Il fascismo adriatico
Brescia, ottobre 1937. Giuseppe Lanfranchi stringe la mano a Gabriele D’Annunzio, incontrato per caso in via Zanardelli. Poco più di un mese dopo, gli fa pervenire una lettera a Gardone. Da tempo desidera scrivergli per giustificare le proprie azioni nei giorni della capitolazione di Fiume, quando era segretario del Fascio veneziano. Per anni si è tenuto dentro una storia che lo ha visto accusato di tradimento e che gli è costata le dimissioni e il ritiro «nell’ombra e nel silenzio». «Da sedici anni soffro ogni miseria, ogni umiliazione, ogni dolore. […] Se il Duce sapesse questo non lo permetterebbe. Non si può arrivare fino a lui, e d’altronde, io nulla chiedo. [...] Ma Voi, Comandante, se credete che io abbia errato, se potete, perdonatemi». Dopo un elenco delle proprie azioni in appoggio all’impresa dannunziana, Lanfranchi racconta quello che, secondo lui, era avvenuto il 26-27 dicembre 1920, a Venezia. Mentre a Fiume si viveva l’ultimo giorno di resistenza all’assedio delle truppe regolari, Piero Marsich, membro del Comitato centrale dei Fasci, avrebbe riunito il consiglio del Fascio veneziano, presenti Ludovico Toeplitz (console della Reggenza), Giovanni Giuriati (ex capogabinetto del governo fiumano), Iginio Magrini, lo stesso Lanfranchi e alcuni altri. Tra la costernazione generale, Marsich avrebbe annunciato «la morte per suicidio» di D’Annunzio, proponendo «la sollevazione in massa, l’alleanza […] coi socialisti e coi comunisti, e la soppressione di Giuseppe Volpi […] responsabile del Trattato di Rapallo». Alla prima proposta si sarebbe opposto «energicamente» Lanfranchi: «avessimo iniziato un movimento insurrezionale del genere, si correva il rischio di fare una rivoluzione tipo Kerenscki, col risultato di dare l’Italia in mano ai sovversivi». Alla seconda proposta, Giuriati avrebbe chiesto: «Perché, Giuseppe Volpi?», suggerendo di assassinare prima l’ex presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti, ritenuto da sempre il vero responsabile della diplomazia transigente su Fiume e Dalmazia. Lanfranchi si sarebbe subito offerto come sicario. Marsich però avrebbe insistito con i suoi propositi, sostenendo «di avere armi e armati a disposizione, e che a Padova, che a Udine, che a Milano, vi sono già le barricate, che si spara, che è un eccidio, e che Fiume è perduta». A quel punto il consiglio sarebbe stato temporaneamente sospeso.
Durante la pausa, Lanfranchi avrebbe telefonato ai fascisti di Padova, Milano e Udine, i quali negavano che ci fosse in corso una rivoluzione. Precipitatosi alla sede del Fascio, avrebbe trovato «tutte le squadre di azione, già riunite, e pronte», mentre i socialisti si erano concentrati nella Camera del lavoro. Avrebbe parlato agli squadristi e li avrebbe portati in piazza S. Marco, «con l’ordine, per il momento, di non iniziare nessun movimento». Avuta sicura notizia che Fiume era stata occupata dall’esercito regio e che il Comandante era vivo, avrebbe riaccompagnato in sede le squadre, dando ordine di tenersi pronti a stroncare ogni azione socialista e informando dei fatti Marsich, che avrebbe detto: «me ne infischio che il Comandante sia vivo o morto, quello che mi preme è di rovesciare il governo». Allora Lanfranchi gli avrebbe risposto: «recati a Roma, e rovescialo». Ripresa la seduta del consiglio in casa di Toeplitz, alla presenza questa volta di «certi ceffi, certi individui con fare sospetto», Marsich non avrebbe rinunciato alle sue «pazzesche idee», pur ammettendo di non avere armi a sufficienza. Lanfranchi avrebbe in seguito saputo «che questo complotto, era stato organizzato da certi circoli finanziari avversi al Volpi», forse gli Ansaldo e i Perrone. «Marsich aveva già scelto dieci o dodici fascisti per pugnalare il Volpi, mentre si sarebbe recato a pranzo» in casa di Giancarlo Stucky, proprietario del Mulino. Giuriati e altri avrebbero allora lasciato il consiglio: «Io pensavo angosciato cosa sarebbe successo, se dei fascisti avessero ammazzato il Volpi, Ministro di Stato[(1)]. Piero Marsich era un membro influentissimo del Comitato Centrale dei Fasci, e con quell’azione […] avrebbe compromesso Mussolini e il Comitato, avrebbe dato al Governo un’arma formidabile nelle mani, che avrebbe preso l’occasione per arrestare il Comitato, Mussolini compreso, e sciolto i Fasci. Poteva essere il disastro. Poteva essere la rovina d’Italia. Ho assunto tutta la responsabilità della mia azione politica, ho telefonato al Volpi, e l’ho fatto fuggire da Venezia, ed ho impedito un disastro forse irreparabile».
Nei giorni successivi Lanfranchi scriveva un lungo rapporto a Benito Mussolini, che, come vedremo, era contrario all’insurrezione e che avrebbe risposto approvando la sua azione. Però — continua Lanfranchi — «dopo quindici giorni, rassegnavo le dimissioni […]. Piero Marsich convinse Mussolini, che le azioni che […] aveva ideato, erano mie fantasie, Mussolini non poté, per necessità contingenti, liberarsi di lui, io fui abbandonato, ed egli rimase al suo fianco complottando sempre per abbatterlo, per defenestrarlo, per soppiantarlo come capo del Fascismo, fino al giorno, in cui scoperto il suo gioco, Mussolini lo liquidò, e lo espulse dal Fascismo»(2).
La lettera, finora inedita e sconosciuta, conferma soltanto parzialmente quanto Lanfranchi aveva già pubblicato, subito dopo i fatti, nel numero unico «La Verità». Lì aveva accusato D’Annunzio e Alceste De Ambris di essere d’accordo con Marsich per destituire Mussolini, volendo diventare rispettivamente presidente e segretario nazionale del movimento fascista, con Marsich alla direzione del giornale(3). Lasciamo però stare la questione dell’attendibilità delle due testimonianze. Più avanti si dirà perché, secondo noi, è molto probabile che nel dicembre 1920 Marsich abbia pensato davvero a un’azione di forza. Basti qui, a mo’ di incipit, far entrare il lettore nel vivo delle passioni e convulsioni fiumane — e degli impulsi golpisti — che hanno coinvolto molti veneziani, in ruoli diversi (Toepliz, Marsich, Giuriati, Volpi, Lanfranchi tra i tanti), e nel dramma vissuto dai fascisti locali di dover scegliere, in più momenti, tra D’Annunzio e Mussolini, con le conseguenti reciproche accuse di tradimento, travaglio interiore e sensi di colpa. Le principali crisi del movimento veneziano possono essere lette all’interno di questo dramma, nonostante, come vedremo, i suoi tempi siano anche scanditi dai conflitti sociali e dalle battaglie elettorali.
