagni anche una convinzione più profonda, che certo non era possibile esplicitare in pubblico, tantomeno tra i democristiani e che pure diventerà un tratto marcante della sua visione politica: cioè che la gran parte dei problemi che affliggevano l’Italia non erano determinati dalla contingenza politica (le difficoltà economiche, la presenza di un grande partito comunista…), ma da un fattore di lunghissimo periodo come il peso esercitato dalla Chiesa cattolica; una Chiesa che però, a dispetto dell’apparenza, versava in una condizione di profonda crisi, che appunto ridondava sulla situazione politica e in particolare sulla Democrazia cristiana. Dossetti lamentava particolarmente le carenze del clero, che pativa certamente un deficit culturale e che si era rivelato incapace di analisi e previsione («non sempre difficilissima a farsi») dei fenomeni sociali e politici; un clero per di più afflitto da conformismo gerarchico, funzionarismo ecclesiastico e il cui tono morale, specie nelle leve più giovani, andava abbassandosi45.
È nell’ambito dell’Assemblea costituente, che nel giugno 1946 inizia i suoi lavori, che i dossettiani acquistano un’importante visibilità anche al di fuori della Dc. L’indubbia forza del gruppo che fa perno su Dossetti risiede nella capacità di inserirsi nella fase cruciale di fondazione della Repubblica italiana sviluppando, a dispetto delle altre anime che compongono la Dc, un proprio disegno organico sul futuro del paese46. Il giovane Dossetti, pur non potendo vantare come i vecchi ex popolari alcuna esperienza parlamentare, rivela anche una straordinaria padronanza del meccanismo assembleare: è lui a definire la procedura del lavoro per sottocommissioni e le relative materie; ed è sempre lui a stabilire l’ordine del giorno dei lavori della prima sottocommissione, dedicata alla definizione dei diritti e doveri dei cittadini47. Ma nell’ambito della Costituente trovano modo di affermarsi anche Amintore Fanfani, Giorgio La Pira e Aldo Moro, che, sia pure con le differenti sensibilità culturali che li connotano, riversano nell’ambito delle rispettive sottocommissioni anche le istanze maturate nelle discussioni comuni48.
Si può certamente dire che nella sede costituente il dossettismo trova, dopo le prime fasi di difficoltà interne al partito, un rinnovato slancio. E questo perché i suoi aderenti individuano nella redazione della Carta un’occasione irripetibile per dare un preciso indirizzo all’ordinamento statale49. I dossettiani immaginano una costituzione che non sia un freddo prodotto di ingegneria costituzionale, rivolto meramente a regolare il traffico statale, ma che dia piuttosto un’espressione giuridica a un sentire più profondo, che distanziandosi dai guasti della stagione liberale e superando l’individualismo capitalista, definisca occasioni e strutture per favorire la promozione della «persona»50. Nell’imminenza del 2 giugno 1946 Dossetti aveva definito un rigido piano di lavoro per la Costituente incentrato sul conseguimento di una «repubblica democratica» rivolta a una «trasformazione della struttura industriale» e a una «riforma finanziaria», che si assumesse tra le altre cose l’impegno dell’«abolizione del latifondo» e della «nazionalizzazione delle grandi industrie monopolistiche»51. Nell’approccio dei dossettiani la nuova costituzione doveva quindi essere il prodotto di un lavoro comune, in cui necessariamente sarebbero confluite esperienze e ideologie contrapposte a quelle che animavano la Dc, come quella social-comunista o quella azionista, ma che trovavano nella comune scelta antifascista l’elemento coagulante. Dossetti è ostile da subito all’idea di una costituzione contro qualcuno: per questo, nelle fasi preliminari, pur restando irremovibile circa la scelta del sistema elettorale proporzionale, si mostra anche favorevole all’idea di una repubblica presidenziale, ipotesi che però viene accantonata dallo stesso De Gasperi nel momento in cui prevale la paura di una prossima affermazione elettorale delle sinistre52. L’impegno dei dossettiani nell’officina costituente spazia in ogni direzione; si tratta di un lavoro ispirato, come affermerà lo stesso Dossetti, a produrre un testo davvero originale e non la piatta declinazione italiana di altri testi costituzionali. Era la situazione peculiare del paese – che comprendeva il più grande Partito comunista al di qua della cortina di ferro – a indurre a ciò; ma erano soprattutto, come ricorderà mezzo secolo più tardi, i quaranta milioni di morti della Seconda guerra mondiale che spingevano a dare vita a un patto fondativo cui tutti i contraenti, ben oltre ogni logica consociativa, si sentissero intimamente vincolati53. Anche su quest’ultimo dato viene strutturandosi una divaricazione con De Gasperi, che come tutti gli uomini della sua generazione vede piuttosto nella Prima guerra mondiale il vero evento catastrofale che ha segnato uno spartiacque nella storia europea: è forse anche questa differente prospettiva che spiega il distanziamento del capo del governo dal processo di redazione della nuova costituzione, nella quale non ripone evidentemente le stesse aspettative degli uomini della generazione dossettiana54.
In Assemblea costituente non mancano le difficoltà, che scaturiscono sia dal confronto, talora insuperabile, con il Pci, che naturalmente persegue differenti progetti costituzionali55, sia dalle resistenze che provengono da quei settori della Dc che non condividono la drasticità del giudizio dei dossettiani sull’esperienza liberale e che anzi la ritengono il più efficace deterrente contro l’aggressività socialcomunista. È quindi sul versante interno al proprio partito che i sodali di Dossetti possono soppesare le più dure opposizioni alla linea portata avanti in Costituente: significativamente il leader reggiano lamenterà alla fine del 1946 che
«poiché qualcuno di noi riesce a dare alla costituzione delle formule nuove e una nuova impostazione fondata appunto sul concetto di persona, colui che dovrebbe essere l’interprete più genuino dello spirito democratico cristiano, Don Sturzo, protesta che la costituzione diviene troppo ideologica e dietro di lui tutta una turba di conservatori del nostro partito protestano che in essa si fanno delle applicazioni troppo insistenti e astratte del concetto di tutela della personalità umana»56.
La premura culturale che aveva accompagnato i primi passi del gruppo coagulatosi attorno a Giuseppe Dossetti era in ultima analisi la motivazione più forte per l’impegno costituente. Nel senso che i «professorini» avevano rapidamente intuito come il processo di rifondazione della democrazia italiana necessitasse di una forte capacità di indirizzo rispetto a una massa che usciva fisicamente e intellettualmente prostrata dal ventennio fascista e che la Chiesa cattolica si stava relazionando alla nuova situazione portando avanti le medesime istanze confessionali che aveva precedentemente affidato al regime mussoliniano. Solo tenendo conto di questa condizione ambientale è possibile apprezzare appieno l’aspetto per il quale l’opera costituente di Dossetti è maggiormente ricordata, vale a dire la menzione costituzionale dei Patti Lateranensi: da una parte occorreva infatti soffocare sul nascere l’eventualità di una rinascita della Questione romana (ipotesi paventata anche da Palmiro Togliatti, che non a caso voterà a favore dell’articolo 7 sottraendo una formidabile arma polemica alla Chiesa italiana e alla Dc in vista delle prossime elezioni politiche57). Ma contestualmente a ciò occorreva, con tutto il realismo che le condizioni storico-religiose della penisola potevano consentire, creare i presupposti affinché il cattolicesimo italiano (che in nemmeno un secolo era passato attraverso il non expedit, la crisi modernista e il clericofascismo) accettasse finalmente un’idea di democrazia fondata sull’esistenza di spazi di reciproca non invadenza: cosa tutt’altro che scontata. Dossetti quindi – e qui davvero si giungeva al cuore della sua visione politica – non si limitava a constatare e subire l’immaturità civile e culturale del cattolicesimo – nel convegno di Civitas humana del novembre 1946 affermerà perentoriamente che «la Ecclesia italiana ha in gran parte mancato il suo compito negli ultimi decenni»58 –, ma, anche da una posizione oggettivamente minoritaria, si attivava per superarla o quantomeno governarla. Gli intensi contatti che il deputato reggiano stabilirà con la Segreteria di Stato vaticana saranno allora funzionali a mediare tra le proposte anacronisticamente intransigenti avanzate dalla Santa Sede, che immaginava una Costituzione che sacralizzasse la confessionalità cattolica dello Stato italiano59, e la necessità improrogabile di sancire una reciproca indipendenza e sovranità tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica60.
Mentre la Costituente lavora a pieno regime la conflittualità tra i dossettiani e De Gasperi si accentua. I primi sono sempre più persuasi che la politica governativa, trascorsa la prima fisiologica fase di emergenza, stia consapevolmente eludendo la necessità di un serio processo di riforma e di svolta e ne intravedranno conferma nella scelta degasperiana di affidare la politica economica prima al liberale Epicarmo Corbino (1890-1984) e più tardi al democristiano Giuseppe Pella (1902-1981), entrambi sostenitori di una linea accentuatamente monetarista. Il gruppo dossettiano guarda piuttosto all’esperienza laburista britannica, alla quale viene introdotto da Federico Caffè (1914-1987?), che con alcuni contributi a «Cronache sociali» illustra al pubblico italiano l’applicazione dei principi del keynesismo. I dossettiani, e in particolareGiorgio La Pira, daranno in realtà una lettura decisamente personale delle teorie di Keynes, filtrandole attraverso la griglia del solidarismo cattolico. Il loro problema, infatti, differentemente dal contesto britannico, era e resterà quello della piena occupazione, più che quello della pianificazione61.
La radicalizzazione del contrasto tra i dossettiani e la direzione democristiana emerge vividamente nella mozione di sfiducia presentata da Dossetti e Lazzati al Consiglio nazionale del partito nel dicembre 1946, motivata con la necessità di giungere a un «nuovo metodo di azione di partito che abbia influsso sull’azione di governo»: cioè «sostituire al metodo dell’adesione ritardata e forzosa dell’iniziative altrui, il metodo dell’iniziativa di partito decisa e convinta, metodo che l’attuale direzione non solo non ha applicato, ma che alla stregua dei fatti denota di non voler adottare»62. Era sempre più evidente che la critica mossa alla leadership degasperiana muoveva da un’antitetica concezione del ruolo del partito: mentre De Gasperi manteneva un approccio di tipo liberale classico, per cui al partito venivano semplicemente assegnate le funzioni di mobilitazione elettorale e di sostegno parlamentare all’azione del governo, i dossettiani, condividendo in questo il sentimento di un’intera generazione che si era affacciata sulla scena politica – non solo democristiana e non solo italiana –, vi individuavano invece il luogo in cui elaborare le basi culturali dell’azione politica: era dunque principalmente all’interno della Dc, e non in Parlamento, che andavano definite minutamente le coordinate dell’azione politica63. D’altro canto era la stessa Costituzione repubblicana approvata nel dicembre 1947 a legittimare l’approccio dossettiano nel momento in cui indicava proprio nei partiti lo strumento privilegiato per realizzare la partecipazione politica.
I dossettiani premono sulla direzione democristiana anche attraverso «Cronache sociali», affidando alle colonne del loro quindicinale una serie di articoli-manifesto coi quali rendere sempre più esplicita la propria proposta politica. Nella primavera 1947, all’aprirsi della stagione centrista, era Dossetti, dopo l’espulsione dei social-comunisti dal governo, a rivolgere un fermo e preoccupato invito a De Gasperi affinché il nuovo esecutivo non si lasciasse deviare dalla sua linea programmatica né dalle pressioni che potevano derivare dalle sinistre, né dai ricatti «di quegli ambienti e di quella stampa, indipendente o finanziaria o neofascista» responsabili di una sfiducia sempre più dilagante e che si mostravano ognora insofferenti per ogni genere di riforma; a questo proposito occorreva che per ciò che concerneva la politica economica fossero «essenzialmente i ministri democratici cristiani» – e non i «tecnici indipendenti» – «ad assumere l’iniziativa e una funzione stimolatrice a un tempo cauta e energica»64. Anche il risultato del voto del 18 aprile 1948 – al quale David Maria Turoldo dedicherà proprio sulla rivisita dossettiana una lucida riflessione65 – veniva alla fine soppesato più per le responsabilità che caricava sulla Democrazia cristiana che non come la sconfitta del Fronte democratico popolare. Fanfani commentava significativamente a caldo che certamente i dodici milioni di voti per la Dc erano molti:
«ma è bene pensare agli 8 che le hanno votato contro. Tocca ai 12 ritrovare gli 8: e il ritrovamento non avverrà nelle accademie, e, in primo tempo, neppure nelle chiese. Avverrà soltanto nei campi e nelle officine ricondotte alle norme della giustizia, nelle case ridate ad ogni uomo, presso i deschi sufficienti a ridonare forza ad ogni braccio stanco. Abbiamo asserito la fecondità sociale del Vangelo. Il 18 aprile ci è stato offerto il modo di dimostrarlo. Se falliamo confermiamo l’incredulità degli increduli: falliamo come politici, falliamo come profeti, tradiamo come cristiani»66.
All’indomani del confronto elettorale è invece Lazzati, con il celebre pezzo dedicato ad Azione Cattolica, Azione politica, frutto di una riflessione in atto da anni, a muovere una radicale critica verso la gestione dell’Azione cattolica di Luigi Gedda e Carlo Carretto, responsabili del coinvolgimento (e stravolgimento) associativo nelle recenti elezioni politiche67. Nel 1950 sarà invece La Pira a porre all’esecutivo con due densi articoli il problema della disoccupazione, una questione che diventerà sempre più centrale nel profilo del politico siciliano68. La Pira scriveva allora che qualsiasi governo avrebbe dovuto perseguire un unico scopo e cioè «la lotta organica contro la disoccupazione e la miseria»69. Alle vivaci reazioni che erano seguite La Pira aveva replicato ricordando che i poveri non erano, come gli aveva ricordato con uno svolazzo retorico Piero Malvestiti (1889-1964), una «eucarestia sociale»70 «bensì il segno inequivocabile di uno squilibrio tremendo […] nelle strutture del sistema economico e sociale del Paese che li tollera»; viceversa i «ricchi» erano «anche, e sovrattutto, coloro che possiedono le leve dell’economia, della finanza e della politica […], destinati ad un solo scopo: dare a tutti il lavoro ed il cibo al tempo opportuno»71.
Contestualmente alla sua messa a fuoco, la proposta politica dei dossettiani deve misurarsi con crescenti resistenze, dentro e fuori il partito. Sono anche queste a indurre in Dossetti l’idea, in qualche modo considerata da subito, di un abbandono dell’impegno politico diretto. L’apertura della stagione costituente aveva rimandato ogni proposito in tal senso, ma poco dopo l’entrata in vigore della Carta il politico reggiano aveva riconsiderato questa eventualità, giudicando in qualche modo compiuto il suo compito. Era giunto così a interpellare al riguardo quelle autorità vaticane con cui aveva stabilito importanti contatti durante i mesi precedenti. Questa volta era l’imminenza della cruciale scadenza elettorale del 1948 a impedire il proposito delle dimissioni: il livello di mobilitazione era infatti tale da impedire ogni azione che potesse indebolire la Democrazia cristiana favorendo il Fronte democratico popolare. Il diniego opposto a Dossetti dalla Santa Sede – che fa il paio con il respingimento delle dimissioni di Giuseppe Lazzati da parte del cardinale Schuster –, al di là della stretta contingenza, era comunque significativo sia della stima che oramai il politico reggiano godeva presso la Segreteria di Stato, sia del livello di consapevolezza di quest’ultima di come egli rappresentasse una porzione significativa e vitale della Dc. Ma è proprio questa autorevolissima rilegittimazione vaticana, giunta dopo un triennio in cui si è mosso consapevolmente come un «rompiscatole»72, a renderlo ancora più determinato nel perseguimento della sua linea politica. Pur impegnandovisi a fondo, i dossettiani vivono con crescente disagio la campagna elettorale, perché giudicano strategicamente errata la riduzione dell’identità e della proposta democristiana al mero anticomunismo; soprattutto intuiscono come col pretesto del contrasto delle forze di ispirazione marxista si potesse determinare un vero e proprio stallo nell’azione di governo, di cui si sarebbero avvantaggiati proprio i comunisti e quei ceti conservatori e notabilari che puntavano a un congelamento dello statu quo sociale ed economico. Dossetti a questo proposito scriverà nel febbraio 1948 al segretario politico Attilio Piccioni (1892-1976) che la contingenza elettorale non poteva in alcun modo diventare un carattere permanente del partito e dichiarerà che la sua scelta, in ogni caso, era compiuta:
«dopo le elezioni, nessuna esigenza di difesa cristiana, mi farà tradire il cristianesimo e il suo compito storico nel nostro tempo, né mi farà schierare tra gli ultimi difensori cattolici dell’ordine. Cioè di un ordine per me perento ed ingiusto, se si accomodasse – sia pure sotto lo scudo della giustizia sociale e cristiana – a un regime politico e sociale eretto contro i lavoratori – sia pur deviati e travolti da ideologie e da metodi di ispirazione anticristiana»73.
