Il ducato e la "civitas Rivoalti": tra carolingi, bizantini e sassoni
Gli eventi dell'anno 774 avevano segnato in modo profondo gli equilibri dell'intera penisola italica, aprendo nuove delicate prospettive anche per Venezia. La definitiva vittoria di Carlo Magno su re Desiderio aveva allora portato la trionfante presenza franca in quelle terre che avvolgevano l'area lagunare e ora vedevano il definitivo tramonto del dominio longobardo; sempre più lontano doveva apparire l'impero bizantino, che ormai da tempo la stessa Roma papale aveva messo da parte quale proprio referente primario per la politica italica, sentendosi ben altrimenti garantita dall'alleanza con il regno franco.
Per Venezia i nuovi vicini non erano tanto più rassicuranti dei vecchi: i longobardi. Con costoro la lunghissima contiguità e i rapporti non sempre ostili mantenuti per tanti anni non erano bastati a sciogliere tensioni e sospetti. È vero che nel momento in cui i longobardi di re Astolfo avevano definitivamente conquistato Ravenna, nel 750-751 (I), con il conseguente crollo del sistema esarcale, le forze venetiche non si erano mosse. Lo avevano fatto nel 735, allorché Liutprando aveva occupato Ravenna e l'esarco Eutichio - rifugiatosi nelle lagune - aveva potuto riprendere la città con l'aiuto dei venetici. Quell'aiuto era però mancato - per quanto ne sappiamo - al tempo di Astolfo. E viene in mente come proprio in quel giro di anni e con quel sovrano si fosse avuta la "largitio" che riconosceva da parte longobarda i confini della "Venetia" bizantina nella zona di Cittanova. L'atto è sicuramente indice di buoni rapporti esistenti tra longobardi e venetici, tanto da suggerire in qualche modo un legame con i fatti che segnarono la fine dell'esarcato: forse si tratta del compenso per un mancato intervento venetico a supporto di Ravenna, o forse di un segno di normalizzazione dei rapporti dopo una fase di turbamenti (2).
Quella ipotizzabile fase di particolare sintonia con i longobardi, peraltro, non segna una reale modifica negli atteggiamenti di fondo. Così quando re Desiderio, nel 770 circa, s'impegnò nella fortunata campagna militare in Istria, a tentare di contrastarlo aiutando la difesa bizantina scesero in campo anche le milizie venetiche che vent'anni prima non si erano mosse in soccorso di Ravenna. E in occasione dell'intervento in Istria veniva tra l'altro catturato dai longobardi lo stesso figlio del doge Maurizio [Galbaio>, cioè Giovanni, che ancora alla vigilia della conquista carolingia era prigioniero presso il re longobardo (3).
Quando, appunto nel 774, i franchi presero il posto dei longobardi e Carlo Magno assunse anche il titolo di re di quelle genti, per i venetici non c'erano davvero ragioni di particolare soddisfazione. L'antico, tradizionale avversario era tolto di mezzo per sempre, ma un nuovo pericoloso vicino gli subentrava. Non meno temibile, infatti, la potenza franca si presentava in una fase di straordinario vigore, con una proiezione imperiale (anche indipendentemente dal titolo che re Carlo avrebbe ricevuto da papa Leone III nella notte di Natale dell'800). Per di più, quanto alle forze in campo sullo scacchiere italico, se in passato si era potuto contare sulla mai sanata e sempre latente ostilità tra il papa e i longobardi, ora gli spazi di manovra politica che tale contrasto creava si erano chiusi: tra Roma ed Aquisgrana si istituiva un asse che mai era esistito fra Roma e Pavia. Quanto ai bizantini, i cui possessi in Meridione erano soltanto gli smorti residui della passata egemonia in Italia, poco riuscivano a contare. La loro flotta era pur sempre in grado di assicurare il controllo sui mari, ma ben altro occorreva per pesare davvero in aree sempre più remote. Oltre a tutto, Costantinopoli in quel giro d'anni era turbata da notevoli problemi: in ambito interno la transizione tra l'apogeo dell'iconoclastia (con Costantino V Copronimo, morto nel 775) e la restaurazione del culto delle immagini negli anni segnati dall'imperatrice Irene (prima a fianco del marito Leone IV e del figlio Costantino VI, poi, dal 797 all'802, da sola, vero e proprio autocrate), avveniva tra duri contrasti; sul piano internazionale le fortune del califfato abbasside, le pressioni arabe in Asia Minore e le difficoltà alla frontiera con i bulgari lasciavano ben pochi margini di manovra in occidente. E in questo contesto Venezia restava la punta estrema della bizantinità.
Come "consul [ = ipatus> et imperialis dux Venetiarum provinciae" era indicato il doge Maurizio nel 770-771 (4): provincia bizantina, dunque, la "Venetia", e al suo vertice un capo con funzioni di rappresentante imperiale. È superfluo ribadire che tale rappresentanza non annullava quanto di autonomia i venetici si erano assicurati nel tempo, ma rimane chiara la collocazione internazionale del dogado: nella sfera d'influenza orientale. E la vittoria franca del 774 non aveva modificato la situazione. Anzi. Il tradizionale riferimento a Costantinopoli diveniva ora più importante che mai per tutelare Venezia da altre possibili dipendenze ben altrimenti pericolose che quella bizantina. I pretendenti ad una posizione di egemonia non mancavano. Si era fatto avanti il papato che, prima con Stefano III e poi con Adriano I, sulla base delle promesse franche e in linea con il programma di succedere a Bisanzio nei domini italici da questa perduti, aveva preteso in qualche modo di estendere la propria giurisdizione su Venezia ed Istria (5). Ma i sogni pontifici erano acqua fresca. Altro peso e spessore avevano invece i progetti carolingi.
I timori in Venezia dovevano a questo proposito essere forti e avevano spinto a cercare collegamenti esterni, senza escludere connubi longobardo-bizantini (6) che in altri anni sarebbero stati impensabili. Ma non tutti in Venezia - in questi ultimi anni del secolo VIII - operavano nella stessa direzione. I contrasti che avevano sempre segnato la dinamica interna alla società lagunare si accentuavano nel riferimento a più incalzanti pressioni esterne. Se il doge Maurizio, infatti, passava per fermo avversario della politica romano-franca, la massima autorità religiosa della provincia, il patriarca di Grado, Giovanni, era invece su posizioni decisamente filo-papali e perciò filo-franche (7). Ciò è comprensibile se si pensa agli interessi spirituali e materiali di Grado. I vincoli che (andando ben oltre il piano della mera organizzazione ecclesiastica) la univano all'area istriana e terrafermiera, spingevano quasi senza scelta verso soluzioni politiche funzionali. Soltanto l'appartenenza ad uno stesso sistema di potere avrebbe garantito appieno la primazia gradense; un serio confine che ne tagliasse la giurisdizione (e gli interessi) era quanto di peggio potesse darsi. Così era da sempre: da quando il vescovo Paolo era passato da Aquileia a Grado fuggendo all'arrivo dei longobardi. In sostanza, il solido controllo franco sull'Istria e l'entroterra richiamava l'adesione del metropolita gradense; quando Carlo Magno si fosse mosso, dunque, avrebbe potuto contare sul collegamento con gruppi interni alla "Venetia".
La prima mossa carolingia fu di carattere economico e venne giuocata attraverso il pontefice. Così papa Adriano I, al quale per gli accordi e le donazioni franche spettava formalmente la giurisdizione su quelle regioni una volta bizantine, nel 785 ordinava l'espulsione di tutti i mercanti venetici dall'Esarcato e dalla Pentapoli e la confisca delle terre di proprietari venetici che si trovassero nell'area di pertinenza della chiesa ravennate (8). La decisione illustra bene quali fossero già allora i connotati della società lagunare, con una complementarità forte fra interesse mercantile e possesso fondiario e una vitale proiezione all'esterno del dogado. Ma soprattutto illustra gli orientamenti politici di fondo. Nella fase acuta del conflitto si sarebbe entrati con 1'802, ma intanto le ragioni di contrasto non mancavano.
Un punto critico era stato presumibilmente toccato a proposito del vescovato di Olivolo. Quella diocesi era stata costituita verso il 775, subito dopo la caduta del regno longobardo, ma i passi necessari per la sua istituzione dovevano essere stati compiuti in precedenza, con il diretto interessamento dell'autorità politica (9). Forse allora per la prima volta le lagune vedevano una nuova sede vescovile affiancarsi alla vecchia sede metropolitica gradense, e per di più nel cuore del dogado. E vero che diversi presuli avevano fissato la loro residenza in laguna fin dai primi momenti dell'invasione longobarda; ma in genere si ritiene che mantenessero la titolarità di diocesi di terraferma, mentre adesso la sede era in tutti i sensi venetica, lagunare: faccenda ben diversa (10). In ogni caso, delle perplessità a Grado dovevano esserci comunque state di fronte al volere dell'autorità politica. Ma circa nel 795 la questione saliva di tono. A succedere ad Obeliebato, primo vescovo olivolense, si designava allora, con il favore dogale (11), Cristoforo: un greco che il patriarca in carica, Giovanni, doveva naturalmente vedere come ostacolo alla sua politica orientata in senso romano-franco e perciò antibizantino. L'esatta, drammatica misura degli antagonismi esistenti, tuttavia, si sarebbe avuta - come già detto - nell'802.
La funzione dogale sembrava allora orientarsi verso soluzioni dinastiche e l'istituto della coreggenza, per il quale il doge in carica si associava nelle funzioni una per-sona di fiducia (di solito un figlio o un fratello), introduceva nella successione ai vertici dello stato un modo di procedere sufficientemente ordinato e non privo di vantaggi. Così il doge Maurizio I si era scelto, con il consenso della popolazione (12), il figlio Giovanni, il quale, subentrato poi al padre defunto, aveva a sua volta provveduto ad associarsi il proprio figlio Maurizio II. Ed era quest'ultimo a salpare per Grado al comando di una flotta, nell'802, deciso, secondo le direttive paterne, a chiudere una volta per tutte i contrasti con il patriarca Giovanni, che finiva assassinato: forse fatto precipitare da un'alta torre della sua residenza (13). La tragica platealità della vicenda, il clamoroso ricorso ad una spedizione navale, l'impegno diretto dei dogi per togliere di mezzo un avversario contro cui non bastava evidentemente servirsi di un discreto sicario: tutto dimostra quanto aperto e incontenibile fosse il conflitto che vedeva come antagonisti, ai vertici delle strutture istituzionali, il doge e il patriarca.
Indubbiamente il contrasto si combinava con la delicata situazione internazionale e con i suoi riflessi in questa modesta ma nevralgica area di confine. L'incoronazione di Carlo Magno nell'800 aveva turbato ideologie e convincimenti profondi: anzitutto l'idea portante dell'unicità ed ecumenicità dell'impero; e fino ad allora unico impero era indiscutibilmente Bisanzio, l'erede di Roma. Il bisogno di legittimazione del nuovo titolo; l'accusa di usurpazione; la ricerca di una via d'uscita: proprio nell'802 gli ambasciatori di Carlo Magno e del papa portavano in oriente ad Irene (dal 797 imperatrice a pieno titolo) una proposta di soluzione. Un matrimonio fra lei e Carlo avrebbe riunificato gli imperi. Ma una congiura veniva a togliere il titolo a Irene, deportata a Prinkipos e poi a Lesbo. Non soltanto cadeva allora ogni ipotesi matrimoniale; il nuovo interlocutore imponeva anche una nuova qualità di rapporti. Sul trono, infatti, era salito Niceforo con cui Bisanzio tornava ad avere una guida efficace e decisa, controparte assai spigolosa per l'occidente. Nel mezzo di questi eventi si colloca l'uccisione del patriarca Giovanni (14), che quindi pare essere il riflesso in sede 'locale dei grandi avvenimenti internazionali.
Certo è che la decisa mossa dei dogi Giovanni e Maurizio II non fu risolutiva, e se ne dovettero presto scontare i contraccolpi. Come successore del metropolita assassinato, significativamente sepolto tra i corpi dei martiri, veniva eletto un suo parente, Fortunato, che subito s'impegnava in un'azione antidogale a cui si raccordavano quanti fra i maggiorenti venetici erano contrari ai dogi. La situazione precipitava in aperto conflitto: nell'agosto 803 il patriarca era a Salz, oltralpe, dove aveva raggiunto Carlo Magno, ottenendone privilegi e immunità per la chiesa gradense (15). L'opposizione per così dire laica si era invece raccolta a Treviso, da dove riusciva facilmente a mantenere i rapporti con i collegati rimasti in patria. E si giungeva all'atto decisivo: davanti al pronunciamento con cui gli avversari eleggevano come nuovo doge il tribuno Obelerio, originario di Malamocco, Giovanni e Maurizio II non erano più in grado di reagire, se non "fuggendo atterriti", costretti all'esilio o addirittura ostaggi in terra franca (16). Con loro doveva significativamente allontanarsi anche il vescovo di Olivolo Cristoforo, il greco, al cui posto venne eletto un nuovo presule: Giovanni.
I rapporti di forza si erano dunque ribaltati. Gli equilibri politici adesso stavano sotto il segno carolingio e il legame con i franchi avrebbe assunto una straordinaria pregnanza di lì a un paio d'anni, quando, sul finire dell'8o5, Obelerio e suo fratello Beato (eletto nel frattempo coreggente) si recavano di persona a Diedenhofen, dove si trovava a quel tempo la corte di Carlo. I due dogi erano giunti insieme al duca e al vescovo di Zara, rappresentanti dei dalmati, e i nuovi rapporti con l'impero carolingio venivano lì regolati da una "ordinatio de ducibus et populis tam Venetiae quam Dalmatiae" (17). Che l'"ordinazione" di cui parlano le fonti sanzionasse una sostanziale annessione al dominio franco o riconoscesse larghe autonomie; che fosse accompagnata da una formale investitura di carattere feudale dei dogi oppure non la contemplasse, la sostanza era chiara: il passaggio dall'ambito bizantino a quello franco. Non dobbiamo però pensare ad una situazione risolta e stabile. A testimoniare i permanenti attriti e i complicati intrecci sta il fatto che il patriarca Fortunato, nonostante il collegamento istituito da tempo con la corte franca, dovesse attendere mesi prima di rientrare in laguna a causa dell'ostilità di Obelerio, con cui pure aveva condiviso l'opposizione ai deposti Giovanni e Maurizio II; e durante l'attesa del rientro si era accostato all'espulso vescovo di Olivolo, il greco Cristoforo nemico di un tempo. I due ecclesiastici poterono poi tornare alle loro sedi e Fortunato subito riprese la sua parte nella politica, forse organizzando proprio lui la missione ad Aquisgrana nell'805 (18). Ma altre opposizioni restavano vive.
In sostanza, la politica venetica vedeva fronteggiarsi due orientamenti di fondo, sfumati finché si vuole nelle loro ultime frange, ma ben precisabili nei loro caratteri di base. L'uno filo-bizantino, lealista, erede più diretto della vecchia tradizione eracleese di forte sintonia con Bisanzio; l'altro tendenzialmente filo-franco, insofferente dei legami costantinopolitani, in linea con quelle pulsioni autonomistiche che - nella valutazione degli storici - si erano meglio localizzate a Malamocco. I sicuri collegamenti che le fazioni venetiche istituivano con le maggiori potenze, allora, rispondono anche ai bisogni della dialettica interna, senza tuttavia esaurirsi in essi. In altre parole, ridurre (come spesso si fa) gli intrecci con la politica estera a conseguenza ed estensione di conflitti intestini, magari in funzione di interessi dinastici, ma sempre comunque in chiave autonoma e "nazionale", significa non cogliere la complessità della situazione. La stessa ragion d'essere dei partiti avversi acquista spessore nel riferimento al quadro internazionale; soprattutto il richiamo a Carlo Magno non era un'occasionale alleanza imposta da equilibri contingenti ad una delle forze in lotta, peraltro totalmente venetica, ma era una qualificante scelta di campo, essenziale nel definire l'identità e il carattere della forza stessa: un elemento costitutivo e connaturato. In conclusione, gli equilibri interni erano condizionati da collegamenti e interferenze esterne e nel contempo le forze esterne, anche quelle maggiori, per svolgere un ruolo efficace in questa delicata provincia dovevano poter contare su appoggi locali (19).
Il passaggio dai filo-bizantini Giovanni e Maurizio II ai filo-franchi Obelerio e Beato, con l'"ordinatio de ducibus" dell'8o5, doveva fare i conti con una opposizione venetica, ma soprattutto doveva confrontarsi con un ritorno bizantino. A oriente, infatti, l'impero, sotto la guida di Niceforo, si trovava in condizione di netta ripresa: una finanza più sana, un'economia riordinata e un sistema militare potenziato (ossia denaro e truppe) rendevano possibile dare quelle risposte che la situazione imponeva, specialmente dopo l'805. Perduta l'Istria già in età longobarda, accettare ora la defezione dalmata e rinunciare ai particolari legami con le Venezie avrebbe comportato il tracollo finale del proprio ruolo nell'alto Adriatico. Così nell'806-807, al comando del patrizio Niceta, la flotta bizantina giungeva nelle acque venetiche (20); senza avversari su un mare in cui i carolingi ben poco potevano, la sua presenza ha conseguenze immediate. Il patriarca Fortunato, significativamente, è subito costretto a fuggire (mentre le navi sono ancora in viaggio) abbandonando la sede gradense per trovare nuovamente rifugio presso i franchi (21). I due dogi devono fare precipitosamente marcia indietro ribaltando le loro posizioni; Obelerio viene allora insignito del titolo aulico di "spatario": segno della sua appartenenza alla sfera bizantina piuttosto che premio per le benemerenze acquisite; anche per Beato sarebbe venuto un titolo, quello di "ipato" (cioè console) ricevuto direttamente a Costantinopoli dove era andato con Niceta, che rientrava in patria portando ostaggi da Venezia. Infine, il greco Cristoforo, esiliato, perdeva una volta per sempre quel suo tormentato titolo vescovile, pagando così l'accordo che aveva saputo trovare con il patriarca Fortunato e i dogi (22).
Si trattava indubbiamente di una situazione di compromesso. Era sì ribadito il legame di Venezia all'impero bizantino, ma senza forzare la situazione; se il vescovo Cristoforo (figura in fondo collaterale) era stato messo da parte, i maggiori responsabili delle trascorse scelte filo-franche, ossia Obelerio e Beato, mantenevano la loro altissima funzione. E il patriarca Fortunato, sia pure da fuoruscito, restava sulla scena, anche se a sostituirlo a Grado era chiamato (ulteriore riprova di quanto fluida e per certi versi contraddittoria fosse la situazione) quel Giovanni che i dogi avevano tentato di imporre ad Olivolo in funzione filo-franca in luogo di Cristoforo, appena preso il potere. Se i carolingi non erano stati in grado di mantenere salda la loro influenza nelle lagune, i bizantini non erano ora in grado di imporre la propria con vera energia. Riemerge qui la difficoltà che le stesse maggiori potenze del tempo incontravano nel controllare questa provincia di confine, ciò che imponeva di far conto sulle forze locali e insieme assicurava in generale ai venetici la possibilità di ampi margini di autonomia; ma non era quello un momento dei migliori in proposito.
La congiuntura, infatti, era assai poco favorevole agli sviluppi autonomistici. Il bisogno di regolare i conti fra loro imponeva ai due imperi il massimo sforzo possibile lì dove venissero a confronto; e in Venezia, ultima propaggine bizantina incuneata in un occidente franco, il confronto era nei fatti. Dunque: la soluzione imposta dalla squadra navale di Niceta nell'806 restava intrinsecamente debole, benché a garantirla fosse poi subentrato, nell'807, un accordo con Pipino, il figlio a cui Carlo Magno nella divisione delle terre imperiali aveva assegnato l'Italia (23). Il "modus vivendi" allora costruito da franchi e bizantini per quella provincia, marginale ma importante per gli uni come per gli altri, avrebbe forse potuto reggere (o comunque lo avrebbe fatto meglio) se Venezia fosse stata un oggetto passivo nel rapporto tra gli imperi e non un soggetto attivo, per quanto minore a paragone dei due giganti politici.
Tra Carlo e Niceforo la partita era globale: si trattava di ridefinire assetti ideologici, prima ancora che territoriali, di portata universale; con una cultura politica convinta da secoli dell'unicità ecumenica dell'impero bisognava anzitutto sciogliere le contraddizioni insite nella presenza di due imperatori. Per Carlo si trattava di assicurare la legittimità del titolo anzitutto davanti a Niceforo e un conflitto locale per il controllo delle lagune non poteva valere il rischio di compromettere il rapporto complessivo con l'oriente. Qui però entra in causa la parte che i venetici riescono a giocare in prima persona. In altri termini, è probabilmente la dialettica interna al ducato ad innescare una serie di reazioni con contraccolpi di carattere internazionale. Se, infatti, ai franchi può non convenire il confronto diretto con Bisanzio, per le lagune la situazione si modifica nel momento in cui sono le lagune a proporsi per un passaggio di campo. Ed è quanto avviene dopo che nell'agosto 807 Niceta, riportati all'obbedienza costantinopolitana i dogi e "conclusa la pace" con Pipino (il patto di Ravenna), salpa per l'oriente.
Gli avvenimenti che seguono sono rimasti ben presenti alla storiografia veneziana, sempre in linea con l'interpretazione a suo tempo datane dal cronista Giovanni diacono: l'accordo che i popoli delle Venezie avevano concluso a suo tempo con il re italico (24) fu rotto per colpa di Pipino, il quale mosse un possente esercito "longobardo" (e con ciò s'intende: della terraferma italica) a prendere la provincia venetica. L'esercito aggressore, superate le bocche che dividono la fascia dei lidi, giunse fino ad Albiola, presso Pellestrina, ma continua il cronista non riuscì a procedere oltre; e lì i due dogi, con un'audace e vigorosa azione, assalirono gli invasori "et divinitus datum est Veneticis de inimicis triumphum": per volontà divina i venetici trionfarono sui nemici (25). Risultano chiari gli schemi del racconto: il re franco è l'aggressore, il colpevole della pace turbata; i venetici debellano le milizie nemiche senza alcun aiuto esterno ma soltanto con la protezione divina che è a fianco dei giusti; i dogi sono alla testa di una gente compatta e concorde. Di bizantini nemmeno l'ombra.
In realtà le fonti franche ci consentono di ricostruire un quadro ben altrimenti articolato. Nell'809 - ricordano gli Annali franchi - la flotta bizantina, al comando del duca Paolo di Cefalonia, era tornata ad incrociare nell'alto Adriatico. La volontà bizantina di riaffermare il proprio ruolo in quel settore si accompagnava alla ricerca di un definitivo accordo con Carlo Magno, anche se le difficoltà e gli incidenti non erano mancati. C'era stato uno scontro con il presidio franco di Comacchio, ma decisiva, tuttavia, era stata l'opera di Obelerio e Beato, con gli "impedimenti" creati all'opera di pace e le "insidie" che venivano macchinando. Così, di fronte alla loro malafede, il duca Paolo doveva rientrare alla base (26). In sostanza, ci attestano gli Annali franchi, esisteva in Venezia uno schieramento ostile alla pace nei termini previsti da Bisanzio, e in esso si riconoscevano i dogi. Le vecchie posizioni filo-franche, dunque, tornavano alla luce e riuscivano decisive nello spingere all'azione Pipino: gesto politico perdente, il suo, la cui responsabilità viene fatta ricadere appieno sulla perfidia dei dogi: "perfidia ducum incitatus". Pipino comunque si muove (così come già si è visto in Giovanni diacono) e sottomette Venezia, ma a questo punto ecco riapparire la flotta orientale: il vero elemento risolutore (non l'indomito spirito dei venetici) (27). Le posizioni filo-franche sono adesso irrimediabilmente indebolite; Obelerio e Beato tentano un ultimo improbabile recupero mettendosi al fianco dei vincitori (28), ma per loro la questione è chiusa, senza altri appelli.
Tra collusioni indubbie, oscillazioni e contrasti, era passato un momento straordinariamente critico per la storia di Venezia. La provincia era stata vicina come non mai ad essere risucchiata in un occidente feudale, terrafermiero, così lontano dalle connotazioni che già le lagune stavano decisamente assumendo. L'autonomia di fatto che il lontano dominio bizantino poteva concedere sarebbe stata difficilmente conservabile con una sovranità (come quella di Carlo) tanto più diretta, energica e vicina. Lo stesso ruolo di giunzione fra aree economiche diverse, ormai in fase di consolidamento per i venetici, avrebbe finito per incontrare nuovi e forse insuperabili ostacoli. Ma tutto questo non si era dato. Ormai all'interno della provincia le posizioni filo-bizantine avevano il sopravvento. Deposti Obelerio e Beato, il primo cercava un inutile rifugio presso Carlo, che lo consegnava a Costantinopoli (29); il secondo, invece, era relegato a Zara. Mentre procedevano senza più speciali ostacoli le trattative fra i due imperi, sotto il diretto controllo del rappresentante bizantino Arsafio, i venetici avevano un nuovo doge, nell'811: Agnello Particiaco, al cui fianco venivano posti due tribuni (30).
A sanzionare la ritrovata stabilità veniva poi l'accordo raggiunto fra gli imperi e ratificato nell'812 ad Aquisgrana. Carlo Magno, a cui da parte orientale si riconosceva il titolo d'imperatore (ma non d'imperatore dei romani, che Bisanzio riservava per sé) s'impegnava al rispetto della sovranità bizantina in quei residui domini altoadriatici fra i quali le Venezie rappresentavano la punta estrema, verso nord e verso occidente. Non ci sarebbe più stata, da parte dei franchi, alcuna pretesa di affacciarsi sulle lagune e poco o nulla sarebbe rimasto di quegli anni. Soltanto qualche opaca leggenda si sarebbe conservata a memoria di quando tutta l'area da Grado a Cavarzere era stata sottomessa al dominio carolingio (31), o di quando Pipino aveva potuto spedire la flotta venetica contro la Dalmazia bizantina (32), e a vuota, rituale formula tralatizia si sarebbero ridotti i diritti che i sovrani franchi avevano assegnato ai loro fedeli nel cuore del dogado (33).
Il momento carolingio, che avrebbe potuto essere determinante in modo assoluto per tutta la storia veneziana, finiva per ridursi a una parentesi. Ma nonostante ciò segna una svolta essenziale. Dopo gli eventi dell'810 e con la pace di Aquisgrana dell'812, infatti, il ricostituito impero occidentale rinunciava ad una politica attiva nell'alto Adriatico; Bisanzio aveva dunque campo libero per l'esercizio indisturbato dei propri diritti sulla Venezia e la Dalmazia. Ma in realtà le cose presero una piega forse difficilmente prevedibile. Quella dell'810 fu, infatti, l'ultima apparizione della flotta bizantina nell'Adriatico settentrionale (34) e dunque nello stesso momento in cui i franchi formalmente rinunciavano ad intervenire nell'area, i bizantini lo facevano praticamente. Si comprende il perché. Per il ridimensionato impero bizantino l'impegno diretto in aree ormai lontane poteva diventare ineludibile in situazioni estreme, ma non era più pensabile in condizioni di normalità. Così il rischio di un tracollo definitivo, sotto la pressione franca, aveva imposto reazioni di intensità tale da non poter essere mantenuta una volta tornati ai ritmi ordinari, come fu dopo Aquisgrana.
Se le due grandi potenze, superata la fase di conflitto in cui con più intensità avevano premuto sulle zone confinarie e di frizione, ora riprendevano a considerarle come marginali (quali in effetti erano rispetto al complesso dei loro domini), questo comportava l'apertura di nuovi spazi per gli sviluppi autonomistici venetici. E quell'alto Adriatico in cui si attenuava l'impegno dei grandi imperi era pur sempre l'area (di tutto il bacino mediterraneo) in cui il mare penetra più in profondità a settentrione nel cuore dell'Europa: naturale capolinea della migliore via di collegamento per l'oriente.
La deposizione di Obelerio e Beato e l'elezione di Agnello erano avvenute sotto la ferma regìa del messo costantinopolitano Arsafio (35), e il nuovo doge, un nobile eracleese, era sicuramente persona legata a Bisanzio. Il nesso, peraltro, sarebbe rimasto assai stretto anche con i successori, e discendenti, di Agnello; lo avrebbe comprovato tangibilmente la regolarità delle loro missioni nella capitale dell'impero: ci sarebbe andato nell'814 il figlio di Agnello, Giustiniano; nell'820 il nipote Agnello II; e a Costantinopoli finì anche temporaneamente in esilio quell'altro Particiaco, Giovanni, che poi riconciliatosi con il fratello Giustiniano sarebbe divenuto lui pure doge (36). Venezia tornava dunque a collocarsi nella tradizionale prospettiva bizantina, ma in realtà molte cose erano cambiate dopo il rovente primo decennio del secolo IX. E una evidentissima novità era la nuova capitale. Cacciati i vecchi dogi, infatti, "i venetici per comune decreto scelsero di avere la sede dogale presso l'isola di Rialto" (37) e là il neoeletto Agnello costruì il palazzo: dove ancora oggi si colloca, affacciato sul bacino di San Marco.