Una particolarità dei fascisti veneziani è già percepita dai contemporanei. Raffaele Vicentini, nel suo Diario di uno squadrista, racconta come, da più parti, venga loro rinfacciato di «fare un fascismo ‘lagunare’»(4). Se con questo si vuole soltanto dire che a Venezia lo squadrismo è debole e succube della borghesia, è giusto ricordare che il Fascio presenta, almeno fino all’estate 1922, anche tinte antiborghesi, nonostante l’adesione al blocco elettorale antisocialista che governa la città fin dal 1920. Anzi si può dire che questa sia la sua originalità più profonda, collegata a un radicalismo che qui resta al comando più a lungo che altrove. Il fascismo che guarda a Fiume trova infatti in laguna particolare presa per diversi motivi: le esperienze metapolitiche dell’anteguerra, i legami con l’area democratica, il patrimonio storico-simbolico cittadino, il carattere urbano del movimento che subisce meno di altri Fasci l’influenza agraria. Lo abbiamo chiamato ‘fascismo adriatico’ perché non è localistico, è parte di progetti nazionali: il Fascio veneziano e Marsich — secondo Renzo De Felice, «l’unico vero fascista dannunziano di un certo livello»(5) — diventano punto di riferimento di tutti quei fascisti che fanno perno sull’esperienza fiumana. Questo breve saggio, sulla scorta di nuove fonti consultate nell’archivio del Vittoriale, è un tentativo di ripercorrerne le tappe in questa luce, e di contestualizzarlo. Le sue vicende, più in generale, rappresentano un pezzo importante della storia dei controversi rapporti tra D’Annunzio e il fascismo.
Venezia viene duramente colpita dalla prima guerra mondiale, forse più di qualsiasi altra città alla destra del Piave. Subisce bombardamenti aerei, viene tagliata fuori dal movimento degli eserciti, perde l’afflusso turistico, soffre la chiusura del porto commerciale, le viene imposto lo stato di guerra. Le difficoltà di approvvigionamento, l’instabilità dei cambi, i divieti di esportazione e importazione forzano molte industrie a chiudere: quasi tutte interrompono l’attività dopo Caporetto. Con la ritirata dell’ottobre 1917 la città diventa immediata retrovia. Alcuni alberghi sono convertiti in ospedali militari. Gli abitanti sfollano. Nel settembre 1918 sono 68.329 i profughi di guerra in uscita, quasi la metà rifugiati in Emilia e Toscana. La popolazione civile cala da 158.698 (luglio 1914) a 113.941 (novembre 1917), fino a un minimo storico di circa 40.263 unità (aprile 1918), 7.443 dei quali ricorrono alle cucine economiche pubbliche(6).
Ci si può immaginare il caos del rientro dei soldati e dei molti profughi dopo l’armistizio (novembre 1918). Nel gennaio 1919 la popolazione civile del comune è già risalita a 85.000 unità. Tra febbraio e aprile tornano altre 40.000 persone. A dicembre la popolazione civile è quasi ai livelli dell’anteguerra (156.839)(7). Difficile è il ritorno alla normalità. Le attività economiche riprendono vita quasi subito, ma molti sono ancora senza lavoro. Il porto commerciale riapre nel novembre 1918, ma la quantità di merci caricate e scaricate non raggiungerà i livelli dell’anteguerra, neppure nel 1922(8). Nei primi mesi del 1919 il pane, i grassi, il riso, la pasta, lo zucchero e la farina sono ancora razionati(9). Il livello degli affitti delle case — per un operaio medio «qualificato» — è invariato rispetto all’anteguerra, ma il costo degli alimenti è quadruplicato e quello del vestiario, del riscaldamento e della luce quintuplicato. Il pesce, principale nutrimento, costa ormai quanto la carne. Il costo della vita continuerà a salire e solo nel 1921 ci saranno i primi segni di stabilizzazione(10).
Nel dopoguerra si ha una ripresa dei conflitti sociali e forme spontanee di rivolta contro il carovita. Scendono in piazza i postelegrafonici (novembre 1918, aumenti salariali), gli arsenalotti (gennaio 1919, limite delle otto ore lavorative), le tabacchine (luglio, migliori condizioni igieniche), gli operai dei cantieri navali (agosto-settembre, aumenti salariali), i lavoranti fornai (dicembre, sciopero nazionale contro il lavoro minorile e notturno). Sono in agitazione anche gli impiegati comunali che denunciano «lo stato borghese», colpevole di imporre «obblighi di decoro e convenienze sociali», senza dare salari sufficienti. Non inquadrate in associazioni, sono le dimostrazioni delle «resistenti» — le donne rimaste a Venezia durante la guerra — davanti al Municipio, alla prefettura e al patriarcato, con sfondamento dei cordoni di polizia, per ottenere sussidi (marzo 1919); le «manifestazioni di massa» alla Giudecca contro il caroviveri (luglio); l’assalto — da parte di donne — dei negozi della pescheria di Rialto (luglio). Il periodo registra anche almeno due serrate: quella dei macellai contro il calmiere dei prezzi (febbraio-marzo) e quella dei proprietari di sartorie in solidarietà con uno di loro che aveva operai in sciopero (luglio-agosto). Questo per fare solo alcuni esempi dell’esasperazione che attraversa la città(11).
Ci sono però anche conflitti e malumori che sfuggono alle categorie della lotta economica e di classe, e che rientrano in un paradigma nuovo. Tutti — anche quelli che non hanno combattuto — sono infatti a loro modo reduci della guerra. Perciò nel 1918-1919 ci si definisce o si viene definiti «profughi», «resistenti», «ex combattenti», «reduci», «volontari», «mutilati». Conta dunque soprattutto dove si era durante quell’esperienza traumatica. Ognuno cerca di ritagliarsi un ruolo, non solo per rivendicare sussidi e diritti, ma anche per valorizzare i propri sacrifici, farsi una ragione degli eventi, recriminare e difendersi dalle recriminazioni. Le pagine de «Il Gazzettino» sono il luogo ideale dove captare questi umori: un ardito rivendica il ruolo del suo reparto; un impiegato disoccupato si chiede se sia giusto che lui, che ha combattuto in prima linea, resti «a spasso» e sia deriso(12). C’è chi pensa che la guerra abbia fornito un modello di unità e disciplina, nel quale non contano le parole e il dialogo ma l’azione. C’è chi maledice la guerra, e chi lo fa è lo stesso intaccato da quella esperienza estrema, che assume comportamenti violenti e usa parole d’odio. Gli sputi e le angherie contro gli ufficiali in divisa sono un fenomeno comune, soprattutto nei quartieri popolari. Ne sono testimoni gli autori di memorie veneziane: il socialista Girolamo Li Causi, il repubblicano Armando Gavagnin e il fascista Vicentini. Secondo il primo si tratta di una cosa che in laguna è più diffusa che altrove: luogo di retrovia durante la guerra, qui le donne e gli operai con i figli e i fratelli al fronte vedevano gli ufficiali svagarsi e bere ai caffè. In queste faccende conta anche lo schieramento che uno aveva assunto verso la guerra, prima dell’entrata nel conflitto(13).