Alla luce di questa scelta programmatica si comprende il disagio vissuto dai dossettiani nelle more del dibattito per l’adesione dell’Italia al Patto atlantico. Nel febbraio 1949 Dossetti confidava a De Gasperi la propria sofferenza constatando come «molti amici» non lo comprendessero e si allontanassero da lui quasi ritenendolo «solo un dottrinario»; ma questo disagio non lo esimeva dal contestare ancora una volta al capo del governo la debolezza del confronto interno al partito in merito alle grandi questioni di politica internazionale (che invece erano costantemente oggetto di attente analisi sulle colonne di «Cronache sociali»)74. Nelle discussioni interne al gruppo parlamentare il politico reggiano, facendosi portavoce del sentimento dei compagni di corrente, comunica la sua opposizione all’adesione al Patto così come veniva configurandosi, perché lo giudica sostanzialmente una sottomissione incondizionata dell’Italia agli Stati Uniti. In questo modo, infatti, la penisola veniva a perdere quella centralità mediterranea che le avrebbe potuto consentire di superare la logica della contrapposizione Est-Ovest per dialogare con le mani libere anche con i paesi non allineati. Ma soprattutto l’Italia, all’atto stesso della sua rinascita democratica, si vedeva sottrarre quello che era un elemento qualificante per la solidità di uno Stato, vale a dire la piena autonomia nelle decisioni di politica estera. In qualche modo, in ultima analisi, Dossetti intuiva il riproporsi di quella dinamica di rapporti che l’Italia aveva già sperimentato durante il fascismo tramite il Patto d’acciaio con il III Reich, con tutte le conseguenze nefaste che ne erano derivate. Il politico reggiano non mette in discussione la collocazione occidentale dell’Italia e tantomeno sottovaluta il pericolo sovietico – e infatti nel dicembre 1948 respinge la mozione di sfiducia avanzata da Nenni con l’argomento che dietro il ricorso a parole come «pace» e «neutralità» si celava in realtà «il proposito di operare, con mezzi anche non pacifici, a favore di forze, di aspirazioni, di interessi che finiscono per essere estranei a quelli veri dell’Italia» –, ma obietta la passività dell’Italia nella fase negoziale del trattato; per Dossetti occorreva allora impegnarsi per «trovare una via per dare un impulso sollecito all’unità dell’Europa. Senza esclusione di nessuno che non voglia deliberatamente ostacolare questa unità pacifica e costruttiva»75. Al fondo dell’opzione dossettiana c’era anche la profonda sfiducia verso la capacità degli Stati Uniti di comprendere le dinamiche continentali oltre il mero interesse per una posizione di contrasto dell’egemonia sovietica in Europa orientale. Già nel 1946, nell’ambito di Civitas humana, Dossetti aveva deplorato lo spostarsi dell’asse del cattolicesimo verso l’occidente statunitense:
«provo un certo disagio [aveva detto] nel pensare che la cattolicità americana possa entro breve tempo acquistare sull’intero corpo della Chiesa una influenza proporzionata ai mezzi materiali di cui può disporre e al dinamismo organizzativo di cui può dare prova, ma non altrettanto proporzionata al suo sforzo contemplativo […]; insomma temo un po’ la sua superficialità, il suo ottimismo, l’abitudine stessa a una eccessiva facilità di vita»76.
I dossettiani, alla fine, si uniformeranno alla linea del partito, votando a favore dell’adesione dell’Italia alla Nato77. In favore di questa decisione pesano evidentemente la scelta maggioritaria compiuta in seno alla Dc78, le pressioni vaticane79 e una considerazione lucida e amara di Giuseppe Lazzati, che ricorderà più tardi di aver dovuto letteralmente trascinare in aula Dossetti per le votazioni: «stai attento», aveva detto Lazzati all’amico, «già non siamo capiti e un rifiuto di votare sarebbe per noi la perdita di ogni consenso»80.
Questi precedenti spiegano come le varie anime del partito giungano agguerrite al III Congresso democristiano di Venezia del giugno 1949. In questa sede emerge una forte insofferenza verso la dialettica che i dossettiani stanno conducendo in seno al partito81. Piero Malvestiti, schierato a difesa delle scelte governative, avverte De Gasperi che a Venezia occorreva evitare il rischio «di una troppo forte affermazione dei fanatici dossettiani»82. Nel suo intervento congressuale Dossetti ribadiva una volta di più quello che era il senso ultimo della linea adottata dal suo gruppo, cioè quello di svincolare la Dc da scelte retrive e immobiliste per rivolgersi a quel vastissimo ceto che nelle urne continuava ad affidarsi alle sinistre. Il problema era in definitiva quello di «inserire nella casa dello Stato quella che in un certo senso è la parte più dinamica del popolo italiano»83. A Venezia Dossetti reagiva anche rispetto a coloro che ormai da tempo censuravano le discussioni all’interno della Direzione o del Consiglio nazionale come espressioni di un correntismo malato e chiariva che le sue proposte, come quelle dei suoi compagni, rappresentavano semplicemente stimoli per migliorare l’azione del partito. La secca reazione di De Gasperi, che com’è noto invitava i dossettiani a «mettersi alla stanga» e a dare un contributo fattivo all’azione del partito, era espressiva non solo dell’esasperazione personale del leader trentino, ma anche di un sentimento sempre più diffuso all’interno della Direzione democristiana, che appunto guardava agli uomini della minoranza dossettiana come a soggetti che mancavano di concretezza, dediti a inseguire astratte utopie con cui affardellavano il già difficile lavoro governativo84.
La realtà era ovviamente più complessa di quanto non fosse emerso in pubblico o di quanto i corifei della maggioranza degasperiana non sapessero o volessero cogliere: da un lato De Gasperi – colui che aveva rivendicato la guida di un partito di centro che guardava a sinistra – si sentiva effettivamente incalzato dai dossettiani sul merito di molte questioni da essi poste ormai da tempo e tutt’altro che estemporanee, soprattutto sul versante economico (basti pensare alle loro interpellanze circa la gestione dei fondi dell’European Recovery Program, che l’esecutivo, anziché destinare esclusivamente alla ricostruzione, aveva impiegato anche per ricostituire le riserve valutarie). D’altro canto il capo del governo aveva compiuto per la Dc una scelta politica di posizionamento opposta a quella prospettata dai dossettiani subito dopo il 18 aprile 1948, puntando su una collaborazione paritaria con i partiti laici, che vincolava il governo a delicati equilibri, rendendo praticamente irricevibili le perorazioni dossettiane. Anche sul versante ecclesiastico l’attitudine degli uomini prossimi a Dossetti, che sulla scorta della lezione maritainiana continuavano a porre la questione di una distinzione di competenze e di autorità tra laicato e gerarchia in ordine alle questioni politiche e sociali, era diventata causa di tensioni sempre più forti con la maggioranza degasperiana. La pubblicazione, nel luglio 1949, della scomunica del Sant’Uffizio per i membri o fiancheggiatori dei partiti di ispirazione marxista non toccava evidentemente la Dc, ma rappresentava anche una risposta indiretta a tutti coloro che intendevano marginalizzare la posizione della Chiesa rispetto al dibattito politico85: era peraltro significativa la scelta maturata pochi mesi prima dalla redazione di «Cronache sociali» di non dare alle stampe, dopo averlo ripetutamente annunciato, il quaderno monografico dedicato a Religione e Politica, Gerarchia e Partito: sarà il giurista cattolico Costantino Mortati (1891-1985), fiancheggiatore di Dossetti nei lavori dell’Assemblea costituente, a rivelare più tardi che il politico reggiano aveva deciso di realizzare questo numero speciale «proprio allo scopo di distinguere l’azione politica da quella religiosa. Anch’io» [proseguiva Mortati] «fui invitato a fare un articolo. Proprio in quei giorni però ci fu un discorso di un’altissima autorità ecclesiastica, che negava ogni preclusione per l’azione cattolica a scendere in campo politico. Il numero speciale di “Cronache Sociali” non uscì»86. De Gasperi, che pure non poteva vantare rapporti scorrevoli con le gerarchie vaticane, condivide con i dossettiani l’idea della necessità di una piena autonomia politica del laicato cattolico, ma preferisce ricercarla in una prudente prassi quotidiana, senza elevarla a manifesto identitario: «Ma ti rendi conto che alla fine a decidere delle elezioni sono i parroci?», dirà il capo del governo a Lazzati87.
Il dopo-Venezia rappresenta la fase più critica per il gruppo dossettiano, anche se Dossetti esce dal Congresso particolarmente motivato. In alcuni appunti privati scriverà infatti che rispetto all’anno precedente l’indirizzo del suo impegno politico era finalmente messo a fuoco ed era rivolto a far
«lievitare e consolidare l’anelito rinnovatore che anima tanti giovani e inscindibilmente tanti lavoratori. […] ora sembra che il partito si possa, alla base sovrattutto, evolvere in maniera decisa, se pure con forti ostacoli e vive resistenze. La stessa situazione politica ed economica generale e di governo sembra assai meno stabilizzata di quanto non apparisse sei mesi fa. Sono possibili sviluppi imprevisti».
Il politico reggiano richiamava anche le iniziative politiche fondamentali alle quali intendeva dedicarsi, che includevano «una legge di controllo dei monopoli», il «coordinamento delle industrie», il «controllo degli interventi stranieri» e la «coordinazione della industria metalmeccanica». Ma di fatto gli esponenti della corrente dossettiana in questa fase – quella che nel giudizio dossettiano era appunto decisiva per «impostare i programmi esecutivi delle cose da fare prima delle nuove elezioni generali», altrimenti sarebbe stato «troppo tardi»88 – verranno fortemente marginalizzati. In Vaticano si paventa un indebolimento del partito a causa di queste divisioni interne ed è Montini a farsi promettere da Fanfani e Dossetti – coi quali però conviene sugli errori della Direzione – la cessazione delle ostilità verso De Gasperi89. Il leader trentino in alcuni appunti personali rivela dal canto suo le difficoltà causategli dalla minoranza dossettiana, che evidentemente deve essere ben più incisiva di quanto i suoi critici non lascino intendere: le difficoltà del partito venivano perciò ricondotte da De Gasperi «nella mentalità dossettiana, munita di allucinazioni e presunte divinazioni suggestive, oltre che di un calore di sentimento e di un’abilità di espressione e di manovra non comune, di fronte alla quale mancano nella direzione del partito e nei Gruppi uomini forti e altrettanto suggestivi»90. Agli attacchi provenienti dall’interno del partito si assommano quelli dei comunisti, che mostrano una crescente intolleranza verso gli ‘sconfinamenti’ dossettiani in tema di riforme economiche e sociali91. Le difficoltà attraversate da De Gasperi, che si possono riassumere nel rapido esaurimento della spinta propulsiva delle elezioni del 1948, lo inducono così a tentare una mediazione in nome dell’unità del partito e nell’aprile 1950 inizia la seconda breve vicesegreteria di Dossetti, che sarà caratterizzata da una forte spinta riformista92.
Le tensioni dei mesi precedenti avevano segnato anche gli equilibri interni al gruppo dossettiano, sancendo una forte divaricazione tra Dossetti e Lazzati da un lato e Fanfani dall’altro. Il deputato toscano, di fronte al montare dell’ostilità interna alla Dc, è sempre più perplesso rispetto alla strategia seguita insieme ai suoi amici sino a questo momento e matura una prospettiva politica differente: a suo modo di vedere diventava urgente iniziare a lavorare per la successione a De Gasperi, più che produrre un’immediata alternativa, magari anche al costo di un sofferto compromesso con il resto del partito. Significativamente nel novembre 1950, dopo essere stato ripreso da Dossetti e Lazzati per la difformità mostrata rispetto alla linea politica concordata in precedenza, Fanfani replicherà piccato che l’azione del gruppo dossettiano non poteva «identificarsi con quella dei fustigatori. Sapete quanto mi piacerebbe; ma è un errore che così si faccia. Già abbastanza ci reclamizzano come ossessionati “domenicani”, per esserlo davvero. Anche questo volevo dirvi. E se poi vi consumaste meno nelle operazioni quotidiane e rifletteste di più, forse trovereste la strada, che anch’io cerco di trovare, quella in cui ci siamo incontrati nel 1941»93. Dossetti tradiva un crescente nervosismo e in alcuni appunti privati aveva scritto poche settimane prima di voler essere, dal punto di vista politico, «prudente e paziente nelle attese e nei molti disappunti e contrasti»; ribadiva di concepire il proprio ruolo politico «non ridotto a un piccolo giuoco personale o di partito, ma veramente ed efficacemente operante per la costituzione di nuove strutture sociali e politiche e di un nuovo metodo e costume di azione politica»94. De Gasperi, in ogni caso, procede a un’apertura estremamente prudente verso i dossettiani, mostrando di essere informato sulle dinamiche interne del gruppo, decisamente più eterogeneo di quanto le pittoresche cronache sulla vita della «comunità del porcellino» non riescano a cogliere95. E se si mostra disponibile con Fanfani e La Pira è decisamente più respingente rispetto a Dossetti e Lazzati. È significativo – e indicativo delle reali intenzioni della maggioranza del partito – quanto Dossetti scriverà a un amico di Reggio Emilia ancora nel gennaio 1950, pochi mesi prima della sua nomina alla Direzione: «De Gasperi non ha dato nessun segno di volere dare seguito, almeno nei miei confronti personali, ai suoi accenni di Venezia. – Forse vorrebbe darmi qualche cosa. Ma non sa nemmeno lui. Comunque in Consiglio dei Ministri non mi vuole»96.
Queste condizioni ambientali non impediscono ai dossettiani di ottenere, in questo che sarà l’ultimo scorcio della loro attività sotto la guida di Dossetti, una serie di importanti misure legislative di riforma strutturale, come la legge di riforma agraria per la Sila, l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno e la legge di perequazione tributaria. Si trattava in realtà di progetti avviati da tempo, che nella loro formulazione finale non assecondavano in tutto le aspettative del gruppo dossettiano, ma che grazie a quest’ultimo erano stati finalmente levati dal binario morto in cui erano stati posti per la consapevolezza che la loro approvazione avrebbe disturbato equilibri di potere locale e interessi economici consolidati97. Per i dossettiani di tratta di un successo duplice: sia nel merito dei problemi affrontati, sia per il metodo con cui il partito, premendo sul governo, finalmente aveva assunto una forte iniziativa politica. Dossetti è persuaso che questo sia solo l’inizio della svolta e nell’autunno 1950, in un memorandum destinato alla direzione del partito, esternerà la convinzione che nella Dc si andasse
«diffondendo il convincimento che se certe richieste da tempo avanzate [in merito alla politica economica] sono ancora una pura espressione verbale e rischiano di diventare un mito, ciò avviene non perché esse non possano trovare pratico accoglimento, ma perché non potranno mai essere soddisfatte con certi indirizzi, con certi metodi ed eventualmente da certe persone, che – nonostante tutte le buone intenzioni e i ripetuti affidamenti – non sanno cambiare indirizzo e metodo»98.
La Dc, nella concezione del leader reggiano, poteva finalmente diventare «un partito capace non soltanto di propagandare, ma di fare, cioè di compiere tutta una serie di interventi nelle strutture economiche e sociali, preparatori o integrativi della attività propria dello Stato e degli enti pubblici»99.