Il processo di riassetto anche materiale riguardava tutto il dogado (38), ma il punto focale era Rialto. Il passaggio compiuto portava verso luoghi più centrali e protetti (si ricordi che le truppe di Pipino erano riuscite a entrare nel dogado battendo la via dei lidi, su cui Malamocco si colloca), ma determinanti sembrano piuttosto le motivazioni politiche; l'abbandono della vecchia capitale segnava infatti una cesura rispetto al passato di collusione coi franchi, e fra l'altro nel complesso insulare rialtino dovevano già essersi insediati diversi esponenti di famiglie di rilievo provenienti soprattutto da Cittanova (39), che per giudizio corrente viene indicata come custode fedele della tradizione filo-bizantina, in qualche contrapposizione con Malamocco. La zona scelta, per la verità, proponeva altre condizioni favorevoli: l'esistenza di primi nuclei di addensamento demico (40); la presenza di un "castrum" nell'isola di Olivolo a ridosso di quella di Rialto; soprattutto, sempre a Olivolo, la sede vescovile istituita, come si è visto, fin dal 774-776. E la scelta doveva rivelarsi giusta. Incardinato su Rialto si avviava forse per la prima volta in area lagunare il processo di fondazione di un vero nucleo urbano, in grado di raccogliere tutte quelle funzioni (militari, religiose, politiche, amministrative, economiche) che caratterizzano una vera città e che fino ad allora risultavano abbastanza sparse sul territorio. Era una nuova Venezia che stava nascendo: dopo la Venezia regione e quella provincia lagunare, si trattava adesso di un centro urbano specifico.
La crescita della nuova capitale avrebbe raggiunto un momento di svolta all'aprirsi del secolo X, con gli interventi messi in opera dal doge Pietro Tribuno (del quale avremo modo di dire), compiendo poi il passo decisivo nel corso del secolo XII (41). Intanto si noterà come il tragitto, che porta le isole intorno a Rialto ad esse-re la città dei venetici per antonomasia, si identifica con quello, non meno importante, che vede il compattarsi pur faticoso e tormentato di una entità politico-statuale tendenzialmente nuova. Il processo di rinnovamento andava in profondità, toccando gli stessi rapporti e i ruoli esistenti all'interno della classe dirigente. Quando Agnello.Particiaco era stato eletto doge, gli furono messi a fianco due tribuni da rinnovarsi annualmente, riprendendo un uso a cui già circa mezzo secolo prima si era fatto ricorso, quando Domenico Monegario era subentrato a Deusdedit (42). Ora come allora vediamo nell'artificio costituzionale il tentativo di limitare l'autorità tendenzialmente centralizzatrice del doge, favorendo quel ceto tribunizio, assai prossimo ad una aristocrazia fondiaria, il cui ruolo nell'amministrazione pubblica era meglio garantito da un esercizio frazionato dei poteri e dal decentramento delle funzioni statuali (43). Rispetto ai tempi di Domenico Monegario, però, una radicale differenza va indicata.
Con l'età dei Particiaci si entra in una fase di decadenza irreversibile del tribunato, pienamente conclusa nel corso del secolo IX. E vero che già la tendenza alla successione dogale nell'ambito della stessa famiglia era andata nel senso di un restringimento degli spazi di manovra dell'aristocrazia tribunizia, ma i conflitti interni negli anni del confronto franco-bizantino dovevano averle portato nuovo ossigeno; ora però il vento tirava in altra direzione. Il ceto sembra corrispondere sempre più a uno strato egemone di antica tradizione fondiaria, ma gradualmente escluso da quella gestione ereditaria di pubbliche funzioni, capace di conservargli forza reale. L'apparizione dei tribuni "primati" (44), in cui è possibile riconoscere in embrione gli "iudices", e il crescente riferimento a "nobiles" e "maiores" per indicare esponenti di vertice della società, di fronte al ritrarsi di presenze tribunizie, indicano il mutamento in corso in una società in trasformazione (45).
Il processo attraverso il quale l'aristocrazia tribunizia veniva perdendo il proprio ruolo di vertice si svolgeva, come normalmente accade per le modifiche strutturali profonde, su tempi lunghi e con molta gradualità. Tuttavia i contraccolpi di quel lento processo si possono forse cogliere in alcuni degli eventi traumatici che segnarono la politica venetica già a partire dal dogado dei Particiaci: prima Agnello (dall'811 all'827), poi Giustiniano (tra 1'827 e 1'829) e infine Giovanni (dall'829 all'836). Nonostante l'ordine riportato dall'intervento bizantino, già gli anni di Agnello avevano visto Venezia agitata da contrasti, anche all'interno della famiglia dogale stessa. Prima c'era stato il conflitto tra i due figli del doge, risoltosi con l'assunzione di Giustiniano alla coreggenza e l'esilio di Giovanni, relegato a Costantinopoli dopo aver cercato rifugio in territorio italico, ma inutilmente, dal momento che l'imperatore Ludovico il Pio si era affrettato a dar corso alle richieste di estradizione, non essendo evidentemente disposto a turbare i buoni rapporti con i bizantini istituiti dopo Aquisgrana (46). Più tardi, negli ultimi anni del suo dogado (tra 1'824 e 1'827), Agnello aveva dovuto fronteggiare un complotto tragicamente finito con impiccagioni e fughe nel regno italico (47). Di lì a qualche anno, morto Agnello e dopo che Giovanni Particiaco era rientrato in patria con il consenso del fratello Giustiniano, prima affiancandolo come coreggente e succedendogli poi nell'829 come doge, si era impadronito del potere il tribuno Caroso (48).
L'usurpazione, durata alcuni mesi, era il segno di profondissime spaccature all'interno della massima classe dirigente locale. Si pensi che nell'829, quando il doge Giustiniano aveva rogato il proprio testamento, anche Caroso sottoscriveva come teste l'atto, figurando addirittura subito dopo il doge e il fratello-coreggente Giovanni, prima persino dello stesso vescovo di Olivolo, Orso (49). Ben trenta "nobiles", esponenti del vecchio ceto tribunizio e della più recente aristocrazia lagunare, erano fuorusciti, nella zona di Mestre, pronti a cogliere il momento per sbarazzarsi di Caroso; il conflitto si era poi risolto nel sangue, con il ritorno del legittimo doge Giovanni il cui rientro dall'esilio in terra franca venne comunque preceduto, significativamente, da un periodo interinale di circa un anno in cui il governo era stato tenuto da due tribuni insieme al vescovo d'Olivolo (50).
La "cospirazione" di Caroso aveva messo in luce una serie di attriti interni di estrema serietà, ma ancor più delicato era probabilmente quanto accaduto poco tempo prima, con il ripresentarsi di Obelerio. La cronologia è incerta; di solito si datano questi eventi all'831, ma vanno piuttosto anticipati al momento della successione tra Giustiniano e Giovanni Particiaco, quindi all'829 circa (51). Resta il fatto che dopo un ventennio d'esilio il vecchio doge degli anni carolingi abbandonava il confino costantinopolitano e tornava in laguna per giocare la sua ultima carta, spendendola significativamente non in Rialto, ma sui lidi. Un evento gravissimo allora si verificava: la gente di Malamocco abbandonava l'esercito del legittimo doge e si univa ad Obelerio. Se, pochi anni dopo, la ribellione di Caroso avrebbe mostrato una frattura trasversale che tagliava il mondo venetico nel suo complesso, qui, con Obelerio, la lotta spaccava la stessa unità territoriale del dogado, riportando in evidenza localismi disgregatori. Non sorprende perciò la spietata durezza con cui il doge Giovanni, ripreso il controllo della situazione, colpì gli avversari, mettendo a fuoco la ribelle Malamocco e ordinando la decapitazione del vecchio doge deposto, la cui testa mozzata attraversava in macabro pellegrinaggio la laguna per essere poi sospesa ai margini della terraferma, nella campagna di Mestre, a San Martino. In discussione non c'era stato soltanto il primato dell'uno o dell'altro gruppo, ma piuttosto la stessa integrità della provincia. Dopo un percorso così spesso turbato non deve sorprendere che l'età particiaca finisse col cadere per un atto di forza. Appartenevano alla famiglia dei Mastalici gli esponenti più in vista del colpo di mano decisivo: all'uscita dalla chiesa di San Pietro di Castello il doge Giovanni era stato preso, tonsurato, costretto a prendere gli ordini sacri per finire poi la vita relegato in Grado (52). Gli succedeva Pietro [Tradonico> "vir nobilissimus", ed era 1'836 (53).
Negli anni dei Particiaci anche l'ambiente ecclesiastico aveva contribuito ad agitare le acque, e fra gli elementi d'instabilità bisogna richiamare subito la politica del patriarca gradense, Fortunato. La pace di Aquisgrana gli aveva senza dubbio chiuso quegli spazi di manovra su cui aveva potuto contare durante il conflitto franco-bizantino, ma non era riuscita a fermare l'instancabile presule, della cui condotta si è spesso faticato a ritrovare l'ordito. Le apparenti contraddizioni non sono poche, a partire da quando lui, filo-franco, aveva dovuto penare (come si è visto) per il ritorno in patria dopo che erano divenuti dogi Obelerio e Beato, da ritenersi suoi naturali alleati. Anche dopo Aquisgrana, ci dice la cronaca del diacono Giovanni, continuava a recarsi "in Francia" contro la volontà dei dogi, finché questi lo allontanarono dalla sede gradense impegnandosi per sostituirlo con un ecclesiastico di loro fiducia (54).
Nelle sue puntate nelle terre dei franchi, però, Fortunato, più, che tramare con interlocutori ormai sordi quali i carolingi, era venuto a invischiarsi nelle avventure di Liudewit, il duca della Pannonia inferiore che, ribelle all'impero di Ludovico il Pio, creava non pochi problemi tra Istria e Dalmazia. Come un prete gradense (probabile inviato di Venezia, a scanso di equivoci) denunciò nell'821 all'imperatore, Fortunato aveva sostenuto Liudewit persino inviandogli artefici e muratori che l'aiutassero nel fortificare i suoi castelli. L'avevano perciò convocato a corte per essere sottoposto a giudizio, ma l'imprevedibile patriarca si era questa volta rifugiato presso i bizantini, a Zara, sia pure ottenendo scarsa udienza dal momento che il governatore della Dalmazia si era affrettato a spedirlo a Bisanzio (55). E non era ancora finita, perché tre anni dopo, nell'824, quando alla corte franca giunsero da oriente gli ambasciatori di Michele II per rinnovare la pace di Aquisgrana, con loro compariva anche Fortunato, a favore del quale, comunque, i bizantini non spesero neppure una parola, mentre l'imperatore franco lo liquidava rinviandolo all'esame del pontefice (56). Era la decisiva riprova di come il patriarca fosse ormai un sopravvissuto.
Finiti i tempi in cui i suoi disegni s'intrecciavano con gli eventi della politica internazionale, la coerenza interna al progetto del patriarca - perdente ma non perciò di piccolo respiro si recupera prescindendo dalla chiave di lettura corrente: in termini di filo-franchismo o filo-bizantinismo. Il programma di Fortunato, in realtà, si comprende soltanto nell'ottica gradense; la difesa dei diritti, del ruolo e della primazia patriarcale era la vera discriminante, il vero presupposto politico, e allora non sarà più incomprensibile il suo oscillare tra franchi, bizantini e croati; o il rivolgersi di volta in volta ad Aquisgrana, Costantinopoli, Zara, Pannonia, Roma, Rialto; o il trovarsi spesso in dissonanza rispetto alle posizioni dei dogi, quali che fossero: Giovanni e Maurizio II, od Obelerio e Beato, o Agnello Particiaco. Volta per volta si trattava di trovare gli alleati più efficaci, ma la coerenza del disegno va cercata non nella stabilità delle alleanze (che spesso mancò), quanto nella linearità del progetto di fondo (in ottica gradense), per il quale il continuo mutare delle condizioni generali imponeva il cambiamento dei possibili compagni di strada. Ma è chiaro che il programma, costruito su una realtà politica di piccola scala, quella gradense, diveniva impraticabile nel momento in cui si saldava l'accordo fra le grandi potenze; così, dunque, l'incapacità di rinunciare ad un disegno fattosi inattuabile dopo 1'810-812 faceva di Fortunato, ripetiamo, un sopravvissuto: a se stesso e ai tempi.
I contrasti intercorsi fra dogi e patriarca avevano concreti presupposti nella particolare condizione di Grado; come sede metropolitica, decisa a difendere l'eredità degli antichi diritti aquileiesi, si trovava a vantare una difficile autorità sulle diocesi istriane, le quali, dopo la conquista longobarda e la successiva acquisizione franca, dagli ultimi decenni del secolo VIII si collocavano in un'area politica estranea a quella della provincia venetica. Per di più, nella questione dell'eredità aquileiese bisognava fare i conti con le rivendicazioni che contro Grado (a cui facevano capo le lagune e l'Istria) avanzava con crescente insistenza Cividale-Aquileia, la sede a cui avevano finito per riferirsi le diocesi di tutta l'antica "Venetia" di terraferma e il Friuli (57). Nel placito di Risano, dell'8o4, a Fortunato erano stati ribaditi da Carlo Magno i diritti gradensi in Istria (58); ma le situazioni politiche da allora si erano modificate e agli istriani (ecclesiastici e laici) doveva risultare sempre più gravosa una doppia dipendenza: politica verso il regno italico e l'impero franco, ecclesiastica verso la bizantina Venezia (59). E in fondo l'aveva ben capito Fortunato quando si preoccupava non tanto di chi esercitasse il potere quanto della sua unitarietà per tutta l'area patriarcale.
La svolta avveniva nell'827, nella sinodo dei vescovi del regno italico convocata in Mantova; alla presenza degli inviati di papa e imperatore, il patriarca aquileiese Massenzio otteneva pieno riconoscimento dei suoi reclami. Aquileia era la vera e sola sede metropolitica; da essa dipendeva la stessa Grado, "isola piccolissima", la cui giusta situazione era quella di pieve; ogni sua pretesa o rivendicazione non aveva più nessun legittimo fondamento (60). Poco tempo era trascorso dalla morte di Fortunato, e a Mantova venivano sepolti anche i suoi sogni. Ma la situazione si era fatta delicatissima per Venezia; qua non si trattava più di difendere la difficile primazia sull'Istria, o le nostalgie della sede gradense, ma di parare la subordinazione rispetto ad autorità esterne (il patriarca di Aquileia in territorio franco), che prudenza suggeriva di evitare, anche se formalmente limitata al piano ecclesiastico. Per la verità, né l'imperatore né il pontefice avrebbero preso troppo alla lettera i radicali deliberati mantovani. E quando sarebbe venuto il momento di eleggere un nuovo presule a Grado, nell'852, il papa Leone IV gli avrebbe scritto come al "reverendissimo e santissimo confratello, patriarca della sede gradense" (61).
Il problema era comunque scabroso e a pararlo Venezia giocava una carta dalle straordinarie risonanze, rispondendo con una sorta di "miracolo statale" (62): il furto ad Alessandria d'Egitto delle reliquie dell'evangelista Marco, fondatore della Chiesa aquileiese; il loro trasporto a Rialto; la deposizione delle spoglie in palazzo ducale e l'immediato avvio della costruzione della basilica. Andasse l'Istria per la sua strada; quanto contava era il rafforzamento di un'autonoma Chiesa venetica che nella presenza delle reliquie marciane trovava il simbolo forte dell'unità non soltanto spirituale delle lagune e, insieme, il fulcro di una chiesa nazionale in cui poteva riconoscersi ogni istanza di autonomia. Era questa nell'828, a tamburo battente, la replica politicamente geniale alle delibere mantovane dell'anno prima (63).
Quanto di politico era sotteso al culto marciano, risultava del tutto conforme alle tendenze in atto. Già in epoca particiaca, e in modo sempre più netto negli anni a seguire, Venezia batteva la strada di una crescente autonomia. Restava fuori discussione la dipendenza da Bisanzio; sarebbe stata attentamente coltivata assai a lungo e una serie di dati estrinseci serviva a richiamarla per quanto tornava utile e non vincolante. Così i dogi portavano titoli aulici bizantini, di livello crescente negli anni, secondo un uso avviatosi con Orso nella prima metà del secolo VIII (64) e cessato soltanto dopo Ordelaffo Falier (1102-1118) (65); quanto agli atti emessi dalla curia dogale, si aprirono nel nome degli imperatori costantinopolitani fino alla metà del secolo XI (66). Ma a parte le manifestazioni formali, molti fatti concreti segnarono (come si avrà occasione di vedere) la lunga permanenza di Venezia nella sfera del bizantinismo, con un rapporto niente affatto svantaggioso, che è eccessivo definire di sudditanza.
È una bizantinità, quella venetica, che la storiografia in qualche caso ha troppo compresso in nome di un'indipendenza fuori tempo o fuori misura, oppure ha troppo caricato postulando subordinazioni od uniformità eccessivamente rigide. Uno dei maggiori problemi per la storia di Venezia rimane sempre quello di calibrare il giusto intreccio tra compresenze discordanti come pure tra quanto è peculiare od originario e quanto è invece comune o allogeno. In ogni caso l'indiscussa bizantinità comportava benefici notevoli. Anzitutto, per una modesta entità politica quale Venezia, non ancora in grado di misurarsi con le maggiori potenze, dipendere dalla lontana e poco invadente Costantinopoli voleva dire tenersi al riparo da sovranità assai più prossime e intriganti, com'era con Carlo Magno e i suoi successori, o come sarebbe stato con gli imperatori sassoni. Poi, far parte dell'impero orientale comportava l'inserimento in un'area commerciale ed economica dalle straordinarie potenzialità rispetto al depresso occidente europeo. E ancora, l'essere estremo lembo di un sistema politico con il proprio fulcro sul mare, favoriva quella proiezione prima adriatica e quindi mediterranea decisiva per le fortune di Venezia.
Graduale e senza strappi sarebbe stato il distacco da Bisanzio, e la progressiva crescita di autonomia avrebbe seguito un itinerario scandito su lunghi decenni. Ma intanto la dipendenza (quella particolare dipendenza che gradualmente veniva configurandosi come fedeltà) era forte, senza però comportare attriti o frizioni con il mondo franco. Tutto sommato l'accordo di Aquisgrana funzionava; per certi versi le lagune avevano una funzione di cuscinetto; ma più importante ancora era forse quella che stava assumendo il dogado: di custode dello scacchiere altoadriatico. La flotta venetica, che per la prima volta le fonti ci ricordano attiva militarmente quando aveva restituito Ravenna all'esarco Eutichio, strappandola ai longobardi (67), ora si trova a svolgere un compito di polizia marittima. Infatti occorre non soltanto rispondere alle richieste che giungono dalla capitale Bisanzio in congiunture più difficili; c'è pure la necessità di coprire quel ruolo di controllo che ormai la flotta costantinopolitana non svolge più su quelle acque così settentrionali. Bisogna, cioè, impedire che si crei un pericoloso vuoto che altri (saraceni e slavi) sarebbero pronti a colmare.
Venezia è entrata in una fase faticosa e difficile, non ricca di reali successi, in cui lo sforzo nella guerra sul mare comincia a darle una dimensione di potenza regionale. Tentando una periodizzazione, potremmo dire che dal dogado dei primi Particiaci fino all'881-887 (68) si vive un'epoca di grave impegno militare, da cui si esce so-stanzialmente tra 1'887 e il 931 con un mezzo secolo di assai maggiore tranquillità. Dopo il 931, con l'età dei Candiano e degli Orseolo, si aprirà una nuova fase per vari aspetti agitata e complessa, in cui il peso specifico di Venezia sarà ormai su livelli qualitativi decisamente più alti.
Due furono in particolare gli avversari che nel secolo IX i venetici si trovarono di fronte in Adriatico: i saraceni e gli slavi. Quanto ai saraceni, la loro potenza navale, saldamente fondata,sul controllo delle coste nord africane e spagnole, si era fatta ancora più minacciosa durante gli anni di Michele II (820-829), l'epoca che Costantino Porfirogenito giudicò quella di estrema debolezza dell'influenza bizantina sulle coste adriatiche (69). L'impero, oltre agli antichi malanni (a cominciare dai conflitti religiosi e dalle tensioni sociali), aveva allora patito i guasti tremendi della lunga guerra civile provocata da Tommaso lo Slavo, spenta nel sangue nell'823. E la debolezza del momento aveva inevitabilmente favorito gli avversari esterni. Nell'826 era caduta in mano araba Creta, piazzaforte importantissima nel sistema strategico del Mediterraneo orientale. Nello stesso giro di mesi, facilitata dalle discordie interne alla gerarchia bizantina, cominciava anche la conquista della Sicilia: con lo sbarco a Mazara, nel giugno 827, di truppe arabe, berbere e andaluse provenienti dall'Africa. La perdita di potere bizantino vedeva poi altri successi saraceni: il sacco dato a Brindisi nell'838, la susseguente occupazione di Taranto e, specialmente, la costituzione di un emirato a Bari nell'847 (70).
Come se non bastasse, al nuovo ruolo che i saraceni potevano svolgere in Adriatico si assommava la presenza degli slavi, soprattutto di quelli insediati alle foci della Narenta (Neretva) e sulle vicine isole: tra Meleda, Brazza, Curzola, Lesina. Il lento passaggio dal continente al controllo sulle isole era iniziato presumibilmente nel secolo VII; si era comunque già compiuto nei primi decenni del secolo IX, quando i narentani, mercanti e pirati, costituivano un elemento di spicco negli equilibri centroadriatici (71). Con saraceni e slavi, dunque, la provincia lagunare avrebbe dovuto fare i conti per anni, in un impegno gravoso e poco brillante, ma tenace, continuo, tale che su tempi lunghi la costanza d'azione sarebbe risultata determinante nel garantire la stessa autonomia venetica, e ciò a prescindere dalla occasionalità delle singole batoste e dei particolari (e tutto sommato scarsi) trionfi. Occorreva, peraltro, far di necessità virtù. O si riusciva a tenere aperte le rotte adriatiche o si era costretti al soffocamento nelle lagune. La via era dunque obbligata: per i Particiaci come per i loro successori, da Pietro [Tradonico> (836-864) a Orso I [Particiaco> (864-881), a suo figlio Giovanni (881-887), a Pietro I Candiano (887).
Le prime sicure testimonianze su questa difficile fase di azioni militari ci portano all'827-828, quando, di fronte allo sbarco saraceno in Sicilia, da Bisanzio si serravano le fila e giungeva a Venezia la richiesta (o l'ordine: secondo l'ottica in cui ci si pone) di un aiuto; il doge Giustiniano Particiaco provvide allora all'invio di una flottiglia di navi da guerra, ma i risultati furono assai scarsi (72). Ugualmente inconsistenti furono l'anno successivo, quando di nuovo il doge corrispose alle "insistenti richieste" di Michele II (73). Può essere riletto in modo tra l'ironico e il paradossale il fatto che le navi venetiche, con tutta probabilità, facessero parte della squadra navale bizantina il cui apparire avrebbe fermato i saraceni quando, smarriti' per la morte del loro comandante, Asad ibn al-Furàt, nell'estate dell'828 tentarono di abbandonare la Sicilia. In effetti il disegno strategico dei bizantini, piuttosto che a ricacciare a mare il nemico, mirava a tagliargli la via del ritorno per poi annientarlo. Sicché si è potuto considerare come un meno tempestivo intervento della flotta bizantina avrebbe forse potuto aprire ai saraceni la via per la rinuncia all'impresa di Sicilia (74).
Pochi mesi erano comunque trascorsi dalle spedizioni siciliane quando, morto Giustiniano Particiaco e subentratogli il fratello Giovanni, giunse a Rialto un messo dei narentani. Era venuto per concludere una pace, e se da un lato doveva suonare rassicurante il desiderio di accordo, d'altro lato poteva preoccupare che le genti narentane fossero ormai rappresentate da un'ambasceria, che presupponeva l'esistenza di una struttura politica sufficientemente organica. In ogni caso la pace allora concordata, seppure resa più solenne dal battesimo dello slavo celebrato dal doge in persona, durò come neve al sole (75). Ce lo dice il diacono Giovanni, ricordando poi come (verso 1'834-835) una spedizione mercantile venetica, di ritorno da Benevento, venisse intercettata dagli slavi della Narenta, concludendosi con un massacro (76).
Dopo la deposizione di Giovanni Particiaco (nell'836), il suo successore Pietro [Tradonico> aveva tentato una diversa strategia. Deciso a risolvere la questione con la forza e "a stroncare la nefanda pratica della pirateria" (77), era partito nell'839 per la "terra degli slavi"; prima aveva firmato (o forse meglio: ordinato) una pace con il capo croato Mislavo; proseguendo era poi giunto alle isole dei narentani e anche qui aveva concluso un patto: con il duca Drosaico. Ma, come constatava il cronista Giovanni diacono, erano paci che non valevano niente, tanto che anche l'anno successivo la squadra navale doveva ritornare: stavolta per regolare i conti con Liudislavo; ma le cose andarono malamente: oltre cento i morti e la flotta rientrava una volta di più "senza trionfo" (78). Di mazzata in mazzata, Venezia si stava facendo le ossa. E a collaudarla ci pensavano di nuovo anche i saraceni.
Nell'840 era giunto a Rialto da Bisanzio il patrizio Teodosio per investire da parte dell'imperatore Teofilo (che regnò dall'829 all'842) il doge Pietro del titolo aulico di "spatario" e, più concretamente, per chiedergli d'intervenire nuovamente contro i saraceni. Si trattava, in specifico, di recuperare Taranto da poco perduta, e, in generale, di bloccare l'irradiarsi musulmano che ormai infestava tutti i mari. Una nuova congiuntura debole per Bisanzio (in Asia Minore lo stesso Teofilo era stato battuto nell'838 presso Dazmana, e poi era caduta Amorio, luogo di origine della dinastia regnante oltre che importantissima roccaforte) imponeva la ricerca di aiuti, al punto da indurre a rivolgersi persino ai franchi e all'imperatore Lotario (79). In una situazione del genere, la posizione di Venezia di fronte all'impero da cui dipendeva cambiava qualitativamente; non era più il suddito che partiva al comando del signore, ma piuttosto l'alleato che muoveva nel nome di solidarietà e interessi comuni (e nella stessa posizione ci si trovava con i franchi, contro gli slavi, secondo il dettato del patto con Lotario, di cui diremo). Sessanta navi da guerra erano rapidamente inviate a Taranto, ma andavano incontro a un disastro. Quasi nessuno riuscì a scampare da quel "vero castigo di Dio" (80). E pesanti furono i contraccolpi della sconfitta. I saraceni risalirono l'Adriatico incendiando e razziando fino a Ossero nell'isola di Cherso, fino ad Ancona, fino a giungere ad Adria alle bocche del Po. "Corrono il vasto mare qua e là", dove vogliono (81), e tornati finalmente al sud ecco che incrociano all'imbocco dell'Adriatico le navi venetiche in rotta di rientro dalla Sicilia e dalle altre piazze: vengono tutte catturate. L'anno dopo (nell'842) le scorrerie si ripetono, con puntate saracene fino alle acque istriane, al golfo del Quarnero, e con un nuovo smacco per la flotta venetica che, presso l'isola di Sansego, batte in ritirata (82). Nemmeno gli slavi danno tregua; si rifanno vivi; aggrediscono perfino il dogado, saccheggiando Caorle (forse nell'846) (83).
Non continueremo nel resoconto sistematico degli scontri in cui i venetici furono coinvolti e dei quali le fonti ci lasciano memoria. Quanto visto basta per avere idea di come stessero andando le cose. Piuttosto bisognerà dire che verso metà secolo si era giunti al momento più difficile nella fase di tensioni sopra individuata. La situazione, infatti, cominciava a modificarsi in meglio e a favore di Venezia tornavano i nuovi equilibri internazionali. In oriente, al tempo di Michele III (842-867) e dopo il superamento definitivo della crisi iconoclastica (nell'843), era iniziata una fase di ripresa per l'impero: la sua "età d'oro" sarebbe maturata con lentezza, ma intanto già si sentiva un'aria nuova, più evidente durante il governo del fondatore della dinastia macedone: Basilio I (867-886). Era stato lui (se non già Michele III) che, alle richieste d'aiuto giunte dalle città bizantine della Dalmazia, aggredite e assediate dai saraceni nell'866, aveva saputo rispondere inviando una possente flotta al comando del drungario Niceta Orifa, il cui arrivo tolse il blocco a Ragusa nell'868 e respinse gli arabi alle basi di partenza. Non si trattò di un impegno contingente od occasionale; l'interesse per la Dalmazia venne sostenuto concretamente anche in seguito. Niceta Orifa stesso sarebbe tornato nell'870; la provincia fu elevata a rango di "tema", ciò che negli schemi amministrativi bizantini comportava (specialmente nelle aree periferiche) un potere più diretto ed efficace, agli ordini di uno stratega sottoposto direttamente all'imperatore; crebbe il controllo sugli stessi narentani e nell'878-879 come principe dei croati si riuscì a imporre un protetto di Basilio I : Sedeslao (84).
Già questo nuovo ordine semplificava le cose per Venezia. Ma oltre a ciò, la rinnovata presenza bizantina in Dalmazia era connessa a un disegno strategico più ampio, che coinvolgeva anche l'Italia meridionale con ulteriori riflessi in Adriatico. Non tutto poteva filare liscio; così, per esempio, l'annessione saracena della Sicilia proseguiva senza scampo e nell'878 cadeva dopo un lungo assedio anche la capitale amministrativa dell'isola: Siracusa (la conquista si sarebbe poi di fatto compiuta nel 902 con la presa di Taormina) (85). D'altra parte, non riuscendo l'arresto dei saraceni in Sicilia, cresceva il rilievo strategico del sud d'Italia, dove le cose andavano meglio. Dava i suoi frutti - benché aspri - anche il collegamento istituito fra i due imperi, con l'ipotesi di un'offensiva concordata tra Basilio I, Ludovico II e Roma. Quando poi nel febbraio 871 Bari si arrese alle truppe franche e longobarde agli ordini dell'imperatore carolingio, Bisanzio restò sul momento con un pugno di mosche, e questo mise in crisi i rapporti fra i due imperi (86). Svaniva allora il progettato matrimonio fra il primogenito di Basilio I e una figlia di Ludovico II; ma più interessa che la fine dell'emirato di Bari togliesse comunque un punto di forza ai saraceni nella penisola italiana, all'imbocco dell'Adriatico. E la nuova situazione si consolidò ulteriormente nell'880, quando i bizantini occupavano Taranto, compiendo un passo decisivo nella riconquista del Meridione.