I malesseri economici e psicologici pesano sull’associazionismo e sui programmi dei partiti che si preparano per le elezioni politiche a suffragio universale maschile del novembre 1919. Le forze che si appellano al «popolo», assumono linguaggi e si fanno portatrici di temi simili a quelli socialisti: non solo l’Associazione democratica radicale (rifondata già nel 1918) ma anche il P.P.I. (Partito Popolare Italiano) di don Giovanni Bertanza(14).
Nel marzo 1919, cessato lo stato di guerra che aveva sospeso i diritti civili, il P.S.I. (Partito Socialista Italiano) si riorganizza e la Camera del lavoro riprende le fila del movimento sindacale. Torna a stampare «Il Secolo Nuovo». I temi prevalenti sono: la battaglia per le otto ore, la difesa della rivoluzione bolscevica e la discussione sul suo significato. Il movimento ridiscende in piazza: il 1° maggio si tiene una grossa manifestazione a S. Marco che inneggia alla Russia dalla quale si chiede il ritiro dei soldati italiani. Si vuole la piena smobilitazione, il ripristino dei diritti civili e politici, l’amnistia per i reati politici e militari. A luglio ha luogo uno sciopero generale in difesa della rivoluzione e contro il trattato di Versailles, al quale aderiscono arsenalotti e tabacchine. Nella sezione cittadina, come a livello nazionale, prevale la corrente massimalista-serratiana che pensa che il trionfo della rivoluzione sia prossimo. Dal lato pratico significa parole di fuoco contro la borghesia e attesa che gli eventi facciano il loro corso: nessuna alleanza con gli altri partiti, ma nessuna fattiva preparazione per la conquista del potere o tentativo di trasformare le manifestazioni economiche in insurrezione. Punto centrale però delle manifestazioni di maggio e luglio è anche la condanna della Grande guerra come frutto dell’imperialismo, combattuta nell’interesse della borghesia, e l’accusa agli ufficiali e allo stato maggiore di aver fucilato e maltrattato la truppa, cosa che toglie qualsiasi legittimità morale a chi si sente fiero di aver combattuto, rendendo correo del «massacro proletario» chiunque esibisca i simboli combattentistici. Il P.S.I. reclama una diversità irriducibile — anche nel pacifismo — come vero e unico rappresentante delle masse(15).
Contemporaneamente si sviluppa un associazionismo «politico patriottico militare», per lo più legato ad associazioni a carattere nazionale, il cui scopo è difendere la guerra, la vittoria e gli interessi dei combattenti: associazione invalidi, associazione combattenti, associazione arditi. Il Fascio veneziano di combattimento nasce ad aprile, proprio in questo contesto, anch’esso come iniziativa dentro a una rete associazionistica nazionale in stato nascente. Mussolini, o chi per lui, incarica il soldato Amedeo Giurin, veneziano residente a Milano, di raccogliere adesioni al manifesto di S. Sepolcro in alcune città venete. A Venezia lo fa con l’aiuto di Edgardo De Blasio, uomo nuovo alla politica, originario di Foggia, professore di ginnastica e pubblicista de «Il Gazzettino». Non è un volontario, né un ardito: richiamato alle armi più che quarantenne, come sottufficiale presta servizio di vigilanza sui vaporetti(16). Stando ai nominativi citati da Vicentini, a rispondere agli appelli pubblicati sui principali giornali cittadini sono uomini dei quali sappiamo poco, ma che provengono dal combattentismo piuttosto che dall’interventismo(17). Forse proprio per questo nei primi documenti mancano riferimenti al maggio 1915, presenti invece nelle dichiarazioni di S. Sepolcro(18).
Nel programma che Giurin fa circolare assieme alla scheda di adesione, ci si rivolge esclusivamente a «smobilitati e smobilitandi, reduci prigionia, famiglie morti, prigionieri e dispersi» proponendo l’unione per la difesa dei propri diritti, per far propaganda contro i bolscevichi e «l’indolenza» delle classi dirigenti e per sostenere alcune politiche proposte a S. Sepolcro, tra le quali, «essendo la stragrande maggioranza degli ex combattenti proletaria e lavoratrice», il limite delle otto ore e l’esproprio totale dei sovraprofitti di guerra. Nella lettera che accompagna il programma e la scheda, Giurin propone di fare del Fascio una confederazione che unisca non solo individualmente gli ex combattenti ma tutte le associazioni combattentistiche dietro a un programma che mescola la difesa degli interessi dei reduci con un antibolscevismo radicale, nel quale, anzi, «propaganda ed azione antibolscevica» vengono dichiarati come «primo caposaldo»(19). Del resto, nel primo appello del Fascio apparso sul giornale conservatore «Gazzetta di Venezia» l’enfasi batte tutta su quest’ultimo tasto: dal bolscevismo bisogna difendere i risultati della vittoria; non si deve smettere lo sdegno contro gli internazionalisti che inquinano le masse e sono incapaci di difendere «le sofferenze proletarie» perché non hanno neppure difeso le proprie donne dal «barbaro» invasore(20). Sono parole non distanti da quelle dell’appello della sezione veneziana dell’Associazione nazionale combattenti, pubblicato alcuni giorni dopo, il quale oltre che di tutela degli interessi dei reduci parla di difesa de «l’integrità della vittoria contro tutti i nemici e contro tutti gli ostacoli proclamando il dovere nazionale sopra tutti i diritti e sopra tutti i partiti»(21). L’Associazione combattenti però si astiene in questo caso dal dare un volto agli avversari. Qui forse sta la caratteristica del Fascio, il suo essere prima di tutto reazione al bolscevismo. Bolscevismo e non socialismo, perché quello che viene attaccato — in quel momento — è l’intransigentismo classista e internazionalista e non il movimento operaio, né il patrimonio di idee di riforma ed emancipazione socialista in quanto tale. In altre parole, i nemici sono i «falsi proletari scioperomani» e i socialisti che non hanno inteso il significato della guerra. Del resto, — come si è detto — le «più sane aspirazioni socialiste» restano un punto di riferimento per le forze che vogliono parlare al popolo. E, per giunta, in molti esponenti della «sinistra patriottica» e dello stesso fascismo resterà a lungo viva la speranza che l’esperienza in trincea possa aver reso sensibili molti simpatizzanti e militanti socialisti agli «ideali nazionali»(22).