Ma nei mesi immediatamente successivi a quello che lo stesso politico reggiano definirà di qui a poco l’«apice» della penetrazione della sua azione nella Dc inizierà il rapido declino della corrente dossettiana100. I fattori sono vari e concomitanti: l’irrigidimento del contesto internazionale determinato dallo scoppio della guerra di Corea; le resistenze del grande capitale a consentire un’ulteriore accentuazione del profilo riformista dell’esecutivo; le pressioni vaticane sui maggiorenti del partito per un ricompattamento delle varie correnti (è Pio XII in persona a rivolgere un invito-monito a Fanfani e La Pira a superare le contrapposizioni con gli altri democristiani in nome della coesione dell’azione della Dc)101; la posizione di minoranza di Dossetti rispetto alla decisione della Direzione di appoggiarsi in Sicilia a missini e monarchici in vista delle amministrative del maggio 1951; ma anche l’invincibile difficoltà a farsi ascoltare senza suscitare una pregiudiziale ostilità nella maggioranza del partito102. Persino lo scelbiano Oscar Luigi Scalfaro, nel luglio 1951, si lamenterà con De Gasperi di come ormai «ogni critica, per serena che sia, venga conglobata nell’accusa di dossettismo»; «il sapere domani», aggiungeva Scalfaro, «che una soluzione, pur ritenuta serena e oggettivamente possibile, fosse stata esclusa “per non darla vinta a Dossetti”, ci farebbe male e ci costringerebbe a gravi considerazioni e gravi conclusioni»103.
Il segnale più evidente della irreversibilità della crisi è il lungo articolo uscito anonimo su «Cronache sociali» con cui Dossetti, svolgendo un’analisi dei più recenti avvenimenti elettorali, contestava di fatto la linea politica seguita da De Gasperi nell’ultimo triennio; una linea che, a suo modo di vedere, privilegiando sistematicamente le logiche di coalizione e dando più spazio del dovuto e del lecito ad autorità esterne al mondo politico, aveva depotenziato le capacità della Dc, esponendola tra l’altro al pericolo del clerico-moderatismo. Nell’indicazione di quello che avrebbe dovuto essere il compito del partito all’indomani del 18 aprile emergeva quindi nel modo più vivido la deplorazione dossettiana per le occasioni perdute: certamente le sfide di quella congiuntura erano formidabili («c’era da arrestare e da ripercorrere il cammino della disgregazione sociale, del deperimento economico, della decomposizione amministrativa, ormai spinte – dopo il fascismo – a un limite di decadenza nazionale, da cui certo nel 1920 si era rimasti, nonostante tutto, ancora ben lontani») e per farvi fronte sarebbe stata necessaria non
«una pluralità qualsiasi di forze eterogenee, ma […] una forza omogenea, dotata di un suo nerbo spirituale, di un suo programma definitivo, di una sua salda ossatura organizzativa, di una sua imponenza quantitativa. Solo la Democrazia Cristiana si è trovata nella possibilità e nella responsabilità di riunire tutti questi elementi e pertanto di essere non semplicemente – come era il Partito Popolare – un Partito in uno Stato già dato, ma ben più, cioè l’unico strumento per la costruzione di un nuovo Stato – non più semidemocratico e semioligarchico, ma schiettamente democratico – da dare agli italiani».
Depotenziare ulteriormente l’azione della Dc, come secondo Dossetti era stato fatto sino a quel momento, e puntare sul «polipartito» avrebbe implicato allora un aggravamento della crisi della società e dello Stato104. La recrudescenza dello scontro tra Dossetti da una parte e De Gasperi, Pella e Gonella dall’altra incide fatalmente sulla compattezza del gruppo dossettiano. La decisione di Fanfani di entrare nel VII esecutivo di De Gasperi – una possibilità offerta anche a Dossetti, che però declina l’invito, consapevole com’è che si tratta semplicemente di un espediente per estrometterlo dalla Direzione del partito105 – è il segnale più evidente della definitiva divaricazione dei percorsi degli uomini che avevano condiviso le discussioni di casa Padovani. Dossetti lo sancirà nel modo più aperto nella prima riunione di Rossena: «Bisogna però chiarire che [noi e Fanfani] non siamo più la stessa cosa, che abbiamo funzioni diverse: che la solidarietà nel quadrilatero Fanfani-La Pira e Dossetti-Lazzati non è più univoca, non ha più un unico obiettivo, restando semmai analogica»106. Dossetti aveva peraltro già marcato il proprio allontanamento rassegnando nell’aprile precedente, con l’appoggio di Lazzati e contrastato da La Pira, le dimissioni dalla vicesegreteria della Dc; poco prima c’erano anche state le dimissioni di Giuseppe Glisenti dalla direzione di «Cronache sociali», segnale anticipatore dell’imminente chiusura del quindicinale dossettiano; di qui a poco La Pira lascerà il Parlamento per andare a Firenze come sindaco.
La crisi finale del dossettismo rappresenta l’occasione per una approfondita verifica del cammino da esso compiuto e per una messa a fuoco dei suoi nuclei portanti. È Dossetti a farsi carico di questo onere con alcuni interventi tenuti nel corso del 1951, che costituiscono anzitutto il tentativo di dare una risposta a coloro che negli anni precedenti si erano identificati con le battaglie e le parole d’ordine della corrente a lui legata e che ora vivevano comprensibilmente un dramma di fronte al suo congedo politico. Le due riunioni di Rossena (4-5 agosto e 30 agosto-2 settembre 1951) non sono dunque il luogo in cui Dossetti matura la decisione del ritiro, a cui era di fatto giunto in un arco di tempo più esteso107, bensì, più semplicemente, l’occasione per comunicare questa decisione e per riflettere in un ambito comunitario su ciò che era stato e su ciò che si preparava. Gli appunti dei partecipanti rivelano un Dossetti impietoso nel censire gli errori – e le ingenuità – della sua corrente, al punto di arrivare a definire il dossettismo «un composito eterogeneo sostanzialmente e non accidentalmente equivoco». C’era stato in definitiva un vizio originario nel dossettismo, dettato anche dall’entusiasmo della nuova generazione di cattolici che si era gettata nella ricostruzione postbellica pensando che per dar vita a una nuova società
«bastasse continuare nel filone spirituale nato col dramma bellico e insurrezionale. Soprattutto si sperò in un’apertura verso sinistra, speranza questa dovuta alla collaborazione di quel periodo, alle nuove letture e alle nuove notizie che si diffondevano. Si riteneva in sostanza che esistessero già tutte le premesse per un rinnovamento; tale modo di vedere le cose peccò indubbiamente di ottimismo e crollò quando ci si accorse che i vecchi sistemi non potevano dar luogo a un loro rinnovamento autonomo»108.
C’era dunque al fondo una struttura del sistema politico e sociale che non era possibile emendare attraverso l’opera di una corrente della Dc per forte, preparata e determinata che fosse; una struttura che, come era già avvenuto nel 1919, paventava più di tutto un’affermazione delle sinistre e che si era attrezzata, economicamente e culturalmente, per impedire questa eventualità. In questo senso il dossettismo non aveva avuto spazio e non avrebbe avuto alcun futuro al più alto livello decisionale – né nel breve né nel lungo periodo – perché essenzialmente percepito come un fattore di indebolimento di questo blocco anticomunista; tutt’al più, affermava Dossetti, lo si sarebbe tollerato nei livelli decisionali più bassi e periferici, perché, coagulando soprattutto il consenso dei settori giovanili del partito, sarebbe stato paradossalmente un elemento di rafforzamento di questo blocco economico-sociale che si imperniava sulla Dc: «in nome di La Pira e di Dossetti», osservava con piena consapevolezza il deputato reggiano, «il capitalismo può trarre l’amo. Finora noi abbiamo servito come il lombrico per l’amo dei capitalisti. Per questo ci vogliono nella campagna elettorale»109. Lo stesso De Gasperi, alla fin fine, era nella prospettiva dossettiana più una vittima che l’artefice di questa situazione e in parte pativa il vero e proprio blocco mentale che affliggeva la gran parte degli ex popolari: uomini
«lontani dalla società che si muoveva: erano ben desti verso il rischio comunista, ma non altrettanto sensibili di fronte alla pericolosità d’una destra che cresceva, che aveva forti agganci nel mondo cattolico, che voleva coinvolgere la Democrazia Cristiana, anzi farla protagonista d’uno scontro frontale fino allo show-down che avrebbe spezzato il rapporto con quel mondo laico, vecchio anch’esso ma bene ancorato nella difesa democratica»110.
La fine dell’esperienza dossettiana, in questo senso, finiva per indebolire la leadership di De Gasperi, che avrebbe dovuto, in una condizione di crescente solitudine e privo della dialettica, aspra ma leale, condotta dagli uomini riunitisi attorno a Dossetti, guidare un partito che pativa questa deriva destrorsa. La Dc si incamminava insomma nella direzione per diventare il partito-Stato, il cui unico compito era garantire l’intangibilità degli equilibri interni e internazionali determinati dal voto del 18 aprile 1948: un simile partito non avrebbe più avuto bisogno di leader con una propria visione del futuro del paese né di mediatori, ma semplicemente di garanti e il primo a trovarsi esposto al rischio di una estromissione era proprio De Gasperi, che pure, come riconoscerà molti anni dopo Lazzati, «in realtà poi aveva una sua linea a cui credeva; era una linea più o meno attuabile, però ce l’aveva»111. Era per questo che Dossetti aveva detto, nell’imminenza degli incontri di Rossena, a un giovane e sbalordito Mariano Rumor (1915-1990) che occorreva stare accanto a De Gasperi, il quale percepiva che «l’immobilità alla lunga non paga. Per questo non bisogna lasciarlo solo»112. E sarà proprio Dossetti, in una lettera indirizzata a De Gasperi alcuni mesi più tardi, a riconoscere l’onestà degli sforzi del leader trentino e la persistenza di alcuni limiti invincibili che impedivano una reale incisività della sua azione politica: «che non sono limiti delle persone, ma delle ideologie, delle strutture e di un intero sistema. È da questo e non da quelle, che io mi sono allontanato e mi allontano sempre più»113.
I nodi da sciogliere erano dunque nell’ottica di Dossetti tutti a monte della contingenza politica (e questo spiegava il tono tutto sommato lieve riservato all’analisi delle scelte politiche di Fanfani, da molti dossettiani prontamente etichettato come un opportunista) ed erano precisamente – e si tornava alle origini dell’impegno politico dossettiano – di natura culturale. Il dossettismo dunque si concludeva non per una scelta di «aventinismo morale»114, o per il sopravvento delle altre correnti democristiane, che comunque erano state costantemente rintuzzate, ma perché per il deputato reggiano diventava indispensabile operare su un altro livello prima di poter avere alcun margine per incidere sulla realtà politica e sociale. «Se c’è un temperamento ipervolontarista, che rifiuta il fato della storia, questo sono io», dirà ai convenuti a Rossena. «Non bisogna perciò pensare al contraccolpo degli eventi: noi non pensiamo ad abdicare… è necessario un giro più lungo: è necessario un volontarismo integrale»115. Da questa analisi dissentiva immediatamente Gianni Baget Bozzo (1925-2009), collaboratore di «Cronache sociali», che dava invece una lettura del fallimento dossettiano – ipotizzandone il rilancio – tutta in chiave correntistica: il dossettismo aveva sbagliato nel presentarsi come una «chiesa militante e chiusa»; una simile «forma strategica è fallita perché non ha polarizzato le masse che avrebbe potuto polarizzare. Bisogna passare sul piano strategico dalla forma a falange al fronte allargato. Una forza così può farsi sentire da De Gasperi. Il dossettismo era un’ideologia. La nuova corrente può esser fondata solo su problemi concreti con atteggiamento social-cristiano»116. Una ricomposizione tra questa prospettiva e quella esposta da Dossetti, che insisteva sull’urgenza di un’attività prepolitica, diventava evidentemente impraticabile e sarà estremamente rapido il riposizionamento politico di Baget Bozzo117. Il politico reggiano affermava infatti che se il «volontarismo» non era inserito in una coscienza esatta della situazione storica diventava «sterile». Con alcuni amici milanesi ribadirà nello stesso torno di settimane che i cattolici italiani dovevano compiere un radicale processo di maturazione:
«Noi vogliamo il progresso sociale e intendiamo la nostra ansia sociale nel senso di ottenere un certo progresso nella distribuzione dei beni della terra, nel vedere la gente meglio retribuita, vedere eliminate certe ingiustizie nei rapporti di lavoro; e tutto questo sta bene, però, se la nostra capacità di diagnosi politica sta tutta qui, noi allora possiamo essere facilmente portati ad equivocare un certo desiderio di beneficienza o di progresso sociale con il contenuto del problema politico fondamentale»118.
Le dimissioni di Dossetti pongono un problema concreto a tutti coloro che ne avevano condiviso le idee e desideravano comunque proseguire il loro impegno politico sull’onda della medesima ispirazione: le riunioni di Rossena sono in questo senso anche l’occasione per iniziare a immaginare che profilo e che margini poteva avere il dossettismo senza Dossetti. La prima risposta spontanea da parte di molti è quella di strutturare una corrente e anche Fanfani, che a Rossena non era intervenuto, si renderà conto molto presto che il capitale politico lasciato dal leader reggiano era troppo prezioso perché andasse dissipato e si affretterà a dire che «non c’è distinzione di impostazione tra lui e Dossetti»119. In molti, che leggono l’epilogo dell’esperienza politica dossettiana come il risultato dell’affermazione di una dimensione conservativa della Democrazia cristiana prevalgono naturalmente l’irritazione e lo sconforto. È significativa la reazione a caldo del giovane Francesco Cossiga (1928-2010), attivissimo dossettiano tra i cosiddetti ‘giovani turchi’ democristiani di Sassari, che in una lettera al presidente della Fuci rivendicava la propria ‘eterodossia’ politica e di non credere al «“volemose bene”, all’interclassismo, al superclassismo, all’intraclassismo, alla politica di centro e a tante altre belle formulette dell’amico Gonella! Ma perché [si chiedeva Cossiga] non diciamo sinceramente che la nostra formula politica è quella classica della borghesia liberale italiana e che la politica nostra è un sapiente adattamento del trasformismo giolittiano ai palati cattolici e alle esigenze del mondo contemporaneo? E ringraziamo di aver De Gasperi: almeno questo ci salva»120. Ma anche ciò che scrive don Lorenzo Milani, già abbonato a «Cronache sociali», nell’estate 1952 a Gian Paolo Meucci è significativo delle aspettative che l’azione dossettiana aveva acceso in tanti settori del cattolicesimo italiano. In questa lettera il sacerdote toscano accusava infatti l’amico, che era venuto a parlare ai suoi ragazzi, di averli privati della speranza: «di Fanfani», aveva lamentato don Milani,
«[hai insinuato il] conformismo. Di La Pira paternalismo. Dell’ACI merda. Di Pio XII merda. Di De Gasperi Merda. Di Adesso [di don Mazzolari] merda. Di Dossetti disperazione. Oppure no forse qualcosa di peggio. Di Dossetti stima illimitata. Ma in questa stima per l’uomo, che s’è trovato solo nel deserto quasi un invito anche a me a dire siamo soli»121.
Davvero la reazione di Milani era espressiva di come il dossettismo fosse stato percepito e accolto anche come un dinamismo che poteva favorire, agli occhi rapidamente disincantati di chi ne aveva appurato rapidamente i limiti, una «redimibilità» della Democrazia cristiana – dei suoi obiettivi, dei suoi metodi, dei suoi uomini – in favore dell’edificazione di uno Stato realmente ispirato in senso cristiano122. Significativa anche la lettera che il fondatore di Nomadelfia, don Zeno Saltini (1900-1981), aveva inviato a Dossetti nel maggio 1948, angosciato per la massa di voti che l’Emilia aveva riversato sul Pci:
«Queste masse comuniste [gli aveva scritto Saltini] che con tanta insistenza stanno aggrappate al loro mito, sono veramente ignoranti, vendicative, atee, oppure serpeggia ne l’intimo del loro spirito un sogno reale di radicale riforma della concezione sociale degli uomini? Il programma della Democrazia Cristiana le può allettare, qualora fosse realizzato fino in fondo, oppure esse cercano qualcosa di profondamente diverso? […]. Questi otto milioni di voti, questa massa compatta di stranieri, di veri nemici, di irriducibili sabotatori che la Democrazia Italiana ha dovuto incassare come un cancro, […] questi otto milioni di fratelli, […] non possono minacciare di diventare, sotto la pressione della sconfitta un branco di idealisti, pressati alla più sistematica scristianizzazione? […]. Tra Lei e me, nell’Emilia, proprio nell’Emilia, che ci sia nulla da studiare insieme?»123.