Dalla metà del secolo, circa nel giro di una generazione, gli equilibri mediterranei si erano dunque decisamente modificati e il nuovo ordine dava fiato ai venetici. L'Adriatico non era più campo libero per incontrollabili razzie, anche se i motivi d'insicurezza continuavano. E l'impegno di Venezia diventava ora meglio proporzionato alle sue forze; pare, in sostanza, concluso il ciclo dello sforzo quasi disperato e non sarà un caso che le fonti comincino a raccontarci anche di successi. Se mai si pone il problema di quanto l'azione venetica s'integrasse e comunque risentisse delle vicende internazionali e specialmente della rinnovata presenza bizantina, o quanto invece esprimesse un'autonomia d'azione, in particolare nel condurre una metodica opera di polizia marittima sulle acque che era vitale tenere sgombre. Tutto sommato proprio questa seconda valutazione prevale fra gli studiosi (87), ma pare difficilmente sostenibile. Pur nella scarsità di fonti e nell'incertezza (anche cronologica) degli stessi dati disponibili, è senz'altro anacronistico e azzardato leggere gli interventi di politica estera di Venezia nel secolo IX come testimonianza della "funzione che il ducato lagunare, in veste di stato autonomo, esercitava nell'ordine internazionale", magari riconoscendogli un "austero isolamento" tra le "grandi coalizioni" (88).
I delicati equilibri mediterranei e continentali aprivano spiragli di autonomia che Rialto coltivava con indubbie capacità, ma le redini erano tenute da altri, in un legame che era impensabile recidere. E forse in quei brandelli di notizie che la cronachistica ci ha conservato è più logico ritrovare le connessioni anziché le singolarità. Così, per valutare appieno la puntata vittoriosa della flotta venetica contro i saraceni a Taranto, al tempo di Orso I [Particiaco>, con la quale fra l'altro si vendicava il disastro dell'841 (89), è impossibile prescindere dalle azioni reiterate che in quello scacchiere (fra Bari e Taranto) stavano sviluppando sia i bizantini che i franchi. Allo stesso modo la spedizione contro il principe croato Domagoi con la successiva temporanea pace (forse attorno all'866), o più tardi la nuova rottura, o il successivo accordo con Sedeslao (il nuovo principe che ai figli di Domagoi aveva strappato il titolo nell'878 con l'aiuto di Basilio I) (90), difficilmente prescindono da un intreccio sostanziale con gli interventi bizantini in quel settore. Non si può certamente appiattire - a tale fase delle vicende - l'azione venetica su quella della capitale Bisanzio. È vero. Bene emergono i punti di distacco e le diversità di orientamenti che questa provincia periferica può e deve permettersi, ma il cordone ombelicale non è affatto interrotto. In sostanza, il processo autonomistico marcia ancora nel segno di una bizantinità di fondo non soltanto di ordine etico ma anche operativa. E quando incontreremo nell'876 una missione di alto livello pronta a recarsi a Bisanzio (91); o sapremo come a Rialto fosse giunta (era forse 1'878) un'ambasceria che portava ad Orso grandi doni e il titolo altissimo di "protospatario", mai prima concesso a un doge (92); o sentiremo delle dodici campane richieste da Costantinopoli a Venezia (93); di fronte a quelle testimonianze che per gli anni immediatamente precedenti non trovano riscontri, prima che a una inversione di tendenza con una ripresa di rapporti interrotti (94) dovremo pensare più banalmente ad una migliore documentazione o, al più, a un intensificarsi dei collegamenti, ma lungo una linea di tendenza abbastanza continua ed omogenea.
Senza dubbio molti eventi potranno essere compresi anche a prescindere dai nessi con le potenze esterne. Esisteva tutta una conflittualità per così dire corrente che gli instabili equilibri dell'epoca proponevano al di fuori dei grandi intrecci. Pirateria, incursioni, scontri: tutto quanto faceva parte della possibile e difficile "normalità". Le puntate dei saraceni partiti da Creta e spintisi (nell'872) in Dalmazia e in Istria, o, in quella stessa contingenza, la nave catturata e i venetici massacrati dagli slavi a Salvore (95); la nuova incursione saracena (dell'875) giunta fino a Grado, respinta (e opportunamente dirottata?) verso la concorrente Comacchio (96); le schermaglie del doge Orso con i narentani (97): sono eventi propri di anni turbati, che non richiedono grandi quadri per essere compresi (98).
In sostanza, l'azione di Venezia in politica estera evidenzia un ruolo di crescente rilievo ma comunque subalterno. La dipendenza che conta non è tanto quella politico-formale da superiori autorità esterne, quanto quella, sostanziale e determinante, da scelte altrui, operate lontano da Rialto. Con ciò non si nega un processo di crescita autonoma; anzi: la facilitano proprio le condizioni generali di politica internazionale. Il dogado è ormai una realtà con suoi connotati specifici, di cui anche le maggiori potenze tengono conto. Nel mosaico della politica internazionale si presenta come una tessera già individuabile, non più annullata da altre presenze al punto di sparire, ma non è ancora in condizione di segnare con la sua specificità il quadro complessivo.
Durante il dogado di Orso I [Particiaco> si era esaurita la fase dei difficili impegni sul mare e l'incursione dell'875 a Grado e Comacchio era stata l'ultima impresa saracena a coinvolgere direttamente Venezia. Le ragioni di scontro, infatti, cessavano con il nuovo equilibrio che stava stabilendosi con il ritorno bizantino nell'Italia del sud e con il completamento della conquista saracena in Sicilia. Nell'avvenuta ridefinizione delle zone d'influenza per oltre un secolo i rapporti fra Venezia e il mondo islamico sarebbero stati assolutamente pacifici. Soltanto nel 1003 si tornerà alle armi, quando una Venezia ormai primaria potenza adriatica correrà in soccorso di Bari bizantina, con un'azione perfettamente coerente su tempi lunghi alla logica che ci è parso di cogliere negli eventi del secolo IX (99). Ma ne parleremo più sotto.
Anche con gli slavi la fase di maggior conflittualità cessava ai tempi di Orso Particiaco. La sua azione di tamponamento aveva avuto qualche successo militare; così, quando i legni delle "pessime genti slave e di Dalmazia" puntarono sull'Istria saccheggiando e devastando Umago, Cittanova, Rovigno e Sipar, e quando poi s'intese che volevano dirigere verso Grado, il doge con trenta navi piombò loro addosso ottenendo completa vittoria. Ma come le paci duravano una stagione, allo stesso modo le armi non riuscivano a chiudere i conflitti (100). Piuttosto contava la risistemazione dei rapporti fra i bizantini di Dalmazia e gli slavi, giunta a un momento chiave quando Basilio I (durante il breve regno di Sedeslao) nell'878-879 aveva disposto che le città imperiali pagassero agli slavi quanto in precedenza versato allo stratego, ossia all'amministrazione centrale (101). Anche per Venezia doveva aprirsi circa in quella congiuntura la fase dell'accordo (102), e il pagamento di censi ai croati - quello che, come vedremo, sarà vietato poi da Pietro II Orseolo circa un secolo dopo - si sarebbe rivelato a lungo un buon investimento di capitale, mezzo concreto per garantirsi acque passabilmente tranquille fino al momento in cui non si fosse avuta la forza bastante per una politica di confronto.
Andamenti paralleli, dunque, quelli nei rapporti di Venezia con saraceni e slavi. Ma con una drammatica dissonanza: un improvviso ritorno di fiamma, successivo al dogado di Giovanni [Particiaco> (il figlio di Orso), per quanto concerne gli slavi. Fu con l'avvento al seggio dogale di Pietro I Candiano, nell'887: pochi mesi di governo, durante i quali il problema narentano, che pareva spento da circa un decennio, tornava con prepotenza in primo piano.
Non conosciamo le ragioni di questa ripresa: se fosse una risposta ad azioni ostili che non possiamo più ricostruire, oppure se dipendesse da scelte di politica estera volute dal Candiano. In ogni caso, appena assunto il dogado, decide una spedizione contro gli slavi della Narenta; rivelatasi inefficace, egli stesso muove alla testa di una flottiglia di dodici navi, ma dopo qualche successo iniziale, nelle acque dalmate giunge la fine. Con sette compagni lo stesso doge, "uomo bellicoso e audace, saggio e generoso", è fra i caduti, e il corpo, pietosamente sottratto al nemico, verrà sepolto nell'atrio della basilica di Grado (103). Riflettendo sui dati forniti dalla tradizione (un'impresa decisa alla svelta e quindi senza grandi preparativi, poche navi, poche vittime), deve essersi trattato di un modesto incidente; gli dava però una misura tragica la morte del doge, e il turbamento. che deve avere impresso nella coscienza venetica avrà inciso non poco sulla prudenza con cui furono trattate, negli anni a venire, le questioni slave.
Si è già detto come la ritornante presenza di Venezia nelle vicende adriatiche del secolo IX diventasse motivo e riprova al tempo stesso dell'avvenuta acquisizione di uno specifico ruolo negli equilibri generali. Si è visto anche come l'azione venetica s'integrasse e in qualche caso addirittura s'identificasse con quella bizantina. La cosa non sorprende ove si ricordi una volta ancora come le lagune fossero pur sempre parte dell'ecumene bizantino e come, peraltro, la situazione dell'impero lasciasse a Venezia tutto lo spazio necessario per il suo sviluppo. Meno scontato ma altrettanto evidente è il buon rapporto mantenuto dopo Aquisgrana con l'impero franco e il regno italico in particolare. Una serie di atti concreti lo dimostra. Si pensi alla prudenza con cui in terre franche furono trattati i politici, i fuorusciti o gli esiliati che periodicamente giungevano. Fossero essi il patriarca gradense Fortunato, o il doge Giovanni Particiaco temporaneamente deposto dal tribuno Caroso, o i colpevoli dell'assassinio del doge Pietro [Tradonico> (104), l'impressione è quella di un impegno di non interferenza, in una solidarietà di fondo con l'autorità venetica legittimamente costituita. E a indicare come in questo giro d'anni per Venezia non ci fossero problemi né con l'uno né con l'altro dei due grandi imperi cristiani, si pensi come nell'864 i responsabili dell'uccisione (appena ricordata) di Pietro [Tradonico> fossero stati spediti tanto a Costantinopoli quanto in terra franca.
Di alto valore simbolico fu l'incontro che i dogi, Pietro e il figlio e coreggente Giovanni, ebbero nell'856 (105) con l'imperatore Ludovico II, recatosi insieme alla consorte presso il monastero di San Michele di Brondolo, nel dogado; e in quella occasione a ribadire "l'esistente vincolo di affetto e di pace" (106) l'imperatore tenne anche a battesimo una figlia del doge Giovanni istituendo con ciò un rapporto di parentela spirituale. Se gli atti simbolici indicano la qualità del clima, il rapporto intercorrente si misura soprattutto attraverso i "pacta", periodicamente rinnovati fra Venezia e l'imperatore occidentale. Questi, in realtà, agiva in quanto titolare del "regnum" italico e si sarebbe poi, in modo evidentissimo dall'età ottoniana, ben guardato dal dare agli accordi la forma del patto: per un'autorità che s'intende universale e sovrana (fosse la bizantina o l'occidentale oppure la pontificia) non era soltanto sconveniente, ma anche ostico sul piano concettuale, stabilire - con una piccola entità particolare patti che per il loro rapporto bilaterale ponevano sullo stesso piano i due contraenti; perciò la forma utilizzata sarà quella del privilegio, concessione unilaterale dell'entità sovrana. Ciò è ideologicamente denso di significati, ma non cambia però moltissimo quanto ai rapporti operativi reali; e il carattere sostanzialmente pattizio non sarà mai annullato.
L'ultrasecolare serie dei patti inizia con ogni probabilità con gli accordi stabiliti a Ravenna, nell'807, fra il re Pipino e l'impero orientale rappresentato dal patrizio Niceta (107). Prosegue poi con la pace di Aquisgrana dell'812 e giunge a un momento cruciale con il "pactum Lotharii" dell'84o. Cruciale per almeno due ragioni. Anzitutto, a differenza delle pattuizioni precedenti, il testo di quella lotariana si è conservato (108); poi, le parti in causa non sono più i due imperi, il cui accordo regolava è vero anche la realtà venetica, ma per decisione superiore ed esterna; ora, invece, sono i venetici che, nella persona del doge Pietro [Tradonico>, senza intermediari o patroni, pattuiscono con l'imperatore Lotario. La cosa non è da poco, tanto che vi si è cercato il segno di una svolta radicale: la Venezia marittima avrebbe allora cessato di essere una "provincia" bizantina per divenire "ducato" indipendente; la vecchia subordinazione all'impero di Costantinopoli avrebbe lasciato posto ad un'autonomia non soltanto di fatto, per cui il doge non era più titolare di poteri che giuridicamente discendevano da un'autorità superiore ed esterna (quella di Bisanzio), ma era invece l'autonomo depositario di un potere localmente espresso senza nessuna dipendenza; perciò troviamo di fronte, nel patto dell'840, il "gloriosissimo doge dei venetici" e l'imperatore Lotario. Ma l'idea non sta in piedi (109). Se il "pactum Lotharii" non accenna ad eventuali diritti bizantini, non si deve pensare all'indipendenza venetica ma piuttosto all'interesse della cancelleria carolingia a tacerli; e il termine "ducato" non è da contrapporsi a "provincia" in chiave indipendentistica, poiché per i bizantini vale proprio nel senso di provincia retta da un duca (o doge); e poi, se ragioniamo in quei termini, ci sono i titoli aulici costantinopolitani che continuano a portarsi a Venezia, e il diritto d'inquisire sui comportamenti veneziani che Bisanzio eserciterà ancora nel 971 (110), e tanti altri elementi già emersi o di cui ancora diremo. Non dimentichiamo tutto ciò che conferma la permanenza nella sfera bizantina, e insieme riconosciamo anche quanto di autonomia il patto con Lotario comporta! E riconosciamo anche l'intensità e la cordialità di rapporti che presuppone.
Tra regno e dogado si escludono atti ostili e si prevede un reciproco appoggio; sono regolate le questioni relative ai commerci, ai traffici, ai contrasti giudiziari, all'estradizione, all'esercizio pacifico dei diritti comuni goduti dalle popolazioni venetiche nel "regnum". C'è anche qualche capitolo che ben illustra il nuovo ruolo di Venezia nella politica internazionale, ad esempio prevedendo l'intervento dell'"esercito navale" venetico in aiuto di Lotario quando ciò fosse stato richiesto per contenere il pericolo slavo (111). Questo patto dell'84o servì poi come base per tutti i successivi rinnovi, a partire da quelli dell'88o (tra Carlo III il Grosso e il doge Orso) e dell'888 (tra Berengario I e Pietro Tribuno) (112), che lo ricalcano quasi parola per parola. Ma il permanere di rapporti cordiali rimane documentato anche da altri atti usciti dalla cancelleria imperiale.
Si può prescindere dai privilegi concessi nell'839 (da Lotario) e nell'883 (da Carlo il Grosso) al monastero benedettino di Sant'Ilario, collegato strettamente all'autorità dogale; i due documenti, infatti, sono fortemente sospetti: falsi o comunque abbondantemente contaminati (113). Rimangono però altri atti ben eloquenti, sempre del secolo IX, quali le ripetute conferme dei beni di pertinenza venetica sulle terre dell'impero. Li garantiva nell'841 Lotario, richiamandosi al "decreto ratificato con i greci al tempo di Carlo Magno" (114). Il "precetto" lotariano era poi ribadito senza sostanziali modifiche da Ludovico II, nell'856. Ampliato nell'883 da Carlo il Grosso e ripreso nell'891 da Guido I (115), presupponeva quell'intesa di fondo di cui si è detto.
Su quell'intesa si alimentava la potenzialità economica venetica. Qualsiasi presenza sui mari o negli scali mediterranei, qualsiasi vocazione commerciale od opportunità assicurata dal legame con l'area bizantina poteva dare frutti unicamente se le vie di penetrazione in occidente erano aperte. Soltanto a quelle condizioni riuscivano ad arrivare sul mercato di Pavia le preziosità orientali che tanto erano piaciute agli eleganti dignitari di Carlo Magno (ma non al vigoroso sovrano!) (116) o, per contro, potevano recarsi in laguna quei mercanti dei quali gli Annali di Fulda ricordano lo stupore nel trovarla ghiacciata, nel gelido inverno dell'860 (117). Era esplicito il "pactum Lotharii" nell'escludere intralci all'attività commerciale, anzitutto tenendo aperte le vie di scambio e precisando gli obblighi e i diritti: "abbiano licenza i vostri uomini di viaggiare per terra e navigare i fiumi, dovunque vogliano", vi si diceva, e quella concessione era sfruttata a pieno (118). In sintesi, la situazione internazionale determinatasi dopo il primo decennio del secolo IX favoriva il ruolo di mediazione tra oriente e occidente per Venezia, consolidandola come punto d'incontro fra grandi aree politiche, economiche e culturali, tramite fra il mondo bizantino, quello islamico e l'Europa continentale controllata dai carolingi.
Anche prima del secolo IX, per la verità, la vocazione mercantile venetica risultava abbastanza evidente. Si ricordi, ad esempio, come nel 785 Carlo Magno, aprendo le ostilità con l'ambiente bizantino, avesse chiesto a papa Adriano I di espellere da Esarcato e Pentapoli i mercanti venetici, e soltanto lo zelo papale avesse poi aggiunto la confisca dei patrimoni fondiari (119). Agli occhi di Carlo i venetici erano soprattutto mercanti. E se si vuole un'immagine concreta di quella precoce attività commerciale-finanziaria, si pensi al ripostiglio trovato (nel 1592) nelle fondamenta della chiesa veneziana di San Lorenzo: ben 400 monete arabe databili al 715-761, interrate con ogni probabilità non molto tempo dopo tale data (120). Quel ritrovamento ci riporta ad altri assai più recenti: il tesoretto di San Tomà, di otto monete d'oro: un "dirham" arabo e sette solidi bizantini del tempo di Teofilo (829-842) (121); o il ritrovamento in Torcello di un "dirham" e di un denaro di Carlo Magno, uniti fra loro per l'ossidazione e con tracce di tessuto (residuo probabile del sacchetto che li conteneva) (122), in una saldatura che potrebbe essere assunta con significato simbolico.
Trovandoci a parlare di monete, è necessario ricordare un altro dato utilissimo per comprendere la collocazione di Venezia: l'attività di zecca svolta dal secolo IX. È circa l'820 quando comincia a circolare una moneta battuta in Rialto; è un "denaro", di argento, con il nome di Ludovico il Pio al dritto e "Venecias" o "Venecias moneta" al verso (123). Con tutta evidenza si è guardato all'occidente carolingio quanto a tipologia, metallo e sistema di monetazione, senza che tale scelta presupponga alcun riconoscimento di sovranità carolingia e senza che nemmeno implichi qualche indulgenza verso inesistenti posizioni filo-franche! Si trattava, invece, di avere monete funzionali al commercio con l'entroterra italico, e così si continuò a battere denari senza peraltro perdere mai di vista il sistema monetario bizantino e quello arabo, che con la loro coniazione aurea fornivano le divise di riferimento nel grande commercio internazionale (124). In sostanza, Venezia veniva ad essere un punto di sovrapposizione tra i maggiori sistemi monetari del tempo, ben attrezzata per corrispondere in tutte le direzioni.
I " laboratorii solidi" del doge e i connotati di una società peculiare
Non possiamo in questa sede insistere ulteriormente sulle vicende dell'economia; dobbiamo però fermarci un attimo per valutare quanto il quadro delineato incidesse sul tessuto sociale. Abbiamo visto una società precocemente disposta a battere la via dei commerci, in una proiezione marittima quasi imposta dalle condizioni geopolitiche. Abbiamo seguito questa società nella crisi di inizio secolo IX, quando sfiora l'inglobamento nel mondo carolingio, ritrovando poi la tradizionale collocazione in una bizantinità che non ostacola il cammino verso l'autonomia. Si è quindi considerato come, nel corso del secolo IX, l'evolversi degli equilibri internazionali assicuri un ruolo peculiare al dogado, quasi di cerniera, all'incrocio tra le grandi aree di quegli anni. Abbiamo infine constatato il consolidarsi di quel ruolo, con una presenza non più compressa nella nicchia lagunare, altoadriatica: ruolo difeso durante una tribolata fase di instabilità (fino all'887 circa), in modo comunque sostanzialmente funzionale rispetto ai bisogni del sistema complessivo dei rapporti internazionali. La peculiarità di questi sviluppi contribuiva a modellare la società venetica nei suoi caratteri per tanti aspetti singolari. La più eloquente esemplificazione di questa singolarità mi pare offerta da un documento di eccezionale interesse: il testamento del doge Giustiniano Particiaco, steso nell'829.
Quella particiaca era senza dubbio una delle più potenti e ricche famiglie del dogado, forse la prima fra tutte. In qualche modo si ricollegava con la casata dei vecchi dogi Maurizio I [Galbaio>, Giovanni e Maurizio II (al governo tra 764 e 804), dalla cui proprietà giungevano, tramite Agata figlia di Maurizio, per donazione, beni posti nel territorio di Cittanova e di Pola (125). A comporre il patrimonio particiaco, sparso fra Rialto, Equilo, Torcello, i lidi, le isole della laguna e la stessa terraferma, in profondità sino al comitato di Treviso, concorrono i beni tipici della grande proprietà fondiaria di quei tempi: campi, vigne, orti, case, mulini, stalle, corti, selve, pascoli, valli per la pesca e l'aucupio, bestiame grosso e minuto. Sono averi in parte già posseduti dalla famiglia, ma in parte considerevole sono entrati nel patrimonio familiare per merito di Giustiniano stesso. In ogni caso non siamo lontani dalla situazione che potrebbe proporci.un qualsiasi grande signore di terraferma. Lo stesso possiamo dire per i servi affrancati nell'atto testamentario: dopo aver servito al padrone in vita, gli servano anche in punto di morte procurandogli meriti per la salvezza eterna (126). E lo stesso potremmo ripetere a proposito dei cospicui lasciti ad istituzioni ecclesiastiche (non soltanto terre e beni immobili, ma anche denari, preziosi ornamenti e arredi sacri), specialmente ai monasteri di Sant'Ilario e San Zaccaria, il cui particolare rapporto con l'autorità dogale sarebbe a lungo rimasto operante (127).
La realtà terrafermiera si fa invece più lontana quando il testamento, nell'elenco per così dire tipologico dei beni, dopo quelli fondiari o le case, elenca oro, argento e soprattutto spezie (128). Ci sorprende poi l'insistenza martellante con cui il doge richiama la documentazione che comprova i diritti su tanti possedimenti acquisiti da vecchi proprietari spesso appartenenti al ceto tribunizio; vi cogliamo un'attitudine insolita, quasi da contabile, che faticheremmo a recuperare in un vero gran signore di cultura feudo-vassallatica. Ma la divaricazione si fa assoluta, quasi esistesse un fossato incolmabile tra mondi diversi, là dove troviamo il doge che dispone in merito ai suoi "laboratorii solidi": denari investiti per cavarne un profitto; e precisa che su queste somme si potrà contare "si salva de navigatione reversa fuerint": in imprese commerciali oltremare sono dunque impegnati dal Particiaco consistenti capitali di rischio, ben 1200 libre (129),
Che mondo è mai questo in cui un potente signore, al vertice della gerarchia politica e sociale, partecipa a traffici finanziari e commerciali, e non si vergogna nemmeno a metterlo per iscritto! Davvero è molta la lontananza da quell'occidente in cui dovranno ancora passare secoli perché il mercante possa essere davvero gentiluomo e sia concepibile praticare commercio e finanza senza scapitarne quanto a dignità o ruolo sociale. In nessun luogo, nemmeno ad Amalfi che per certi versi pare il caso più avvicinabile a quello venetico, matura un siffatto atteggiamento mentale con altrettanta precocità e in modo così incisivo. Perché, si badi, il testamento del Particiaco ci indica una peculiarità non soltanto nelle pratiche dell'operare ma anche nelle concezioni di fondo. E vi scorgiamo la moralità diversa di chi sta già accettando i valori legati al denaro e all'intrapresa, senza più presupporre che la vera aristocrazia sia quella del signore di uomini e di terre, che nel mercato e nella moneta si macchia. Così si arriva persino a leggere una certa fierezza nel modo in cui il doge comincia a disporre dei propri beni ricordando (in significativa contestualizzazione) "ea que ego laborare et acquirere potui" (130). E quelli del lavoro e dell'accumulazione non erano di certo gli ideali correnti nei ceti egemoni del tempo.
Che il testamento di Giustiniano Particiaco sia un documento eccezionale non significa sia privo di riscontri. Indizi analoghi sulla struttura della società venetica ai suoi massimi gradi ci vengono, ad esempio, dalle esenzioni fiscali che il patriarca Fortunato aveva ottenuto da Carlo Magno nell'803 per quattro sue navi destinate ai traffici (131), o dal richiamo che lo stesso patriarca fa, tra i suoi lasciti dell'824, a investimenti in terra franca (132); oppure dal sacco di pepe (preziosa spezia che giunge dal levante) destinato nell'853 dal vescovo di Olivolo al monastero di Sant'Ilario (133). Ma il documento che meglio integra, a mio vedere, il testamento di Giustiniano Particiaco, confermandone ad un secolo e mezzo circa di distanza alcuni aspetti di fondo, è la "quietanza di Waldrada", del 976: di essa si dirà più avanti; qui basti ricordare come ne risulti di nuovo l'immagine di un doge con interessenze in attività mercantili e finanziarie, non estraneo al mondo di colleganze, commende, rogadie, prestiti e affari in generale (134). E stavolta non si tratta nemmeno di un doge, quale il Particiaco, politicamente volto ad oriente e al mare, bensì di Pietro IV Candiano, che più di ogni altro subì il fascino dell'occidente e intrecciò le vicende sue con quelle della massima feudalità del regno italico.
I diversi atteggiamenti mentali corrispondono a qualche peculiarità di connotazione nella struttura sociale; le fonti consentono a tali anni ancora poche indicazioni e soltanto per i ceti egemoni (quelli sempre documentati meglio). Bisogna aspettare la seconda metà del secolo X per sapere qualcosa di più anche degli altri strati della società. Ma intanto possiamo vedere che, per almeno una parte dell'aristocrazia venetica, possesso fondiario e attenzione all'attività mercantile s'intrecciano, ciò che diluisce ogni tentazione di spiegare la storia venetica di quegli anni con una dialettica troppo rigida tra interessi fondiari-immobiliari e spinte mercantili (135). Cogliamo anche una forte tensione interna, comprovata dai passaggi di patrimoni (almeno una dozzina) che devono aver visto come acquirente il Particiaco e di cui rimane memoria nelle sue ultime volontà. Molti dei venditori, per di più, sono tribuni, segno di una sicura sofferenza per un ceto in evidente crisi almeno in certe sue fasce.
Proprio le vicissitudini economiche (forse soprattutto per quanti restavano più legati alla tradizionale logica fondiaria?) devono aver contribuito significativamente alla crisi complessiva del ceto, pressato nel contempo dal ridimensionamento politico in atto. I due tribuni affiancati ad Agnello Particiaco nell'811 erano un segno di vitalità residua, e il locativo greco "cata", documentato ancora nell'853 (in forme tipo "tribunus cata Magistracus") (136), parrebbe forse riferirsi all'ambito territoriale di una persistente funzione tribunizia (137), come potrebbe essere persino con il "de Luprio" o "de Geminis" (riferiti alle isole di Luprio e Gemini) che troviamo ancora nell'880 a qualificare dei tribuni (138). Tuttavia la propensione verso un consolidamento delle strutture unitarie della provincia, ricavabile anche nella tendenza ad una successione dinastica del titolo dogale, lavorava contro il permanere di ruoli e privilegi fondati sull'esercizio ormai declinante di diritti in ambito locale. In questa tenaglia, stretti fra una riorganizzazione degli equilibri politico-amministrativi e una situazione economica foriera di mutamenti, si compiva definitivamente la crisi del vecchio ceto tribunizio, destinato a sparire (come si è gia detto) nel corso del secolo IX (139). La scomparsa deve essersi verificata per una qualche non misurabile quota attraverso un processo di trasformazione, poiché una parte dei "magnates", "nobiles" e "maiores" che si incontreranno in seguito risulta discendere dalle antiche famiglie tribunizie. Il ceto in quanto tale, però, si spegne e non se ne sentirà più parlare. Slegato da funzioni pubbliche effettive, ridotto a mero titolo onorifico, senza garantire prerogative né politiche, né sociali, né economiche, lo stesso termine "tribuno" poteva essere tranquillamente dimenticato, trasformandosi al più, dove fosse sopravvissuto, in forma di cognome o nome proprio (140).