A maggio il Fascio — che ha un consiglio formato da un rappresentante dei mutilati, uno dei prigionieri e uno degli smobilitati(23) — diffonde un programma di sinistra, che propugna, tra l’altro, il suffragio universale esteso alle donne e la partecipazione dei lavoratori nella gestione delle aziende industriali e contadine, tant’è che quando viene presentato a un’assemblea pubblica suscita l’intervento di un socialista che chiede: «se il programma è simile a quello socialista, perché valersene contro il socialismo?»(24). Questi contenuti con chiare indicazioni politiche però sembrano importati da Milano o presi in prestito dai democratici, mentre là dove è più evidente una genuina elaborazione locale — come nell’appello sul «Gazzettino» di agosto, nel quale il Fascio viene definito «all’avanguardia dei partiti di sinistra» — si viaggia su contenuti astrattamente e qualunquisticamente ‘morali’, non per questo meno sentiti. Il Fascio viene presentato come movimento salvifico ed educativo in una situazione di degenerazione assoluta, con il compito di «additare a tutte le classi sociali i loro doveri morali e civili», contro tutte le ingiustizie, le menzogne, gli arrivismi, le camorre, l’ozio e lo spreco «nel governo e nelle pubbliche amministrazioni, nei ricchi gaudenti e nei falsi proletari scioperomani, nei burocrati degli uffici e delle caserme, nei parassiti mai sazi di succhiare sussidi»(25). Traspare qui quello che probabilmente è l’obiettivo primario, in questa fase: affermare un’identità — fondata sull’esperienza della guerra — che si pone al di fuori delle classi e dei partiti, collocandosi nella sfera transpolitica o forse, meglio, prepolitica, perché ‘esistenziale’ (basata su una esperienza di vita, vissuta in un certo modo). Ne è riprova anche l’assenza di riferimenti espliciti alla questione adriatica. La stessa partecipazione del Fascio alla manifestazione pro Dalmazia del 25 aprile 1919 (su cui ritorneremo più avanti) — con lancio di volantini dal campanile di S. Marco — è occasione per proporre il programma sindacale-combattentistico e antibolscevico, più che l’intransigentismo adriatico che caratterizzerà il Fascio soltanto dopo (e nemmeno subito dopo) che D’Annunzio si metterà a capo dell’impresa fiumana(26).
Ben presto entrano a far parte del Fascio esponenti con un passato politico conosciuto, come gli avvocati Marsich e Raffaello Levi, che militavano e militano ancora nelle file democratico-radicali. Il travaglio politico della sinistra non-socialista dell’anteguerra e la natura dell’interventismo militante — come abbiamo scritto altrove — spiegano l’adesione al fascismo di questa componente, le relazioni del Fascio con l’establishment, la linea di Marsich, le mosse di Giuriati, i rapporti con D’Annunzio; inseriscono il Fascio nel contesto di lungo periodo della storia di Venezia, con i suoi conflitti politici e sociali(27).
Prima della guerra, Venezia, al contrario di altre città venete, non aveva visto la formazione di una stabile alleanza di sinistra, perché non correva buon sangue tra i democratici e i dirigenti socialisti. Levi, come del resto Giuriati (del quale non si sa se abbia aderito al Fascio prima o dopo la marcia di Ronchi), era sia nel gruppo nazionalista che in quello democratico, non sentendosi in realtà completamente a proprio agio in nessuna delle due associazioni. La polemica contro il pacifismo e gli scioperi socialisti lo avevano portato, sempre insieme a Giuriati, a farsi promotore, nel 1912, di un’alleanza elettorale tra cattolici, liberali-conservatori, nazionalisti e democratici-costituzionali(28). Marsich è di pasta diversa. Secondo lui, il suffragio universale e «gli errori» dei leaders del P.S.I. offrivano invece la grande occasione per rilanciare la democrazia come forza autonoma in grado di recuperare il rapporto con le masse e trasformare «il socialismo da manifestazione economica in manifestazione sentimentale e morale», assorbendo il socialismo riformista e il cattolicesimo non-temporalista in un radicalismo sociale e in un nazionalismo antimperialista di stampo mazziniano(29).
La chiamata alle urne del marzo 1912 aveva però impresso una svolta nella politica locale. Si trattava di elezioni straordinarie in seguito alle dimissioni del deputato socialista Elia Musatti che cercava, nel collegio Castello-Dorsoduro, roccaforte rossa di arsenalotti e portuali, un riscontro elettorale alla sua politica contro la guerra libica, dopo il fallimento di uno sciopero pacifista. Le elezioni le vinceva lo storico democratico Pietro Orsi, candidato della coalizione promossa da Giuriati e Levi. La novità non era il successo della messa in campo di un’alleanza al solo scopo di contrastare i socialisti (la giunta clerico-moderata del conte Filippo Grimani, nata per escludere dal potere i laici, aveva ormai assunto questa stessa funzione), ma la sua ampiezza: un sintomo della minore importanza che ormai rivestiva per molti il conflitto laici-cattolici di fronte all’incalzare socialista e probabilmente di una crescente integrazione tra le élites. Le elezioni del 1912 però vedevano anche l’entrata del linguaggio nazionalistico nelle dispute politiche. Il candidato del P.S.I. non veniva più rappresentato soltanto come nemico delle istituzioni ma era diventato anche il nemico della patria, «l’anti-italiano»(30).
Dopo lo scoppio della guerra (1914), il P.S.I. scendeva in campo in favore della neutralità con comizi e propaganda. Piazza S. Marco diventava luogo di bastonature tra giovani socialisti e studenti (medi e universitari) «nazionalisti» che manifestavano per la guerra(31). La violenza nelle piazze costituiva un atto extraparlamentare e antigovernativo, oltreché illegale, ma i giovani interventisti non erano affatto isolati, le loro azioni si svolgevano sotto gli occhi comprensivi dei comitati patriottici presieduti da conti, contesse, signori e signore della buona società e dai professori (in primis proprio Orsi) che li avevano educati al culto di una patria costruita attraverso il sangue dei martiri del Risorgimento(32). A fare da trait d’union tra questi e quelli, non erano stati né il gruppo nazionalista, né le associazioni democratiche, ma due associazioni che erano espressione di un nazionalismo irredentista, unitario, etnico, e si dichiaravano al di sopra di tutti i partiti: la Dante Alighieri con la sua presenza capillare nelle scuole e la Trento e Trieste che dal 1913 aveva sede nazionale a Venezia con un proprio giornale, «La Voce della Patria», anch’essa con un’attiva sezione studentesca, anche se di più tarda fondazione. Marsich era presidente della sezione studentesca cittadina della Dante Alighieri, e, poi, membro del consiglio nazionale della Trento e Trieste, che era presieduto, nella seconda metà del 1914, da Giuriati(33).
Tutto questo si era mosso in un determinato humus. Venezia era una delle città dove più facilmente i miti locali si erano saldati con l’irredentismo e l’imperialismo adriatico. C’era stata fin da subito la diffusione — non solo nella Pro Venezia Giulia, nel gruppo del Mare Nostro e nelle associazioni sportive, ma persino nell’Associazione nazionalista locale — di un interventismo antitriplicista(34). Già nel periodo immediatamente successivo all’Unità, i legami storico-geografici con il mare Adriatico venivano visti come prova del destino portuale e commerciale della città nella nuova Italia e usati per chiedere al governo lo sviluppo del porto e dell’Arsenale. Dai primi del Novecento il patrimonio simbolico della città era diventato rilevante anche come fondamento per la difesa dell’italianità nelle terre austriache e per le pretese italiane di controllo dell’Adriatico. D’Annunzio, il conte Piero Foscari e Attilio Tamaro (questi ultimi due, esponenti del nazionalismo politico) erano stati tra quelli che lavorarono maggiormente in questo senso, mentre sul versante economico premeva il gruppo di Giuseppe Volpi con interessi in Montenegro(35). Tamaro illustrava esplicitamente i vantaggi anche commerciali che Venezia avrebbe ottenuto con l’annessione della Dalmazia(36). In Foscari la rivendicazione dell’italianità nell’Adriatico si saldava implicitamente con il progetto del porto industriale a Marghera(37).