Quello che in ogni caso diventa sempre più evidente col trascorrere del tempo è che se la vicenda del dossettismo era davvero conclusa da un punto di vista storico (tanto più dopo l’esperienza amministrativa di Dossetti a Bologna, che si era chiusa nel 1958 con la decisione di chiedere l’ordinazione sacerdotale124), la sua interpretazione era destinata a rimanere una questione aperta: soprattutto non sarebbe stata oggetto di riflessione solo per gli storici delle vicende dell’Italia repubblicana, ma avrebbe investito anche il piano politico ed ecclesiale, conseguentemente a una crescente dilatazione dell’impegno di Dossetti nella stagione conciliare e postconciliare. Questo perché gli elementi che avevano caratterizzato l’esperienza del dossettismo – che l’antica collaboratrice Marcella Ceccacci riassumerà nel tentativo di impedire una cristallizzazione conservatrice della Dc, nella ricerca di una integrazione tra azione culturale e azione politica e nel tentativo di ricalibrare il rapporto tra laicato e gerarchia ecclesiastica125 – restavano evidentemente di stringente attualità, ancorché venissero tenuti al margine dall’agenda politica. La gerarchia episcopale italiana, che aveva palesato in più occasioni la sua ostilità rispetto alle rivendicazioni di autonomia del laicato cattolico, aveva ritenuto di individuare nel pensiero di Jacques Maritain (1882-1973) il responsabile originario di questa che veniva descritta come una vera e propria deviazione del retto agire cattolico: un pensiero che era stato particolarmente valorizzato dai dossettiani – nonché da Giovanni Battista Montini (1897-1978), già colpito duramente nel 1954 con l’estromissione dalla Segreteria di Stato – che erano stati tra i più acerrimi oppositori delle ingerenze ecclesiastiche nella vita politica italiana126. Nel dicembre 1958 – lo stesso anno in cui si era stati vicinissimi a una condanna dell’opera di Maritain da parte del Sant’Uffizio –, nell’ambito di una discussione interna alla Conferenza episcopale italiana, era esattamente questo corto circuito interpretativo a far indicare a monsignor Pietro Parente nel «dossettismo» inteso come agente di propaganda delle idee di Maritain in Italia uno dei fattori che spiegavano la crisi che affliggeva l’Azione cattolica, a suo modo di vedere sempre meno rispettosa delle direttive della gerarchia. A queste parole aveva immediatamente reagito il cardinale Giacomo Lercaro (1891-1976), con il quale Dossetti aveva intrecciato un rapporto fondamentale negli anni del suo impegno culturale ed ecclesiale bolognese127, testimoniando di «non aver mai trovato, né nei sacerdoti né nei laici, una dedizione così completa, totale ai voleri del Vescovo, come in Dossetti», ottenendo l’immediata marcia indietro di Parente128. Non si trattava di un caso isolato. Il dibattito politico che si accende tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta circa una possibile apertura a sinistra – un’ipotesi rispetto alla quale la gerarchia ecclesiastica si opporrà sino alla fine con ogni mezzo subendo di fatto la sua prima grande sconfitta politica ‘repubblicana’ – vede infatti coinvolti in prima linea molti di coloro che avevano condiviso l’esperienza politica dossettiana. Non stupisce perciò che Charles Journet (1891-1975) scrivesse nel 1960 all’amico Maritain che il «nemico» dell’episcopato italiano fosse «il dossettismo», inteso in questo caso come uno «spostamento a sinistra» dell’asse politico costruito su un’alleanza tra la Dc e il Partito socialista129.
Comincia così a radicarsi una tendenza interpretativa, in cui è sempre più marcato un processo di alimentazione reciproca tra storiografia e analisi (o polemica) politica, che stabilirà una contiguità, quando non una affinità concettuale, tra il dossettismo e il pensiero marxista, spingendosi in alcuni casi a stabilire una piena equivalenza se non una diretta filiazione tra il pensiero dossettiano e il cattocomunismo. In questa linea ermeneutica confluiscono e si sintetizzano differenti impulsi: da un lato c’è indubbiamente la dimensione della diuturna diffidenza ecclesiastica verso l’attitudine politica di quella corrente democristiana che aveva connotato la propria azione politica insistendo sulla necessità di una autonomia dell’azione politica rispetto all’appartenenza confessionale: un’attitudine che certamente andava censurata – così come erano stati duramente colpiti i cattolici-comunisti o gli esponenti della sinistra cristiana130 – se si voleva evitare che assurgesse a modello per altre persone e circostanze. Anche il lavoro all’Assemblea costituente, svolto gomito a gomito con i più autorevoli esponenti del Pci, concorreva a radicare l’idea di una prossimità dei dossettiani al comunismo. Il cantiere costituente assurgeva così per alcuni a crogiuolo in cui la corrente dossettiana, che si asseriva subisse la fascinazione della presa del comunismo sulle masse, si era intrecciata con l’ideologia marxista generando un testo costituzionale ibrido e inservibile. Così è proprio ai dossettiani che viene addebitata la responsabilità della debolezza della Carta del 1948: un testo che, si asseriva, nella sua prima parte affastellava una sequenza di enunciazioni di principio in linea con la migliore tradizione dell’utopismo comunista – e in linea con la Costituzione sovietica del 1936 alla quale La Pira aveva più volte fatto cenno – e nella seconda parte prevedeva una struttura dello Stato destinata ad autoparalizzarsi131. È interessante rimarcare la celerità con cui si era insinuata, a livello ecclesiale, questa idea dell’arrendevolezza dossettiana rispetto al comunismo: già nel luglio 1945, quando ancora Giuseppe Dossetti era pressoché sconosciuto sul piano nazionale, il vescovo di Reggio Emilia si era indirizzato a monsignor Montini per comunicargli il timore che il «coltissimo e buonissimo» Giuseppe Dossetti, che era stato «lungamente e intimamente a contatto con la intellettualità Comunista nelle formazioni Partigiane», avesse pericolosamente mutuato da quest’ultima i metodi di propaganda, dando così vita a una «Organizzazione Giovanile Italiana» rispetto alla quale aveva singolarmente creduto suo «dovere presentare ai giovani un invito così reticente di tutto quanto è religione, contando di indurli alla professione piena della fede cristiana»132. Nell’idea del dossettismo come realtà prossima al comunismo c’è infine da considerare una dimensione ‘atlantica’: nel senso che le riserve espresse in modo particolare da Dossetti nel dibattito sull’adesione dell’Italia alla Nato hanno in qualche modo confermato nei loro sospetti coloro che intravedevano una vicinanza tra le posizioni del leader politico reggiano e i comunisti, che nondimeno si erano opposti all’Alleanza atlantica sulla base di ben altre argomentazioni.
Non v’è dubbio che, da questo punto di vista, la riflessione sul dossettismo, tanto a livello storiografico quanto sul piano più squisitamente politico, abbia patito a lungo della congiuntura in cui essa si svolgeva: la divisione in blocchi geo-ideologici impediva di uscire da una lettura mitologica della realtà, per cui, come ricorderà proprio Dossetti nel 1993, diventava impossibile «fare un discorso più fine, che cercasse di distinguere senza cadere nell’una o nell’altra teoria, nell’una o nell’altra dottrina, o nell’apparenza di aderire all’una o all’altra. Non mi interessa», aggiungeva significativamente l’ex deputato democristiano, «ma quante volte sono stato accusato di filocomunismo! Cosa che è diametralmente opposta al mio spirito, e lo è sempre stata: però l’accusa c’è stata»133. Neppure le ampie riserve espresse dal mondo comunista sono valse a riequilibrare il giudizio verso l’esperienza politica dossettiana. Nilde Jotti (1920-1999), che poteva vantare una conoscenza tutt’altro che banale dell’esponente democristiano, testimonierà che Dossetti era certamente «sentito come un interlocutore privilegiato ma insieme come un pericoloso avversario. L’integralismo dossettiano era per noi inaccettabile», proseguiva Jotti, «essendo appunto parallelo ma alternativo rispetto al nostro»134. Lo stesso Lazzati ribadirà molti anni dopo la conclusione della sua esperienza politica che nessun membro del gruppo dossettiano
«nutriva illusioni sulla riformabilità del comunismo, ma non potevamo non constatare che al partito comunista facevano riferimento rilevanti masse popolari che legittimamente invocavano una politica ispirata a coraggiosa società: compito nostro voleva essere appunto quello di mostrarci non meno sensibili e capaci di rappresentare tali istanze di diffusa elevazione sociale. L’intento era, dunque, audacemente riformista: forse per questo, a noi, i detentori del grande capitale guardavano con diffidenza o addirittura con irrisione e, comunque, non ci avrebbero mai dato quattrini»135.
Sono le radicali evoluzioni intervenute nel quadro politico nel quinquennio 1989-1994, che includono la fine dell’unità politica dei cattolici nella Dc, a determinare una riaccensione di interesse intorno alla figura e all’opera di Dossetti da parte degli eredi del Partito comunista. In un contesto politico radicalmente mutato, in cui diventa ‘lecito’ per i cattolici collocarsi a sinistra, l’esperienza dossettiana – rievocata essenzialmente nella sua attenzione ai temi sociali – veniva reinterpretata come prodromica rispetto a ciò che era accaduto con la nascita della ‘Seconda’ Repubblica e la contestuale confluenza di ex comunisti ed ex democristiani nell’unico cartello elettorale dell’Ulivo: una vera e propria rivincita del dossettismo. Ma si trattava di un’idea che si fondava ancora una volta su una lettura mitologica dei rapporti intercorsi tra i dossettiani e il Pci, ancorché fossero evidenti un interesse e una preoccupazione da parte di Dossetti per la deriva che stava investendo la politica italiana all’inizio degli anni Novanta136. È soprattutto l’impegno diretto di Dossetti nei Comitati per la difesa della Costituzione, attivati dopo la vittoria del polo di centrodestra impiantato da Silvio Berlusconi, a determinare un vero e proprio innesto della figura e della memoria di Dossetti nell’area politica del centrosinistra, che intuisce sia la rilevanza simbolica dell’opera politica e culturale svolta dall’ex vicesegretario della Dc, sia la sua capacità di simbolizzare la determinazione, anche contro le forti pressioni ecclesiastiche in senso contrario, a favorire una collaborazione fattiva tra i cattolici e gli eredi del Pci. Massimo D’Alema, segretario del Partito democratico della sinistra, incontra segretamente Dossetti nell’ottobre 1996 e il resoconto che ne produrrà ex post sarà appunto tutto rivolto a marcare gli elementi di sintonia tra il pensiero del fondatore della Piccola famiglia dell’Annunziata e l’esperienza politica del neonato Ulivo e viceversa a sottacere la ragione principale per cui era avvenuto l’incontro: vale a dire la messa in guardia del leader diessino dalle offerte di dialogo avanzate da Silvio Berlusconi in una fase di grave difficoltà politica137. Anche Walter Veltroni, successore di D’Alema alla guida del partito – dal 1998 i Democratici di sinistra –, intravede la necessità di inserire in modo ancora più marcato la figura di Dossetti nel pantheon del nuovo partito, cosa che realizzerà con una simbolica visita alla sua tomba a pochi giorni dall’assunzione della segreteria138.
La Democrazia cristiana ha invece evidenziato, sino al momento della propria estinzione, una insuperabile difficoltà a metabolizzare il senso dell’esperienza dossettiana139. Se ne era avuta dimostrazione già nel corso del X Congresso del partito svoltosi a Milano nel novembre 1967. In questa sede c’era chi, polemicamente, riprendeva l’immagine dell’«integralismo» dossettiano e chi invece operava una distinzione tanto sottile quanto inconsistente tra Dossetti e il dossettismo: il primo incarnava «il pensiero eroico della D.C.» e meritava «studio e ammirazione»; il secondo rappresentava «la degenerazione di quella fede prisca, e dove i seguaci, specie i giovani, si mostravano, più che del verbo intellettuale, entusiasti del posto remunerativo». Flaminio Piccoli (1915-2000), come aveva già fatto e farà più volte Giulio Andreotti, esauriva la quaestio dossettiana nel compiacimento per il fatto che Dossetti, optando per la vocazione religiosa, aveva «scelto con umiltà, e con sacrificio la parte migliore». Luigi Granelli (1929-1999) dava invece corpo a quella porzione del partito che aveva compreso come la scomparsa politica di Dossetti non avesse risolto i problemi che egli aveva continuamente posto alla Direzione, ma avesse inevitabilmente favorito la loro dissimulazione: e questo creando un vulnus allo stesso partito: «Se l’incontro tra De Gasperi, che certamente aveva la possibilità di portare avanti il senso dello Stato, e le inquietudini dei dossettiani, che rappresentavano la carica vitale nel Partito, non s’è realizzato, chi ha pagato in questa dolorosa circostanza?», si chiedeva Granelli nel suo intervento congressuale; e rispondeva: «il centrismo si è avviato lentamente al declino, nel Partito c’è stata l’involuzione e il “terzo tempo” delle riforme sociali non è assolutamente venuto»140. Nel 1970 un acuto osservatore delle vicende del mondo cattolico come Libero Pierantozzi scriveva così che la «fervida stagione» suscitata da Dossetti rimaneva «come punto di riferimento per tanta parte del movimento politico dei cattolici italiani. Forse come “rimorso”, forse come nostalgia di un disegno brutalmente frustrato, certamente come proposta per gli acuti problemi che giacciono irrisolti. È la nemesi che a distanza di anni si compie sulle precarie realtà di una politica di potere canonizzata il 18 aprile 1948»141. Sarà invece Fanfani a riaccendere nel 1984 l’attenzione democristiana sulla vicenda dossettiana con un clamoroso intervento al Meeting di Comunione e liberazione, nel quale affermava che il Movimento popolare – ovvero il braccio politico di Cl – si riallacciava all’azione svolta da Dossetti sin dagli incontri di casa Padovani negli anni Quaranta: «l’analogia fra quella lontana stagione e l’attuale», indicava Fanfani, «è nella mobilitazione dei giovani perché rechino un contributo alla vita politica e sociale come atto di dovere religioso»142. Lazzati, che dell’esperienza di casa Padovani e della stagione dossettiana era stato protagonista tanto quanto Fanfani, negherà immediatamente questa affinità: anzitutto perché a suo modo di vedere «l’eredità di quella esperienza» doveva essere ancora raccolta; in seconda battuta perché «per stabilire un rapporto di affinità-continuità tra le due esperienze non basta […] riscontrare una medesima tensione religiosa. Sarà un peccato di presunzione» [aggiungeva Lazzati] «ma mi pare che, nella maggior parte di noi, allora, ci fosse un’appassionata ricerca di comunicazione e di cooperazione con tutti sul terreno comune della razionalità e dei valori umano-universali, che si esprimeva anche in quello stile sobrio, severo, riservato, che non sempre si riscontra nei comportamenti e nelle manifestazioni di CL. Uno stile che fu proprio anche di De Gasperi»143.
L’attitudine della Dc o dei democristiani è comunque la cartina di tornasole di una più diffusa difficoltà della politica e della storiografia italiana a stabilire la reale entità storica del dossettismo e a relazionarsi con essa. Nel senso che talora – leggendo su un unico piano la decisione dell’abbandono della scena politica da parte di Dossetti e il precedente periodo di attività – si è insistito sull’inconsistenza di tale esperienza e sul mito che, a posteriori, ne avrebbe finito per accrescere la rilevanza: non è raro così imbattersi in analisi del dossettismo che ricorrono sovente alle categorie ermeneutiche dell’utopia, dell’irrealismo, dell’illusione, dell’ambiguità, della doppiezza144, o che sono pervenute alla drastica conclusione del paradosso insito nel dossettismo: un qualcosa che, in realtà, non sarebbe mai esistito145 o che, tutt’al più, andrebbe semplicemente compreso e descritto come un tipico caso di movimento carismatico146. Già nel luglio 1951 il direttore del «Corriere della sera», evidentemente esasperato dalla determinazione con cui il gruppo facente riferimento a Dossetti conduceva le proprie battaglie all’interno del partito, aveva significativamente scritto a De Gasperi: «Tu, tu solo, reggi e sostieni la situazione. Il Paese crede a te, a te solo. Trova la forza di importi ai deputati indisciplinati, al Partito sedizioso. I dossettiani non esistono nel Paese: nessuno li conosce e chi li conosce ne ride»147. Viceversa esiste e perdura un filone di pensiero e di studi e analisi che, al di là di ogni apprezzamento sul merito delle proposte dossettiane – e anzi sovente ponendosi criticamente rispetto a esse – vede nell’esperienza politica e culturale sorta intorno a Dossetti un momento centrale della vicenda repubblicana: non solo e non tanto nella fase della rifondazione della democrazia italiana, ma soprattutto nelle evoluzioni politiche successive alle sue dimissioni dalla Dc e dalla Camera dei deputati148.