La perdita di peso del ceto tribunizio, fino alla sua scomparsa, corrispondeva ad alterazioni negli equilibri che non potevano avvenire in modo indolore. Dobbiamo a questo punto riprendere il filo della politica interna venetica, in parte lasciato dopo l'età dei primi Particiaci per seguire le tormentate vicende internazionali. Il riferimento al quadro d'insieme, peraltro, era determinante per intendere le vicende venetiche. All'interno di quel quadro, comunque, la costruzione dello stato lagunare proseguiva concretamente.
Nell'836, dopo la deposizione di Agnello che, abbiamo visto, chiudeva gli anni dei Particiaci, gli era subentrato il "nobilissimo" Pietro, al quale la tradizione ha voluto attribuire una inesistente parentela con l'anteriore dinastia dogale (141), identificandolo anche come Tradonico (142). Associatosi subito come coreggente il figlio Giovanni, il suo dogado risultò straordinariamente lungo, fino all'864: il più lungo della storia veneziana dopo quello di Francesco Foscari (1423-1457). Il mero dato numerico lascia di per sé intuire la notevole abilità di questo personaggio, di cui tutto sommato poco sappiamo, ma che sicuramente fu determinante nel rinsaldare l'ancora embrionale stato venetico. Tra i riflessi del processo di stabilizzazione del potere centrale (che doveva provocare l'insoddisfazione anzitutto di chi nelle pieghe di un dominio poco accentrato aveva i propri spazi vitali), vedremmo forse anche una confusa tradizione che fece di Pietro un tiranno, "empio, pieno di ogni nequizia, perfido come un giudeo", circondato da persone al suo servizio odiosamente decise, rissose e violente (143).
A parte gli avventurosi racconti, Pietro seppe reggere, come si è detto, il peso saraceno e slavo senza soccombere, mantenendo rapporti positivi tanto in oriente che in occidente, sicché, per intenderci, nell'84o poteva stipulare il patto con Lotario e quasi contemporaneamente ricevere da Bisanzio la dignità aulica di spatario (144). Anche con Roma papale le cose sembra marciassero per il verso giusto. Si riassorbirono a poco a poco i postumi della sinodo di Mantova dell'827: non aveva infatti séguito il tentativo di riaprire la questione, probabilmente compiuto dal patriarca d'Aquileia nell'844-846 (145), e quando nell'852 venne eletto il nuovo metropolita di Grado, Vittore, papa Leone IV lo riconobbe (lo si è visto) senza esitare (146).
A simbolo della crescita in atto può ricordarsi la costruzione in quegli stessi anni di due "zalandriae", "navi da guerra di tal fatta, quali prima non ve ne erano mai state a Venezia", di "mirabile lunghezza e velocità", la cui eco giungeva fino ai paesi transalpini, testimoniando un avanzamento non limitabile alla sola marina militare, anche se a quella soltanto sono attenti i cronisti (147). Che le difficoltà interne tuttavia non mancassero, lo riprova la tragica conclusione del dogado di Pietro. Ad accelerarne la fine deve avere contribuito la prematura morte del figlio e coreggente Giovanni nell'863 (148). La scomparsa del presumibile successore, infatti, lasciando solo il vecchio doge dopo ben ventott'anni di governo, apriva in modo brusco la lotta per subentrargli. La sanguinosa conclusione si aveva nel giro di un anno, quando, nell'864, Pietro [Tradonico> era assassinato mentre usciva da una solenne cerimonia celebrata in San Zaccaria. E gli uccisori avevano alle spalle un forte schieramento; troviamo con loro alcuni dei grandi nomi della storia di Venezia: Gradenigo, Candiano, Falier (149), appaiono qui per la prima volta, suggerendoci che si tratta di famiglie emergenti, relativamente nuove, pronte ad agire con durezza per assicurarsi una posizione egemone. L'ipotesi è suggestiva, ma la documentazione troppo povera non autorizza nessuna certezza, mentre è sicura la sconfitta politica di quel gruppo/partito, i cui principali esponenti furono giustiziati o (come si è avuto modo di dire) esiliati: "la clemenza divina non volle lasciare impunito il misfatto commesso", ci dice Giovanni diacono. E in linea di continuità con il defunto si poneva il nuovo doge: Orso I [Particiaco>.
La continuità con il passato dovrebbe essere testimoniata anche dalla provenienza familiare del neoeletto. La tradizione, infatti, gli assegnò un'appartenenza alla famiglia particiaca (150), coerentemente con la ricerca a tutti costi di una sua discendenza. Lo stesso meccanismo si sarebbe riproposto con i Badoer del secolo successivo (151). Ma il vecchio clan dogale pare proprio essersi estinto, almeno nel suo ramo maggiore, nella prima metà del secolo IX. Rispetto al suo predecessore il nuovo doge si trovava ad agire in un quadro internazionale che, per Venezia, cominciava a chiarirsi nel superamento della fase di contrasto pressante con slavi e saraceni. L'allentamento della tensione esterna, procurato anche con l'esito ora più favorevole delle azioni venetiche, lasciava probabilmente spazio maggiore per l'impegno nel consolidamento interno. L'apparizione dei "giudici" al tempo di Orso evidenzia i mutamenti in atto negli assetti costituzionali (152). Ma gli aggiustamenti più profondi si avevano, per giudizio diffuso, nell'ambito degli ordinamenti ecclesiastici.
Proprio al dogado di Orso si è attribuito il riordino decisivo della Chiesa lagunare, con la fondazione di una rete di nuove diocesi. Oltre alla sede patriarcale di Grado e al vescovado di Olivolo, prima dell'avvento di Orso nell'864 doveva forse esserci un vescovo soltanto ad Equilo e comunque da pochissimi anni, e sotto il suo dogado si sarebbe compiuta una completa riorganizzazione con la nascita di nuove diocesi a Caorle, Eraclea, Malamocco e Torcello (153). Questa tesi, peraltro, è ben lontana dal risolvere la questione estremamente dibattuta dell'origine delle diocesi lagunari. Con calibrature diverse, infatti, si è altrimenti insistito sulla non contemporaneità delle istituzioni, sulla loro precocità assoluta rispetto ai tempi di Orso I [Particiaco>, sulla continuità fra le antiche sedi pre-longobarde di terraferma (Altino, Concordia, Oderzo, Padova) e le nuove di laguna, sui modi e i tempi di traslazioni o fondazioni (154). La deludente povertà di dati, in effetti, consente poche certezze e molte ipotesi, con tutta l'approssimazione in cui si può cadere quando si fanno parlare i silenzi. E non è compito nostro entrare in questa sede nel merito del dibattito. Interessa piuttosto considerare come al tempo di Orso la chiesa venetica trovasse comunque un ordine preciso, conservatosi poi a lungo, superando per sempre il tipo di logica che ancora incombeva ai tempi della sinodo mantovana dell'827 e, insieme, chiarendo i rapporti con il potere politico in termini rivelatisi a lungo funzionali.
In sostanza, anche prescindendo dalle incertezze sull'esatta genesi delle diocesi lagunari, l'età di Orso resta come sicura discriminante tra fasi diverse. In primo luogo, si ha la verifica definitiva del superamento dei vecchi coinvolgimenti istriani e regnicoli; l'orizzonte ecclesiastico che conta è quello delle lagune, mentre il resto è ormai fuori quadro; e in tale ottica si svolgeranno i contrasti di cui subito diremo. In secondo luogo, i sei vescovadi lagunari, anche se già da tempo esistenti, vengono per la prima volta tutti esplicitamente in luce, con una serie di intrecci che propone l'immagine di un sistema organico e integrato, con fortissime tensioni ma tale per cui le vicende del metropolita gradense o dei vescovi di Torcello o di Equilo o di Olivolo non restano isolate in se stesse ma si svolgono con intensa complementarità (155), ciò che fra l'altro attesta (seppure per via indiretta) come stesse progredendo il compattamento istituzionale. Soprattutto, giunge ad un chiarimento definitivo, con tutta la concretezza della vicenda reale, il rapporto che dovrà esistere tra dogado e patriarcato.
Già nei primi mesi del governo di Orso il mondo ecclesiastico venetico venne turbato dall'uccisione del vescovo di Altino/Torcello: Deodato. Probabilmente fu soltanto il crimine di un paio di servi, che il doge punì con la morte (156); ma qualcosa d'insolito era evidentemente nell'aria. Quando poi, verso 1'874, si trattò di sostituire il patriarca di Grado, Vitale, nel frattempo defunto, il neoeletto Pietro fuggì nel regno italico e soltanto dopo forti insistenze accettò controvoglia: "invitus" (157). Non conosciamo il perché del tentativo di rifiuto, ma di certo il fatto non può liquidarsi col solito schema dell'uomo probo che fugge gli onori e si reputa indegno. E in gestazione c'erano momenti non da sante modestie ma da robusti scontri frontali.
Al nodo si arriva con la morte del vescovo torcellano Senatore (a suo tempo succeduto all'ucciso Deodato). A subentrargli viene scelto con l'appoggio del doge l'abate di Santo Stefano di Altino: Domenico. È il conflitto. Il patriarca rifiuta la rituale consacrazione, forte delle norme canoniche sul difetto d'integrità fisica, violate dal momento che il neoeletto (come ci dichiara Giovanni diacono) si era evirato (158). Il contrasto cresce poi con la scomunica di Domenico e la reazione del doge, che costringe il patriarca a fuggire in Istria. Rientrato in Venezia, dopo un anno inutilmente trascorso nella capitale, a Rialto, senza che il caso torcellano si risolvesse, non potendo "resistere al doge", di nuovo il patriarca fugge, questa volta a Roma, dove viene accolto dal papa Giovanni VIII. Tra 1'876 e 1'877 lo scontro è aperto. Le lettere papali dimostrano come contro l'eletto Domenico vi fossero pesanti accuse di corruzione e non soltanto la mutilazione fisica. D'altra parte contrastare Domenico equivaleva a contrastare il doge, a fianco del quale erano schierati, volenti o nolenti che fossero, i vescovi lagunari (con in testa quello di Olivolo), che si riconoscevano nelle posizioni realtine piuttosto che in quelle romane o patriarcali (159).
Tra ingiunzioni e gentilezze diplomatiche, accuse e scuse, minacce, scomuniche, inutili convocazioni e appuntamenti mancati, i contendenti non si spostavano dai loro assunti. Anzi, in laguna, sotto il controllo dogale si procedeva senza remore alla designazione dei successori dei vescovi che venivano a mancare, senza attendere nessun beneplacito delle superiori gerarchie. L'oggetto del contendere era chiaro. C'erano in ballo i generali rapporti fra il potere politico e le strutture ecclesiastiche, sicché la originaria questione torcellana passava in subordine; ora (luglio 877) il papa chiedeva ad Orso che con il patriarca affrontasse "omnis altercatio": tutta la controversia nel suo complesso (160).
In breve, quando si raggiunse finalmente un compromesso il doge non aveva ceduto su nessun punto di sostanza: il patriarca rientrava in laguna e consacrava tutti i vescovi eletti durante la sua assenza (erano ben tre); non era costretto a subire l'umiliazione di ordinare il vescovo torcellano, motivo della burrasca, ma questi poteva però restare in sede, godendo delle rendite diocesane (161), in attesa della soddisfazione finale. L'ultimo passo era compiuto nel gennaio 878. Morto il patriarca Pietro, il neoeletto Vittore sarebbe stato "costretto dal doge nel giorno della sua elezione a giurare che avrebbe consacrato vescovo chi il doge stesso gli avesse mandato come eletto" (162). Non ci voleva molto a prevedere come sarebbe finita. Il contestato Domenico diventava con tutti i crismi presule di Torcello e le amare parole messe in bocca dal diacono Giovanni al patriarca erano il segno di una sconfitta.
Il patriarcato gradense, che al tempo di Fortunato e della sinodo di Mantova aveva dovuto mutare la sua ottica riconvertendosi ad una prospettiva lagunare che non gli era mai stata propria, ora subiva una qualche sorta di "nazionalizzazione ", tanto da potersi dire (sia pure approssimando non poco per eccesso) che "la chiesa metropolitana diventava una funzione dello stato" (163). Questa mi pare la vera riforma del dogado di Orso, ben più significativa dell'istituzione o meno, del consolidamento o meno di qualche vecchia o nuova diocesi. Di fronte al pontefice stesso il doge aveva potuto contare sul clero locale (o almeno controllarlo), e si era giunti così a un chiarimento che, oltre a tutto, avrebbe in processo di tempo finito per portare vantaggi ad entrambe le parti, anche agli sconfitti del momento.
Giovanni 11 (881-887) e l'avventura del primo Candiano
L'intreccio fra stato e chiesa in laguna passava anche attraverso le funzioni ecclesiastiche svolte dai membri delle maggiori famiglie. Con Orso I [Particiaco> ricorderemo la figlia Giovanna, badessa di San Zaccaria. E, a mostrare come il consolidamento del gruppo seguisse pure altre vie, richiameremo qui l'altra figlia, Felicia, che il padre maritò con il bolognese Rodoaldo, imparentandosi così con una cospicua famiglia italica (164). Anche con le strategie matrimoniali si affermava la propria presenza. I rapporti restavano tranquilli con oriente e occidente e i "pacta" sarebbero stati rinnovati con Carlo il Grosso, mentre da Bisanzio era giunto il titolo altissimo di protospatario (165). Si è visto.
Chiariti da posizioni di forza i rapporti con l'organizzazione ecclesiastica, affermata la presenza venetica in Adriatico (sia pure senza un vero ruolo egemone, ma con successi di prestigio come la vittoria di Taranto contro i saraceni), la fase di positiva crescita emerge per altri indicatori. Così l'evoluzione istituzionale (si ricordi l'apparire dei giudici) non era disgiunta da interventi normativi che presupponevano il pieno controllo della situazione; sarebbe stato altrimenti impensabile interdire il commercio di schiavi, con un provvedimento richiamato ancora quasi un secolo più tardi (166), sicuramente utile per l'immagine di Venezia ma altrettanto sicuramente impopolare per un ambiente mercantile che si vedeva precluso, almeno ufficialmente, un lucroso settore commerciale. Venezia cresce anche: a Torcello si restaura la basilica; a Cittanova il doge edifica un palazzo; in Malamocco si sarebbe poi fondata (dal figlio di Orso) la chiesa dei Santi Cornelio e Cipriano. A Rialto il monastero di San Zaccaria è rifatto dalle fondamenta; soprattutto, vengono assegnate, messe a coltura e costruite zone paludose verso oriente, mentre si organizza il popolamento di Dorsoduro da parte di uomini legati al dogado (167), dopo che in modo analogo si era proceduto nell'isola di Poveglia (168).
Data la situazione, non c'era motivo di cambiare rotta e nell'881, alla morte di Orso, subentrava il figlio e coreggente Giovanni. Gli equilibri generali modificati, peraltro, consentivano qualche aggiustamento. Alleggeritosi l'impegno sui mari, sicura la situazione interna, diventava possibile pensare a una ricollocazione venetica nello scacchiere altoadriatico. Comacchio era un naturale obiettivo. Quel centro, assai prossimo, in posizione strategica per il controllo dei traffici padani, importantissimo per la produzione del sale, col favore sovrano era stato per certi versi la possibile alternativa longobarda e poi franca alla bizantina Venezia nell'alto Adriatico (169); ma ora l'antica concorrente, già indebolita dalle turbolenze che tormentavano il regno italico, portava ancora fresche le ferite procurate dall'incursione saracena dell'875 e si poteva pensare ad un suo inglobamento. A questo fine il doge Giovanni agiva su un duplice piano: militare e diplomatico. Se le armi gli avevano temporaneamente consentito di conquistare il centro nemico, dopo uno scacco iniziale (170), nessun esito aveva invece la richiesta al pontefice (alto signore di quelle terre dal tempo delle promesse e donazioni carolingie): né Adriano III né il successore Stefano dettero seguito alle istanze dogali d'investitura del comitato comacchiese. "Nullo modo, nullo ingenio et nulla quacumque intentione": davvero in nessun caso - scriveva il pontefice nell'886 - al doge sarebbe stato concesso il titolo comitale (171). E l'impresa finiva in niente: secoli sarebbero dovuti trascorrere prima che Venezia giungesse ad ampliamenti territoriali.
Piuttosto che per l'inutile conquista di Comacchio, il dogado di Giovanni merita di essere ricordato per le novità introdotte quanto al modo di elezione dogale. Si trattava anche per lui di scegliere il coreggente; niente di eccezionale: era prassi consolidata. E invece senza precedenti il modo in cui (per testimonianza di Giovanni diacono) la cosa avvenne: il doge "successorem sibi elegit", si elesse come successore il fratello Pietro "populo adclamante", con il consenso del popolo; è già un fatto nuovo, ma il passo maggiore viene dopo, quando, morto il coreggente Pietro, infermo il doge Giovanni, toccò di nuovo eleggere un successore, e allora "Venefici ducem sibi constituerunt": i venetici si diedero un doge in Pietro Candiano (172). Ciò non accadeva in contrasto con il doge in carica, che anzi trasferiva di persona nell'887 al suo successore le insegne del potere: la spada, lo scettro, il seggio. Senza atti eversivi, l'iniziativa popolare acquistava così un ruolo determinante nella scelta del doge, intervenendo al momento della designazione senza essere più limitata alla mera ratifica di decisioni già prese (173).
Il passaggio era concettualmente e ideologicamente importante, e veniva presto ribadito. Il governo di Pietro I Candiano, si ricorderà, era trascorso come una meteora, stroncato dai narentani nella acque di Macarsca. Quando giungeva notizia della morte del giovane doge, il vecchio Giovanni, benché infermo, tornava in palazzo a pressante richiesta del popolo: "deprecante populo"; ma "non volendo stare più a lungo, dà licenza al popolo di scegliersi il doge che voleva" (174). Così veniva eletto Pietro di Domenico Tribuno. Così, soprattutto, veniva ratificato una volta per sempre il diritto popolare di intervento propositivo nell'elezione dogale. Parlare di dogi eletti allora "a suffragio universale", oppure di "sovranità popolare", può forse essere tecnicamente corretto nell'ottica del giurista o del costituzionalista, ma di certo si presta ad equivoci se riferito ai nostri schemi interpretativi. Tra l'altro il "populus" in questione era ben altra cosa rispetto a ciò che noi intendiamo per "popolo ". La schiera dei senza diritti e dei senza poteri restava larghissima. Ma in ogni caso la modifica intervenuta non era davvero cosa da poco.
Il passaggio dal IX al X secolo avveniva per Venezia in un clima tutto sommato di stabilità, che contrastava con le situazioni del vicino regno italico. La deposizione di Carlo il Grosso nell'887, dopo la pessima prova data di fronte ai normanni che assediavano Parigi, aveva marcato la fine dell'unità politica del mondo latino-germanico in Europa. Non appena giunta di Francia la notizia della deposizione di Carlo, in Italia si era subito mosso il marchese Berengario del Friuli. A Pavia aveva ricevuto la corona del regno italico, ma per il pieno controllo politico della situazione non bastava esser stato incoronato; così per oltre sessant'anni il regno avrebbe vissuto in equilibri di potere fluttuanti e continuamente irrisolti. Tra Berengario e Guido di Spoleto e Arnolfo di Carinzia, tra Ludovico di Provenza e Rodolfo II di Borgogna e Ugo di Provenza e Berengario II, la situazione si trascinava in interminabili conflitti, finché verso la metà del secolo X anche in Italia cominciava a far sentire il suo peso Ottone I di Sassonia, attorno al quale si riordinavano tutti gli equilibri di potere.
Rispetto all'instabilità ritornante della storia italiana di quei decenni (ma, seppure con minore intensità, potremmo anche parlare di secoli), la compattezza della struttura venetica (e poi veneziana) era un grande elemento di forza. Si tratta d'intendersi. Non mancò certo in Venezia una dialettica interna spesso esplosa in modo lacerante. Abbiamo incontrato e ancora vedremo molte cruente lotte, giunte a travolgere gli stessi vertici politici, fino al doge. Ma nonostante questo, il percorso venetico rimane coerente nelle sue grandi linee di tendenza, ciò che depone a favore di una precoce solidità dell'impalcatura statuale e della società; in altri termini, anche il momento più drammatico possibile, quello della rottura assoluta, ossia la deposizione violenta e sanguinosa di un doge, riesce ad essere assorbito senza provocare in linea di massima variazioni di rotta, e in questo leggerei da un lato la riprova di tensioni di straordinario vigore, ma d'altro lato la riprova di una solidità strutturale di base, per cui si possono reggere anche le peggiori fratture.
Gli scontri, in altre parole, si svolgono per solito all'interno di schemi di politica complessiva che riescono a contenerli, e soltanto in un paio di fasi di eccezionale delicatezza l'eventualità di modifiche di fondo diventa concreta; sono fasi in cui i conflitti interni si saldano con la politica delle grandi potenze del tempo. Due sostanzialmente mi pare siano state le fasi del genere lungo tutto l'alto medio evo: la prima è quella già vista, giunta all'acme nel primo decennio del secolo IX, ma apertasi con la caduta del regno longobardo, quando per Venezia si prospetta l'assorbimento nello stato carolingio; la seconda, di cui diremo, vide lo stadio più difficile con il dogado di Pietro IV Candiano e propose la realistica ipotesi di aggregazione all'impero dei Sassoni. Tra queste due fasi, specialmente al passaggio del secolo, le cose invece procedono nel complesso senza troppi problemi.
Pacificamente era passata la nomina di Pietro Tribuno, dopo la morte di Pietro I Candiano nell'887. Al neoeletto, congiunto per linea materna al vecchio doge Pietro [Tradonico>, non mancava l'accordo con i due imperi, ribadito nei modi ormai rituali. I patti con il "regnum" erano confermati da Berengario I nell'888 con l'introduzione di disposizioni utili a meglio definire i rapporti commerciali tra le parti (175), e da Guido di Spoleto nell'89 i con qualche nuova concessione specialmente in merito alla capacità giurisdizionale del doge sui propri sudditi dimoranti nel regno (176). Da Bisanzio, invece, giungeva il titolo aulico di "protospatario" (177). In equilibrio tra oriente e occidente, il cammino di Venezia verso l'autonomia contava anche sulla capacità di risposta militare, sperimentata di nuovo in concreto nel confronto con gli ungari. Stanziati in Pannonia alla fine del secolo IX, con martellante continuità si spostavano in rapide e devastanti incursioni, che sarebbero durate per oltre un cinquantennio e dalle quali nemmeno Venezia era stata risparmiata. L'abate di Santo Stefano d'Altino ricordava "con gemiti e dolore accorato" davanti al doge e al placito, nel febbraio 900, i danni subiti, lamentando come i beni del cenobio fossero stati messi a sacco e i coloni trucidati e dispersi (178). Nelle loro puntate, avide di bottini e non di conquiste, gli ungari avevano colpito sicuramente la zona tra Cittanova, Equilo e Fine, nonché (a sud) Cavarzere e Chioggia, mirando poi da lì, per la solita via dei lidi, verso il cuore del dogado: Malamocco e poi Rialto (179).
Che fossero stati bloccati dal doge con la flotta ribadiva quanto ben si sapeva da secoli, dal tempo delle grandi invasioni: l'importanza strategica dell'ambiente acqueo, soprattutto contro chi avesse scarsa pratica di navigazione; le ungariche "pelliciae naves", le imbarcazioni ricoperte di pelle, non erano bastate. La risposta che Venezia aveva saputo dare si articolava anche nel potenziamento delle strutture difensive della capitale. L'inettitudine ungarica nell'affrontare i luoghi fortificati, infatti, consigliò quel sistema di approntamenti (mura e catena attraverso il Canal Grande per bloccare l'accesso al bacino di San Marco) che fissarono l'immagine di Rialto quale città (180). La situazione generale, comunque, consentiva di superare senza traumi eccessivi le congiunture sfavorevoli che si presentavano.
Un momento difficile era capitato con gli ungari; un altro sarebbe giunto a causa dei croati con il successore di Pietro Tribuno. Questo doge era morto verso il 911 tra il rimpianto dei venetici, e gli era succeduto Orso, con cui torna in luce il vecchio cognome particiaco, anche se (come si è detto) nessun rapporto certo è istituibile con l'antica famiglia (181), mentre il figlio Pietro sarà univocamente indicato come Badoer. Proprio il figlio era stato spedito a Costantinopoli in uno di quei viaggi che contribuivano a ribadire l'antico permanente legame. Onorato dall'imperatore Leone VI (morto poco dopo, nel maggio 912), si era messo sulla via del ritorno attraversando i "Chroatorum fines", ma in queste zone di controllo croato veniva fatto prigioniero dal "dux Sclavorum" Michele e poi consegnato allo zar dei bulgari, Simeone il Grande. L'avventura si sarebbe poi conclusa con un riscatto in cui si sono colte solitamente la fiacchezza (o "serenità") venetica e la riprova di incertezze nelle aree serbo-narentane (182).
Quella cattura, però, la si può intendere anche in altro modo: come un evento non irrilevante nell'ambito di una grande vicenda. Proprio la morte dell'imperatore Leone VI nel 912 aveva dato il via ad una ripresa offensiva in grande stile dello zar bulgaro, giunto nel 913 sotto le mura di Bisanzio. La lotta bulgaro-bizantina scuoteva poi per anni tutta la penisola balcanica. La Serbia e la Croazia erano area di confronti e fra gli alleati di Bisanzio nell'azione antibulgara c'era il principe della Serbia, l'energico Pietro (891-917), che aveva esteso il proprio controllo anche sui narentani. Nello schieramento avversario, in diretta concorrenza con il serbo Pietro e quindi naturale alleato dello zar Simeone, si collocava il principe di Hum (Erzegovina), cioè quel Michele che aveva catturato il figlio del doge (183). Il fatto, allora, non è una storia di briganti di strada ma un passaggio ben preciso in un conflitto fra stati in cui Pietro Badoer, l'autorevole venetico che torna dalla missione a Costantinopoli, viene ad essere parte in causa, identificabile con lo schieramento imperiale bizantino. Il collegamento è innegabile. Peraltro la sua successiva liberazione parrebbe il frutto di un'iniziativa diplomatica totalmente venetica (184). In sostanza, anche se il puntuale svolgimento dei fatti non è del tutto chiaro, vi si può cogliere in generale tanto il riflesso del permanente legame venetico-bizantino quanto la riprova del ruolo di Venezia nelle vicende internazionali nonché del processo autonomistico in atto.
Le disavventure del figlio del doge, per quanto coinvolgenti sul piano delle emozioni collettive, non alteravano seriamente i ritmi di un trend pacifico, che a quanto si sa durarono per tutto il ventennio del governo di Orso II Particiaco, fino al 931, quando gli successe Pietro II Candiano. Non avevano guastato quel clima nemmeno le pur devastanti puntate ungariche, trascorse senza postumi insopportabili. In proposito occorrerà insistere sul fatto che quella bufera di distruzioni non sembra avere favorito nel dogado nessun fenomeno d'incastellamento, come invece avveniva in terraferma (185). La cosa è rilevante dal momento che si pensa troppo spesso al dogado in termini di ordinamento castrense, soprattuto sulla scorta di Costantino Porfirogenito e di Giovanni diacono che di "castra" parlano senza risparmio (186). Quell'ordinamento castrense (fra l'altro decisamente precoce) non pare mai essere esistito. I "castra" di cui si parla, in effetti, sono ben altra cosa dai castelli di cui si riempie il "regnum" dal secolo X, e corrispondono piuttosto, secondo la tradizione romano-bizantina, a nuclei d'insediamento significativi ma minori rispetto al centro amministrativo maggiore, la "civitas" (187). Entità rilevanti, dunque, ma prive di quelle funzioni di signoria rurale e di capacità politiche autonome, prive di quei diritti giurisdizionali, di quelle immunità e di quelle peculiari funzioni di condizionamento e modellamento delle strutture sociali che veramente autorizzerebbero a parlare di incastellamento ed ordinamento castrense (188). L'assenza di fenomeni del genere, qui soltanto enunciabile, come pure l'assenza di reali strutture feudo-vassallatiche, esprime una peculiarità veneziana che ha riscontro in una capacità centralizzatrice relativamente forte. Dal secolo IX Rialto svolge una funzione di vera capitale, comprimendo i residui dell'antica, ipotizzabile struttura istituzionale di tipo federativo, con più centri che mantenevano una loro autonomia consentita dalla "originaria costituzione tribunizia" (189). Non possiamo esattamente misurare quanto il consolidamento della funzione guida di Rialto abbia agito anche come richiamo. Parlare dell'innesco di un processo di accentramento demografico se non addirittura di fenomeni d'inurbamento nel centro realtino ancora per il secolo X è un atto di fede. Poverissima la documentazione, inaffidabili le tradizioni leggendarie più tarde, raccolte specialmente nella cosiddetta Origo civitatum, ogni proposta rimane ipotetica. È peraltro sicuro che Rialto sta crescendo e raccoglie ormai in sé tutte le funzioni proprie del centro urbano: dal 775-776 c'è un vescovo ad Olivolo; dal tempo di Agnello Particiaco c'è il "palatium" in cui si concentrano le massime funzioni politiche; un sistema difensivo organico è stato predisposto dagli anni di Pietro Tribuno; un punto di organizzazione dei commerci sarà attestato verso metà secolo X (190); la basilica marciava è il centro etico-politico del dogado e decine di edifici ecclesiastici, grandi o minori, le fanno da contorno nell'area. E un embrione di città senza ancora una vera organizzazione urbana; legname, canne e paglia non cedono per il momento il passo a strutture murarie e soltanto il secolo XII proporrà un vero salto qualitativo. Ma è ormai irreversibilmente il cuore e la testa del dogado, anche se i veri fenomeni di accentramento demografico tarderanno ancora.