Un rapporto al Ministero degli Interni del marzo 1919 non annovera Venezia tra i principali centri di propaganda pro Dalmazia, forse perché l’associazionismo non si è ancora ripreso dalla guerra(38). Qualche manifestazione studentesca però c’era già stata(39). Anche il 30 aprile gli studenti medi si astengono dalle lezioni, e la sera vanno a palazzo Faccanon ad ascoltare i propri professori che parlano sul tema dell’annessione di Fiume e della Dalmazia all’Italia, auspice ancora una volta la Dante Alighieri(40). L’agitazione adriatica inoltre aveva preso e prende corpo nei due principali giornali cittadini e in manifestazioni officiate dalle autorità locali. Basti citare la cerimonia di consegna, nel novembre 1918, da parte di alcuni «irredenti» del velivolo «Nazario Sauro» alla squadriglia aerea «San Marco», fondata da D’Annunzio, con donazione di una targa d’oro raffigurante il Leone alato; la partecipazione di Grimani, un mese dopo, come uno dei principali oratori al congresso adriatico di Ancona, al quale intervengono rappresentanti istriani e dalmati; la manifestazione del 25 aprile 1919, promossa dall’associazione S. Marco, da poco istituita da elementi dell’aristocrazia e dell’alta borghesia veneziana, per la festa del patrono e l’inaugurazione della basilica (ripristinati i cavalli di bronzo e liberata la facciata dalle protezioni antiaeree). In quest’ultima occasione è lo stesso Grimani a proporre un ordine del giorno, approvato per acclamazione, nel quale «il popolo adriatico nel giorno propiziatore S. Marco […] nel nome del suo diritto più sacro e del suo sangue più puro reclama la unione alla patria dell’Istria con Fiume e della Dalmazia con Spalato giurando solennemente il patto indissolubile della fraternità italica»(41).
Già da questi pochi esempi appare evidente da un lato l’uso inflazionato del simbolo marciano e dall’altro il ruolo centrale che ormai ha assunto D’Annunzio, che parla — applauditissimo — anche nella manifestazione di aprile. Il Leone alato rappresenta con efficacia le pretese adriatiche. Si usa la storia di Venezia per rivendicare l’italianità dell’Adriatico orientale: Foscari parla di riscossa su Campoformido(42). Nel giugno 1918, il Comune, insieme alla Dante Alighieri e alla Trento e Trieste, decide di donare alla città istriana una lapide con il Leone(43). Quasi un tentativo di correggere la storia: Fiume è priva dell’icona marciana perché non era mai stata parte della Serenissima. Persino il socialista Musatti viene contagiato dall’inflazione leonesca. Nel primo consiglio comunale dopo la fine della guerra, ne fa un uso a suo favore, rovesciato e pacifista, citando il motto «Pax Tibi, Marce»(44).
Dopo La Nave e Il Fuoco, i rapporti di D’Annunzio con la città si erano ulteriormente stretti per le vicende che lo avevano visto protagonista e che era stato in grado di ammantare di un’aura di mito: la difesa antiaerea, la squadriglia di aeroplani, la beffa di Buccari (il Mas era salpato dalla Giudecca)(45). D’Annunzio aveva scelto di alloggiare nella Casetta rossa presa in affitto dal principe di Hohenzollern ed era ormai diventato il massimo sacerdote del culto della patria e della vittoria: richiestissimo a tutti gli eventi pubblici, commemorazioni e comizi. Tra il gennaio e il settembre 1919 intrattiene intensi rapporti con esponenti politici del «nazionalismo» veneziano: oltre a Giuriati, Marsich, Levi e Giovanni Chiggiato. Marsich, riformato dal servizio militare, durante la guerra era stato uno degli animatori del Comitato di resistenza interna, presieduto dall’avvocato Amedeo Massari. Il Comitato si era espresso in favore della difesa ad ogni costo di Venezia e aveva anche chiesto la formazione di un governo di unità nazionale(46). Nel dopoguerra Marsich si occupa, per conto della Trento e Trieste, della ristampa della Lettera ai dalmati pubblicata per la prima volta in assoluto dalla «Gazzetta di Venezia»; gli mette a disposizione la segretaria dello studio di avvocato per la trascrizione dei discorsi; si fa latore di inviti a parlare a Fiume e a Trieste; esprime solidarietà per il vietato comizio dell’Augusteo esprimendogli «fede fervida e costante»; diffonde i suoi opuscoli e scambia con lui pubblicazioni(47). Levi viene incaricato da Giuriati di chiedere a D’Annunzio un incontro con Mussolini e di portare da Trieste la lettera con cui si chiede la formula di giuramento dei futuri legionari. La Trento e Trieste, che ha già un agente a Fiume, è l’organo di reclutamento dei volontari per conto del Consiglio nazionale fiumano ancora prima della spedizione(48). Chiggiato, che educa i figli leggendo loro i discorsi di D’Annunzio, farà in modo di assistere di persona il 12 settembre 1919 all’entrata dei legionari a Fiume(49).
Dopo che Venezia era stata teatro della spedizione degli ‘argonauti’ che, su mandato del Consiglio nazionale italiano, erano venuti a chiedere l’invio di navi italiane per proteggere la città istriana dalle rivendicazioni jugoslave, ora diventa dunque scenario per la preparazione dell’impresa fiumana. La Casetta rossa è meta di dalmati e istriani per tesserne le trame. La decisione definitiva verrà presa solo a luglio, dopo un abboccamento con Giuriati — reduce da un periodo a Roma dove era stata trasferita in via definitiva la sede centrale della Trento e Trieste —, il quale, già prima dell’entrata in guerra, era stato tra i protagonisti di una mai realizzata spedizione al confine con l’Austria-Ungheria per creare un casus belli(50).