Per cui si è immaginato e descritto un dossettismo ognora operante anzitutto mediante la Costituzione del 1948: la riprova andrebbe individuata nell’attivismo a difesa della Carta, contro le ipotesi di riforma avanzate dal Polo delle libertà e del buongoverno, che avrebbe caratterizzato gli ultimi due anni di vita di Dossetti. Così s’è detto che l’Italia continua a pagare «il prezzo di una cultura di matrice cattolico-dossettiana e comunista alla base della nostra Costituzione, liquidativa delle libertà economiche, fortemente anti-individualistica e illiberale» e che «dietro una parvenza di solidarismo si nasconde però una profonda vocazione totalitaria tipica di quella cultura d’origine»149. Pietro Scoppola (1926-2007) ha invece constatato una curiosa eterogenesi dei fini: quelle «energie cattoliche» che richiamandosi al pensiero maritainiano si erano messe in marcia «per la costruzione di una cristianità nuova, che si collocasse oltre la contrapposizione storica fra capitalismo e comunismo, di fatto hanno agito in una diversa direzione: sono servite a creare le condizioni di una nuova fase di compromesso tra capitalismo e democrazia e hanno perciò reso possibile quello sviluppo industriale che il paese ha registrato»: nondimeno sviluppo economico e benessere, aggiungeva Scoppola, «hanno silenziosamente corroso, assai più delle ideologie avverse, marxista e laicista, le basi stesse della presenza cattolica nel paese»150. Ma il dossettismo avrebbe continuato a sussistere anche mediante una generazione di grands commiss che, più o meno consapevolmente, ne avrebbero seguito la lezione politica, operando di conseguenza nei gangli dello Stato151: «L’ultima élite italiana», ha indicato questa volta in tono elogiativo Giuseppe De Rita, «è stata quella dei cattolici dossettiani in senso lato, gli uomini dell’Iri, dell’Eni, i Mattioli, i Saraceno, i Mattei, coloro che hanno immaginato lo Stato come soggetto dello sviluppo»152. Per altri ancora il problema di una presenza operante del dossettismo non s’è mai posto: è il caso di Paolo Pombeni, che già nel 1978 parlava del dossettismo come di un vero e proprio «cadavere», anche se «ostico»: «non ha lasciato eredi politici con cui dialogare; non ha lasciato un corpus dottrinale o ideologico alla luce del quale sognare l’Italia del futuro»; il dossettismo allora non andava compreso come un sistema ideologico, ma piuttosto come «un’indicazione metodologica», come un «esempio di razionalismo umile»: «la corretta convinzione di un uomo che non è demiurgo, della verità come processo inesauribile di ulteriore scoperta, della solubilità dei singoli problemi pur senza poter giungere all’eliminazione dei problemi»153. Viceversa c’è chi ha voluto individuare in alcuni precisi tornanti della storia repubblicana il momento in cui il dossettismo si è ‘finalmente’ estinto: la sconfitta di Fanfani al referendum sul divorzio nel 1974, la morte di Moro nel 1978, la schiacciante vittoria del Popolo della Libertà alle elezioni politiche del 2008.
È stato l’ex dossettiano Baget Bozzo a dedicare un’attenzione tutta particolare, che cronologicamente abbraccia quasi un quarantennio, alla vicenda del dossettismo. Si può anzi individuare proprio in lui, più che in Augusto Del Noce (1910-1989), l’autore che in qualche modo ha fondato e alimentato il mito della sopravvivenza del dossettismo, fissandone storiograficamente i caratteri principali; un’attenzione che tuttavia, col mutare del posizionamento politico ed ecclesiale di Baget Bozzo – dalla Base a Tambroni, dal cardinale Siri al socialismo craxiano, dal sostegno alle inchieste dei magistrati milanesi di «Mani pulite» all’entourage di Silvio Berlusconi – ha finito per assumere sempre più i contorni di una vera e propria ossessione. Già nel libro del 1974 dedicato al Partito cristiano si intravedono i prodromi di questa interpretazione: in un momento in cui Dossetti era politicamente ed ecclesialmente un vero e proprio ‘fantasma’ – uscito poco prima dall’ombra per una clamorosa quanto ingannevole intervista in cui dichiarava di non essere mai stato democristiano e destinato di qui a pochi anni a una nuova breve notorietà per una rapida menzione da parte di Aldo Moro nel Memoriale compilato nella «prigione del popolo» delle Brigate rosse154 – Baget Bozzo gli dedicava un volume che ne postulava l’importanza fondamentale nella storia italiana del dopoguerra, evidenziata già nel titolo che parlava appunto di una Dc di De Gasperi (cosa di per sé ovvia) e Dossetti.
Il significato del dossettismo veniva di fatto ridotto da Baget Bozzo al tentativo di fondare uno Stato cristiano secondo la prospettiva della nuova cristianità teorizzata da Maritain in Umanesimo integrale: tentativo che era finito nel 1951 perché solo allora Dossetti aveva realizzato l’impossibilità dell’esecuzione di questo progetto: «la politica di Dossetti era fallita» [scriveva Baget Bozzo] «perché la Dc era divenuta il partito di confluenza delle masse d’ordine e l’alleanza fra democristiani e comunisti era divenuta improponibile. Questo non significò, però, la decadenza dei temi dossettiani, nemmeno quello del superamento del capitalismo […]. L’eredità dossettiana, svincolata dal riferimento al cristianesimo e dalla struttura utopiana, sarebbe stata poi operante nelle successive vicende della Dc»155.
La crucialità del movimento dossettiano, e particolarmente del suo impegno culturale, veniva ribadita qualche anno dopo, quando Baget Bozzo indicava che «la Dc non è mai riuscita ad essere, salvo che attorno a Dossetti e, in parte, attorno a Gronchi, un luogo di cultura politica»156. Il sacerdote genovese, da una concezione del dossettismo come realtà contingente a una specifica stagione politica157, passerà così a un’altra che immaginava la corrente dossettiana come una realtà in servizio permanente che continuava a operare dietro le quinte della scena politica ed ecclesiale. La vasta attività pubblicistica e giornalistica in cui Baget Bozzo ha elaborato questa interpretazione ha trovato una sistematizzazione organica nel postumo Costituzione e politica158. Qui trova espressione compiuta l’idea che Dossetti, uomo dotato di un «carisma» ma non di un «pensiero politico», avesse fondamentalmente perseguito per tutta la vita il progetto di una collaborazione politica tra i cattolici e i comunisti: questo perché nel suo giudizio «solo i partiti antifascisti erano la forma politica della Costituzione e il popolo poteva agire in democrazia soltanto attraverso di essi. Dossetti veicolava così il concetto comunista per cui la Resistenza era un avvenimento fondante e irripetibile, che imponeva la sua forma a tutta l’attività futura della società italiana, anche oltre il suo tempo politico». Dossetti non era stato solo un teorico, ma si era materialmente attivato per condurre in porto il proprio progetto. Era stato certamente compiaciuto del dialogo intercorso tra Aldo Moro ed Enrico Berlinguer (1922-1984) negli anni Settanta, giacché reputava che «l’inclusione del Pci nella maggioranza e il ritorno alla coerenza politica con la Costituzione fossero la via di salvezza dalla crisi morale nata dal ’68 e dalla cultura radicale». Conseguentemente a ciò, valendosi di Beniamino Andreatta (1928-2007), nel corso degli anni Ottanta aveva contrastato la collaborazione politica tra Psi e Dc, favorendo la nascita di una «corrente cattolico-laica». A partire dal 1992 l’«opera cruenta delle procure» aveva finalmente consentito a Dossetti il raggiungimento del risultato che si era prefisso: «l’eliminazione della Dc e del Psi e la fine dell’unità dei cattolici attorno alla Democrazia cristiana». L’ultimo ostacolo, vale a dire l’alleanza politica impiantata da Silvio Berlusconi nel 1994, era stato affrontato direttamente da Dossetti, il quale, attraverso la creazione dei Comitati per la difesa della Costituzione e tenendo a battesimo la nascita dell’Ulivo, aveva di fatto preso «il posto del Papa nella direzione spirituale della politica dei cattolici». Finita la Dc occorreva però un nuovo mito fondatore, che consentisse ai cattolici una collaborazione organica con gli eredi del Partito comunista: Dossetti l’aveva individuato nella Costituzione. L’Ulivo, dunque, altro non era che la risultante del dossettismo: «[Romano] Prodi divenne l’espressione di ciò che egli [scil. Dossetti] aveva pensato: un leader politico designato da un potere spirituale […]. Prodi era il valore aggiunto della coalizione e la determinava come tale: il potere spirituale di Dossetti impersonato nel suo rappresentante». Baget Bozzo palesava in definitiva l’idea del movimento dossettiano come forza di minoranza che, in modo simile a quanto compiuto dai bolscevichi nella Russia zarista, era stata capace di realizzare una rivoluzione assumendo il controllo dello Stato: un’idea suggestiva, che però confondeva come analoghi due concetti in realtà diametralmente opposti quali quelli di rivoluzione e di riforma. Il dossettismo allora era rappresentabile per Baget Bozzo «come un fiume carsico: aveva attraversato quarant’anni della storia della Repubblica in base al principio per cui la fondazione repubblicana aveva sempre in sé il potere di nuovo inizio, non era un fatto transeunte ma un elemento permanente». Insomma, Dossetti, «benché sia stato assente dall’azione politica diretta, ha sempre costituito, con la sua persona e la sua opera, il riferimento legittimante della politica italiana»159.
L’interpretazione di Baget Bozzo massimizza un orientamento sempre più diffuso in una corrente storiografica – non meno militante di quella che ha connotato altre fasi della storia italiana – che a partire dalla metà degli anni Novanta, contestualmente all’affermazione di nuovi soggetti ed equilibri politici, ha iniziato a rivisitare in senso critico eventi e stagioni fondative della storia repubblicana, in particolare proprio quelle della Costituente, dell’apertura a sinistra e del compromesso storico160. Per questa storiografia, percorsa da un marcato revanscismo di matrice neoliberale del quale Dossetti aveva presagito la rischiosità – e non tanto per la futura memoria della propria vicenda politica ed ecclesiale161 –, il dossettismo, caricaturizzato come integralismo tout court, rappresenta un equivoco storico da denunciare come tale162. L’operazione è propedeutica alla successiva rivisitazione critica, sovente organica a una precisa area politica, di tutte le scelte più forti legate all’esperienza politica dossettiana: l’antifascismo, la Resistenza, la Costituzione, la scelta di un confronto con le sinistre, l’idea di una finalizzazione dello Stato163. In qualche modo già la reazione a caldo di Nicola Matteucci (1926-2006), riconosciuto come uno degli esponenti di punta del pensiero liberale italiano, all’intervista con cui Dossetti, nel gennaio 1991, aveva denunciato, a seguito della partecipazione dell’Italia all’intervento militare conto l’Iraq, la violazione da parte del VI governo Andreotti dell’articolo 11 della Costituzione164 – Matteucci commenterà: «Aveva taciuto trent’anni, poteva continuare» – è espressiva del radicarsi di questa nuova tendenza ermeneutica che, anche prendendo di mira Dossetti e il dossettismo, è funzionale all’impegno di una precisa area politica per il conseguimento di quell’egemonia culturale indispensabile per porre le premesse giuridiche e sociali per procedere a una riforma radicale della Costituzione italiana165. Si è insistito così sull’idea di un Dossetti che ha sacralizzato/canonizzato la Costituzione repubblicana volendo renderla intangibile: ma in questo modo si sono intenzionalmente tralasciati gli interventi in cui l’ex padre costituente ha denunciato i limiti della Carta indicando al contempo i margini e gli strumenti per risolverli nel pieno rispetto di quell’idea di «patto» che per lui restava intangibile166.
Non è quindi più possibile asserire che quella del dossettismo sia una storia ancora da scrivere: tanto più di fronte alle già numerose edizioni di studi e fonti dedicati a questo argomento. È vero piuttosto che a dispetto dei cospicui risultati storiografici già conseguiti, anche attraverso l’analisi della figura e dell’opera di Alcide De Gasperi, persiste una tenacissima tendenza a fare del dossettismo una questione irriducibile alla sua dimensione storica. Già nel 1961 Leopoldo Elia aveva intuito come la ricerca storica sul dossettismo non sarebbe stata in ogni caso agevole: sia per le irrimediabili lacune documentarie (Dossetti aveva infatti consapevolmente distrutto in alcuni roghi il proprio archivio politico), sia per il silenzio in cui il suo principale protagonista si era rinchiuso. Ma era in ogni caso un lavoro necessario, anche perché avrebbe dovuto penetrare e infrangere il filtro «antistorico, aprioristico e di comodo» con il quale questo fenomeno già a dieci anni dalle riunioni di Rossena veniva raffigurato. Secondo il giurista marchigiano in sede storica sarebbe comunque dovuto emergere in modo sempre più netto un dato: e cioè che al di là delle divergenze rispetto alla linea impressa da De Gasperi al Partito, i dossettiani avevano rappresentato un elemento «fondamentale ed indispensabile» della mediazione politica svolta dal leader trentino; senza di essa, asseriva Elia, la Dc avrebbe subito una svolta clerico-moderata e la cosiddetta Operazione Sturzo del 1952 avrebbe avuto un ben altro esito, diventando l’apripista per un nuovo equilibrio, orientato in senso nettamente conservatore, delle forze di governo. Certamente sarebbe restato complicato spiegare la fine dell’esperienza politica di Dossetti, in cui entravano anche ragioni di ordine personale. Elia evidenziava anche i limiti espressi dalla corrente dossettiana, riassumibili in una incapacità di adattamento all’evoluzione della dialettica politica e in una occasionale mancanza di «autostima» culturale e tecnica nell’affrontare determinate congiunture. Era accaduto così che il dossettismo non era riuscito a realizzare il passaggio da un approccio «romantico-ideologico» a uno «pragmatico» come erano invece capaci di fare i liberals statunitensi. Ma era anche vero, concludeva Elia, «che è più difficile fare il liberal in Italia piuttosto che in America, senza Harvard, coi comunisti, e, sia detto senza cattiva intenzione, con un partito a base sociologica confessionalmente qualificata»167.
Non v’è dubbio che Dossetti sia sempre stato consapevole delle enormi attese che la sua attività politica e culturale aveva suscitato: a Bologna, nel 1986, confiderà che compiendo un primo bilancio della sua ricca esistenza gli pareva di essere stato soprattutto un «prestanome» che aveva «se mai solo rappresentato aspirazioni, intuizioni, volontà, sforzi di moltissimi, uomini e donne, grandi e umili, dotti e indotti, illustri e anonimi che sono stati i veri e non dimenticabili realizzatori di tutto»168. Ma questa affermazione, per quanto sincera, non poteva dissimulare l’importanza materiale del suo apporto più personale – quanto di quello di Fanfani, La Pira e Lazzati – nell’aprire una nuova fase della presenza pubblica dei cattolici. Il dossettismo è scaturito da un diuturno sforzo di lettura della realtà circostante ed è consistito in ultima analisi in quello che Lazzati qualificava come il «pensare politicamente»: un pensare che però non intendeva circoscriversi agli interessi della sola Dc o degli equilibri di governo a maggioranza democristiana, ma voleva appunto promuovere e tutelare il bene di un’intera collettività. L’indubbia densità della riflessione politica dossettiana ha indotto tanto i suoi estimatori quanto i suoi critici ad approcciarla come una inesauribile miniera di prospettive o di polemiche. Ma sarà lo stesso Dossetti, pochi anni prima della morte, a mettere in guardia alcuni amici dagli enormi rischi che l’Italia stava correndo nel vivere di rendita rispetto a un bacino culturale ormai disseccato come quello del cattolicesimo politico: così, anche continuare a guardare all’esperienza dossettiana come a un pozzo da cui continuare ad attingere acqua era insensato; la soluzione ai problemi che il paese si trovava di fronte – e che sarebbero diventati ancora più grandi – era una soltanto e cioè ricominciare a pensare. «Siamo dinnanzi all’esaurimento delle culture», aveva detto Dossetti,
«Non vedo nascere un pensiero nuovo né da parte laica, né da parte cristiana. Siamo tutti immobili, fissi su un presente, che si cerca di rabberciare in qualche maniera, ma non con il senso della profondità dei mutamenti. Non è catastrofica questa visione, è realistica; non è pessimista […]. L’unico grido che vorrei fare sentire oggi è il grido di chi dice: aspettatevi delle sorprese ancora più grosse e più globali e dei rimescolii più totali, attrezzatevi per tale situazione. Convocate delle giovani menti che siano predisposte per questo e che abbiano, oltre che l’intelligenza, il cuore, cioè lo spirito cristiano. Non cercate nella nostra generazione una risposta, noi siamo veramente solo dei sopravvissuti»169.