Con il ritiro di Orso II Particiaco, entrato nel monastero di San Felice di Ammiana nel 931, dopo un ventennio di governo, si chiudeva quel mezzo secolo abbondante indicato sopra come fase di politica cauta e raccolta, di crescita in clima sostanzialmente pacifico. Non si escluderà che la monacazione di Orso, ricordata come spontanea scelta di un vecchio e giusto governante ormai distaccato dalle cose terrene (191), possa essere riletta come allontanamento volontario o imposto di un politico superato dai tempi. Infatti il suo successore, Pietro II Candiano, figlio del doge morto per mano narentana nell'887 (192), era erede di una tradizione familiare che suggeriva modi di concepire la presenza venetica ben diversi da quelli del vecchio Orso. In ogni caso si trovò subito al centro di eventi che dovevano già essere in movimento all'abdicazione del suo predecessore.
Si trattava di chiarire i rapporti con l'Istria. Area d'importanza vitale, era la prima tappa nelle rotte verso oriente e, insieme, zona di approvvigionamento e raccolta di merci essenziali (ferro, pelli, legname, schiavi), oltre che sede di patrimoni immobiliari venetici. Tra 932 e 933 (a ridosso del passaggio delle funzioni dogali, ma dopo che il neoeletto doge aveva ribadito i legami con l'oriente ricevendo il titolo di protospatario) (193) due atti di grande rilievo vengono a ridefinire gli equilibri della regione in termini vantaggiosi per Venezia. Prima il patto con Capodistria impegna il maggiore centro della zona a "salvare e difendere da ogni avversità" i venetici, "così che nessuno abbia a subire danni o violenze"; e il donativo al doge di "cento anfore di buon vino al tempo della vendemmia" avrebbe ogni anno ribadito l'onore dovuto a Venezia (194). L'anno successivo (marzo 933) una folta delegazione istriana guidata dal marchese Wintero in persona, recatasi a Rialto solennemente s'impegnava alla restituzione di un ordine favorevole a Venezia e alla sua attività economica, gravemente turbato in tempi recenti (a dispetto di quanto garantivano i patti) da violazioni di diritti e di proprietà, sequestri di crediti, imposizioni di oneri impropri, catture di navi e saccheggi e uccisioni (195). Il grande feudatario, dopo essersi fatto interprete di ostilità e risentimenti che l'invadente crescita dei vicini venetici aveva reso più acuti nella regione istriana, riconosceva ora la propria sconfitta, piegato dalla decisa azione candiana (196).
Con la stessa energia era chiusa anche la vecchia partita comacchiese. Ci aveva provato (si ricorderà) Giovanni II [Particiaco>, ma adesso la strategia era diversa: non si puntava ad alcuna acquisizione territoriale e nemmeno a nessun riconoscimento di legittimi diritti, ma alla distruzione pura e semplice dell'antica concorrente. La cattura di alcuni venetici da parte dei comacchiesi, un incidente in fondo modesto (anche se il problema della libertà nelle rotte era fondamentale), scatenava la reazione del doge. Distrutto il castello, massacrata parte degli abitanti, i superstiti furono trasferiti a Venezia e trattenuti finché non giurarono piena sotto missione (197).
A rendere possibile un'azione tanto decisa nei due settori più delicati per la sicurezza dello stato lagunare - quelli dai quali poteva essere preso alla gola - fu determinante la situazione del regno italico. Viveva la fase acutissima della propria crisi; senza una solida autorità regia, con apparati statuali sconvolti, con un crescere di autonomi nuclei di potere tanto vitali in prospettiva quanto disgregatori del sistema esistente, lasciava spazio ad imprese altrimenti impensabili, qui come altrove. Con tale situazione s'intende meglio perché dall'888 (con Berengario I) non era più stato rinnovato il "pactum" tra Venezia e il regno e ci si era limitati a confermare il "praeceptum" che garantiva diritti e privilegi dei venetici, in termini sempre più favorevoli (198). Soltanto nel 967, non a caso con Ottone I, si sarebbe tornati a un patto (199). Ma ai tempi di Pietro II Candiano, nel 932-939, l'interlocutore regnicolo non era il grande imperatore sassone ma Ugo di Provenza, con il quale si coniugano terrore e insicurezza, facendogli il vuoto attorno (200).
Quando il Candiano moriva, nel 939, l'Adriatico a nord della linea Pola-Ravenna era sotto il controllo venetico, ma i successi ottenuti non erano probabilmente bastati a cancellare i dubbi che una parte delle forze politiche lagunari doveva nutrire nei suoi confronti. Forse nel disegno di un ritorno alla tranquillità assicurata dai suoi predecessori, alla scomparsa del Candiano non subentrava alcun esponente del suo bellicoso clan, ma veniva fatto doge quel Pietro Badoer che avevamo visto finire in mano bulgara per essere poi riscattato dal padre Orso II Particiaco. Il dogado del Badoer (morto poi nel 942) rimane un'anonima parentesi in un'epoca tutta candiana. La parentesi di un attimo, presto chiusa quando, dopo un triennio, il seggio dogale tornava ai Candiano: a Pietro III, figlio di Pietro II. Non sarà un caso che il clima politico cambiasse immediatamente o quasi. Aquileia era l'avversario del momento. Non c'entravano stavolta gli antichi e mai risolti conflitti di giurisdizione ecclesiastica, almeno in modo diretto; lo scontro aveva piuttosto radici economiche.
C'erano stati contrasti e puntate degli aquileiesi contro Grado, come quelle che già nell'88o erano sfociate nella convenzione fra il doge Orso I [Particiaco> e il patriarca Walperto (201), e la violenza aveva generato altra violenza, ma ora (marzo 944) il patriarca di Aquileia Lupo era costretto a chiedere una pace che l'ira dogale non voleva concedere. Doveva perciò intervenire il patriarca di Grado, Marino, perché si arrivasse ad una transazione con la quale il suo collega di terraferma s'impegnava al rispetto totale dei diritti venetici in quell'area (202).
Comportamento duro, quello del doge. Era peraltro gioco facile il costringere a fare anticamera un avversario nel complesso modesto come l'aquileiese. Ma gli stessi atteggiamenti decisi li ritroviamo nei confronti dei narentani. All'887, al tempo del primo Candiano, risalivano (per quanto ricordano le fonti) gli ultimi sfortunati interventi della flotta venetica in quello scacchiere. A sessant'anni di distanza, nel 947-948, la squadra formata da 33 navi "gumbariae" salpava di nuovo e, dopo una prima spedizione rivelatasi infruttuosa, tornava nelle acque centro-adriatiche, rientrando stavolta in Venezia dopo avere imposto un patto, "federe firmato" (203). È rilevante che queste azioni non siano ricordate come risposta ad atti ostili, parendo piuttosto un'autonoma iniziativa di polizia marittima da parte di uno stato tendenzialmente egemone nella regione: era forse, in piccola scala, qualcosa di omogeneo a quanto in quel giro d'anni il governo bizantino s'apprestava a fare con l'imponente spedizione contro i corsari annidati a Creta (nel 949) (204). Il clima più duro e bellicoso che ormai caratterizzava la politica venetica, tuttavia, possiamo meglio coglierlo nelle vicende interne.
L'alternanza delle famiglie dogali stava indicando da anni il persistere di tensioni ai vertici della società e delle istituzioni: Orso Il Particiaco, poi Pietro Il Candiano, quindi Pietro Badoer figlio di Orso, e ancora Pietro III Candiano figlio di Pietro II. Da sempre la tendenza verso soluzioni ereditarie nella successione dogale non riusciva a sboccare in una stabile dinastia, ed era normale che la dinamica politica interna riemergesse con più virulenza al momento di scegliere un nuovo doge. Ma con Pietro III Candiano si va oltre la misura consueta, ed inizia piuttosto una fase altamente drammatica della vicenda venetica, conclusasi soltanto con l'elezione di Pietro II Orseolo nel 991.
Pietro III aveva scelto il figlio suo omonimo come coreggente, accogliendo anche l'indicazione popolare: "populo suggerente"; ma tra i due dogi l'accordo era venuto meno e Rialto aveva addirittura visto lo scontro aperto tra i fautori dell'uno e dell'altro. Cosa esattamente distinguesse i due partiti non è detto dalle fonti, ma qualcosa si può intuire pensando ai complessi equilibri del tempo, nei quali uno dei punti politicamente più delicati era diventato quello dei rapporti con il regno italico. L'attenzione per la terraferma era cresciuta e a evidenziarla stavano i beni offerti da autorevolissimi personaggi veronesi (il conte Ingelfredo nel 914, il vescovo Notkero nel 928, il conte e marchese Milone nel 955) al monastero di San Zaccaria (205); oppure la donazione del marchese Amelrico e della moglie Franca (figlia di un Giselbertengo, Lanfranco, conte di palazzo) a San Michele di Brondolo nel 954 (206); o, ancora, quella della contessa Ildeburga, moglie di Adalberto di Reggio, a San Zaccaria, di data imprecisata (207). Lo stesso doge Pietro III aveva acquistato nel 944 ampi beni in Conche e Fogolana, ai confini del dogado, dalla contessa Anna, vedova di Guido di Bertaldo conte di Reggio (208); soprattutto, il Candiano aveva sposato una certa Richelda (209) di cui nulla sappiamo se non che il nome fa pensare ad un'origine regnicola e non venetica.
La cresciuta attenzione anche patrimoniale per l'occidente s'intrecciava ai permanenti, strutturali legami con l'oriente bizantino e (pur senza dimenticare come le compresenze anche nelle stesse persone di interessi fondiari e mercantili, marittimi e terrafermieri, finanziari e immobiliari escludano contrasti troppo rigidamente fondati su tali basi) rimane il fatto che le propensioni in un senso o nell'altro dovevano marcare le divergenze di schieramento. Quanto a Pietro III, le sue attenzioni per la terraferma furono indubbiamente più intense che con ogni suo predecessore, ma altrettanto sicuro è il loro convivere con la tradizionale propensione per l'oriente. Proprio su ciò sembra essere esploso il contrasto con il figlio. In sostanza, la volontà di maggiore impegno terrafermiero del secondo si sarebbe scontrata col timore del primo per un coinvolgimento eccessivo, rischioso così sul piano degli equilibri interni come dei rapporti esterni, specialmente dopo che Ottone I di Sassonia aveva dimostrato tutto il suo interesse per l'Italia dove era sceso di persona fin dal 951 (210).
Il contrasto fra i due Candiano scoppia quando si avvicina ormai il momento della successione. Verso la primavera del 959 il giovane Pietro è temporaneamente sconfitto. Espulso dai venetici, che giurano anche "di non averlo mai come doge", si rifugia nel regno italico, alla corte di re Berengario II e quindi, con il consenso sovrano, si porta a Ravenna da dove assalta le navi venetiche che si trovavano alle foci del Po. Ma ecco il colpo di scena; nel giro di poche settimane il vecchio Pietro III muore e i venetici richiamano come doge il figlio, recandosi a Ravenna con un festoso corteo di trecento navi per onorarlo (211). Evidentemente a Rialto gli equilibri si sono ribaltati rispetto al tempo non lontano dei giuramenti solenni su chi non avere come doge. A questo punto il baricentro della politica di Venezia si sposta verso un coinvolgimento italico senza precedenti. Abbandonata la prima moglie Giovanna, onorevolmente sistemata come badessa nel monastero di San Zaccaria, Pietro IV sposa Waldrada, figlia del marchese Uberto e sorella di Ugo di Toscana, imparentandosi così con la massima aristocrazia italica; si reclutano in terraferma truppe mercenarie fidate, quelle che poi difenderanno il doge fino all'ultimo; capita persino che forme proprie del rapporto feudo-vassallatico entrino in laguna, dove il sistema feudale non aveva mai potuto radicarsi, anche in relazione ai caratteri ambientali, poveri di quella terra che per quel tipo di società è essenziale; i venetici si trovano a combattere in centri insolitamente terragni, come Ferrara e Oderzo. Tutta una serie di elementi concorre a testimoniare le pulsioni del Candiano verso occidente, sostanziatesi in un primo tempo nel collegamento con Berengario II e poi con Ottone I (212).
Le scelte del potere venetico avevano il logico interlocutore nel disegno politico ottoniamo, creando però situazioni di estrema delicatezza. Le idee dell'imperatore sassone sull'Italia erano evidenti (e perciò dovevano avere preoccupato il vecchio doge Pietro III) fin dal tempo della sua prima calata, nel 951, quando si era assicurata la corona del "regnum", concessa poi in beneficio nel 952 a Berengario II, vecchio antagonista per il controllo sulla penisola, con una soluzione interlocutoria, in attesa dei chiarimenti definitivi. Nel 956-957 Ottone aveva poi inviato in Italia il figlio Liudolfo e nel 961 era di nuovo sceso personalmente, forte anche dell'eccezionale prestigio procuratogli dalla vittoria sugli ungari a Lechfeld. Il pontefice stesso aveva chiesto il suo intervento ed egli era tanto deciso quanto capace di mettere ordine. Naturalmente l'ordine suo.
Incoronato imperatore (nel 962), tolto definitivamente di mezzo Berengario II (relegato in Bamberga con la moglie Willa nel 964), i suoi progetti potevano prendere corpo.
Il disegno egemonico del grande imperatore sassone non poteva di certo bloccarsi di fronte all'autonomia venetica, sicché la naturale alleanza col Candiano rischiava di farsi soffocante, tingendosi di toni paradossali. Così si tornò alle pattuizioni, segno di cordialità nei rapporti, ma il "pactum" concesso nel 967 ad un doge vicino come non mai alla controparte registrò un netto peggioramento rispetto alle formulazioni precedenti.
Ciò accadeva per la prima volta, dopo una ininterrotta serie di complessivi miglioramenti, e le novità davano segnali politici inequivocabili. Così, per esempio, il silenzio sui termini confinari e sulla pertinenza al dogado di località come Chioggia o Brondolo abbassava i margini di sicurezza contro possibili usurpazioni di terre e di giurisdizioni. E significativamente il censo annuo, che i venetici fino ad allora pagavano al fisco regio come ricognizione delle concessioni e dei servizi assicurati dal "pactum", diventa con Ottone un "tributum" dal ben diverso significato politico (213).
L'aspetto paradossale consisteva nel fatto che i peggioramenti nella pattuizione, così conformi ai progetti e all'ideologia di Ottone I, non sottintendevano alcuna ostilità nei confronti del governo venetico, ed anzi una serie di provvedimenti testimonia il legame con il clan candiano e lo sforzo dell'imperatore per consolidarlo. I privilegi concessi al fratello del doge Vitale-Ugo e al monastero di San Zaccaria dove la prima moglie era badessa (nel 963); l'intervento alla sinodo romana che ribadiva la legittimità patriarcale gradense tamponando le solite pretese di Aquileia (nel 967-968); la concessione di Isola d'Istria con tutte le sue pertinenze (nel 972): atti del genere si spiegano unicamente nel collegamento dell'imperatore con il partito dogale (214). L'interesse dell'uno per le lagune s'incontra con quello dell'altro per la terraferma.
Al termine di quel cammino s'intravede (al di là degli stessi progetti candiani) l'integrazione fra le due entità politiche, cioè, più brutalmente, l'aggregazione di Venezia all'impero. Ma anche per questo le decise propensioni terrafermiere di Pietro IV dovevano fare i conti con la complessa realtà venetica.
Bisanzio era sempre più lontana per Venezia, ma continuava ad esistere e stava anzi trascorrendo una fase di energica fioritura. Il suo impegno italiano era naturalmente condizionato dagli obblighi su tanti fronti lontani e la presenza dei musulmani in Sicilia unita alle complicazioni nei rapporti con i residui principati longobardi procuravano un'instabilità endemica; ma l'interesse non cadeva. Nel 955-956 in Meridione era giunto Mariano Argiro con truppe ausiliarie di Tracia e Macedonia e, al di là delle alterne fortune della sua missione (215), il sud d'Italia stava tornando ad essere un punto di frizioni tra i due imperi cristiani. Sugli altri scacchieri Bisanzio coglieva intanto prestigiosi risultati. Nel 961 la riconquista di Candia era un successo quale a Bisanzio non ricordavano da tempo; nel 962 c'era poi stata la trionfale campagna contro l'emiro di Mosul e Aleppo; e nel 963 saliva al trono Niceforo Foca e con lui e i suoi immediati successori (Giovanni Zimisce dal 969 al 976; Basilio II fino al 1025) l'impero bizantino entrava in un ciclo di straordinaria vigoria. Era difficile non tenerne conto; anche se i tempi in cui la flotta del patrizio Niceta o di Paolo di Cefalonia entrava in laguna appartenevano al passato, per i venetici il rapporto con l'oriente restava essenziale. Si era visto nel 960, quando il rinnovo del divieto di commercio degli schiavi aveva dovuto adeguarsi agli interessi bizantini, con una serie di precisazioni fatte su misura per i "greci" (216). Nel 971, alla vigilia del confronto con i fatimidi d'Egitto, era persino giunta da Bisanzio una commissione d'inchiesta che si era espressa senza mezzi termini: se i venetici non avessero cessato i traffici con i saraceni di materiale strategico (armi e quel legname per la cantieristica navale di cui le terre musulmane erano povere), la flotta bizantina avrebbe distrutto col fuoco tutte le navi sospette, senza pietà per merci e persone (217).
La delibera con cui ci si conformava alle minacciose richieste è molto eloquente. Anzitutto ci ricorda il ruolo formale e l'influenza sostanziale che Bisanzio ancora riesce a svolgere in Venezia. Poi ci mostra la misura dei traffici venetici e, insieme, l'articolazione di quella società, specialmente nel passo in cui (per materiale non strategico) scioglie dal divieto tre navi pronte a partire per Tripoli e Megadia (Al Mandiyah) "in considerazione della povertà di quegli uomini" impegnati nell'impresa; la "paupertas" di cui si parla deve intendersi nell'ambito della contrapposizione "pauper"/"potens" piuttosto che in quella "pauper"/"dives" e, quindi, piuttosto che persone indigenti richiama uno strato sociale libero e attivo anche se sprovvisto di capacità di governo e di controllo su uomini ed istituzioni; resta ad ogni modo straordinario il ricorso al concetto di povertà per individui in condizione di armare navi e andarsene a trafficare fino in Tunisia e in Libia (2'8). E ancora, il documento del 971, con la sua ottantina abbondante di sottoscrittori tra i quali figurano esponenti delle maggiori famiglie del dogado, mostra quanto fosse proporzionalmente ampia la fascia di coloro che avevano un ruolo, una voce, o almeno una 'capacità di firma' nella gestione della cosa pubblica: fascia ampia ma niente affatto omogenea, dal momento che vi si affiancano gli esponenti di punta dei gruppi antagonisti di quegli anni, dai Candiano agli Orseolo, dai Coloprini ai Morosini.
Credo che basti quanto detto per intuire le condizioni in cui doveva muoversi Pietro IV Candiano. In una situazione generale in cui un deciso orientamento terrafermiero doveva misurarsi con l'invadente progetto ottoniano e con la riaffermata importanza dell'oriente, il doge non poteva ignorare le spinte e controspinte di una società vigorosa anche se politicamente non solidale, con un'aristocrazia divisa ma dalla intrigante presenza e con strati robusti (in relazione ai tempi) di persone attive e capaci, di cui occorreva tener conto anche se probabilmente lontane dall'ordinaria gestione del potere. E con quella situazione il Candiano non l'avrebbe spuntata. Il diacono Giovanni racconta della durezza con cui trattava i sudditi, dell'aspro modo di governo che provocava continue macchinazioni, finché si giunge alla resa dei conti: nel 976. La rabbia degli oppositori, a lungo compressa, esplode violentemente dopo anni di macchinazioni e congiure. Il doge è incalzato; si rifugia nel palazzo difeso dai fedeli mercenari italici, finché i rivoltosi lo stanano col fuoco: un incendio che brucia l'intero quartiere, fino a Santa Maria del Giglio. Le ultime implorazioni del Candiano ormai vinto non trovano pietà; le spade fanno scempio non soltanto di lui ma anche del figlioletto che la nutrice aveva salvato dalle fiamme; quindi, con un macabro rituale, i due cadaveri vengono portati, ad ignominia, al pubblico macello (219).
La brutalità degli eventi si spiega con una esasperazione delle tensioni difficile da sanare. Dovette provarci il nuovo doge, Pietro I Orseolo, personaggio legato alla rinnovata spiritualità monastica ma, nel contempo, uomo di punta del partito politico vincente. Una duplice tradizione da un lato lo accredita come complice del massacro del 976 e dall'altro lo dipinge come un sant'uomo finito per forza al dogado, trascinatovi dalla stima reverente dei venetici. Così Pier Damiani (facendo omaggio a schemi agiografici correnti, che si risolvono nella luce della conversione) narra come l'incendio del palazzo, decisivo per la vittoria sul Candiano, avesse richiesto il suo consenso preliminare, dal momento che per appiccarlo occorreva dare alle fiamme le vicine case orseoliane, da cui il fuoco avrebbe potuto propagarsi. Di contro, il diacono Giovanni (pure lui facendo omaggio a schemi ben noti) ci dice del fermo rifiuto dell'Orseolo ad assumere il titolo dogale "temendo di perdere il suo proposito di santità", e delle tormentanti preghiere del popolo che alla fine lo costrinsero, "per il bene comune della respublica ", ad accettare il carico (220). Il suo impegno politico, comunque, emerse subito nella rapidità con cui cercò di normalizzare la situazione. Prima che finisse quel tragico 976 aveva ottenuto da Capodistria nuove promesse di massima garanzia per i venetici e i loro commerci (221). L'atto era importante non soltanto perché mostrava una ripresa d'attenzione per un'area essenziale da sempre, ma anche perché mirava a bloccare eventuali azioni ostili in un'area in cui i Candiano avevano diritti notevoli (si ricordi la concessione ottoniana di Isola d'Istria a Vitale-Ugo), passati ora al poco affidabile patriarca d'Aquileia, con l'approvazione imperiale (222).
Più importante, tuttavia, era l'accordo raggiunto, tra settembre e ottobre dello stesso 976, con Waldrada, la vedova del doge trucidato. Atto di grande solennità, perfezionato in un placito piacentino con l'intervento diretto dell'imperatrice Adelaide, segnava un passo notevole a favore della normalizzazione dei rapporti con l'aristocrazia del regno. Waldrada rilasciava una sorta di quietanza liberatoria per cui si estinguevano tutte le pendenze patrimoniali esistenti, con un accordo amministrativo dai profondi risvolti politici e simbolici (223). Ma gli avversari interni ed esterni non demordevano.
Nel 973 ad Ottone I era succeduto il figlio, senza che ciò modificasse l'interesse imperiale per Venezia; si manteneva il collegamento con la parte candiana, il cui uomo di punta, Vitale, figlio di primo letto del doge defunto e patriarca di Grado, aveva attraversato le Alpi recandosi in Sassonia alla corte di Ottone II per chiedergli aiuto, che fosse suo "consolator et fautor"; e quel che è peggio: il Candiano non era andato soltanto di propria iniziativa, ma a nome di uno schieramento di parte, "quorumdam overno orseoliano si chiude con la drammatica fuga del doge: nottetempo, segreta al punto che nemmeno i più stretti congiunti, nemmeno la moglie e il figlio sapevano cosa stesse per accadere, affannosa nella corsa prima in barca a Sant'Ilario, poi a cavallo senza respiro fino a Vercelli e quindi, da lì, al monastero di Cuxa nei Pirenei catalani (225). La tradizione compattamente spiega tutto con la forza della vocazione dell'Orseolo, la cui santità l'avrebbe poi elevato alla gloria degli altari. La realtà è un po' meno semplice e corrisponde all'affascinante complessità del personaggio, la cui adesione sincera agli ideali religiosi che attraversano quegli anni pieni di fremiti non deve far escludere un reale coinvolgimento politico. E comunque un capoparte che se ne va, e la sua fuga porta il segno della sconfitta. Tant'è vero che gli equilibri si ribaltano. Il nuovo doge, anche se figura di mediazione (come il suo predecessore), è decisamente schierato; il nome stesso lo dice: Vitale Candiano (261). La condotta venetica cambia immediatamente segno e il patriarca Vitale (l'omonimia col doge non confonda), rifugiato politico al tempo orseoliano, adesso va in Germania quale capo della missione che ristabilisce rapporti cordiali con l'imperatore (227). Ma anche questo dogado passa come una meteora; nel 979, dopo un anno o poco più di governo, il Candiano abdicava facendosi monaco in Sant'Ilario qualche giorno prima di morire.
La situazione rimaneva decisamente fluida; avrebbe dovuto tentare di consolidarla il neoeletto Tribuno Menio. I suoi legami familiari lo ponevano in linea con la tradizione candiana. Aveva infatti sposato la figlia di Pietro IV, sorella del patriarca Vitale, incrementando notevolmente il proprio patrimonio con una parte di quello candiano (228). Ma con il suo governo, tra il 979 e il 991, giunge al culmine la crisi che almeno da un ventennio, dal conflitto per la successione a Pietro III Candiano, tormentava Venezia. Le lotte fra clan e partiti si scatenano. I Morosini e i Coloprini, primi fra i più potenti, prossimi questi piuttosto alle posizioni candiane e gli altri a quelle orseoliane, si affrontano in lotte devastanti. Tra gli uni e gli altri si muove il Menio, prima legato ai Coloprini, nel segno di quell'alleanza per così dire candiana in forza della quale era salito al potere, poi scivolato sulle posizioni morosiniane. Anche i più alti tentativi di ristabilire un equilibrio interno finiscono in nulla. Nel 982 l'intera società venetica sembra raccogliersi in un gesto di pace ed unità, al momento della fondazione del monastero benedettino di San Giorgio. I 136 testimoni partecipi all'atto di fondazione comprovano di nuovo quanti fossero quelli che a Venezia potevano garantirsi una presenza politica e, quindi, quanto ampia e articolata risultasse la fascia di coloro che poco o tanto contavano (229). Indicano anche un tentativo di conciliazione rimasto tuttavia senza seguito. Rialto continua, infatti, ad essere offesa da tensioni e violenze, pericolosissime nel momento in cui s'intrecciano con la politica imperiale.
Nei progetti ottoniani l'attenzione per le lagune durava con pervicace coerenza. Rispetto agli anni di Ottone I di nuovo c'è, se mai, l'avere buttato tutte le carte sul tavolo, non tanto per un diverso atteggiamento di Ottone II rispetto al padre, quanto per l'intervenuta modifica delle condizioni oggettive. L'azione del primo era stata, infatti, chiara ma non plateale, pronta ad ogni opportunità ma senza sfociare mai in scontro aperto. Ottone II cambierà registro ma, in fondo, proprio perché come il padre misurava la qualità e i modi dell'intervento da farsi sulla situazione interna a Venezia. Ed è questa a modificarsi pesantemente. L'endemica conflittualità intestina esplode ora in modo per certi versi nuovo; infatti non si intravedono vie d'uscita nemmeno nella forma estrema della rivolta o della deposizione di chi controlla lo stato. Ora il doge regge, ma reggono anche le parti nemiche in un conflitto che si sta cronicizzando in un'instabilità senza sbocchi. Si è allo sbando. Nessuno riesce a prendere davvero il sopravvento. A Rialto esiste un "partito imperiale", di tradizione candiana, con i Coloprini in posizione egemone; parimenti alla corte sassone esiste una sorta di "partito veneziano", meno intransigente di quanto non fosse l'imperatore sulle questioni lagunari, rappresentato anzitutto dall'imperatrice madre Adelaide, dalla consorte di Ottone II, Teofano (non per nulla principessa bizantina), e dal marchese Ugo di Toscana (230). Si procede tra spinte e controspinte, e ancora una volta come in età carolingia sono i conflitti interni a trainare quelli generali.
La situazione precipita forse nel momento meno prevedibile. Ottone è indebolito dal fallimentare esito della campagna in Meridione contro l'emiro kalbita Abû'l-Qâsim (luglio 982) in Venezia la fondazione di San Giorgio esprime il massimo sforzo di riconciliazione all'interno (dicembre 982); si rinnova (giugno 983) il patto fra Venezia e l'impero (231). Tutto sembra finalmente procedere nel senso di uno scioglimento delle tensioni e proprio allora, invece, ecco la irrimediabile lacerazione. In aperta rottura con il potere del doge e dei suoi alleati Morosini, il partito dei Coloprini abbandona Venezia: non per la fuga in un rifugio sicuro ma per la lotta aperta. A questo punto per l'imperatore sassone non è più tempo di schermaglie; si tratta o di scendere finalmente in campo aperto puntando su quella Venezia "a lungo desiderata", oppure di lasciare al proprio destino i suoi naturali alleati. La scelta è difficile; intervenire vuol dire impegnare un prestigio già scosso dalla sconfitta dell'anno precedente in Meridione; ed è significativo che gli alleati fuorusciti ricorressero per convincerlo alla promessa di un ingente capitale, "cento libbre d'oro purissimo" (232): Venezia ci ripropone le sue peculiarità e le sue logiche. Alla fine la scelta si compie, ed è guerra.