Nonostante Marsich e Giuriati siano così vicini a D’Annunzio, il Fascio sembra avere un ruolo minimo in questo scenario. Non viene considerato ancora il luogo principale dove agitare queste questioni. La partecipazione dello stesso Marsich alla vita del Fascio appare marginale. Ancora nel luglio 1919, la commissione esecutiva era formata prevalentemente da persone a noi poco note, tranne Levi, forse in rappresentanza dell’Associazione combattenti (di cui è o è stato presidente) secondo la logica confederativa espressa da Giurin(51). In essa figura invece un ardito, Domenico Acerbi, il quale, diffusasi la notizia di una spedizione, chiede a D’Annunzio di non essere lasciato fuori. Non è certo un politico, ma un uomo, come si sarebbe detto, «di fede» e di prima linea. Il suo percorso lo conferma. Dopo esser stato ufficiale legionario a Fiume, negli anni Trenta parte come missionario domenicano in Brasile(52). Questa pulsione volontaristica, questo voler essere a tutti i costi là dove si combatte e si agisce, accomuna molti di quei soldati che disertano per mettersi al servizio del Comandante. Non obbediscono più al governo, ma ai superiori che simpatizzano con le idee nazionaliste. Si sentono al di sopra della legge, sebbene spesso reclamino di voler riaffermare lo Stato. In una manifestazione tenutasi a Roma nel luglio 1919 — presieduta da Giuriati e citata da Gaetano Salvemini — si protesta contro la polizia che aveva fermato alcuni ufficiali in divisa che volevano dimostrare sotto la casa di Nitti: i manifestanti non tollerano che semplici poliziotti agiscano contro dei superiori di grado, anche se di altre armi e nonostante la dimostrazione non fosse autorizzata(53). Il «disobbedisco» di D’Annunzio fornirà loro una giustificazione morale. I più giovani — i «fratelli minori» dei combattenti che ingrosseranno le file del Fascio e forniranno il nerbo delle squadre — mutueranno, a loro modo, tale comportamento.
Come previsto da Giurin e come gli altri Fasci, nei primi mesi di vita quello veneziano svolge soprattutto attività di propaganda: qualche comizio e manifestazione estemporanea che termina in piazza S. Marco. Mario Baseggio, fiduciario per i rapporti col Comitato centrale, il 21 agosto, in una sua relazione fa sapere che il Fascio «languisce», paralizzato da mancanza di mezzi, «dissidi» personali ed «equivoci» e che solo durante lo «scioperissimo» di luglio si è animato, decidendo — ma questo lo dice Vicentini — «la costituzione di squadre di vigilanza e di protezione», contro l’ostracismo dei simpatizzanti socialisti(54). Nuove opportunità però si aprono con la marcia di Ronchi.
Partito da Mestre in automobile, postosi al comando di volontari e granatieri dislocati a Ronchi (Gorizia), D’Annunzio entra, il 12 settembre 1919, a Fiume, dove, su delega del Consiglio nazionale, istituisce un governo militare. Da quel momento, Venezia diventa uno dei principali centri di smistamento di uomini e aiuti diretti verso la città istriana. Le autorità impongono una stretta vigilanza (pedinamenti, controlli, fermi). Tre rimorchiatori bloccano le bocche di porto per controllare i natanti in uscita. D’Annunzio manda un suo emissario, Amaro Sanguinetti, per coordinare le comunicazioni tra Fiume e l’Italia, ma viene presto arrestato. Alloggiava in casa del conte Foscari: nella sua stanza la polizia trova bombe e carteggi. La rete cittadina che sostiene l’impresa, secondo il prefetto, «è fittissima» e coinvolge molti ufficiali della marina e dell’esercito. Alcuni di loro tentano di portare a Fiume anche mezzi militari. Il 24 un tenente riesce a fuggire da Forte S. Andrea con un idrovolante da caccia(55).
Tra i volontari che, soprattutto in treno, raggiungono Fiume, ci sono anche dei veneziani. Dai fogli matricolari della legione volontari «Fiume o morte» e della milizia fiumana del 1919-1921 risultano oltre 2.900 reclute, delle quali circa 1.300 nate e residenti a Fiume e 1.600 nate e/o residenti nelle più disparate località d’Italia, inclusi i piccoli comuni. Sono 35 i nati e/o residenti a Venezia, tra i quali, 10 sono residenti a Fiume (è possibile che tra questi, alcuni siano degli emigrati per lavoro), 11 sono studenti e 11 artigiani, meccanici, elettricisti o operai. Quasi la metà ha meno di 20 anni. La maggior parte è stata arruolata nel 1919, soprattutto tra settembre e novembre. Dai fogli matricolari degli ufficiali, che fanno numero a parte, su un totale di 145 nominativi, risultano due veneziani: l’ardito Acerbi e lo studente Luigi Del Negro. Tra ufficiali, legionari e miliziani veneziani, i fascisti certi sono soltanto tre: Acerbi, Baseggio e Giovanni Bortoluzzi. Quest’ultimo, studente nautico, viene espulso dopo solo due settimane di servizio. I dati sono più rilevanti in termini comparativi che assoluti, perché non comprendono tutte le persone che hanno servito il governo militare di D’Annunzio: né gli autori di azioni di fiancheggiamento — come il furto di armi operato in territorio nazionale — che si considerano anch’essi ‘legionari’ (per esempio Lanfranchi), né quei personaggi che pure sono stati per un periodo anche lungo a Fiume, come il tenente Marco Allegri — figlio del sindaco di Mestre e fratello dell’eroe-aviatore Fra’ Ginepro — e Giuriati che da subito diventa capogabinetto del governo militare. Venezia risulta la quarta città nel Regno d’Italia a fornire il più alto numero di volontari e miliziani dopo Trieste, Milano e Roma(56).
Il prefetto non deve essere lontano dal vero quando, subito dopo la marcia di Ronchi, scrive al Ministero che gli avvenimenti fiumani a Venezia sono «seguiti con la più viva simpatia, pur comprendendosi […] il colossale imbarazzo procurato al governo e i pericoli immani derivanti al paese per causa della spedizione»(57). Proprio questa comprensione rende più difficile, ora, prendere posizione. La «questione fiumana», per come si è posta, rischia di dividere più che unire il fronte patriottico, ma è per questo che si apre al Fascio la possibilità di svolgere un ruolo di avanguardia. Nessuna grande manifestazione — sul tipo di quella del 25 aprile — dunque accoglie l’impresa di Fiume, nessun «nu con ti» forte e chiaro, come chiede D’Annunzio(58). Soltanto parole di solidarietà e, il 12 settembre, gruppi di giovani che inscenano una manifestazione notturna tra la Piazza e il monumento a Vittorio Emanuele; il 13, fascisti e ufficiali che rispondono alle «grida sovversive» provenienti da un gruppo di socialisti, impegnandosi «in un tafferuglio con scambio di pugni e bastonate» in piazza S. Marco; il 19, richieste di inni patriottici alle orchestrine di piazza S. Marco e al Teatro Rossini. Poi, il 20, un migliaio di persone portano corone di fiori ai monumenti a Vittorio Emanuele e a Garibaldi e, in seguito a un grido di «abbasso Fiume» rivolto ad alcuni arditi in uniforme che rientrano a casa, tafferuglio con ferito da arma da taglio(59).
Il Fascio si trova improvvisamente al centro degli eventi, per via dei volontari che si recano in sede per chiedere aiuto a raggiungere Fiume. Ma questo, in un primo tempo, viene vissuto dai fascisti più come un peso. De Blasio infatti chiede al segretario nazionale Umberto Pasella che venga frenata la partenza di volontari, per timore di «seri imbarazzi politici e finanziari». Pasella gli dà ragione(60). D’altronde, nonostante le dichiarazioni nettamente favorevoli all’impresa, è proprio Mussolini ad adottare un atteggiamento cauto, suscitando l’irritazione di D’Annunzio(61).