1 Sulla vicenda dossettiana si vedano P. Pombeni, Il gruppo dossettiano e la fondazione della democrazia italiana (1938-1948), Bologna 1979; G. Dossetti, Con Dio e con la storia. Una vicenda di cristiano e di uomo, a cura di A. e G. Alberigo, Genova 1986; G. Trotta, Giuseppe Dossetti. La rivoluzione nello Stato, Firenze 1996; Dossier Lazzati 12: Lazzati, Dossetti, il dossettismo, a cura di A. Oberti, Roma 1997; Giuseppe Dossetti. Prime prospettive e ipotesi di ricerca, a cura di G. Alberigo, Bologna 1998; Giuseppe Dossetti. Il circuito delle due parole, a cura di O. Marson, R. Villa, Portogruaro 2000; Giuseppe Dossetti: la fede e la storia. Studi nel decennale della morte, a cura di A. Melloni, Bologna 2007; L. Giorgi, Giuseppe Dossetti. Una vicenda politica, 1943-1958, Milano 20072; Giuseppe Dossetti. Studies on an Italian Catholic Reformer, a cura di A. Melloni, Zürich-Berlin 2008.
2 G. Lazzati, Pensare politicamente, I, Il tempo dell’azione politica. Dal centrismo al centrosinistra, Roma 1988, pp. 172-173.
3 F. Bruno, Dossettismo e Democrazia cristiana tra politica e storiografia, «Critica Marxista», 27, 1989, p. 39.
4 L. E[lia], Avvertenza per una storia da scrivere, in Cronache Sociali 1947-1951, antologia a cura di L. Elia, M. Glisenti, I, San Giovanni Valdarno-Roma 1961, p. 21.
5 L. Pedrazzi, Riflessioni su un apocrifo contemporaneo: lo Pseudodossetti, «Il Mulino», 21, 1972, 220, p. 284.
6 L’esperienza politica dossettiana, «Il Mulino», 41, 1992, 5, p. 863.
7 Così nel giudizio di Fernando Bruno «le vicende della cosiddetta “terza generazione” e della sinistra di base, il municipalismo etico di La Pira, il dirigismo fanfaniano dei tempi del primo centro-sinistra, il rinnovamento zaccagniniano, la terza fase morotea, se pure conservano ciascuno qualche elemento della piattaforma politica o del patrimonio ideale del dossettismo, non evidenziano tuttavia una organica continuità con le lontane vicende della sinistra dossettiana»: F. Bruno, Dossettismo e Democrazia cristiana tra politica e storiografia, cit., p. 39.
8 Cfr. G. Miccoli, L’esperienza politica (1943-1951), in Giuseppe Dossetti. Prime prospettive e ipotesi di ricerca, a cura di G. Alberigo, cit., p. 9.
9 Un primo censimento bibliografico, condotto principalmente sui titoli segnalati in Cronache Sociali 1947-1951, a cura di L. Elia, M. Glisenti, cit., p. 22, è stato effettuato da P. Pombeni, Il «dossettismo» (1943-1951). Premesse ad una ricerca storica, «Nuova rivista storica», 57, 1973, 5-6, pp. 79-132; un aggiornamento bibliografico, che giunge sino all’anno della morte di Dossetti, è stato svolto da A. Melloni, Un discepolo nella storia. Per gli studi su Giuseppe Dossetti, «Rivista di storia della Chiesa in Italia», 51, 1997, 2, pp. 421-450.
10 G. Lazzati, Pensare politicamente, cit., p. 173.
11 A colloquio con Dossetti e Lazzati. Intervista di Leopoldo Elia e Pietro Scoppola (19 novembre 1984), Bologna 2003, p. 94.
12 Cfr. G. Galloni, Dossetti, profeta del nostro tempo, Roma 2009.
13 M. Tronti, «Uno sguardo sempre vasto…», «Vita monastica», 61, 2007, 236, p. 75.
14 A.C. Jemolo, Gli uomini e la storia, Roma 1978, pp. 165-166.
15 Cfr. la sezione «Utopiaucronia» del sito www.fmboschetto.it (1° settembre 2010).
16 P. Pombeni, Come è difficile interpretare il dossettismo, «Bozze 78», 1, 1978, 11-12, p. 106.
17 Questa prospettiva metodologica emerge in modo esemplare nell’intervento apparso anonimo su «Il Regno-Attualità», 35, 1990, 18, p. 537, intitolato Qui la chiesa scomparirà, dove Dossetti procedeva a una serie di valutazioni sulle ricadute più o meno prossime in Medio Oriente rispetto all’imminente intervento militare in Iraq della coalizione guidata dagli Stati Uniti d’America.
18 Su questo aspetto si vedano F. Margiotta Broglio, Dossetti canonista, in G. Dossetti, «Grandezza e miseria» del diritto della Chiesa, a cura di F. Margiotta Broglio, Bologna 1996, pp. 9-19; E. Vitali, Giuseppe Dossetti, in L’insegnamento del diritto canonico nell’Università cattolica del S. Cuore dalle origini alla nuova codificazione, a cura di C. Minelli, «Jus», 39, 1992, 3, pp. 269-284; G. Mori, Dossetti canonista, in Giuseppe Dossetti: la fede e la storia, a cura di A. Melloni, cit., pp. 149-164.
19 Cfr. M. Bocci, Oltre lo Stato liberale. Ipotesi su politica e società nel dibattito cattolico tra fascismo e democrazia, Roma 1999.
20 Le poche informazioni esistenti su questi incontri sono state più recentemente incrociate e riassunte da A. Parola, Pensare la ricostruzione: gli incontri di casa Padovani, in Giuseppe Dossetti: la fede e la storia, a cura di A. Melloni, cit., pp. 261-280.
21 G. Lazzati, Pensare politicamente, cit., p. 179.
22 Cfr. V. Capperucci, Il partito dei cattolici. Dall’italia degasperiana alle correnti democristiane, Soveria Mannelli 2010, pp. 23-69.
23 Cfr. G. Trotta, Giuseppe Dossetti. La rivoluzione nello Stato, cit., p. 39.
24 Cfr. A colloquio con Dossetti e Lazzati, cit., pp. 28-29, 107.
25 Per una contestualizzazione si veda S. Fangareggi, Il partigiano Dossetti, Reggio Emilia 20062.
26 Il Movimento Democratico Cristiano, in G. Dossetti, Scritti politici, 1943-1951, a cura di G. Trotta, Genova 1995, p. 23.
27 Cfr. La memoria dei «rossi». Fascismo, Resistenza e Ricostruzione a Reggio Emilia, a cura di A. Canova, Roma 1996, pp. 372, 594, 623.
28 Cfr. Dossier Lazzati 4: Lazzati, il Lager, il Regno, a cura di A. Oberti, Roma 1993.
29 Cfr. P. Turi, L’ultimo segretario. Vita e carriera di Alessandro Natta, Padova 1996, p. 105.
30 Se ne ha una collezione completa – verosimilmente l’unica ancora esistente – nel Fondo Fanfani depositato presso l’Archivio Storico del Senato della Repubblica (d’ora in poi ASSR-FF), b. 422, f. 2. Sul proprio Diario, alla data del 17 gennaio, Fanfani aveva scritto del «progetto Civitas Humana», cioè di una rivista per gli internati da tirare in 100 esemplari.
31 encre [= A. Fanfani], Per costruire, «Civitas humana», aprile 1945.
32 Cfr. S. La Francesca, La linea riformista. La testimonianza dei diari di Amintore Fanfani (1943-1959), Firenze 2007, pp. 1-7.
33 Cfr. V. La Russa, Amintore Fanfani, Soveria Mannelli 2006, p. 92; M. Malpensa, A. Parola, Lazzati. Una sentinella nella notte (1909-1986), Bologna 2005, pp. 503-504.
34 Il Movimento Democratico Cristiano, in G. Dossetti, Scritti politici, 1943-1951, cit., pp. 20-22.
35 Democrazia Cristiana-Segreteria Spes, Dizionario sociale, Roma 1946. Cfr. G. Dossetti, L’atto di nascita della Spes, in Parole e immagini della Democrazia cristiana in quarant’anni di manifesti della SPES, a cura di C. Dané, Roma 1985, pp. 13-14.
36 Cfr. A. Melloni, L’utopia come utopia, in G. Dossetti, La ricerca costituente, 1945-1952, a cura di A. Melloni, Bologna 1994, pp. 25-27; Testimonianza su spiritualità e politica. Incontro con don Giuseppe Dossetti, in G. Dossetti, Scritti politici, 1943-1951, cit., pp. LV-LVI.
37 Per una prima mappatura di questa rete è di grande utilità la consultazione di Fondo «Cronache Sociali» 1947-1952. Con annessi documenti del vicesegretario della Democrazia Cristiana (1945-1951) Giuseppe Dossetti, a cura di M. Tancini, Bologna 2002.
38 Cfr. C. Corghi, Il Centro Studi Social Cristiano premessa per la nascita a Reggio Emilia della D.C., «Ricerche storiche», 19, 1985, 54-55, pp. 117-125. Sull’approccio storico dossettiano si veda più in generale P. Prodi, Diritto e storia in Giuseppe Dossetti, in Giuseppe Dossetti: la fede e la storia, a cura di A. Melloni, cit., pp. 343-363.
39 Cfr. P. Pombeni, Il gruppo dossettiano e la fondazione della democrazia italiana, cit., pp. 313-333.
40 Id., Le «Cronache sociali» di Dossetti. Geografia di un movimento di opinione, Firenze 1976, p. 95; si veda altresì G. Lazzati, Pensare politicamente, cit., p. 40.
41 Su «Cronache sociali» si vedano, oltre al volume di Pombeni citato alla nota precedente, A. Melloni, «Cronache Sociali». La produzione di cultura politica come filo della «utopia» di Giuseppe Dossetti, «Cronache sociali», 1947-1951, edizione anastatica a cura di A. Melloni, edizione digitale a cura di M. Ciuffreda, Bologna 2007, pp. XIII-XLIV; L. Giorgi, Il percorso politico e ideale di «Cronache Sociali», in Le «Cronache Sociali» di Giuseppe Dossetti (1947-1951). La giovane sinistra cattolica e la rifondazione della democrazia italiana, antologia a cura di L. Giorgi, Reggio Emilia 2007, pp. 75-100.
42 «Cronache sociali», 1, 1947, 1, p. 1.
43 Testimonianza su spiritualità e politica, cit., p. LIV. Si veda anche A colloquio con Dossetti e Lazzati, cit., p. 46.
44 Lettera a A. De Gasperi, 28 febbraio 1946, in De Gasperi scrive. Corrispondenza con capi di stato, cardinali, uomini politici, giornalisti, diplomatici, a cura di M.R. De Gasperi, I, Brescia 1974, pp. 287-291.
45 G. Dossetti, Relazione al convegno di Civitas Humana del 1° novembre 1946, in P. Pombeni, Alle origini della proposta culturale di Giuseppe Dossetti (1 novembre 1946), «Cristianesimo nella storia», 1, 1980, 1, pp. 251-272. Nel 1993 Dossetti indicherà che quando nel 1951 aveva deciso di lasciare l’attività politica lo aveva fatto perché «convinto che non si poteva operare diversamente in quelle condizioni del nostro Paese e del mondo cattolico italiano. L’ostacolo maggiore stava in una certa cattolicità che c’era in Italia; i motivi dell’insuccesso fatale venivano da lì»: Testimonianza su spiritualità e politica, cit., p. LVII; già nel 1953 aveva affermato che il cattolicesimo aveva «questa colpa: di attribuire all’azione ed all’iniziativa degli uomini rispetto alla Grazia un valore di nove decimi. Esso possiede peraltro un notevole spirito di conquista, una certa generosità, ma, soprattutto nella gerarchia, si riscontra una fondamentale mancanza di fede operante»: G. Dossetti, Catastroficità sociale e criticità ecclesiale, in Giuseppe Dossetti. Prime prospettive e ipotesi di ricerca, a cura di G. Alberigo, cit., p. 105.
46 P. Pombeni, Il dossettismo. Una storia ancora da scrivere, «Il Mulino», 41, 1992, 5, p. 869.
47 Cfr. D. Novacco, L’officina della Costituzione italiana, 1943-1948, Milano 2000, pp. 99-101; P. Scoppola, Gli anni della Costituente fra politica e storia, Bologna 1980.
48 P. Pombeni, Il gruppo Dossettiano, in Cultura politica e partiti nell’età della Costituente, I, L’area liberal-democratica. Il mondo cattolico e la Democrazia Cristiana, a cura di R. Ruffilli, Bologna 1979, pp. 425-492.
49 Su questo aspetto F. Pizzolato, Finalismo dello Stato e sistema dei diritti nella Costituzione italiana, Milano 1999, pp. 54-82.
50 Cfr. P. Pombeni, Individuo/persona nella Costituzione italiana. Il contributo del dossettismo, «Parolechiave», 1996, 10/11, pp. 197-218.
51 Cfr. A. Melloni, L’utopia come utopia, cit., p. 31.
52 Ibidem, pp. 43-44; su questo si veda anche A colloquio con Dossetti e Lazzati, cit., pp. 63-64.
53 I valori della Costituzione. Giuseppe Dossetti e Nilde Iotti a Monteveglio (Monteveglio 16 settembre 1994), Reggio Emilia 1995, pp. 17-20. Si veda pure P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico, 1945-1996, Bologna 1997, pp. 211-212.
54 Cfr. L. Elia, Alcide De Gasperi e l’Assemblea costituente, Roma 2005.
55 Cfr. L. Giorgi, La sinistra e Dossetti, «Bailamme», 2002, 28/5, pp. 231-266.
56 G. Dossetti, Relazione al convegno di Civitas Humana del 1° novembre 1946, cit., p. 259.
57 Cfr. A. Agosti, Palmiro Togliatti, Torino 1996, p. 336; si veda anche R. Moro, Togliatti nel giudizio del mondo cattolico, in Togliatti nel suo tempo, a cura di R. Gualtieri, C. Spagnolo, E. Taviani, Roma 2007, pp. 337-393.
58 G. Dossetti, Relazione al convegno di Civitas Humana del 1° novembre 1946, cit., p. 264.
59 Su questi contatti si veda ora la documentazione edita in G. Sale, Il Vaticano e la Costituzione, Milano 2008.
60 L. Elia, Giuseppe Dossetti e l’art. 7, in La storia, il dialogo, il rispetto della persona. Scritti in onore del cardinale Achille Silvestrini, a cura di L. Monteferrante, D. Nocilla, Roma 2009, pp. 433-451.
61 P. Pombeni, Ricordo di Federico Caffé, in Federico Caffè. Un economista per gli uomini comuni, a cura di G. Amari, N. Rocchi, Roma 2007, pp. 855-857.
62 G. Lazzati, Pensare politicamente, cit., p. 32.
63 P. Pombeni, Un riformatore cristiano nella ricostruzione della democrazia italiana. L’avventura politica di Giuseppe Dossetti, 1943-1956, in Le «Cronache Sociali» di Giuseppe Dossetti (1947-1951), cit., p. 19.