In campo scendono gli esponenti delle grandi famiglie. Il blocco alle lagune proclamato da Ottone stringe Venezia in una morsa. I provvedimenti sono sempre più aspri; il momento si fa straordinariamente drammatico; è stato persino decretato che "non si risparmiasse nessun venetico in qualsiasi parte dell'impero fosse giunto". Ma ecco l'imprevisto, nel quale la mentalità del tempo saprà leggere il disegno provvidenziale: in Roma, il 7 dicembre 983, Ottone II improvvisamente si spegne. A un santo monaco (nientemeno che l'abate di Cluny) era stato un angelo ad indicare che l'imperatore sarebbe morto "ob Veneticorum afflictione", per avere perseguitato i venetici (233).
Tutto finisce e tutto ricomincia con equilibri diversi. Venezia è uscita da un tunnel. Non ha risolto i suoi problemi, ma è sventato il pericolo incombente di aggregazione all'impero, al cui vertice si trova ora un fanciullo, Ottone III, con la reggenza della madre Teofano e della nonna Adelaide che abbiamo potuto collocare fra gli autorevoli esponenti del "partito veneziano". Il rischio è in sostanza passato. Un ultimo ritorno di fiamma ci fu forse verso il 998, quando con il favore imperiale sembrò riprendere fiato l'antica tradizione candiana, con il figlio di Pietro III, Vitale-Ugo, fatto conte di Vicenza e Padova (234); ma non era più stagione per avventure del genere e Venezia era ormai quella "aurea" di Pietro II Orseolo, non quella allo sbando di Tribuno Menio. E anche negli anni successivi ogni ripresa d'interesse dell'impero per le lagune si sarebbe scontrata con strutture politiche e statuali in grado di parare il colpo.
Dopo la morte di Ottone II il dogado del Menio era proseguito barcamenandosi in una situazione che non riusciva a controllare. I fuorusciti erano tornati grazie anche all'autorevole intercessione dell'imperatrice Adelaide e del marchese Ugo di Toscana (fratello di Waldrada), ma il Menio non fu capace di onorare le garanzie formalmente giurate. Era sì avvenuta la restituzione dei diritti politici agli esponenti della parte sconfitta. Ma mentre i tre figli del vecchio capoparte Stefano Coloprino rientravano dal palazzo ducale (ossia dalla partecipazione alle pubbliche funzioni), ecco l'assalto dei Morosini, e i Coloprini "del loro sangue tinsero le acque del rio di palazzo".
E dietro a tutto si sospettò addirittura - nonostante le proclamazioni d'innocenza - che ci fosse una complicità del doge: debole al punto di doversi scusare e screditato al punto di non essere creduto (235). Nella perdurante crisi, sorprende che il Menio abbia potuto conservare il potere per ben 12 anni; ma il fatto si spiega: il deterioramento della situazione politica doveva essere giunto ad un grado tale per cui le forze in campo riuscivano ad operare e colpire, ma nessuna era davvero in grado di dare la spallata decisiva. Non seppero imporre la propria normalizzazione né il doge Menio, né i potenti Morosini, né i Coloprini filoimperiali: quasi un equilibrio dello sfascio (236).
Ma l'avventura del Menio stava ormai per concludersi. Nel 991, malato e prossimo alla morte, "costretto dal popolo" lasciava il titolo facendosi monaco in San Zaccaria (237).
Gli succedeva il figlio trentenne del doge santo, Pietro II Orseolo, che come atto d'inizio del suo governo inviò ambascerie agli imperatori costantinopolitani come ad Ottone III di Sassonia e persino "a tutti i principi saraceni" (238); si capisce subito che c'è una logica nuova, una nuova energia nella gestione della cosa pubblica, ma i presupposti di ogni novità stavano in situazioni cresciute in passato su tempi assai lunghi.
Quando Pietro II Orseolo saliva al dogado, quella venetica era una struttura economicamente e socialmente vitale, robusta a dispetto di ogni difficoltà politica trascorsa. La cura, che mettiamo sempre nell'evitare enfatizzazioni sulla dimensione dell'economia di Venezia altomedievale, non impedisce di coglierne il vigore decisamente inusuale per quei tempi di depressione dell'occidente. Rare sono le notizie in proposito, occasionali flashes conservati quasi per caso da un mondo poco attento a misure e caratteri della sfera economica, ma quell'insieme di brandelli documentari è molto eloquente. Ricordiamo qualcuna delle cose fin qui incontrate: le pellicce preziose e i velluti portati nel 780 circa sulla piazza pavese per il gusto dei dignitari carolingi; i mercanti presenti nell'828 ad Alessandria d'Egitto da dove trafugano le reliquie marciane; la flottiglia mercantile e i traffici del patriarca Fortunato; lo straordinario testamento del doge Giustiniano Particiaco; il pepe del vescovo Orso di Olivolo; la tratta degli schiavi, fiorente già ai tempi di papa Zaccaria (741-752), che i reiterati divieti dovevano rendere più lucrosa piuttosto che stroncarla (239); la spedizione mercantile che nell'834-835 incontra i saraceni tornando da Benevento; gli accordi col regno italico in cui, a partire dal "pactum" di Lotario dell'84o, sono considerati "vicini" dal punto di vista commerciale i centri regnicoli sino a Fano; i mercanti che nell'86o giungevano da Fulda; le colleganze, le rogadie, i prestiti menzionati dalla quietanza di Waldrada; i "poveri" che nel 971 avevano armato navi per Megadia e Tripoli; i traffici di materiale strategico con i saraceni...
Ancora potremmo ricordare il servizio di posta svolto collegando specialmente il regno italico, la Baviera e la Sassonia (ma di certo anche altre regioni) con Bisanzio (240); o la conoscenza precisa (non riducibile all'occasionale racconto di mercanti in transito) che Pietro II Candiano mostrava di avere della situazione in Palestina nel 932, quando ne scriveva al re di Germania Enrico I informandolo dei contrasti fra la comunità ebraica e quella cristiana di Gerusalemme (241); o il trasporto di persone fatto indifferentemente per quei messi saraceni di cui nell'813 papa Leone III scriveva a Carlo Magno, come per gli emissari di Berengario II o di Ottone I di Sassonia nel 948 (242); o, su un altro piano, gli aspetti vari della presenza in Venezia degli evangelizzatori degli slavi, Costantino-Cirillo e Metodio (243); o il fatto che un Giovanni "presbiter de Venetiis" guidasse la missione di pace inviata dal principe moravo Svatopluk all'imperatore Ludovico II nell'874 e un altro venetico, Domenico, guidasse nel 967 l'ambasceria spedita in oriente a Niceforo II Foca da parte di Ottone I (244); o, ragionando di cose più gradevolmente liete, si potrebbe pensare a quel prete Giorgio "de Venetia" che nell'826 era ad Aquisgrana a costruire un organo per l'imperatore (245)... Non occorre insistere oltre; basta, per i nostri assunti, considerare come la concentrazione di notizie del genere riferibili a Venezia sia tale da rimanere pressoché senza riscontri.
La precocità quale centro commerciale, finanziario e di raccordo tra le maggiori aree politico-economiche del tempo rinsalda la presenza veneziana nello scenario internazionale sicché, per esempio, il geografo e viaggiatore iracheno Ibn Hawgal circa negli anni orseoliani (era a Palermo nel 972-973) ormai conosceva l'Adriatico come "Giûn al-Banadigîn", ossia come Golfo dei veneziani, mentre un secolo prima gli scrittori arabi non riuscivano nemmeno a distinguere la flotta venetica da quella bizantina (246). Ma oltre a ciò, quella precocità incideva sulla struttura sociale, favorendo l'esistenza di ceti forniti di un grado d'indipendenza ed iniziativa autonoma sufficiente a non farne supina clientela di quell'aristocrazia di fatto che deteneva tutti i posti di vertice nella gerarchia civile ed ecclesiastica (247). Sono situazioni da leggere in filigrana nella documentazione residua del secolo X, ma evidenti, mi pare, nell'alto numero di testimoni chiamati a sottoscrivere i principali strumenti dello stato: decine e decine di persone (248) che hanno un corrispettivo nel numero di famiglie nuove, pronte a salire alla ribalta nei momenti di scompenso politico e sociale e a tornare nell'ombra se le cose non fossero andate per il verso giusto, come si vide al tempo di Pietro IV Candiano (249).
Il "populus" di cui parlano cronisti e documenti rimane sempre una parte esigua della popolazione, quella attiva politicamente, capace della pienezza dei diritti, ma nel complesso quel riferimento iterato a "mediocres" e "minores" che "usque ad minimum" (fino al livello più basso) affiancano il doge e i "maiores" negli atti pubblici, al di là di tutte le analogie possibili con quanto accade in terraferma (250), pare in Venezia avere una consistenza reale decisamente superiore che altrove, senza affatto ridursi a vuota formula. Su quel tessuto sociale relativamente ampio, che comincerà ad essere meglio misurabile dai documenti del secolo XI (251), si stavano gettando le basi delle future fortune veneziane e su di esso poté contare il governo orseoliano nel suo sforzo di consistente sviluppo.
La normalizzazione dopo il governo del Menio non poteva essere immediata e forse fu più complessa di quanto le fonti ricordino. In fondo si trattava di uscire da conflitti incancrenitisi nel corso di decenni, ma quella fase era sicuramente conclusa all'inizio del 998, quando veniva giurato il divieto di eccitare tumulti in palazzo. Poiché evidentemente nessun governo può pretendere altro che il divieto di sommosse, la disposizione sarebbe assolutamente stupida se non se ne cogliesse l'alto valore simbolico e di programma politico. Dopo la sequela di conflitti intestini a partire dalla successione di Pietro III Candiano, il fatto che ora i venetici dovessero riunirsi per decidere e promettere al loro "signore" il doge il divieto di qualsiasi sedizione o violenza, pena la vita, mi pare sanzioni in modo solenne l'avvenuta riorganizzazione dello stato nel segno orseoliano (252). Le tensioni interne naturalmente non erano sparite, ma si riusciva a tenerle sotto controllo. Al processo di normalizzazione si accompagnava intanto una ripresa materiale, percepibile nel fiorire di opere di pubblico interesse, non limitate alla capitale. Lì, dopo il disastroso incendio appiccato dai rivoltosi nel 976, occorreva completare la ricostruzione, cominciando dal palazzo e dalla cappella marciana: sedi e simboli al tempo stesso delle massime espressioni della società venetica in ambito temporale e spirituale; ma le iniziative si estendevano anche alle periferie, a Torcello, Cittanova, Grado (253).
La sicurezza del dogado era poi garantita da un deciso intervento ai confini e sulle aree marginali, per rimediare a quelle perdite di posizioni dovute all'intraprendenza dei vicini durante gli anni deboli dei conflitti interni. Con il vescovo di Ceneda, con quello di Treviso, specialmente con quello di Belluno, tenacissimo nelle sue pretese sul territorio di Cittanova, si regolarono i conti e si raggiunsero accordi che, oltre a maggior sicurezza, portavano vantaggi economici garantendo diritti, vie, approdi e mercati all'iniziativa venetica (254), a quella gente che all'opinione del mondo sarebbe apparsa, persino al di là del reale, dedita totalmente ai traffici: "non ara, non semina, non vendemmia" (255). La congiuntura è indubbiamente fortunata. Il benessere (per quanto possibile in quei tempi non facili) sembra diffondersi. E dove ci fosse bisogno, "a sollievo della sua patria" il doge stesso interviene in una forma decisamente significativa (si potrebbe dire: adatta a Venezia): non con i normali donativi, ma con la costituzione di un fondo cospicuo i cui profitti fossero di anno in anno utilizzati a vantaggio della collettività, senza intaccare il capitale, con una sorta di visione imprenditorialistica della beneficenza (256)! La situazione si fa per certi suoi risvolti addirittura preoccupante e papa Silvestro II scrive al doge e al patriarca di Grado (era ancora il vecchio Vitale Candiano), inquieto per il corrompersi dei costumi di un clero locale troppo coinvolto negli affari del secolo. Non si tratta soltanto di simonia e nicolaismo: donne e commercio di beni spirituali, i mali contro cui la chiesa avrebbe messo in campo le sue migliori energie nell'opera di riforma; qui bisogna fare i conti con preti e vescovi che corrono dietro al lucro profano "come banchieri e agenti di cambio" (257).
Agli occhi del contemporaneo diacono Giovanni tali erano la felicità, l'opulenza, il decoro dei tempi che soltanto la provvidenza divina, "equa moderatrice di tutte le cose", poteva turbarli; ma neppure la pestilenza annunciata dalla cometa del 1006, ragione di lutti e dolore per lo stesso doge che nel giro di sedici giorni perdeva il figlio e coreggente Giovanni e la nuora, alterava in fondo il quadro generale (258). Piuttosto che per il positivo andamento della situazione interna, tuttavia, gli anni di Pietro II sono ricordati per la politica estera. L'azione diplomatica avviata, come si è detto, subito dopo l'elezione dogale del 991 aveva presto avuto riscontro. Nel marzo 992 gli imperatori costantinopolitani Basilio II e Costantino VIII emanavano un importante crisobollo a favore dei venetici e nel luglio seguente si aveva da parte occidentale il rinnovo degli antichi privilegi. Nel giro di pochi mesi, dunque, la collocazione internazionale di Venezia era riconfermata a tutto raggio.
Sul versante occidentale la conferma concessa da Ottone III non comportava novità radicali rispetto alle situazioni precedenti, ma s'insinuavano favorevoli aggiustamenti con i quali si allontanava del tutto il momento in cui (nel patto di Ottone I) i termini dell'accordo erano peggiorati, consolidando con ciò quel ritorno a un trend positivo già verificabile nel patto del 983 fra Ottone II e Tribuno Menio (259). Ciò è indizio di una positività di rapporti che si sta ricostruendo ed è destinata a durare con poche oscillazioni (260). Così negli anni seguenti da parte del giovane imperatore sassone non si avevano più progetti sulle lagune (ammesso che in quella congiuntura fossero realisticamente possibili), ma piuttosto conferme di possessi e diritti in terraferma, nuove concessioni e un sostanziale appoggio nei contrasti aperti per le aree di confine. Anche atti simbolici di intenso valore spirituale confortano l'impressione di una forte sintonia, e nel 996 il sovrano, mentre si trovava a Verona, volle essere padrino di cresima al figlio del doge, che mutò allora il proprio nome Pietro in quello di Ottone, con un gesto replicato per un altro figlio dell'Orseolo nel 1004, quando ad Ottone III era già succeduto Enrico II (261).
Specialmente va ricordata la segreta visita di Ottone III a Venezia nell'aprile 1001, svoltasi con grande discrezione ed ogni cautela. In quell'occasione l'imperatore aveva finto di ritirarsi per alcuni giorni nel monastero di Pomposa, ma di lì con pochi compagni-complici passò nascostamente in laguna, a Rialto, dove avvennero le conversazioni concordate in precedenza con l'Orseolo. Soltanto dopo il rientro a Pomposa e Ravenna svelò quanto era avvenuto e analogamente il doge attese tre giorni prima di convocare una riunione a palazzo per informare i venetici dell'incontro. Certamente tutta l'operazione non si giustifica con il desiderio di "visitare le bellezze del palazzo" o di San Zaccaria e nemmeno con la "dilectio" per san Marco e il doge. Si trattava piuttosto di un incontro al massimo livello del quale era preferibile che non si sapesse troppo. Non conosciamo che cosa sia stato discusso in quei misteriosi colloqui, ma è assai probabile, come dai più si ritiene, che il giovane imperatore volesse sollecitare una più intensa partecipazione del dogado ai suoi progetti italiani, proponendo un coinvolgimento che l'Orseolo volle evitare, senza che per ciò la cordialità di rapporti venisse meno (262); cordialità comprovata dai preziosi oggetti offerti dal doge all'illustre ospite (un seggio d'avorio, una tazza argentea e un orciolo pregevolmente lavorato), e, più ancora, dal privilegio con cui l'imperatore ridusse gli obblighi di Venezia nei suoi confronti (263).
L'abboccamento del 1001 avvenne mentre era ancora fresca l'eco dell'impresa dalmatica dell'Orseolo. Si tratta del più clamoroso successo in politica estera mai ottenuto da Venezia fino ad allora, quello che per la prima volta la indicava davvero come forza di dimensione decisamente adriatica e non più regionale. Delle operazioni resta il resoconto del diacono Giovanni. Al comando del doge, celebrata la messa e consegnato dal vescovo di Olivolo il "vessillo trionfale", la flotta era salpata nel giorno dell'Ascensione del 1000. Dopo una sosta a Grado la spedizione prosegue toccando i centri costieri soggetti a Bisanzio, trionfalmente accolta a Parenzo, Pola, Ossero e Zara, la sola città sulla quale fino ad allora Venezia esercitasse diritti effettivi (264). In Zara a rendere omaggio all'Orseolo giungono i rappresentanti di Veglia e di Arbe, insieme ai "maiores" della regione intera. A questo punto il re dei Croati, Svetislavo, visto come si mettevano le cose cerca un accordo che il doge rifiuta. E si procede verso sud tra i fervori delle città costiere rimaste legate a Bisanzio e le trepidazioni dei narentani e di quei croati che si riconoscevano in Svetislavo, mentre il fratello-contendente Crescimiro "Surigna", collegato a Venezia, si lega con giuramento all'Orseolo dandogli il figlio in ostaggio. Per il doge, vincitore nelle acque dell'isola di Cazza, conquistata poi Zaravecchia (Biograd), festosamente accolto a Traù e in quella Spalato che è la "metropoli della Dalmazia", giunge alla fine il trionfo delle armi in quelle isole di Curzola e Lagosta che erano nido e base della pirateria narentana. Soprattutto con gli "improbi" uomini di Lagosta, favoriti dalla natura dei luoghi, la lotta è durissima, e con la vittoria alla fine ottenuta la spedizione si è in pratica conclusa; ricevuto da ultimo il giuramento dei ragusei, la flotta può tornare in laguna da trionfatrice (265). A sanzionare il successo Pietro Orseolo assume ora il titolo di "dux Veneticorum et Dalmaticorum", subito riconosciuto dalle cancellerie del pontefice e dell'impero occidentale (266).
Se gli eventi sono chiari nella loro dinamica, forte è invece la divergenza sui presupposti. I più pensano ad un'azione espansionistica sviluppata indipendentemente da ogni sollecitazione esterna (267), mentre alcuni studiosi sospettano che l'impresa sia stata condotta con il consenso o il permesso o la tacita intesa di Bisanzio (268). Piuttosto che risolvere la questione nei termini di una conquista, spontanea o autorizzata che fosse, pare tuttavia plausibile pensare ad un'azione concordata con Bisanzio in una precisa intesa strategica (269). Erano quelli gli anni del grande conflitto fra Basilio II e lo zar dei bulgari Samuele. Antagonisti intelligenti e tenaci, la loro lotta aveva coinvolto tutti i Balcani e anche il regno croato ove, sul finire del secolo, si scontravano i figli del defunto sovrano Stefano Držislav: da un lato Svetislavo temporaneamente al potere e dall'altro Crescimiro III (che sarebbe poi divenuto re dal 1000) col fratello Goislavo. E le parti in causa cercavano appoggi tanto in Samuele che a Bisanzio e a Venezia (come si è visto con l'omaggio di Crescimiro). L'azione venetica veniva a collegarsi in modo probabilmente non casuale con quella che dall'altro lato stava avviando Basilio II contro lo zar Samuele.
In sostanza, piuttosto che a un'impresa tutta venetica di tipo coloniale, piuttosto che a un improbabile consenso bizantino alla perdita dei propri diritti legittimi (difficili da difendere ma che non per questo volevano liquidarsi, anche ammesso che la cosa fosse concepibile per l'ideologia di Bisanzio), è logico pensare ad un accordo, utile ad entrambe le parti: soccorreva la Dalmazia bizantina ma nel contempo aumentava il ruolo di Venezia nella regione e le schiudeva il controllo diretto sulle aree che l'impero faticava a tenere in pugno. Lo stesso racconto del diacono Giovanni lascia peraltro intendere che non cessava la sovranità bizantina dopo la spedizione orseoliana, come del resto indica, per fare un esempio, che i vescovi di Arbe e Veglia giurassero che "avrebbero glorificato col canto delle laudes il nome dogale dopo quello degli imperatori" (270). Comunque la Dalmazia non divenne affatto dominio veneziano in quella occasione. Resta allora da spiegare il senso del titolo "doge dei dalmati" assunto da Pietro II e mantenuto dai suoi successori; ma il suo significato, per noi così incerto, doveva essere ben chiaro agli uomini del tempo che sentivano come quell'impresa, seppur non conclusa da una conquista in senso stretto, assicurava al doge "una qualche superiorità, non meglio precisabile, anche sulla Dalmazia" e quel nuovo titolo, legato ai giuramenti raccolti dall'Orseolo nella sua vittoriosa crociera, non era per la mentalità corrente una "sterile vanteria" (271). Riconosceva un ruolo effettivo, vero anche se giuridicamente difficile da classificare.
L'impresa dalmata era stata preceduta da una serie di atti che mostravano il mutato interesse per quelle zone; si ricordi che l'Orseolo aveva ordinato la cessazione del pagamento dell'antico tributo ai croati e poi, nel 996, aveva risposto con una rapida spedizione punitiva alle prevedibili reazioni di quelle genti che si vedevano improvvisamente mancare una fonte d'entrata da molti anni sicura e indiscussa (272). Soprattutto, c'era stata una forte ripresa dei rapporti con Bisanzio. Il crisobollo del 992, pur senza innovare granché, assicurava ai venetici condizioni doganali di speciale favore sul mercato di Costantinopoli, con una riduzione del 43 per cento rispetto a quanto le autorità pretendevano dagli altri mercanti; garantiva altresì vantaggi giurisdizionali ma soprattutto vedeva in Venezia un alleato politico di rilievo, la cui flotta poteva rivelarsi utilissima (273). E l'alleanza era ribadita nel 997 dalla missione del figlio del doge a Bisanzio, da dove tornò carico di onori e di doni (274). Anche la spedizione dalmatica si deve collocare (come già detto) nel quadro di un funzionale collegamento con l'oriente e lo stesso varrà a maggior ragione di lì a poco, nel 1002-1003, con la bizantina Bari assediata da "una moltitudine di saraceni". Con l'imperatore Basilio II impegnato nella lotta sempre aperta contro i bulgari di Samuele, per la città pugliese è determinante l'arrivo della flotta dogale, preannunciata dalla brillante stella prodigiosamente apparsa a premonizione degli eventi (275). Anche per questo intervento delle "cento navi" venetiche (276) è insostenibile pretendere una "spontaneità" che cancelli l'evidentissimo raccordo con Bisanzio, in una connessione ribadita di lì a poco (nel 1004) dalle nozze tra la principessa bizantina Maria e il figlio del doge e coreggente Giovanni, celebrate con una fastosità degna del loro significato politico (277).
La lunga storia dei legami di Venezia con Bisanzio (storia di fedeltà e autonomie e dipendenze) era giunta nell'età orseoliana ad una limpida chiarezza; nella sostanza le due entità, benché incomparabili quanto a importanza e peso specifico, si ponevano in un rapporto di alleanza rinsaldata da secoli di convergenze e vicende comuni, ma franca da ogni vincolo di subordinazione. Su quando Venezia si sia resa indipendente da Bisanzio, peraltro, c'è stato molto da discutere. Prescindendo dalla leggenda dell'indipendenza originaria, che Venezia accreditò fin dalle sue prime espressioni storiografiche (278), in tempi passati gli entusiasti della "libertà" veneziana erano addirittura partiti dal mitico doge Paulicio, mentre per altri si è pensato al doge Orso (al tempo dei pronunciamenti antibizantini per la contesa iconoclastica) o a Deusdedit (dopo la fase dei "magistri militum "). In modo più serio si è guardato ai momenti successivi allo scontro franco-bizantino e all'età particiaca. E qualche volta si è cercata anche una ratifica documentaria dei mutamenti intercorsi, rivolgendosi soprattutto al patto con Lotario dell'840, in cui Venezia e non più Bisanzio è interlocutore dell'impero occidentale, ma si è andati anche oltre, fino al crisobollo del 992 in cui per la prima volta i venetici si mescolano con gli "extranei" all'impero (comunque continuandosi a chiamare Venezia "provincia"), e si è infine proposto per il pieno passaggio da uno stato di sudditanza come - provincia dell'impero - ad una condizione di autonomia e sovranità il secolo circa compreso tra i crisobolli del 992 e del 1082 (279).
Quello dell'"indipendenza" di Venezia è in realtà un problema che rischia di essere mal posto, e non è il solo (280). Così si tende spesso a cercare il punto d'avvio della nuova realtà, la circostanza in cui le cose cambiano, dimenticando che ci si trova di fronte a fenomeni maturati su tempi lunghi, per i quali ogni individuazione di un esatto momento di svolta è possibile soltanto a scapito della precisione e facendo torto alla complessità degli eventi. Non si può, in altri termini, procedere cercando quando si passa dal bianco al nero, ma bisognerà cogliere tutte le sfumature intermedie riconoscendo che il processo genetico trascorre per una graduata serie di grigi. In lunghi decenni la sovranità originaria si allontana e diluisce; scivola progressivamente in un rapporto di subordinazione tenuto in vita con sempre minore convinzione dalla convergenza d'interessi fra le due parti; i ruoli di dominante e di suddita digradano in quello di alleate (beninteso con tutta la sproporzione tra le parti) e attestazioni di pariteticità nei rapporti s'intrecciano a lungo con forme di permanente dipendenza. E meglio si può parlare in più passaggi di fedeli che non di sudditi.
Se per la Venezia particiaca dell'810 non possono esserci ombre di dubbio quanto alla sua subordinazione e se per la Venezia orseoliana del 1000 non possono essercene, invece, quanto alla piena autonomia, per il lungo periodo intermedio (anche se il processo autonomistico è lineare e ininterrotto) rimane possibile a lungo cogliere elementi divergenti. Non è di certo una novità! Ma tutto sommato, se si deve un consuntivo, non esiterei a ritenere che lo svincolo da dipendenze reali sia già maturato a pieno nella seconda metà del secolo IX, qualunque cosa ne pensasse Bisanzio. Ma tenendo la questione nei termini che si sono detti.
La morte di Pietro II Orseolo, nel 1008, chiudeva un dogado dal positivo bilancio. Lo splendore di Venezia celebrato (anche sopra tono) da Giovanni diacono, il ruolo di potenza adriatica, la salda collocazione internazionale e la stabilità interna, avevano anche favorito il potenziamento della famiglia orseoliana (ciò che d'altronde rappresentava un elemento di sicurezza per il governo). Così a Pietro II, premortogli il primogenito e coreggente Giovanni, poteva senza difficoltà subentrare il figlio Ottone nonostante fosse ancora un ragazzo. Altri due figli, Orso e Vitale, sarebbero ascesi al patriarcato di Grado e al vescovado di Torcello. C'erano poi i legami matrimoniali vecchi e nuovi: di Giovanni con la bizantina principessa Maria (erano morti, si è visto, nel 1006), del doge Ottone con la sorella di re Stefano d'Ungheria, di Icela con il figlio di Crescimiro III re di Croazia; c'è persino il matrimonio fra Domenico (altro figlio di Pietro II) e Imelda, la nipote di Pietro IV Candiano con cui si mescola il sangue dei due clan sui quali si erano polarizzate lotte di anni. È una ragnatela di rapporti e di punti di forza che tuttavia non riuscirà a garantire sino in fondo il governo di Ottone Orseolo (281).
A prescindere dai vantaggi per la consorteria familiare, il dogado di Pietro II si era trovato a svolgere una funzione determinante per la storia di Venezia. L'uscita dalla fase d'inquietudine apertasi nel 959 aveva coinciso non tanto con un periodo di energica stabilità, destinato peraltro a cedere presto a nuove inquietudini, quanto con un assestamento strutturale della realtà venetica. Al di là della congiuntura favorevole, in altri termini, era giunto a maturazione un nuovo assetto in cui si erano composte per la prima volta in forma ben leggibile le potenzialità che i venetici avevano sviluppato per anni. In sostanza, i grandi problemi e gli endemici conflitti non erano stati risolti come per incanto e per sempre. Sarebbero presto riemerse le difficoltà nei rapporti con l'impero, con i signori confinanti, con Aquileia; si sarebbero anche riproposti in tutta durezza gli antagonismi interni, le lotte di gruppi e di famiglie. Ma a queste nuove difficili prove Venezia sarebbe andata con una sua configurazione ormai adulta. Credo, in sintesi, che al passaggio di millennio il lungo stadio della maturazione si fosse concluso appieno. E sul piano generale, il processo di straordinaria ripresa che l'occidente europeo cominciava a vivere trovava lo stato lagunare pronto a coprire un ruolo primario e a coglierne le grandi opportunità.
1. Per non appesantire troppo lo scritto, si ridurrà all'indispensabile l'apparato di note che altrimenti, dovendosi qui affrontare temi di carattere storico-politico e istituzionale, rischierebbe di risultare sovrabbondante. Tradizionalmente si data la presa di Ravenna al luglio 751: Heinrich Kretschmayr, Geschichte von Venedig, I, Gotha 1905, p. 49; Carlo Guido Mor, Aspetti della vita costituzionale veneziana fino alla fine del X secolo, ora in AA.VV., Storia della civiltà veneziana, I, Dalle origini al secolo di Marco Polo, Firenze 1979, p. 86 (pp. 85-93); Roberto Cessi, Venezia ducale, I, Duca e popolo, Venezia 1963, p. 127. Agli inizi del 750 Si deve invece andare secondo la cronologia di Ottorino Bertolini, Ordinamenti militari e strutture sociali dei Longobardi in Italia, in AA.VV., Ordinamenti militari in occidente nell'alto medioevo, I, Spoleto 1968, pp. 502-507.