A ottobre, Marsich entra nel Comitato centrale dei Fasci e viene incaricato, insieme all’avvocato con cui divide lo studio — Bruno Gallo — e ad Annibale Dorigo, di riorganizzare il Fascio veneziano(62). Si avvarrà del suo carisma e del suo ruolo nazionale, più che di ruoli istituzionali all’interno del Fascio, per affermare la sua leadership locale. A questo punto però le attenzioni sono rivolte verso le elezioni politiche di novembre. Il Fascio appoggia la lista di Democrazia Sociale, nuova compagine che unisce repubblicani, democratico-costituzionali e radicali, e che ha anche un suo organo di stampa, «Il Popolo». In altre parti dell’Italia centrosettentrionale, molti sono i Fasci che aderiscono alle liste liberali antigovernative(63). Oltre alla comunanza di uomini, qui pesa il fatto che i democratico-sociali riescono a rappresentare le aspirazioni del combattentismo, ottenendo pure il sostegno dell’Associazione combattenti. I democratico-sociali sono convinti che l’interventismo pagherà elettoralmente perché l’esperienza della guerra ha cambiato la psicologia delle masse e si sentono i veri interpreti di un riformismo che ha trovato ulteriore forza nelle trincee.
Le elezioni, in città, vedono una vittoria socialista (9.883 voti, circa il 50% del totale), una buona affermazione del blocco democratico, che si attesta al secondo posto (3.329 voti), seguono i liberali e i nazionalisti (3.200 voti) e il P.P.I. (3.156 voti), in netto contrasto con il dato provinciale che lo vede secondo partito(64). Il risultato viene vissuto dai democratici come un successo. Rispetto all’anteguerra si tratta di un balzo in avanti. Ma se il progetto era erodere la forza del partito socialista, si tratta di un fallimento: la guerra sembra, anzi, averlo rafforzato. Il periodo successivo alle elezioni apre una crisi all’interno del fascismo, anche a livello nazionale: una stagione di ‘riflusso’ e perdita di senso. Molti abbandonano la militanza, alcuni Fasci cessano l’attività(65). Il Fascio veneziano viene investito da questa crisi, però sopravvive mantenendo una relativa continuità di uomini. Le elezioni sono uno shock anche per gli uomini al potere. Già prima della chiamata alle urne, Grimani — fallita l’alleanza con i cattolici — aveva rassegnato le dimissioni(66). Si chiude un’epoca, dopo ventiquattro anni di governo cittadino. A dicembre il Comune viene commissariato, mentre monta la paura del socialismo. Come vedremo non è che il preludio di una inversione di rotta e di una nuova serrata antisocialista, questa volta però in regime di suffragio universale maschile.
Anche la situazione a Fiume è difficile. Mutano gli equilibri interni al governo militare. A novembre, Giuriati e altri — su incarico di D’Annunzio — concordano un modus vivendi col governo Nitti, che il Consiglio nazionale accetta. Ma, cedendo alle proteste dei legionari, il Comandante indice un plebiscito, appellandosi alla volontà dei fiumani. Lo spoglio delle urne viene sospeso per le contestazioni e le violenze legionarie. D’Annunzio, senza alcun preavviso, rifiuta il modus vivendi. Foscari, che si era recato a Fiume per convincerlo a ratificarlo, viene fatto oggetto di scherno. Giuriati si dimette da capogabinetto(67). Tornato a Fiume dopo un breve viaggio, Levi scrive al Comandante: «Trovo un’atmosfera di sedizione che mi addolora profondamente. Temo che l’impresa possa perdere quel meraviglioso fascino che essa avea destato in tutti noi»(68). La crisi non è però un preludio al distacco dei ‘nazionalisti’ Foscari, Giuriati e Levi da D’Annunzio. Giuriati continua a operare su incarico del Comandante: subito dopo le dimissioni da capogabinetto è a Zara con una legione di volontari, a gennaio è a Parigi per trattare alla conferenza di pace a nome del governo fiumano (dove non sarà però ricevuto), a febbraio a Roma per trattare con la massoneria, a luglio è a Venezia a firmare un accordo antijugoslavo con albanesi, croati e montenegrini(69). Levi, invece, già il 3 gennaio scrive: «Sarò a Fiume martedì sera: tornerò pieno di entusiasmo. Ebbi ottime notizie da Marsich: godo assai della calma e della fermezza a Fiume. Anche se in passato ci poterono essere dissensi, ora non c’è che una cosa da fare: resistere fino alla vittoria! e tutti dobbiamo cooperarvi»(70).
Marsich — in una lettera a D’Annunzio del 28 gennaio — si offre volontario(71). Una improvvisa conversione al fiumanesimo integrale? Un cambiamento di rotta? Non si direbbe. Sembra piuttosto la presa d’atto di aver esaurito la sua funzione a Venezia e il pensare di essere più utile a Fiume. Difficile dire se questo sia collegato all’avvenuta svolta a sinistra con l’uscita di Giuriati e la nomina di Alceste De Ambris a capogabinetto. Certamente è in risposta alla chiamata di D’Annunzio per nuovi volontari, data la loro scarsezza, tanto che il Consiglio nazionale il 24 gennaio impone il servizio militare obbligatorio(72). La scelta inoltre coincide col distacco da Democrazia Sociale che — secondo l’ipotesi più attendibile — Marsich starebbe già maturando(73). Su tale distacco forse già pesa la decisione del congresso di gennaio di Democrazia Sociale di fondere le componenti del blocco elettorale in un organismo permanente che presto comincia ad assumere la fisionomia di partito progressista piuttosto che di alleanza-antipartito combattentistico-interventista, tanto cara a Marsich(74). Comunque ragioni di dissidio tra fascisti e democratico-sociali non tardano: a febbraio il Fascio contesta l’appoggio che i democratico-sociali danno allo sciopero dei postelegrafonici. Questa differenza si andrà via via estendendo, nel corso del 1920, arrivando a investire la posizione su Fiume e lo schieramento alle elezioni amministrative di ottobre(75).
D’Annunzio ringrazia Marsich dell’offerta, ma gli chiede di restare a Venezia a reclutare volontari(76). Vuole che Giuriati rimanga a Roma a svolgere la stessa funzione. Quest’ultimo preferisce tornare a Venezia, dove — dice — sarebbe più utile, perché gli è più facile muoversi e sarà sotto minore controllo da parte della polizia(77). Il reclutamento però si è fatto difficile per le defezioni e la fede «affievolita» anche tra gli stessi fascisti. Marsich sostiene che la situazione è persino più grave di prima della marcia di Ronchi, quando il Fascio era allo sbando(78). Da altre fonti sappiamo che, sin da dicembre, il comitato pro Fiume è «peggio che morto» e il presidente De Blasio non si fa vedere. Non avendo più presa il lato politico della questione fiumana, si è costretti a ricostituire il comitato, il cui scopo è raccogliere fondi, facendo ora leva su sentimenti umanitari, in nome del soccorso ai bambini di Fiume(79). Più volte Marsich fa presente a D’Annunzio il problema delle notizie false e confuse che circolano su Fiume in Italia (si parla di moti repubblicani e lo mette in guardia che a Venezia non tutti sono d’accordo). A Venezia, spiega, i legionari sono fatti oggetto di diffamazione da parte della stampa e della «voce pubblica»(80). Sostanzialmente, almeno i primi quattro mesi del 1920 sono tempi duri per il fiumanesimo.