64 G. Dossetti, Fine del Tripartito?, «Cronache sociali», 1, 1947, 2, pp. 1-2.
65 D.M. Turoldo, Meditazione sul voto del 18 aprile, «Cronache sociali», 2, 1948, 8, pp. 1-2.
66 A. Fanfani, Politica economica italiana: problemi residui e problemi futuri, «Cronache sociali», 2, 1948, 8, p. 8, cit. in G. Miccoli, L’esperienza politica (1943-1951), cit., pp. 26-27.
67 G. Lazzati, Azione cattolica e azione politica, «Cronache sociali», 2, 1948, 20, pp. 1-2. Nelle stesse settimane Lazzati appuntava: «il nocciolo della questione è qui: per essi [scil. Gedda e Carretto] l’AC non solo può ma deve fare politica. Noi cresciuti alla scuola dell’insegnamento papale affermiamo: l’AC non può fare politica; […]. Ora ci si domanda: da che ora questa polemica o meglio questo tentativo di svolta? Dalla insoddisfazione della politica della DC? Se è così, nessuno certo può imporre a chi così pensa, di prendere posizione politica: solo si chiede che non lo si faccia sotto la bandiera dell’AC. È il modo più pericoloso per la chiesa e più sleale per gli uomini che esercitano tale ricatto sulla DC: o fate come vogliamo noi o vi abbandoniamo, imponendo una direttiva e lasciando altrui la responsabilità e quindi le conseguenze. Che se l’AC in quanto tale vuole fare della politica domandiamo solo che una dichiarazione della gerarchia corregga quanto fin qui si è dichiarato e apra la nuova strada. Alla gerarchia ci inchineremo»: M. Malpensa, A. Parola, Lazzati, cit., p. 559.
68 Cfr. L’attesa della povera gente. Giorgio La Pira e la cultura economica anglosassone, a cura di P. Roggi, Firenze 2005.
69 G. La Pira, L’attesa della povera gente, «Cronache sociali», 4, 1950, 1, p. 2.
70 P. Malvestiti, Realtà dell’economia italiana, «La Via», 22 aprile 1950, riedito in P. Roggi, I cattolici e la piena occupazione. L’attesa della povera gente di Giorgio La Pira, Milano 1983, pp. 168-177, la cit. a p. 176.
71 G. La Pira, Difesa della povera gente, «Cronache sociali», 4, 1950, 5-6, p. 2.
72 Testimonianza su spiritualità e politica, cit., p. LVI.
73 Lettera ad A. Piccioni, 23 febbraio 1948, in G. Dossetti, Scritti politici, 1943-1951, cit., pp. 195-196.
74 De Gasperi scrive, cit., pp. 296-303. Sull’argomento si veda L. Giorgi, Giuseppe Dossetti e la politica estera italiana, 1945-1951, Milano 2005.
75 G. Dossetti, La ricerca costituente, cit., p. 372.
76 Id, Relazione al convegno di Civitas Humana del 1° novembre 1946, cit., pp. 262-263.
77 A un proprio collaboratore reggiano Dossetti scriverà che l’atteggiamento assunto rispetto all’adesione al Patto gli aveva dato «come era prevedibile, molti dolori: ma ho l’impressione che sia finito bene. Cioè non solo di aver fatto il mio dovere (anche se duro per l’impossibilità di chiarire posizioni e questioni, delicate, agli altri) ma che molti almeno dei più oggettivi e sereni, ne siano rimasti convinti»: lettera a P. Morselli, 1 aprile 1949, in Giuseppe Dossetti (1913-1996) a Piero Morselli (1919-1999), a cura di G. Trotta, «Bailamme», 2001, 27/5, pp. 209-210.
78 Per una ricostruzione del dibattito G. Formigoni, La Democrazia cristiana e l’alleanza occidentale (1943-1953), Bologna 1996.
79 Che sarebbero giunte, secondo una testimonianza resa da mons. Loris F. Capovilla a chi scrive il 6 luglio 2006, sino all’imposizione dell’obbedienza da parte di Pio XII, comunicata a Dossetti da mons. Angelo Dell’Acqua.
80 G. Lazzati, Pensare politicamente, cit., p. 166.
81 Cfr. Approvazione della mozione del III Congresso, in Atti e documenti della Democrazia Cristiana, 1943-1967, I, a cura di A. Damilano, Roma 1967, p. 412.
82 Lettera a A. De Gasperi, 1 giugno 1949, in Lettere al Presidente. Carteggio De Gasperi-Malvestiti 1948-1953, a cura di C. Bellò, Milano 1964, p. 60.
83 I Congressi nazionali della Democrazia Cristiana, a cura dell’Ufficio Documentazione-SPES della Direzione Centrale DC, Roma 1959, p. 292.
84 Cfr. P. Pombeni, Un riformatore cristiano nella ricostruzione della democrazia italiana, cit., pp. 25-28.
85 Cfr. G. Alberigo, La condanna della collaborazione dei cattolici con i partiti comunisti (1949), «Concilium», 11, 1975, 7, pp. 145-158; su questo passaggio si veda ora Ph. Chenaux, L’Église catholique et le communisme en Europe (1917-1989). De Lénine à Jean-Paul II, Paris 2009.
86 Cfr. E. Scalfari, La santa disobbedienza. La presenza del papato, «L’Espresso», 18 maggio 1958, riedito in Id., Articoli, IV, L’Espresso dal 1955 al 1958, Roma 2004, p. 182. Nell’antologia di «Cronache sociali» edita nel 1961 si specifica che il quaderno «fu accuratamente redatto con la collaborazione di eminenti scrittori, ma non fu mai stampato per ovvie ragioni di opportunità»: Cronache Sociali 1947-1951, cit., II, p. 1073.
87 G. Lazzati, Pensare politicamente, cit., p. 168.
88 G. Dossetti, La coscienza del fine. Appunti spirituali, 1939-1955, a cura della Piccola Famiglia dell’Annunziata, Milano 2010, pp. 119-121.
89 Cfr. P. Craveri, De Gasperi, Bologna 2006, p. 428.
90 Ibidem, p. 439.
91 L. Giorgi, Giuseppe Dossetti. Una vicenda politica, 1943-1958, cit., pp. 239-241.
92 Su questa fase dell’impegno politico dossettiano si vedano G. Formigoni, Dossetti vicesegretario della DC (1950-1951). Tra riforma del partito e nuova statualità, in La «memoria pericolosa» di Giuseppe Dossetti, «Il Margine», 17, 1997, 8-9, pp. 38-59, A. Giovagnoli, Dal partito del 18 aprile al «partito pesante»: La Democrazia Cristiana nel 1951, «Italia contemporanea», 2002, 227, pp. 197-218; G. Tassani, Il vice-segretario intransigente. Giuseppe Dossetti e la DC: 1950-1951, dinamica di un distacco, «Nuova storia contemporanea», 11, 2007, 5, pp. 55-86.
93 Lettera del 25 novembre 1950, in ASSR-FF, b. 28, f. 4, ora in R. Villa, Per una reinterpretazione della fuoriuscita di Dossetti dalla DC. Nuove fonti archivistiche sulle due vicesegreterie nazionali del partito (1945-46 e 1950-51), Tesi di dottorato, Ciclo XXI, Università degli Studi di Bologna 2010, p. 256.
94 G. Dossetti, La coscienza del fine, cit., pp. 129-130.
95 Cfr. G. Tuzi, T. Portoghesi Tuzi, Quando si faceva la Costituzione. Storia e personaggi della Comunità del Porcellino, Milano 2010.
96 Cfr. C. Corghi, Dossetti, in memoriam. L’addio alla DC, «Religioni e società», 13, 1998, 31, p. 120.
97 Cfr. G. Formigoni, Dossetti vicesegretario della DC (1950-1951), cit., p. 45. Si veda anche Testimonianza su spiritualità e politica, cit., p. LIV.
98 G. Dossetti, «La coscienza del Partito», in Dossetti a Rossena. I piani e i tempi dell’impegno politico, a cura di R. Villa, Reggio Emilia 2008, p. 189.
99 Cfr. P. Pombeni, I dossettiani e la fondazione della Cassa per il Mezzogiorno, in Studi sulla Democrazia cristiana 1943-1981, «Quaderni della Fondazione Feltrinelli», 21, 1982, p. 103.
100 Così è riportato negli appunti presi da Achille Ardigò alla prima riunione di Rossena riprodotti in G. Tassani, La terza generazione. Da Dossetti a De Gasperi, tra Stato e rivoluzione, Roma 1988, p. 243. Sulla fase conclusiva dell’impegno politico dossettiano si veda A. Giovagnoli, I dossettiani dalla guerra di Corea al VII Governo De Gasperi, in L’attesa della povera gente, cit., pp. 169-191.
101 ASSR-FF, A. Fanfani, Diario, 13 maggio 1951.
102 Cfr. A. Melloni, L’utopia come utopia, cit., p. 55.
103 De Gasperi scrive. Corrispondenza con capi di stato, cardinali, uomini politici, giornalisti, diplomatici, cit., pp. 403-404.
104 [G. Dossetti], Tattica elettorale, «Cronache sociali», 5, 1951, 7/8, pp. 1-7.
105 ASSR-FF, A. Fanfani, Diario, 21 giugno 1951; si veda anche G. Lazzati, Pensare politicamente, cit., p. 164.
106 Cfr. G. Tassani, La terza generazione, cit., p. 245.
107 Su questo processo P. Pombeni, La fine del dossettismo politico, in Giuseppe Dossetti: la fede e la storia, a cura di A. Melloni, cit., pp. 213-257.
108 Cfr. G. Tassani, Quei giorni a Rossena. La fine dell’alternativa dossettiana, «Il Mulino», 41, 1992, 5, pp. 880-881.
109 Id., La terza generazione, cit., p. 245.
110 M. Rumor, Memorie (1943-1970), a cura di E. Reato, F. Malgeri, Vicenza 1991, p. 66.
111 A colloquio con Dossetti e Lazzati, cit., p. 98.
112 M. Rumor, Memorie (1943-1970), cit., p. 66. Molti anni più tardi Dossetti affermerà che al momento del proprio congedo politico «una vaga intuizione che anche lui [scil. De Gasperi] sarebbe stato facilmente sommerso senza di noi, io l’avevo. Io sono uscito nel ’52 e lui nel ’53 è stato demolito»: A colloquio con Dossetti e Lazzati, cit., p. 94.
113 Lettera a A. De Gasperi, 1 gennaio 1952, in De Gasperi scrive, cit., p. 305. Ancora nel settembre 1951 a un gruppo di amici milanesi aveva indicato che una delle cose fondamentali da comprendere per poter far evolvere la situazione politica italiana era che «non si può essere progressivi in economia e nei rapporti sociali, se non si è progressivi in politica. Non si può verificare un miglioramento economico, neanche parziale, se non si verifica un rifacimento profondo delle istituzioni che sono inadeguate, cioè di una società che non ha conosciuto, non dico la rivoluzione sociale, ma nemmeno, in ultima istanza, la rivoluzione democratica e liberale»: G. Dossetti, Crisi del sistema globale, in Giuseppe Dossetti. Prime prospettive e ipotesi di ricerca, a cura di G. Alberigo, cit., p. 91.
114 Cfr. U. Segre, Il dramma del dossettismo, «Il Giornale dell’Emilia», 10 ottobre 1951.
115 Cfr. G. Tassani, La terza generazione, cit., p. 245.
116 Id., Quei giorni a Rossena, cit., p. 882.
117 «Non abbiamo però mai negato l’esistenza del grande dilemma moderno: o con la Chiesa o con le masse. Solo, cadendo a modo nostro nell’errore del mondo da cui provenivamo, lo abbiamo minimizzato: se non abbiamo minimizzato la Chiesa, abbiamo minimizzato le masse. Abbiamo ridotto le loro istanze a bisogno di cibo, di alloggio, di vestiario, di divertimento: abbiamo largamente accettato in pratica le ideologie positivistiche del riformismo anglosassone; abbiamo considerato il comunismo come uno “scisma” e abbiamo predicato che questo “scisma comunista” sarebbe stato riassorbito se lo Stato avesse compiuto una politica di “audaci riforme sociali”, avesse cioè dato il “welfare” alle masse»: G. Baget, Dentro la legge dell’ideologia materialista, «Terza generazione», 1, 1953, 0, p. 7 (consultabile in anastatica digitale nella sezione «biblioteca digitale» del sito www.sturzo.it; 1° settembre 2010).
118 G. Dossetti, Crisi del sistema globale, cit., p. 90.
119 L. Dal Falco, Diario politico di un democristiano, a cura di F. Malgeri, Soveria Mannelli 2008, p. 98; sulla genesi delle correnti postdossettiane si vedano G. Galloni, Antologia di «Iniziativa Democratica», Roma 1973, pp. 30-36; G.M. Capuani, C. Malacrida, L’autonomia politica dei cattolici. Dal dossettismo alla Base, 1950-1954, Novara 2002.
120 Lettera a Romolo Pietrobelli, dicembre 1951, in G. Rombi, Chiesa e società a Sassari dal 1931 al 1961. L’episcopato di Angelo Mazzotti, Milano 2000, p. 294. In una missiva inviata al «Corriere della sera» Cossiga indicherà d’essere stato «dossettiano fino al momento in cui Giuseppe Dossetti sciolse il movimento politico-culturale che faceva capo alla dotta e moderna rivista Cronache Sociali, diretta da Giuseppe e Marcella Glisenti. E solo dopo molti anni diventai cattolico liberale, alla Sturzo ed alla De Gasperi, anche se da buon whig naturalmente di sinistra»: F. Cossiga, Dossetti non era cattocomunista, «Corriere della sera», 22 giugno 2006.
121 Cfr. N. Fallaci, Dalla parte dell’ultimo. Vita del prete Lorenzo Milani, Milano 19774, pp. 545-546. La lettera si concludeva con l’invito a riferire a Dossetti, qualora fosse passato da Firenze, di mettersi in contatto con lui.
122 G. Miccoli, Fra mito della cristianità e secolarizzazione. Studi sul rapporto chiesa-società nell’età contemporanea, Casale Monferrato 1985, pp. 431-432.
123 Don Zeno Saltini di Nomadelfia, Lettere da una vita, 1, 1900-1952, Bologna 1998, pp. 133-134.
124 Su questa fase della biografia dossettiana si vedano M. Tesini, Oltre la città rossa. L’alternativa mancata di Dossetti a Bologna (1956-58), Bologna 1986; P. Pombeni, Giuseppe Dossetti consigliere comunale: una riconsiderazione, in G. Dossetti, Due anni a Palazzo d’Accursio. Discorsi a Bologna 1956-1958, a cura di R. Villa, Reggio Emilia 2004, pp. I-XLI.
125 M. G[lisenti], Avvertenza per una storia da scrivere, in Cronache Sociali 1947-1951, cit., p. 16.
126 G. Miccoli, L’esperienza politica (1943-1951), cit., pp. 31-32.
127 Cfr. Lercaro e Dossetti: l’incontro di due grandi anime. Intervista a Madre Agnese Magistretti, a cura di F. Zingrillo, «Notiziario lercariano», 2002, 9, pp. 81-89; N. Buonasorte, Lercaro e Dossetti: fraternità e paternità, in Giuseppe Dossetti. Studies on an Italian Catholic Reformer, a cura di A. Melloni, cit., pp. 241-253.
128 Cfr. F. Sportelli, La Conferenza Episcopale Italiana (1952-1972), Galatina 1994, pp. 114-115.
129 Ch. Journet, J. Maritain, Correspondance, V, 1958-1964, éd. par Fondation du Cardinal Journet, Fribourg 2006, p. 388.
130 Cfr. G. Ruggieri, R. Albani, Cattolici comunisti? Originalità e contraddizioni di un’esperienza «lontana», Brescia 1978, pp. 57-59.
131 Una sintesi di questo orientamento è stata recentemente espressa da G. Bedeschi, Il catto-comunismo è nato con Dossetti. Ma non è mai morto, «Il Giornale», 16 giugno 2010.
132 Lettera di E. Brettoni a G.B. Montini, 12 luglio 1945, in Archivio della Curia Vescovile di Reggio Emilia, Fondo Eduardo Brettoni, ora in S. Spreafico, I cattolici reggiani dallo stato totalitario alla democrazia, 5/II, Il difficile esordio: «uomini nuovi» e «uomini vecchi», Reggio Emilia 1993, p. 92.