2. Gherardo Ortalli, Deusdedit, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXXIX, Roma 1991, pp. 502-504.
3. Le Liber pontificalis. Texte, introduction et commentaire, a cura di Louis Duchesne, I, Paris 1886, p. 491.
4. Epistolae Merowingici et Karolini aevi, I, in M.G.H., Epistolae, III, a cura di Wilhelm Gundlach, 1892, nr. 19, p. 7I3; Documenti relativi alla storia di Venezia anteriori al Mille, a cura di Roberto Cessi, I-II, Padova 1940-1942: I, nr. 30, p. 49.
5. Epistolae Merowingici et Karolini aevi, I, nr. 21, p. 715; Documenti relativi, I, nr. 32, p. 52. Cf. R.Cessi, Venezia ducale, pp. 115-125.
6. Ibid., p. 125.
7. Liber pontificalis, I, pp. 490 s.; Epistolae Merowingici et Karolini aevi, I, nr. 54, pp. 576-577; Documenti relativi, I, nr. 34, pp. 54-55.
8. Epistolae Merowingici et Karolini aevi, I, nr. 86, pp. 622-623; Documenti relativi, I, nr. 36, pp. 55-56
9. Giovanni Diacono, Cronaca veneziana, in Cronache veneziane antichissime, a cura di Giovanni Monticolo, Roma 1890 (Fonti per la storia d'Italia, 9), pp. 98-99; Andrea Dandolo, Chronica per extensum descripta, a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, I, 1938-1958, p. 121. Cf. R. Cessi, Venezia ducale, p. 119, n. 3; Antonio Carile, La formazione del ducato veneziano, in Antonio Carile - Giorgio Fedalto, Le origini di Venezia, Bologna 1978, pp. 232-233 (pp. 11-237).
10. Sulla questione si tornerà parlando del dogado di Orso I [Particiaco>.
11. Origo Civitatum Italiae seu Venetiarum (Chronicon Altinate et Chronicon Gradense), a cura di Roberto Cessi, Roma 1933 (Fonti per la storia d'Italia, 73), p. 132; A. Dandolo, Chronica, p. 124.
12. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 99: "populo interpellante". Tale consenso sembra da escludersi per la successiva nomina a coreggente, quando Giovanni si associò Maurizio II con un atto che, nelle parole del cronista, appare sovrano.
13. Ibid., pp. 99-100; Origo, p. 100.
14. Il collegamento è suggerito da Giovanni diacono che ricorda le vicende di seguito fra loro.
15. Die Urkunden Pippins, Karlmanns und Karls des Grossen, a cura di Engelbert Mühlbacher, in M.G.H., Diplomata Karolinorum, I, 1906, nrr. 200-201, pp. 269-270; Documenti relativi, I, nrr. 38-39, pp. 58-60.
16. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 101, presenta la fuga di Maurizio (in Francia) e Giovanni (a Mantova) come volontaria. Pare tuttavia strana una fuga presso gli alleati dei loro nemici. Meglio allora pensare ad una relegazione ben controllata dai vincitori, riproposta poi come atto volontario da una tradizione storiografica impegnata a sfumare ogni evento imposto dall'esterno, specialmente quando si trovasse a coinvolgere la figura del doge.
17. Annales regni Francorum, a cura di Friedrich Kurze, in M.G.H., Scriptores rerum Germanicarum, [VI>, 1895, pp. 120-121 (anche in Quellen zur karolingischen Reichsgeschichte, a cura di Reinhold Rau, I, Berlin 1955, p. 82).
18. Per la plausibile ipotesi v. R. Cessi, Venezia ducale, p. 140; o Jadran Ferluga, Byzantium on the Balkans. Studies on the Byzantine Administration and the Southern Slavs, Amsterdam 1976, p. I 14.
19. Gherardo Ortalli, Venezia dalle origini a Pietro II Orseolo, in AA.VV., Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, I, Longobardi e Bizantini, Torino 1980, pp. 376-377 (pp. 339-438).
20. Primo obiettivo era stata la Dalmazia: Annales regni Francorum, p. 122 (84).
21. Lo stesso papa Leone III (sfondando una porta aperta) scriveva a Carlo Magno raccomandandogli la sorte di Fortunato "esule a causa di greci e venefici". Cf. Epistolae Karolini aevi, III, a cura di Ernst Dümmler - Karl Hampe, in M.G.H., Epistolae, V, 1898-1899, nr. 5, pp. 94-95, Documenti relativi, I, nr. 41, pp. 68-69.
22. Giovanni Diacono, Cronaca, pp. 103-104.
23. Annales regni Francorum, p. 124 (86): parlano esplicitamente di pace. Roberto Cessi, Le origini del ducato veneziano, Napoli 1953, pp. 182 ss. L'accordo dell'807 viene usualmente indicato come patto o trattato di Ravenna.
24. Non sorprende che il cronista parli di un patto stipulato dai venetici, senza affatto nominare la parte decisiva avuta dai bizantini e da Niceta. Tutto il testo è costruito in modo da enfatizzare un'autonomia venetica che si pretende goduta da sempre, sfumando o tacendo il ruolo anche egemone delle realtà politiche esterne.
25. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 104.
26. Gli Annales regni Francorum, p. 127 (90) ricordano lo scontro a Comacchio, ma non lo indicano come reale ostacolo alle trattative; decisiva, invece, era stata la "frode" dei dogi.
27. Ibid., p. 130 (94)
28. Così si può spiegare il fatto che Giovanni diacono li indichi alla testa delle truppe venetiche ad Albiola.
29. Così si deduce dagli Annales regni Francorum, all'81I, p. 134 (96).
30. Su tutte queste vicende: R. Cessi, Venezia ducale, pp. 146-154; G. Ortalli, Venezia dalle origini, pp. 378-381. La forma cognominale "Particiaco" non appare nella documentazione del tempo; la manteniamo, essendo comunque attestata da tradizioni assai risalenti. Per chiarezza si mantengono ugualmente le correnti indicazioni cognominali Galbaio, Tradonico e Particiaco (attribuite ad altri dogi) seppure non attestate da documentazione coeva, ponendole fra parentesi quadre.
31. Origo, pp. 91- 100; Martin da Canal, Les estoires de Venise, a cura di Alberto Limentani, Firenze 1973, pp. 10-17.
32. Annales regni Francorum, p. 130 (94), all'anno 81o.
33. Per la memoria, seppur confusa, di una donazione di Pipino all'abbazia veronese di San Zeno di beni e diritti in Torcello, cf. Codice diplomatico veronese, a cura di Vittorio Fainelli, I, Venezia 1940, nrr. 75, 76, 110, III, 117, 190, pp. 94-95, 140-142, 152-156, 287-291. Il riferimento, che vi compare, a Santa Fosca è probabilmente interpolato. Il tema andrà ripreso; ricorderemo comunque che, per usare le parole di Paul F. Kehr, Rom und Venedig bis ins XII. Jahrhundert, "Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken", 19, 1927, p. 139, ma anche pp. 143, 149 (pp. 1-180), il vescovado di Altino-Torcello rimase una sorta di ponte, "eine Art Brücke" fra Venezia e l'Italia. Cf. anche Daniela Rando in questo stesso volume. Nel riferimento alla fase di dominio diretto dei franchi andrà anche riletto il diploma per il vescovo di Altino-Torcello di Carlo Magno, falso costruito su un atto autentico perduto, riportabile al giro di anni e di eventi qui in esame: Documenti relativi, Il, Appendice, pp. 189-191.
34. Roberto Cessi, La repubblica di Venezia e il problema adriatico, Napoli 1953, p. 24.
35. Giovanni Diacono, Cronaca, pp. 105-106.
36. Ibid., pp. 106-107, 109; A. Carile, La formazione, p. 236.
37. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 106.
38. Oltre a quanto ricordato dal diacono Giovanni cf. almeno il passo dell'elenco dei legati del patriarca Fortunato (dell'824), in Documenti relativi, I, nr. 38, p. 77: "de ecclesia autem sancti Peregrini, quam Gradisiani in illorum peccato fundamenta everterunt pro timore Franchorum, nos reedificavimus".
39. Origo, pp. 157 ss.; rammento qui che l'Origo, anche (e forse specialmente) dopo l'edizione di R. Cessi, è un pantano scarsamente affidabile, che può essere utilizzato per quasi tutto e per il contrario di quasi tutto, da usare quindi con straordinarie cautele anche se, nella scarsità di fonti, rimane inevitabile e in più di un caso utile ricorrervi.
40. Luigi Lanfranchi - Gian Giacomo Zille, Il territorio del ducato veneziano dall'VIII al XII secolo, in AA.VV., Storia di Venezia, II, Dalle origini del Ducato alla IV crociata, Venezia 1958, p. 50 (pp. 3-65); G. Ortalli, Venezia dalle origini, p. 382; Wladimiro D0rig0, Venezia Origini. Fondamenti, ipotesi, metodi, I-II, Milano 1983: II, pp. 537 ss.
41. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 131. Cf. Gherardo Ortalli, Il problema storico delle origini di Venezia, in AA.VV., Le origini di Venezia. Problemi esperienze proposte, Venezia 1981, pp. 85-89; anche il saggio di Wladimiro Dorigo in questa Storia di Venezia, II.
42. Giovanni Diacono, Cronaca, pp. 98, 106. Hélène Antoniadis-Bibicou, Notes sur les relations de Byzance avec Venise. De la dépendance à l'autonomie et à l'alliance: un point de vue byzantin, "Thesaurismata", I, 1962, p. 172 (pp. 162-178), riteneva che quelli posti a fianco del doge Agnello fossero "tribuni imperiali", espressione dell'autorità bizantina.
43. C.G. Mor, Aspetti della vita costituzionale, pp. 85, 87-88; G. Ortalli, Venezia dalle origini, pp. 370-372; Antonio Carile, Il ducato vendico fra ecumene bizantina e società locale, in AA.VV., La " Venetia" dall'antichità all'alto medioevo, Roma 1988, pp. 96 ss. (pp. 89-109); Gerhard Rosch, Der venezianische Adel bis zur Schlief ung des Grof en Rats, Sigmaringen 1989, pp. 38 ss.
44. È documentata nel testamento di Giustiniano Particiaco: Documenti relativi, I, nr. 53, p. 99; anche in SS. Ilario e Benedetto e S. Gregorio, a cura di Luigi Lanfranchi - Bianca Strina, Venezia 1965, nr. 2, p. 24. Per il legame con gli "iudices" cf. G. Rösch, Der venezianische Adel, p. 38; Andrea Castagnetti, Famiglie e affermazione politica, in questo stesso volume.
45. In sintesi: R. Cessi, Venezia ducale, pp. 219-221; G. Rösch, Der venezianische Adel, pp. 38-39, 41, 54; A. Castagnetti, Famiglie.
46. Giovanni Diacono, Cronaca, pp. 106-107.
47. Ibid. ; tra i fuorusciti troviamo Domenico Monetario, che poi sarà fautore di Caroso.
48. Ibid., pp. 111-112.
49. Documenti relativi, I, nr. 53, p. 99; SS. Ilario e Benedetto, nr. 2, p. 24. Il ruolo particolare di Caroso s'intende anche dal fatto che nella "notitia testium" il padre, Bonizo, è indicato oltre che come tribuno anche come "primate".
50. R. Cessi, Venezia ducale, pp. 206-208. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 112.
51. Mancano agganci cronologici sicuri. Peraltro tutta la vicenda sembra rispecchiare le tensioni tipiche del momento di passaggio del titolo. Cf. ibid., p.110; Andrea Dandolo, Chronica, pp. 148-149 (con datazione all'829). Diversamente pensavo (d'accordo con le valutazioni correnti) in G. Ortalli, Venezia dalle origini, p. 385.
52. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 112.
53. Ibid. Non ha nessun fondamento la parentela con i Particiaci suggerita in Origo, p. 117. Come Tradonico, Trundonico o Trundomenico è invece spesso indicato dai cronisti più tardi; cf. per esempio: Andrea Dandolo, Chronica, p. 150; Venetiarum historia vulgo Petro lustiniano lustiniani filio adiudicata, a cura di Roberto Cessi - Fanny Bennato, Venezia 1964, p. 39. In generale: R. Cessi, Venezia ducale, I, p. 222. Noi manterremo, per chiarezza, il tradizionale seppur impreciso Tradonico. 54. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 107. 55. Annales regni Francorum, pp. 155-156 (126). Jadran Ferluga, L'amministrazione bizantina inDalmazia, Venezia 1978, pp. 130, 152-153. 56. Annales regni Francorum, p. 165 (138). 57. Cf. le liste vescovili delle due sedi in Giorgio Fedalto, Organizzazione ecclesiastica e vita religiosa nella " Venetia maritima", in Antonio Carile - Giorgio Fedalto, Le origini di Venezia, Bologna 1978, pp. 422-424. 58. Per il placito v. I placiti del "Regnum Italiae", a cura di Cesare Manaresi, I, Roma 1955 (Fonti per la storia d'Italia, 92), pp. 48-56; André Guillou, Régionalisme et indépendance dans l'empire byzantin au VIIe siècle, Roma 1969, pp. 294-307; Anamari Petranović - Anneliese Margetić, Il placito del Risano, "Atti del Centro di ricerche storiche - Rovigno", 14, 1983-84, pp. 55-75. 59. In sintesi: Giovanni De Vergottini, Venezia e l'Istria nell'alto medioevo, ora in AA.VV., Storia della civiltà veneziana, I, Dalle origini al secolo di Marco Polo, Firenze 1979, pp. 74-75 (pp. 71-83). 60. Documenti relativi, I, nr. 50, pp. 83 ss.; cf. P.F. Kehr, Rom und Venedig, pp. 52-56; R. Cessi, Venezia ducale, pp. 185-189. 61. Paul F. Kehr, Regesta Pontificum Romanorum. Italia Pontificia, VII/2, Berlin 1925, nr. 37, p. 43; Documenti relativi, I, nr. 59, p. 112. Il neoeletto era Vittore, subentrato a Venerio che era succeduto a Fortunato, morto in Francia (Giovanni Diacono, Cronaca, p. 108). 62. Di "Staatswunder" parla Hans Conrad Peyer, Stadt und Stadtpatron im mittelalterlichen Italien, Ziirich 1955, p. 14, a proposito dell'"inventio" del 1094. 63. La bibliografia sulle vicende marciane è sterminata. Basti qui rimandare a quanto indicato in questo stesso volume nei saggi (fra gli altri) di Daniela RandO e Silvio Tramontin. Per il testo della Translatio v. Nelson Mc Cleary, Note storiche ed archeologiche sul testo della " Translatio Sancti Marci", "Memorie storiche forogiuliesi", 27-29, 1931-1933, pp. 223-264. Ininfluente, per quanto ci concerne, è il problema dell'autenticità delle reliquie. 64. Fu "ypatos ", ossia console. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 97. 65. Ebbe il titolo altissimo di "protosebastos", che i suoi successori non usarono più anche se fu concesso loro dagli imperatori bizantini ancora nel secolo XII. Vittorio Lazzarini, I titoli dei dogi di Venezia, ora in Id., Scritti di paleografia e diplomatica, Padova 19692, pp. 195-210 (pp. 195-226); Silvano Borsari, Il crisobullo di Alessio I per Venezia, "Annali dell'Istituto italiano per gli studi storici ", 2, 1970, p. 125 (pp. 111-131); Giorgio Ravegnani, Insegne del potere e titoli ducali, in questo stesso volume. 66. Agostino Pertusi, L'impero bizantino e l'evolvere dei suoi interessi nell'alto Adriatico, ora in AA.VV., Storia della civiltà veneziana, I, Dalle origini al secolo di Marco Polo, Firenze 1979, p. 61 (pp. 51-69), indica come "primo atto ufficiale in cui manca l'intestazione tradizionale bizantina" la "promissio" dei dalmati al doge Domenico Selvo (comunque indicato con il titolo di "protoproedro"), riferendola al 1076. Cf. però i rilievi di G. Rösch, Der venezianische Adel, p. 48; in generale v. J. Ferluga, L'amministrazione bizantina, pp. 240-241. Va tuttavia precisato che la tradizionale intestazione era sostanzialmente caduta dopo il crisobollo del 992, per riapparire soltanto in età ormai post-orseoliana, sparendo definitivamente con il dogado di Domenico Contarini. 67. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 95. Nella datazione dell'evento si oscilla tra il 732 e il 740. 68. In pratica la fase più agitata si chiudeva già con il dogado di Giovanni II [Particiaco> (881-887) e la breve avventura di Pietro I Candiano, nell'887, pare piuttosto l'ultimo sussulto di un periodo ormai concluso. 69. Costantino Porfirogenito, De administrando imperio, a cura di Gyula Moravcsik - Romilly J. H. Jenkins, Washington 1967, cap. 29, pp. 124 s. 70. Cf. anche per ulteriore bibliografia: Umberto Rizzitano, Gli arabi di Sicilia, in AA.VV., Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, III, Il Mezzogiorno dai bizantini a Federico II, Torino 1973, pp. 372 SS. (pp. 365-434); Giosuè Musca, L'emirato di Bari. 847-871, Bari 19783 71. Johannes Hoffmann, Venedig und die Narentaner, "Studi Veneziani", II, 1969, pp. 3-41, e J. Ferluga, L'amministrazione bizantina, pp. 103-105, 181 e passim. 72. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 109. 73. Ibid. 74. U. Rizzitano, Gli arabi, p. 376. Bisogna aggiungere che non va troppo enfatizzato (come spesso capita) il ruolo di Venezia in quella spedizione; era Bisanzio l'attore vero e i venetici, anche se non devono essere annullati nel generico richiamo ai bizantini, restavano comprimari relativamente modesti. 75. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 110, precisa come quella pace "minime perdurasset". La si data solitamente all'830. J. Hoffmann, Venedig und die Narentaner, pp. 11-I2, 22-23. 76. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 112. 77. Così la Venetiarum historia, p. 40. 78. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 113; J. Hoffmann, Venedig und die .Narentaner, pp. 23-29. 79. Aleksandr A. Vasiliev, Byzance et les Arabes. I. La dynastie d'Amorium (820-867), Bruxelles 1935, pp. 182 ss.
80. Venetiarum historia, p. 40.
81. Cf. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 114, e, in generale, pp. 113- 115 per tutte queste vicende. Nonostante la diversa datazione offerta da Andrea Dandolo, Chronica, p. 15o, la disfatta di Taranto deve collocarsi nell'841. R. Cessi, Venezia ducale, p. 234; v. anche Michele Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia, a cura di Carlo A. Nallino, I, Catania 1933-1939, pp. 495-496; U. Rizzitano, Gli arabi, p. 380.
82. M. Amari, Storia dei Musulmani, p. 497; G. Musca, L'emirato, pp. 21-22.
83. La data si ricava dal fatto che la notizia è collocata fra la puntata saracena contro Roma e la spedizione di Ludovico II a Benevento: Giovanni Diacono, Cronaca, p. 115.
84. In sintesi: J. Ferluga, L'amministrazione bizantina, pp. 165-171.
85. Importante anche ricordare, per la rilevanza strategica dell'evento, che meno di un decennio prima della perdita di Siracusa era caduta pure Malta, conquistata dagli aglabiti. Quanto a Taormina, nel 912-913 era ripresa dai bizantini, che la tennero fino al 962.
86. Nell'876, tuttavia, i bizantini presero il controllo sulla città dopo il ritiro di Ludovico II. Aleksandr A. Vasiliev, Byzance et les Arabes, II/I, La dynastie macedonienne (867-959) , Bruxelles 1968, pp. 10-21, 50-52; Vera Von Falkenhausen, La dominazione bizantina nell'Italia meridionale, Bari 1978, pp. 20-2I; G. Musca, L'emirato, pp. 107 ss.
87. Basti richiamare, per la loro autorevolezza, i pareri espressi in merito da R. Cessi, di cui si veda, per esempio, Venezia ducale, p. 277: "per proprio conto, con le proprie forze, solo, sotto lo stimolo di un interesse immediato, [il doge/Venezia> s'addossò il compito di efficace difesa dell'Adriatico contro le insidie corsare, svolgendo una metodica e continua opera di polizia marittima". Oppure Id., Politica, economia, religione, in AA.VV., Storia di Venezia, II, Dalle origini del Ducato alla IV crociata, Venezia 1958, p. 181 (pp. 67-476); o ancora: Id., Storia della Repubblica di Venezia, Firenze 1981 (I ediz. Milano-Messina 1944-1946), p. 49. In ogni caso è Venezia ducale a rimanere la sintesi fondamentale di R. Cessi per la storia veneziana di quei secoli.
88. R. Cessi, Storia della Repubblica di Venezia, p. 49; Id., Venezia ducale, p. 279.
89. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 119. Si data di solito l'evento all'867; credo più sicuro collocarlo genericamente fra 1'867 e 1'871.
90. Ibid., pp. I18, 123, I25. Frantisek Dvornik, Les Slaves, Byzance et Rome au IXe siècle, Paris 1926, pp. 224-226 e passim.
91. Epistolae Karolini aevi, V, a cura di Erich Caspar ed altri, in M.G.H., Epistolae, VII, 1912-1928, nrr. 18, 21, pp. 15-17, 18-19, Documenti relativi, II, nrr. 5, 7, pp. 8, 11.
92. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 125.
93. Ibid., p. 126.
94. Per tutti: R. Cessi, Venezia ducale, pp. 280-282.
95. Giovanni Diacono, Cronaca, pp. 119-120.
96. Andrea Da Bergamo, Historia, a cura di Georg Waitz, in M.G.H., Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum, 1878, p. 229; Giovanni Diacono, Cronaca, p. 121.
97. Giovanni Diacono, Cronaca, pp. 122, 123.
98. In generale, sui rapporti con saraceni e slavi, anche per altre indicazioni, v. Maria Nallino, Il mondo arabo e Venezia fino alle crociate, ora in AA.VV., Storia della civiltà veneziana, I, Dalle origini al secolo di Marco Polo, Firenze 1979, pp. 199-208 J. Hoffmann, Venedig und die Narentaner.
99. Giovanni Diacono, Cronaca, pp. 165-167.
100. Ibid., pp. 122, 123.
101. J. Ferluga, L'amministrazione bizantina, pp. 167-168.
102. Condivido il parere espresso (e poi di fatto abbandonato) da Roberto Cessi, Venezia e i Croati, in AA.VV., Italia e Croazia, Roma 1942, p. 337 (pp. 313-376), che faceva iniziare l'epoca dei tributi proprio con il "censo comune a tutti i Dalmati, istituito al tempo dell'imperatore Basilio". In G. Ortalli, Venezia dalle origini, pp. 400-401, mi pareva che piuttosto si dovesse pensare a dopo la sfortunata impresa di Pietro I Candiano, di cui diremo subito. Resta in ogni caso aperta la questione e altro problema è poi quello della esatta natura del tributo veneziano; cf. ad esempio Domenico Mandic, Gregorio VII e l'occupazione veneta della Dalmazia nell'anno 1076, in AA.VV., Venezia e il Levante fino al secolo XV, I, Firenze 1973, p. 460, n. 2 (pp. 453-472); Jadran Ferluga, Bizanc na Jadranu (6.-13. stoleje), "Zgodovinski časopis", 44, 1990, p. 373 (pp. 363-386).
103. Giovanni Diacono, Cronaca, pp. 128-129. Lo scontro finale avvenne a Macarsca, sul canale di Brazza.
104. Ibid., pp. 107, 111, 118.
105. Eduard Lentz, Der allmähliche Übergang Venedigs von faktischer zu nomineller Abhàngigkeit von Byzanz, "Byzantinische Zeitschrift", 3, 1894, p. 92 (pp. 64-115); R. CessI, Venezia ducale, p. 250.
106. Ibid., pp. 250-251. Giovanni DiaconO, Cronaca, p. 116.
107. Annales regni Francorum, p. 124 (86).
108. R. Cessi, Le origini del ducato, pp. 175-321 (ma si tratta di due saggi apparsi in "Archivio veneto", ser. V, 3-4, 1928-1929), ha esaminato tutto il problema dei "pacta", a partire da quello lotariano in cui si individua quanto riportabile al patto di Ravenna e alla pace di Aquisgrana. La questione non è affatto chiusa, ma le proposte di Cessi sono al momento le più affidabili e comunque superano tutte le altre, a partire da quelle organicamente proposte da Adolf Fanta, Die Verträge der Kaiser mit Venedig bis zum yahre 983, "Mitteilungen des Instituts für osterreichische Geschichtsforschung", Ergànzungsband I, 1885, pp. 51-128.
109. G. Ortalli, Venezia dalle origini, pp. 390-391.
110. Dell'inchiesta, relativa al commercio di materiale strategico con i saraceni, si dirà più sotto.
111. Il "pactum Lotharii" è edito in M.G.H., Legum sectio II, Capitularia regum Francorum, II, a cura di Alfred Boretius - Victor Krause, 1890-1897, nr. 233, pp. 130-135; Documenti relativi, I, nr. 55, pp. 101-108; R. Cessi, Le origini del ducato, pp. 237-243.
112. Si possono vedere in Capitularia, nrr. 236, 238, pp. 138-141, 143-147; Documenti relativi, Il, nrr. 14, 21, pp. 19-20, 28-30. Il patto dell'888 è anche in I diplomi di Berengario I, a cura di Luigi Schiaparelli, Roma 1903 (Fonti per la storia d'Italia, 35), nr. 3, pp. 13-25.
113. Documenti relativi, I, nr. 54, pp. 100-101, II, nr. 17, pp. 24-26. SS. Ilario e Benedetto, nrr. 3-4, pp. 25-29.
114. Il passaggio è simile a quello avvenuto con i "pacta", da una bipolarità franco-bizantina ad una franco-venetica. Cf. anche R. Cessi, Le origini del ducato, pp. 223-229, 250-252.
115. Capitularia, nrr. 234, 235, 237, 239, pp. 136-137, 141-143, 147-148; Documenti relativi, I, nr. 56, pp. 108- 110; II, nrr. 1, 16, 22, pp. 1, 21-24, 30-32. Quanto alle conferme successive, a partire da quella di Rodolfo per Orso II Particiaco v. R. Cessi, Le origini del ducato, pp. 224 e passim alle pp. 263 ss.
116. Notkeri Balbuli Gesta Karoli Magni imperatoris, a cura di Hans F. Haefele, in M.G.H., Scriptores rerum Germanicarum, n. ser., XII, 1962, 1. II, cap. 17, pp. 86-87.
117. Annales Fuldenses, a cura di Friedrich Kurze, in M.G.H., Scriptores rerum Germanicarum, [VII>,
1891, p. 54.
118. Il passo è al cap. 17 del patto. In generale per tutto quest'ordine di questioni cf. Gino Luzzatto, L'economia veneziana nei suoi rapporti con la politica nell'alto medioevo, ora in AA.VV., Storia della civiltà veneziana, I, Dalle origini al secolo di Marco Polo, Firenze 1979, pp. 98-99 (pp. 95-106); G. Ortalli, Venezia dalle origini, pp. 394-396; Gerhard Rosch, in questo stesso volume.
119. Cf. sopra, n. 8 e contesto.
120. Il ritrovamento fu annotato già nel Settecento da Flaminio Corner; cf. Giovanni Gorini, La circolazione monetale nella "Venetia" (IV-IX sec., in AA.VV., La "Venetia" dall'antichità all'alto medioevo, Roma 1988, p. 195 (pp. 187-200).
121. Giovanni Gorini, La monetazione, in AA.VV., Da Aquileia a Venezia. Una mediazione tra l'Europa e l'Oriente dal II secolo a.C. al VI secolo d.C., Milano 1980, p. 740 (pp. 695-749).
122. Lech Leciejewicz - Eleonora TabaczyŃska - Stanislaw Tabaczynski, Torcello. Scavi 1961-62, Roma 1977, pp. 57, 272, 283.
123. Nicolò Papadopoli, Le monete di Venezia, I, Venezia 1893, pp. 21 ss.; G. Rösch, in questo stesso volume.
124. Per quest'ordine di questioni v. ibid., e Frederic C. Lane - Reinhold C. Mueller, Money and Banking in Medieval and Renaissance Venice. I. Coins and Moneys of Account, Baltimore-London 1985, pp. 187 ss.
125. Ritengo la stessa persona l'Agata "Christi famula, filia quidem domno Mauricio magistro militi qui fuit dux Venecie", titolare di beni "intra fines Civitatis Nove", e l'Agata "Dei ancila" con diritti in " [territorio> Polense". Documenti relativi, I, nr. 53, pp. 95, 96; SS. Ilario e Benedetto, nr. 2, pp. 20, 21. La più precisa datazione del testamento dogale al maggio-agosto 829 è ora offerta da Marco Pozza, Penetrazione fondiaria e relazioni commerciali con Venezia, in AA.VV., Storia di Treviso, II, Il Medioevo, a cura di Daniela Rando - Gian Maria Varanini, Venezia 1991, n. 5.
126. SS. Ilario e Benedetto, p. 22.
127. Sui primi tempi dei due monasteri, oltre a quanto detto in questo volume v. Giovanni Spinelli, I primi insediamenti monastici lagunari nel contesto della storia politica e religiosa veneziana, in AA.VV., Le origini della Chiesa di Venezia, a cura di Franco Tonon, Venezia 1987, pp. 154-158 (pp. 151-166).
128. SS. Ilario e Benedetto, p. 19. Qui e più sotto la peculiarità, più ancora che nei singoli elementi che veniamo indicando (in buona parte verificabili anche altrove), è nella loro particolare miscela.
129. Ibid., pp. 19, 21.
130. Ibid., p. 19. Cf. Antonio Carile, Il problema delle origini di Venezia, in AA.VV., Le origini della Chiesa di Venezia, a cura di Franco Tonon, Venezia 1987, p. 91 (pp. 77-100).
131. Diplomata Karolinorum, I, nr. 201, p. 270; Documenti relativi, I, nr. 39, pp. 59-60.
132. Ibid., I, nr. 45, p. 78: "ad augendum L manchosos [il mancuso era la moneta araba> trasmisi in Franciam, et bonas gemmas adamantinas et ajaguntos, ut faceret meliore et maiore".
133. S. Lorenzo, a cura di Franco Gaeta, Venezia 1959, nr. I, p. 9.
134. Documenti relativi, Il, nr. 54, p. 101; I placiti del "Regnum Italiae", a cura di Cesare Manaresi, II/1, Roma 1957 (Fonti per la storia d'Italia, 96/1), nr. 181, p. 172.
135. In sintesi: G. Ortalli, Venezia dalle origini, pp. 392-393, G. Rösch, Der venezianische Adel, p. 39.
136. S. Lorenzo, nr. I, p. I I (testamento del vescovo Orso); già nell'829 (testamento di Giustiniano Particiaco): SS. Ilario e Benedetto, nr. 2, pp. 20-21. Anche in Documenti relativi, I, nrr. 53, 60, pp. 95, 96, 118.
137. A. Carile, Il ducato venetico, p. 98; Id., Il problema delle origini, p. 88.
138. Documenti relativi, II, nr. 15, pp. 20-21.
139. Da ultimi: G. Rösch, Der venezianische Adel, pp.
38-43, A. Castagnetti, Famiglie, testo corrispondente alle nn. 40-43, 68-78.
140. È il caso, per esempio, di "filius Dominici tribuni" da cui Trundomenico o Tradonico.
141. Come Particiaco lo indicano, per esempio: Origo, p. 117 (ma non nella prima redazione, p. 29); Martin Da Canal, Les estoires, p. 22; non Giovanni diacono. Peraltro anche i precedenti Agnello, Giustiniano e Giovanni nella documentazione più antica non sono indicati come Particiaci. In ogni caso tra quelli e questo Pietro non risulta alcun legame di sangue e non lo richiama nemmeno il diacono Giovanni, sempre attentissimo a quest'ordine di notizie.
142. Benché alla base dell'attribuzione di cognome stia un equivoco (R. Cessi, Venezia ducale, p. 222), manterremo per comodità d'identificazione la usuale forma Tradonico, ponendola fra parentesi quadre.
143. La situazione è estremamente ambigua. L' Origo, pp. 134-136, fa una solenne confusione rimescolando lontane memorie relative a Pietro [Tradonico>, Orso I [Particiaco> e Pietro Tribuno (cf. R. Cessi, Venezia ducale, pp. 222, 253-254, 256; Id., in Origo, pp. XXVII, XXXI). D'altra parte il richiamo preciso all'uccisione del doge alla cerimonia in San Zaccaria (ibid., p. 135, ma cf. anche Martin Da Canal, Les estoires, p. 22 ; Venetiarum historia, pp. 39 ss.) autorizza il collegamento da noi suggerito (con molta cautela).
144. La datazione è abbastanza sicura per il collegamento all'eclissi del maggio 840. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 113.
145. Epistolae Karolini aevi, V, pp. 528 ss.; Documenti relativi, I, nr. 57, pp. 110-111: lettera di papa Sergio II al patriarca aquileiese Andrea.
146. Ibid., I, nr. 59, pp. 112-114.
147. Thietmari Merseburgensis Chronicon, a cura di Robert Holtzmann, in M.G.H., Scriptores rerum Germanicarum, n. ser., IX, 1935, pp. 126-127; Giovanni Diacono, Cronaca, p. 115. Cf. G. Ortalli, Venezia dalle origini, p. 395.
148. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 117.
149. Ibid., pp. 117-118.
150. A partire dall'Origo, pp. 117, 125 (sempre nella più tarda "editio tertia ").
151. Marco Pozza, I Badoer. Una famiglia veneziana dal X al XIII secolo, Abano 1982, pp. 9-11.
152. R. Cessi, Venezia ducale, pp. 259-261; Giorgio Zordan, L'ordinamento giuridico veneziano, Padova 1980, pp. 44 ss.; A. Castagnetti, Famiglie.
153. Per tutti cf. Roberto Cessi, La crisi veneziana al tempo del duca Orso, in Id., Le origini del ducato, pp. 53-98; Si nega (a p. 87) persino la preesistenza di un vescovo ad Equilo.
154. I termini della questione sono riassunti, per esempio, in Antonio Niero, La sistemazione ecclesiastica del ducato di Venezia, in AA.VV., Le origini della Chiesa di Venezia, a cura di Franco Tonon, Venezia 1987, pp. 101-121; oppure da Daniela Rando, in questo volume.
155. Oltre al racconto di Giovanni Diacono, Cronaca, passim e pp. 121-126, cf. gli atti ricordati in riferimento alla sede patriarcale ma ripresi poi anche per le singole diocesi, in P.F. Kehr, Italia pontificia, VII/2, nrr. 40-54, pp. 44-48.
156. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 118.
157. Ibid., p. 121.
158. G. Spinelli, I primi insediamenti monastici, p. 159; A. Niero, La sistemazione ecclesiastica, p. 106.
159. Del patriarca "gravato dalle molte molestie procurate dai suoi suffraganei" parla papa Giovanni VIII nella lettera al vescovo riminese Dalto del dicembre 876. Epistolae Karolini aevi, V, nr. 26, p. 24; Documenti relativi, II, nr. 10, p. 14.
160. Epistolae Karolini aevi, V, nr. 62, pp. 55-56; Documenti relativi, II, nr. 13, p. 18.
161. In sintesi: A. Niero, La sistemazione ecclesiastica, pp. 105-109.
162. Giovanni Diacono, Cronaca, pp. 126-127.
163. R. Cessi, Venezia ducale, pp. 274-275.
164. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 125.
165. Mai prima di allora i dogi avevano ricevuto un titolo di così alto grado: V. Lazzarini, I titoli dei dogi, p. 198.
166. Gottlieb L. Fr. Tafel - Georg M. Thomas, Urkunden zur älteren Handels- und Staatsgeschichte der Republik Venedig, I, Wien 1856, nr. 13, p. 19; Documenti relativi, II, nr. 41, p. 70.
167. Giovanni Diacono, Cronaca, pp. 118-119, 125, I26, 128.
168. Origo, p. 136; Andrea Dandolo, Chronica, p.
155.
169. Del 715 era il noto capitolare concesso dal re longobardo Liutprando ai comacchiesi, per cui Cf. Jean-Claude Hocquet, Le sel et la fortune de Venise, I, Production et monopole, Lille 19822.
170. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 127.
171. Epistolae Karolini aevi, V, nr. 3, p. 335; Documenti relativi, II, nr. 18, p. 26.
172. Giovanni Diacono, Cronaca, pp. 127-128. Non risulta che Giovanni [Particiaco> decadesse dal suo ruolo istituzionale; il Candiano veniva quindi ad affiancarlo, anche se gestendo in prima persona il potere.
173. G. Zordan, L'ordinamento giuridico, pp. 49-51; G. Ortalli, Venezia dalle origini, pp. 402-403.
174. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 129.
175. I diplomi di Berengario I, nr. 3, pp. 13-25. Nuovo è il dazio "ad valorem" del 2,50% sulle merci che giungevano da Venezia (in un passo che tuttavia R. Cessi, Le origini del ducato, pp. 258 ss., ritenne sospetto d'interpolazione); c'è poi l'obbligo del versamento al fisco regio di 25 libre di denari pavesi ogni anno, come ricognizione dei diritti d'uso goduti dai venetici. Cf. anche Girolamo Arnaldi, Berengario I, in Dizionario biografico degli Italiani, IX, Roma 1967, p. 11 (pp. 1-26).
176. I diplomi di Guido e di Lamberto, a cura di Luigi Schiaparelli, Roma 1906 (Fonti per la storia d'Italia, 36), nr. 9, pp. 21-24.
177. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 131.
178. Vittorio Lazzarini, Un privilegio del doge Pietro Tribuno per la badia di S. Stefano d'Altino, in Id., Scritti, p. 147 (pp. 132-149); Documenti relativi, II, nr. 25, p. 34.
179.Giovanni Diacono, Cronaca, pp. 130-131.
180. La cosiddetta "edificazione" della "civitas Rivoalti" (ma cf. G. Ortalli, Il problema delle origini), stante il collegamento con gli ungari deve essere posta dopo l'inizio del secolo X, e non prima come indica Giovanni Diacono, Cronaca, p. 131, riferendosi al nono anno del dogado di Pietro Tribuno (cioè: 897). Cf. anche Aldo A. Settia, Castelli e villaggi nell'Italia padana, Napoli 1984, pp. 125-127.
181. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 132, indica questo Orso esplicitamente come Particiaco. "Paureta" è anche altrimenti detto: Venetiarum historia, p. 52; Andrea Dandolo, Chronica, p. 168. Cf. anche M. Pozza, I Badoer, pp. 10- 11.
182. Per esempio: Ernesto Sestan, La conquista veneziana della Dalmazia, ora in AA.VV., Storia della civiltà veneziana, I, Dalle origini al secolo di Marco Polo, Firenze 1979, pp. 161-162 (pp. 159-174); R. Cessi, Venezia ducale, p. 308; anche G. Ortalli, Venezia dalle origini, p. 141.
183. In sintesi: Francis Dvornik, Gli Slavi. Storia e civiltà dalle origini al secolo XIII, Padova 1974, p. 113; Ivan Dujãev, Rapporti fra Venezia e la Bulgaria nel Medioevo, in AA.VV., Venezia e il Levante fino al secolo XV, I, Firenze 1973, pp. 237-260. Costantino Porfirogenito, De administrando imperio, II, Commentary, a cura di Romilly J. H. Jenkins ed altri, London 1962, pp. 137-138.
184. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 132.
185. Il fenomeno era peraltro di dimensione continentale. Cf. in sintesi A. A. Settia, Castelli e villaggi, pp. 487-489.
186. Cf. per esempio Costantino Porfirogenito, De administrando imperio, cap. 27, pp. 107-108. Quanto all'interpretazione storiografica in questione, cf. per tutti R. Cessi, Venezia ducale, pp. 107-108.
187. Tradizione a lungo attestata che, per quanto qui interessa, da un Costantino Porfirogenito risale fino ad un Giorgio Ciprio; per una sua fase iniziale cf. Giorgio Ravegnani, Castelli e città fortificate nel VI secolo, Ravenna 1983.
188. Cf. Andrea Castagnetti, Insediamenti e "populi ", in questo stesso volume.
189. C.G. Mor, Aspetti della vita costituzionale, pp. 87-88.
190. "In Rivoalto foro" avverrà lo scontro fra i partigiani di Pietro III Candiano e quelli del figlio: Giovanni Diacono, Cronaca, p. 137.
191. Ibid., p. 132.
192. Esclude la discendenza diretta R. Cessi, Venezia ducale, p. 310, ma essa è esplicitamente dichiarata nel patto con Capodistria del 932, di cui diremo subito.
193. Come tale figura già nel documento capodistriano del gennaio 932.
194. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, nr. 10, pp. 5-10; Documenti relativi, nr. 35, pp. 52-55.
195. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, nr. 11, pp. 10-16; Documenti relativi, II, nr. 36, pp. 55-59. Andrea Dandolo, Chronica, p. 171, ricorda il blocco posto da Venezia all'Istria in quell'occasione.
196. G. De Vergottini, Venezia e l'Istria, pp. 78-80; G. Ortalli, Venezia dalle origini, pp. 406-407.
197. Giovanni Diacono, Cronaca, pp. 132-133.
198. Dopo il "precetto" di Guido di Spoleto (nell'891), si ebbero quelli di Rodolfo di Borgogna nel 925 e di Ugo di Provenza nel 927: Capitularia, I1, nrr. 240-241, pp. 148-151; I diplomi di Lodovico III e di Rodolfo II, a cura di Luigi Schiaparelli, Roma 1910 (Fonti per la storia d'Italia, 37), nr. 12, pp. 128-132; I diplomi di Ugo e di Lotario, di Berengario II e di Adalberto, a cura di Luigi Schiaparelli, Roma 1924 (Fonti per la storia d'Italia, 38), nr. 8, pp. 25-29; Documenti relativi, II, nrr. 32-33, pp. 47-50.
199. Non credo all'esistenza di un perduto "pactum" con Berengario II, del 953. Cf. con pareri diversi: R. Cessi, Le origini del ducato, p. 262 (a p. 268 ritiene che al massimo si possa pensare ad un rinnovo del "praeceptum" e non del patto); Carlo Guido Mor, L'età feudale, I, Milano 1952, pp. 222-223, 283.
200. Vito Fumagalli, Il Regno italico, in AA.VV., Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, II, Torino 1978, pp. 193 SS.
201. Documenti relativi, II, nr. 15, pp. 20-2I.
202. Ibid., nr. 38, pp. 60-62. Il patriarca Marino aveva svolto funzioni di mediatore anche al tempo della "promissio" di Wintero nel 933.
203. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 136. I fatti sono datati genericamente al "sesto anno di dogado ".
204. Si potrebbe forse pensare a qualche connessione tra l'iniziativa venetica e quella bizantina? Il grande impegno di Bisanzio finì comunque in un fallimento.
205. Codice diplomatico padovano dal secolo sesto a tutto l'undicesimo, a cura di Andrea Gloria, Venezia 1877, nrr. 29, 34, pp. 45-47, 54-55; Codice diplomatico veronese, a cura di Vittorio Fainelli, II, Venezia 1963, nr. 255, pp. 392-398; Documenti relativi, I1, nrr. 30, 34, pp. 40-43, 50-52. Cf., anche con ulteriore bibliografia: Eduard Hlawitschka, Franken, Alemannen, Bayern und Burgunder in Oberitalien (774-962), Freiburg i. Br. 196o, pp. 209-211, 237-240 e passim; Andrea Castagnetti, Le due famiglie comitali veronesi : i San Bonifacio e i Gandofngi di Palazzo (secoli X-inizio XIII), in AA.VV., Studi sul medioevo veneto, Torino 1981, pp. 48-50 (pp. 43-93). Questi rapporti con Verona non sono in linea di continuità con i legami istituiti al tempo di Pipino e delle donazioni torcellane a San Zeno. Piuttosto sembrano partire dal momento in cui Ingelfredo operava in Friuli (come ora viene indicando Andrea Castagnetti, Minoranze etniche dominanti e rapporti vassallaticobeneficiari. Alamanni e Franchi a Verona in età carolingia e postcarolingia, Verona 1990, pp. 75-76).
206. Documenti relativi, II, nr. 39, pp. 62-67; SS. Trinità e S. Michele Arcangelo di Brondolo, a cura di Bianca Lanfranchi Strina, II, Venezia 1981, nr. 2, pp. 14 SS. Cf. E. Hlawitschka, Franken, pp. 125 SS.; A. Castagnetti, Minoranze etniche, pp. 79 s.
207. Ne rimane memoria in Conradi I. Heinrici I. et Ottonis I. Diplomata, a cura di Theodor von Sickel, in M.G.H., Diplomata regum et imperatorum Germaniae, I, 1879-1884, nr. 258, p. 368 (agosto 963). Adalberto era fratello del Guido di Reggio indicato sotto; cf. E. Hlawitschka, Franken, pp. 106-107; Andrea Castagnetti, I conti di Vicenza e di Padova dall'età ottoniana al comune, Verona 1981, p. 21.
208. Codice diplomatico padovano, I, nr. 37, pp. 59-60; SS. Trinità e S. Michele Arcangelo di Brondolo, a cura di Bianca Lanfranchi Strina, III, Venezia 1987, nr. I. Su Anna: E. Hlawitschka, Franken, pp. 154, 286.
209. S. Giorgio Maggiore, a cura di Luigi Lanfranchi, II, Venezia 1968, nr. 7, p. 38.
210. Gherardo Ortalli, Petrus I. Orseolo und seme Zeit. Anmerkungen zur Geschichte der Beziehungen zwischen Venedig und dem ottonischen Reich, Venezia - Sigmaringen 1990, pp. 25-26.
2 11. Giovanni Diacono, Cronaca, pp. 136-138.
212. C.G. Mor, L'età feudale, I, pp. 304-305, 327-329;
G. Ortalli, Petrus I. Orseolo, p. 31, n. 51.
213. Per il patto con Ottone I v. Diplomata, I, nr. 350, pp. 478-483; Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, a cura di Ludwig Weiland, in M.G.H., Legum sectio IV, I, 1893, nr. 14, pp. 30-36; Documenti relativi, Il, nr. 47, pp. 81-85. Cf. R. Cessi, Le origini del ducato, pp. 269 ss.; Gerhard Rösch, Venezia e l'impero. 962-1250. I rapporti politici, commerciali e di traffico nel periodo imperiale germanico, Roma 1985 (ediz. orig. Tiibingen 1982), pp. 29-34 e passim; G. Ortalli, Petrus I. Orseolo, pp. 31-34.
214. Margherita G. Bertolini, Candiano Pietro (IV), in Dizionario biografico degli Italiani, XVII, Roma 1974, pp. 764-770; G. Ortalli, Venezia dalle origini, pp. 413-414.
215. In sintesi: V. v. Falkenhausen, La dominazione bizantina, pp. 39, 83-84.
216. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, nr.
13, pp. 17-25; Documenti relativi, II, nr. 41, pp. 70-74.
217. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, nr.
14, pp. 25-30; Documenti relativi, II, nr. 49, pp. 86-9
218. Cf. G. Ortalli, Petrus I. Orseolo, pp. 38-40.
219. Giovanni Diacono, Cronaca, pp. 138-140. Degli eventi rimane anche memoria documentaria nel patto rinnovato con Capodistria nel 976 (cf. sotto, n. 221) come pure nella "sentenza" di Tribuno Menio per la restituzione dei beni candiani al patriarca Vitale, passo, questo, di notevole interesse perché propone un'esplicita presa di distanza del Menio dalla rivolta del 976; cf. Codice diplomatico padovano, I, nr. 66, pp. 95-96; Documenti relativi, II, nr. 65, p. 130, datato al giugno 983.
220. Per la duplice tradizione cf. Giovanni Diacono, Cronaca, pp. 140-141; Pier Damiani, Vita beati Romualdi, a cura di Giovanni Tabacco, Roma 1957 (Fonti per la storia d'Italia, 94), pp. 21-23. Su tutto quest'ordine di problemi v. G. Ortalli, Petrus I. Orseolo, passim. Quanto alle esperienze di nuova spiritualità che la laguna stava vivendo in quegli anni, cf. Giorgio Cracco in questo stesso volume.
221. I1 documento è edito con errata datazione al 977 in G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, nr. 15, pp. 31-35, Documenti relativi, Il, nr. 56, pp. 105-108.
222. Diplomata, I, nr. 407, p. 554. Documenti relativi, II, nr. 52, pp. 93-94.
223. Ibid., II, nr. 54, pp. 99-104; I placiti del "Regnum Italiae", II/1, nr. 181, pp. 169-175.
224. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 141.
225. Ibid., p. 142. G. Ortalli, Petrus I. Orseolo, passim.
226. Non è comunque provabile nei documenti l'eventuale legame di sangue con la stirpe dogale.
227. R. CessI, Politica, p. 223; G. Ortalli, Petrus I. Orseolo, pp. 48-49.
228. Codice diplomatico padovano, I, nrr. 107, 193, 209, 257, pp. 142-143, 222-224, 237-238, 282-283.
229. S. Giorgio Maggiore, II, nr. 1, pp. 15-26.
230. Per tutto ciò v. in sintesi G. Ortalli, Petrus I. Orseolo, pp. 53-62.
231. V. Ottonis I. Diplomata, a cura di Theodor von Sickel, in M.G.H., Diplomata regum et imperatorum Germaniae, 1888, nrr. 298-300, 350-353; Constitutiones, I, nrr. I 7-19, pp. 39-44; Documenti relativi, nrr. 62-64, pp. 122-129.
232. Così Giovanni Diacono, Cronaca, p. 146.
233. Per tutti questi eventi cf. G. Ortalli, Petrus I. Orseolo.
234. Marco Pozza, Vitale-Ugo Candiano. Alle origini di una famiglia comitale del Regno italico, "Studi Veneziani", n. ser., 5, 1981, pp. 30-31 (pp. 15-32). Su di lui v. anche A. Castagnetti, I conti di Vicenza e di Padova, pp. 20 ss.
235. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 148. Le testimonianze conservate dal cronista sono indubbiamente di parte. I suoi legami e la convinta adesione al governo e ai programmi di Pietro II Orseolo incidono senza dubbio sui modi del racconto, soprattutto quando si tratta di vicende vicine e delicate come quelle che spianano la via al suo signore. La narrazione rimane comunque decisamente affidabile, oltre che di estrema importanza.
236. In generale sul periodo: H. Kretschmayr, Geschichte, pp. 119- 125; R. Cessi, Politica, pp. 224-230; Id., Venezia ducale, pp. 340-349; G. Ortalli, Venezia dalle origini, pp. 417-418.
237. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 148.
238. Ibid., p. 149.
239. Liber pontificalis, I, p. 433. In generale: Johannes Hoffmann, Die östliche Adriaküste als Hauptnachschubbasis fiir den venezianischen Sklavenhandel bis zum Ausgang des 11. Jahrhunderts, "Vierteljahrschrift für Sozial- und Wirtschaftsgeschichte", 55, 1968, pp. 165-181; Charles Verlinden, L'esclavage dans l'Europe médiévale, II, Gent 1977, pp. 115 ss. Cf, anche il racconto proposto dalla leggenda di san Naum sui discepoli di Metodio finiti sul mercato degli schiavi di Venezia: F. Dvornik, Les Slaves, pp. 298-299; Id., Gli Slavi, pp. 84, 127; I. Dujcev, Rapporti, p. 242.
240. Il servizio è attestato nell'atto di interdizione del commercio di schiavi, nel 960: G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, I, nr. 12, p. 21; Documenti relativi, II, nr. 41, p. 71. Nell'atto si indica come le missive, portate a Bisanzio da venetici per conto di persone forestiere, avessero irritato per il loro contenuto l'impero, procurando danno e discredito a Venezia; veniva perciò vietato il continuare nell'inoltro da parte di privati, fatto salvo "quanto era consuetudine del palazzo". Il nesso tra questa disposizione e quella sugli schiavi consiste non nella materia trattata, ma nel fatto che entrambe andassero incontro alle richieste bizantine.
241. Constitutiones, nr. 4. Cf. Marco Pozza, I trattati con Aleppo. 1207-1254, Venezia 1990 (Pacta Veneta, 2), p. 10
242. Epistolae Karolini aevi, III, p. 97; Documenti relativi, I, nr. 42, pp. 69-70. Liutprando Da Cremona, Antapodosis, 1. VI, cap. 4, in Die Werke Liudprands von Cremona, a cura di Joseph Becker, in M.G.H., Scriptores rerum Germanicarum, XLI, 19153, pp. 153-154
243. Agostino Pertusi, Cultura bizantina a Venezia, in AA.VV., Storia della cultura veneta, I, Dalle origini al Trecento, Vicenza 1976, pp. 334-336 (pp. 326-349). Francis Dvornik, Byzantine Missions among the Slavs, New Brunswick 1970, p. 27, vedeva il battesimo del messo narentano dell'830 come "first success of Venetian missionaries amongst the Slavs".
244. Annales Fuldenses, pp. 82-83. Liutprando Da Cremona, Relatio de legatione constantinopolitana, cap. 31, in Die Werke Liudprands von Cremona, p. 192.
245. Annales regni Francorum, p. 170 (144-146).
246. Maria Nallino, Venezia in antichi scrittori arabi, "Annali di Ca' Foscari", 2, 1963, pp. 111-112 (pp. 111 -120); Ead., Il mondo arabo, p. 199.
247. G. Ortalli, Venezia dalle origini, pp. 418-420.
248. Tenuto conto che lo stato della documentazione non assicura conteggi precisi all'unità, l'ordine di presenze è questo: 65 circa nel 960 (divieto di commercio degli schiavi, cit.); un'ottantina nel 971 (interdizione del commercio di materiale strategico con i saraceni, cit.); 130 circa nel 982 (donazione di San Giorgio, cit.); una novantina nel 998 (placito contro i tumulti, di cui si dirà).
249. Cf. A. Castagnetti, Famiglie, a proposito delle presenze tra 96o e 982.
250. Hagen Keller, Adelsherrschaft und städtische Gesellschaft in Oberitalien (9.-12. Jahrhundert), Tübingen 1979, pp. 41 ss.; G. Rösch, Der venezianische Adel, pp. 40, 61.
251. Per Esempio Cf. Giorgio Cracco, Un "altro mondo". Venezia nel medioevo. Dal secolo XI al secolo XIV, Torino 1986, pp. 10-12.
252. Documenti relativi, II, nr. 81, pp. 161-165.
253. Giovanni Diacono, Cronaca, pp. 150, 169, 171.
254. R. Cessi, Venezia ducale, pp. 355-358.
255. Die "Honorantie civitatis Papie", a cura di Carlrichard Brühl - Cinzio Violante, Köln-Wien 1983, pp. 18-19, 41. E la stessa logica per cui Carlo Magno nel 785 per colpire Venezia pensava (come si è visto) ai commerci e non ai possessi fondiari.
256. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 169 e n. 1.
257. P.F. Kehr, Italia pontificia, VII/2, nrr. 26, 67-68, pp. 18, 50.
258. G. Ortalli, Venezia dalle origini, p. 424.
259. V. Ottonis III. Diplomata, a cura di Theodor von Sickel, in M.G.H., Diplomata rerum et imperatorum Germaniae, II/2, 1893, nr. 100, pp. 511 ss.; anche in Constitutiones, I, nr. 20, pp. 45-46; Documenti relativi, II, nr. 69, pp. 137-139. Cf. R. Cessi, Le origini del ducato, pp. 294-298; G. Rösch, Venezia e l'impero, pp. 35-37.
260. M. Pozza, Vitale-Ugo Candiano, pp. 30-32.
261. Giovanni Diacono, Cronaca, pp. 151 - 152, 167.
262. Cf. R. Cessi, Venezia ducale, pp. 355 ss.; G. Ortalli, Venezia dalle origini, pp. 425-426.
263. Ottonis III. Diplomata, nr. 397, p. 830.
264. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 155. Cf. Lujo Margetić, Le cause della spedizione veneziana in Dalmazia nel 1000, in Id., Histrica et Adriatica. Raccolta di saggi storico-giuridici e storici, Trieste 1983, pp. 240, 243 (pp. 217-254).
265. Giovanni Diacono, Cronaca, pp. 155-160.
266. V. Lazzarini, I titoli dei dogi, pp. 190-196.
267. Massimo sostenitore di questa tesi (che assume peraltro diverse sfumature) è Roberto Cessi, il quale pure insisteva sull'insanabile scontro fra mondo slavo e mondo latino.
268. Cf., per esempio, i dubbi di E. Sestan, La conquista, p. 165, o le proposte di A. Pertusi, L'impero bizantino, p. 61.
269. Il più convincente riesame di tutta la questione mi pare quello Di L. Margetić, Le cause della spedizione, pp. 217 SS.; v. anche J. Ferluga, L'amministrazione bizantina, pp. 195 SS.
270. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 157. In generale cf. J. Ferluga, L'amministrazione bizantina, pp. 197-201; L. Margetić, Le cause della spedizione, pp. 244-248.
271. E. Sestan, La conquista, p. 167.
272. Giovanni Diacono, Cronaca, pp. 149, 153.
273. Il crisobollo è edito in Documenti relativi, II, nr. 68, pp. 135-137; meglio in Agostino Pertusi, Venezia e Bisanzio nel secolo XI, ora in AA.VV., Storia della civiltà veneziana, I, Dalle origini al secolo di Marco Polo, Firenze 1979, pp. 195-198 (pp. 175-198). Cf. L. Margetić, Le cause della spedizione, pp. 224 ss.; Ralph Johannes LILIE, Handel und Politik zwischen dem byzantinischen Reich und den italienischen Kommunen Venedig, Pisa und Genua in der Epoche der Komnenen und der Angeloi (1081-1204), Amsterdam 1984, pp. 1-8.
274. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 154.
275. Ibid., pp. 165-167.
276. V. v. Falkenhausen, La dominazione bizantina, pp. 53-54, n. 10.
277. Giovanni Diacono, Cronaca, pp. 167-169.
278. In generale v. Antonio Carile, Le origini di Venezia nella tradizione storiografica, in AA.VV., Storia della cultura veneta, I, Dalle origini al Trecento, Vicenza 1976, pp. 135-166.
279. In questo senso v. A. Pertusi, L'impero bizantino, pp. 58-61; Id., Venezia e Bisanzio, pp. 177, 180.
280. Tipica è in questo senso la questione delle origini di Venezia, per cui v. G. Ortalli, Il problema storico, pp. 85 ss. 281. Cf. Stefano Gasparri, in questo stesso volume.