133 G. Dossetti, Tra eremo e passione civile. Conversazioni, Milano 20062, p. 16. Significativa la dichiarazione rilasciata dal presidente della Regione Lombardia – nonché leader ciellino – Roberto Formigoni all’indomani della morte di Dossetti, quando lo ricordava come «l’emblema del complesso di inferiorità del cattolicesimo politico nei confronti del marxismo»: L’addio di Dossetti, «la Repubblica», 16 dicembre 1996, p. 4.
134 Cfr. S. Spreafico, I cattolici reggiani dallo stato totalitario alla democrazia, vol. 5/II, cit., p. 552. Alla data del 29 gennaio 1962 uno stretto collaboratore di Togliatti aveva appuntato sul proprio diario che al segretario del Pci «Fanfani non è particolarmente simpatico (l’unico di quel gruppo per il quale prova amicizia è La Pira, stima Dossetti ma ha diffidenza per il suo integralismo religioso del tutto diverso, a suo avviso, da quello lapiriano, di tipo francescano)»: L. Barca, Cronache dall’interno del vertice del PCI, 1, Con Togliatti e Longo, Soveria Mannelli 2005, p. 287.
135 G. Lazzati, Dossetti, MP e la lealtà, «Corriere della sera», 8 settembre 1984.
136 In un colloquio intercorso il 3 marzo 1993, Dossetti aveva espresso a Romano Prodi la convinzione della necessità assoluta di «un passaggio immediato ad una legge elettorale maggioritaria con un cambiamento totale della classe dirigente e la formazione di un esecutivo capace di prendere decisioni di grande portata, ritenendo anche pericolosa, date le fragilità del paese, una struttura fortemente federale. Il decentramento amministrativo è quanto mai opportuno – aggiungeva Dossetti – ma la “politica” deve rimanere al centro»: R. Prodi, Ricordo di Dossetti, dieci anni dopo, in Giuseppe Dossetti: la fede e la storia, cit., p. 14.
137 «Senza alcun preambolo, [Dossetti] cominciò a parlarmi di politica e delle sue valutazioni sul centro-sinistra: l’incontro tra i cattolici democratici e la sinistra lo appassionava; l’idea stessa dell’Ulivo corrispondeva a una sua ispirazione e a una sua visione molto profonda. Era preoccupato della tenuta della coalizione, e ne chiedeva un forte consolidamento»: M. D’Alema, G. Cuperlo, La grande occasione. L’Italia verso le riforme, Milano 1997, p. 12. Della diffusione dell’idea di una totale sintonia tra Dossetti e la coalizione di centro-sinistra guidata da Romano Prodi è emblematica anche la vignetta che Forattini pubblicherà su «Repubblica» all’indomani della morte del fondatore della Piccola Famiglia dell’Annunziata: un saio appeso ad un ulivo che, contorcendosi, aveva assunto la forma della falce e del martello.
138 Un gesto che peraltro suscita irritazione tra i popolari: «Ci è sembrato strano», riferirà Dario Franceschini, «perché è un po’ difficile costruire un partito socialdemocratico e poi andare a cercarsi i voti ovunque come un generico partito progressista»: P. Di Caro, Franceschini ai Ds: ricordatevi che da soli non avete i voti per far vincere il centrosinistra, «Corriere della sera», 9 novembre 1998. Nell’aprile 2006 sarà il presidente della Camera Fausto Bertinotti, esponente del Partito della rifondazione comunista, a compiere una visita analoga in occasione delle celebrazioni per la Festa della Liberazione.
139 È stato scritto che «uno dei problemi di maggiore rilievo è […] il duplice, contrastante atteggiamento che caratterizza la posizione della Dc nei confronti del fenomeno dossettiano. Tale atteggiamento consiste in una sostanziale rimozione del fenomeno sul piano della prassi politica (il programma della Dc, di fatto, non ha mai recepito nessuno dei punti principali della piattaforma dossettiana) ed in una puntuale e ricorrente celebrazione delle figure che quel fenomeno impersonarono (La Pira in particolare, ma anche Dossetti e, forse in minor misura, Lazzati). È una doppiezza che trova le sue ragioni nell’improponibilità della piattaforma dossettiana – essa stessa peraltro inevitabilmente soggetta all’usura del tempo – in un partito attestato su posizioni assai diverse fin dai tempi di De Gasperi e, al contempo, nel fascino e nel richiamo suscitato da alcuni degli uomini innegabilmente migliori dell’intera sua storia»: F. Bruno, Dossettismo e Democrazia cristiana tra politica e storiografia, cit., p. 41.
140 Cfr. L. Giorgi, Il ritiro l’eredità. Giuseppe Dossetti e la DC, 1951 e 1967, «Il Margine», 26, 2006, 3, pp. 19-24.
141 Cfr. L. Pierantozzi, La nemesi del dossettismo. Lontane radici della crisi ideale e politica della DC, «Rinascita», 2, 1970, p. 6.
142 Cfr. V. Monti, Fanfani al meeting «ciellino» di Rimini: voi siete gli eredi dell’opera di Dossetti, «Corriere della sera», 29 agosto 1984.
143 Il professor Lazzati replica a Fanfani, «Corriere della sera», 30 agosto 1984. Una settimana più tardi, in un nuovo articolo, Lazzati aggiungeva di trovare «patetica e un po’ deprimente questa rincorsa di maturi leaders a blandire e vezzeggiare giovani che, piuttosto, denunciano un vero bisogno di autentici maestri»: Dossetti, MP e la lealtà, cit. Con ogni probabilità è stato proprio il clamore delle dichiarazioni di Fanfani e il desiderio di lasciare una memoria diretta della propria esperienza politica e culturale ad indurre Dossetti e Lazzati a lasciarsi intervistare nel novembre 1984 da Leopoldo Elia e Pietro Scoppola.
144 Tutte esemplarmente riassunte nell’analisi – non a caso svolta all’indomani della costituzione dei Comitati per la difesa della Costituzione – da E. Galli della Loggia, La storia ha smentito le sue illusioni, «Liberal», 1, 1995, 5, pp. 58-59; del dossettismo come «tentativo fallito» riferisce B. De Cesaris, Cattolici, eredità «popolare» e nuovo stato, in Problemi del movimento sindacale in Italia, 1943-1973, «Annali della Fondazione Feltrinelli», 16, 1974-1975, pp. 220-229.
145 Cfr. R. Orfei, L’occupazione del potere. I democristiani ’45-’75, Milano 1976, p. 75, per il quale Dossetti e Lazzati erano «ospiti del partito a tempo determinato per i lavori della Costituente in cui erano assai capaci». Dal canto suo Pombeni ha rilevato che «si trattava in realtà di una corrente di opinione molto informale, senza posizioni di potere: un gruppo di persone che si trovavano attorno ad una leadership intellettuale che si sperava potesse imporsi al partito in quanto tale, perché era ritenuta come la progettualità politica necessaria. Per questo il dossettismo come “corrente” interna alla Dc fu una sorta di crocevia perenne: mentre gli altri gruppi erano clan di uomini riuniti o da antiche militanze comuni o da comuni interessi di potere, i dossettiani erano un luogo di dibattito aperto che ingrossava le sue file quando cresceva lo scontento verso gli altri gruppi o quando singoli pezzi della sua proposta progettuale incontravano successo (la Cassa per il Mezzogiorno, la riforma agraria, la politica economica di impronta keynesiana) e che perdeva consensi quando ci si doveva contare su posizioni di potere»: Il dossettismo. Una storia ancora da scrivere, cit., p. 873.
146 G. Galloni, Antologia di «Iniziativa Democratica», cit., p. 26.
147 De Gasperi scrive, cit., II, p. 297.
148 Erano naturalmente ben altre le intenzioni che animavano la penna di Giorgio La Pira quando, scrivendo a Pio XII nell’agosto 1958, gli riferiva del «nesso profondo, soprannaturale, che continua ad unire – in unità, “di avanzata” – Dossetti, Lazzati, me e Fanfani: il quadrilatero che diede tanta perplessità ai “fusti” della politica italiana!»: G. La Pira, Beatissimo Padre. Lettere a Pio XII, a cura di I. Piersanti, A. Riccardi, Milano 2004, p. 309.
149 Cfr. C. Melato, Non bastano i tagli a salvarci dagli errori di Togliatti e Dossetti. Intervista a Piero Ostellino, «Il Sussidiario», 17 Giugno 2010. Dello stesso tenore D. Antiseri, La Pira, il padre di tutti i buonismi, «Corriere della sera», 10 febbraio 2001, e M. Pera, Dal liberalismo al «lapirismo». Così tramontano i sogni di riforma, «Corriere della sera», 1 giugno 2010.
150 P. Scoppola, La «nuova cristianità» perduta, Roma 1985, pp. 19-20.
151 Ernesto Galli della Loggia ha perciò declinato il «dossettismo» come l’aspirazione, rimasta nella Dc dopo le dimissioni di Dossetti, «a realizzare i valori cristiani nel sociale, ma in breve tempo essa si degrada a ideologia di facciata di una corrente del partito, della sinistra democristiana. Il “dossettismo” diviene così il trait-d’union, il collante, tra un degno gruppo d’intellettuali cattolici che per decenni continuano a coltivare il sogno maritainiano degli anni Trenta e uno dei più spregiudicati gruppi di potere all’interno della Dc, espertissimo come pochi altri nel raccogliere posti di governo e di sottogoverno, nell’imbastire le più vaste pratiche clientelari, nel corrompere il clima morale della vita pubblica italiana»: La storia ha smentito le sue illusioni, cit., p. 59.
152 F. Anfossi, Un paese svuotato. L’Italia e la crisi della democrazia: parla Giuseppe De Rita, «Famiglia cristiana», 9 marzo 2003.
153 Cfr. P. Pombeni, Come è difficile interpretare il dossettismo, pp. 112-113.
154 P. Glisenti, Non sono mai stato democristiano, in «Panorama», 1972, 372, pp. 29-31; su questa intervista si vedano le considerazioni svolte da L. Pedrazzi, Riflessioni su un apocrifo contemporaneo, cit., pp. 281-288. Per la menzione di Dossetti nello scritto moroteo del 1978 si veda Il memoriale di Aldo Moro rinvenuto in via Monte Nevoso a Milano, a cura di F.M. Biscione, Roma 1993, p. 113.
155 G. Baget Bozzo, Il partito cristiano al potere. La DC di De Gasperi e di Dossetti, 1945-1954, Firenze 1974, p. 546. Sui limiti di questa interpretazione si veda L. Elia, Costituzione, partiti, istituzioni, Bologna 2009, pp. 277-280.
156 G. Baget Bozzo, Un intervento sulla questione democristiana: la fine di una cultura politica, «Critica marxista», 15, 1977, 6, p. 143.
157 Esemplari le espressioni a cui era ricorso all’indomani dello scioglimento della Democrazia Cristiana: «Il dossettismo era la definizione che si dava a una corrente della sinistra democristiana, partendo dal nome del suo leader, Giuseppe Dossetti. Il dossettismo si fondava sull’affermazione di un contenuto politico proprio al cattolicesimo: il compito dello Stato era la giustizia sociale e quindi, suo obiettivo primario, la protezione dei soggetti più deboli», G. Baget Bozzo, Cattolici e democristiani, Milano 1994, p. 56.
158 G. Baget Bozzo, Costituzione e politica, in G. Baget Bozzo, P.P. Saleri, Giuseppe Dossetti. La Costituzione come ideologia politica, Milano 2009.
159 Ibidem, rispettivamente alle pp. 19, 52, 38, 37, 47, 55, 63, 58, 56, 62 e 19.
160 Cfr. F. Perfetti, La repubblica (anti)fascista. Falsi miti, mostri sacri, cattivi maestri, Firenze 2009; La Pira, don Milani, padre Balducci. Il laboratorio di Firenze nelle scelte pubbliche dei cattolici dal fascismo a fine Novecento, a cura di P. De Marco, Soveria Mannelli 2009; un efficace manifesto di questo nuovo orientamento si ha in G. Orsina, Pietro Scoppola e la verità storica della cultura di sinistra, «L’Occidentale», 28 ottobre 2007.
161 «Sul piano del pensiero, delle divisioni d’ordine politico sociale, e anche etico-generale, sta accadendo che l’unico pensiero un po’ vitale mi pare […] soprattutto il pensiero neo-liberale, che trova molti rappresentanti della cultura favorevoli oppure allineati. Come quaranta anni fa molti rappresentanti della cultura erano comunisti o filo-comunisti, adesso i professori universitari – molti –, persone che cominciano a pensare e a operare nel retroterra della politica attiva, preparando o cercando di preparare la politica di domani, sono di orientamento neo-liberale. Hanno compiuto una curiosissima operazione che adesso si sta vedendo da varie parti: mettere tra parentesi quello che è accaduto in Italia dal 1919-22 a oggi. Quello che ha detto [Giuliano] Amato alla Camera [il 21 aprile 1993], che dopo tutto non c’è grande differenza tra il periodo fascista e quello post-fascista è condiviso da molti. [Angelo] Panebianco, insegna scienze sociali a Bologna, è uno di questi. La nuova rivista “Limes” è in questa direzione. Ci sono anche fattori generali, internazionali: è l’orientamento prevalente oggi, dall’America in poi: l’orientamento francese, ecc. Ma anche in Italia – non so poi quanto sia effettivamente recepito dalle folle, dalla base, per esempio dalle stesse Leghe, che hanno naturalmente un pensiero molto chiuso, che prendono un po’ da tutti e da nessuno. È questa emergenza culturale che adesso bisogna ripensare»: G. Dossetti, Etica e politica: principi generali, «La Terra vista dalla Luna. Rivista dell’intervento sociale», 1995, 7, pp. 8-9.
162 Una chiave ermeneutica cui ricorre da ultimo G. Romanato, La questione cattolica nell’Italia che cambia. Ricognizione storiografica e coscienza storica, in L’Unità nazionale: memoria condivisa, futuro da condividere, Genova 2010, p. 38.
163 «A partire dagli anni Sessanta», ha scritto Gaetano Quagliariello – che insieme a Marcello Pera ha indirizzato la Fondazione Magna Charta verso questo genere di attività culturale –, «l’orizzonte politico dei cattolici democratici fu, in Italia, la cultura dell’antifascismo, l’idealizzazione dell’esperienza resistenziale, il bisogno di riprendere lo spirito del CLN, il culto del momento costituente e della Costituzione, la mitizzazione oltre la verità storica dell’accordo sull’articolo 7: insomma, il dialogo con il PCI»: La via cattolica alla modernità italiana e i suoi limiti: uno sguardo storico politico del nuovo secolo, in La Pira, don Milani, padre Balducci, cit. p. 83.
164 Cfr. M. Chierici, Dossetti: «È una guerra di bugie», «Corriere della sera», 11 febbraio 1991.
165 L. Elia, La Costituzione aggredita. Forma di governo e devolution al tempo della destra, Bologna 2005. Proprio Matteucci indicava nell’anno della vittoria elettorale dell’Ulivo la necessità di cambiare la Carta del ’48: «Quando fu approvata ci fu chi, tra i sostenitori del presidenzialismo, disse che era già morta prima di nascere. Ne sono convinto anch’io. Le parti ispirate alla dottrina sociale della Chiesa sono invecchiate rispetto alle più recenti encicliche papali. I diritti fondamentali, poi, vanno aggiornati ed ampliati. Ma è soprattutto la forma di governo che necessita di una riforma, e la via suggerita da Sartori, semipresidenzialismo alla francese, è quella corretta da seguire. Ma c’è l’opposizione intransigente del Ppi e di Prodi, opposizione guidata e orchestrata da Giuseppe Dossetti»: Bisogna cambiare la Costituzione e difendere i diritti dei cittadini, «Il Foglio», 18 giugno 1996.
166 La riflessione più puntuale su questo aspetto è stata offerta da U. Allegretti, Dossetti, difesa e sviluppo della Costituzione, in Giuseppe Dossetti: la fede e la storia, cit., pp. 67-146.
167 Cfr. L. E[lia], Avvertenza per una storia da scrivere, cit., pp. 17-21.
168 G. Dossetti, Con Dio e con la storia, cit., p. 15.
169 Testimonianza su spiritualità e politica, cit., p. LIX.