Note positive invece giungono il 1° giugno, secondo Marsich, essendo avvenuta «una trasformazione profonda» nel paese. Ora — afferma — «anche i più sonnacchiosi si destano». Questo, dopo che a Roma il 24 maggio c’erano stati scontri tra guardie regie e studenti nazionalisti, con alcuni morti e l’arresto di fiumani e dalmati. L’evento aveva riacceso i sentimenti antinittiani: il concomitante congresso dei Fasci a Milano — scrive compiaciuto Marsich — «non fu che un inno in favore di Fiume»(81). Il congresso verrà letto da De Felice come la svolta del fascismo verso la moderazione, soprattutto per via della rinuncia della pregiudiziale repubblicana(82). Marsich, evidentemente, non la ritiene una questione fondamentale: i suoi occhi sono puntati sulla delibera in favore dell’annessione di Fiume. Comunque, proprio a Venezia, in quei giorni, si erano verificati incidenti con i socialisti provocati da fascisti, nazionalisti e ginnasti che erano in città per via di un concorso. In una occasione, gli scontri erano avvenuti nel tentativo di impedire una manifestazione contro D’Annunzio(83). Un mese prima, il 24 aprile, c’era stato uno sciopero generale indetto dalla Camera del lavoro per protestare contro l’uccisione di un soldato da parte di un ufficiale, nel corso del quale si erano verificate aggressioni, assalti a caserme e sassaiole contro i militari. I soldati avevano sparato in aria. Un operaio era morto(84). Forti sentimenti antimilitaristi percorrevano ancora gli strati popolari vicini al P.S.I.
Vicentini racconta che a maggio vengono riorganizzate le squadre, «con criteri prettamente militari»(85). Subito prima Marsich aveva chiesto a D’Annunzio di poter riavere «otto o dieci fra i legionari veneziani» per affrontare una temuta insurrezione anarchica(86). Di possibili moti anarchici in città non c’è traccia nelle fonti di polizia. Il timore verrà risollevato ad agosto da Lanfranchi in una lettera a Cesare Rossi: alti gradi militari lo avevano informato di una possibile insurrezione del battaglione del genio lagunare, ritenuto «bolscevissimo». Il Comitato centrale non gli darà credito(87). Comunque Marsich pensa che sia giunto il momento di costituire gruppi paramilitari, che propone anche al congresso di Milano, ritenendoli un’utile palestra per i giovanissimi(88). Il primo vero banco di prova viene con l’acuirsi delle tensioni dopo l’incendio della tipografia de «L’Avanti!» a Roma e dell’Hotel Balkan a Trieste. Un gruppo di fascisti aggredisce un corteo socialista davanti al Caffè Florian. C’è un salto di qualità: l’uso di pistole e soprattutto il lancio di una bomba, che provoca 17 feriti, in gran parte tra i passanti(89). La cosa sorprende e spaventa tutti — non ci saranno rivendicazioni né, per il momento, una successiva escalation.
Questi scontri si situano nel contesto di una pressione sociale ancora altissima. Anche il 1920 infatti è un anno di scioperi, principalmente per aumenti salariali. La situazione è talmente grave che a marzo il prefetto Vincenzo Pericoli chiede l’autorizzazione di prelevare dal proprio conto corrente i fondi necessari al pagamento dei sussidi ai disoccupati, dato che il Comune li ha esauriti. Teme che questi si possano unire alle tabacchine e agli arsenalotti che sono in agitazione, creando una situazione insostenibile per l’ordine pubblico(90). Il partito socialista intanto è nel pieno di discussioni sui modi, sui tempi e sull’eventualità della formazione dei soviet. La possibilità di saldare l’agitazione economica con quella politica rivoluzionaria avviene però soltanto a settembre, con l’occupazione degli stabilimenti meccanici. Sei stabilimenti vengono occupati su direttiva F.I.O.M. (Federazione Italiana Operai Metallurgici): sul cantiere S.V.A.N. (Società Veneziana Automobili Nautiche) sventola la bandiera rossa «in vista dei passeggeri che transitano per il Lido o per l’Esposizione». Il P.S.I. locale attende però gli sviluppi nelle grandi città. La vicenda resta sul piano della vertenza economica, anche se comporta un’esperienza di autogestione e «Il Secolo Nuovo» la vede come un passo verso la «socializzazione delle fabbriche». Come a livello nazionale, la cosa si sgonfia e acuisce le divisioni tra le correnti all’interno del P.S.I. Già ad agosto Igino Borin aveva duramente criticato la leadership sulla questione dei consigli e sul mancato rispetto del programma della Terza internazionale (che prevedeva la conquista armata del potere). Era un preludio alla scissione comunista che avverrà poco più di tre mesi dopo le occupazioni, alla quale aderiranno molti giovani socialisti. La sezione veneziana del P.C.d’I. (Partito Comunista d’Italia) sarà persino in grado di aprire un proprio giornale, «L’Eco dei Soviet», nel febbraio 1921(91).
Nel 1920 il Fascio assolve a un nuovo ruolo: la sostituzione degli scioperanti nei servizi pubblici. Il caso più noto è quello dello sciopero dei vaporetti durante la stagione turistica. La cosa suscita molte simpatie tra gli albergatori(92). Era stato il Ministero degli Interni, per risolvere il problema della scarsità di forze d’ordine, a sollecitare il prefetto perché trovasse «studenti, pensionati, cittadini» che facessero funzionare poste e trasporti durante le agitazioni. Queste attività appaiono a molti come un servizio utile, tanto più che a fare volontariato con i fascisti, durante la vertenza dei postelegrafonici, ci sono pure le dame della Croce Rossa(93). Ma la cosa rischia di inficiare il diritto reale di sciopero e, come scrive il prefetto al Ministero degli Interni, spesso può aggravare la situazione dato che i volontari si offrivano per motivi politici(94). Soprattutto si aprono inedite possibilità di collaborazione con polizia e militari, verso le quali il Fascio manifesta disponibilità per azioni antibolsceviche(95). Lanfranchi, nella seconda metà del 1920, promuove la fondazione di Fasci nei centri rurali dell’entroterra che avranno funzioni repressive nei confronti dei movimenti contadini(96). Su questo capitolo di storia del fascismo veneziano sappiamo ancora poco, anche perché sembra ininfluente sulla vita interna del Fascio, che ha forti caratteri urbani. Le squadre non raggiungeranno mai — da sole — una forza dirompente e saranno assorbite, da un lato, nel conflitto contro i socialisti e, dall’altro, nella strategia fiumana.
L’avvicinamento alle classi dirigenti viene rafforzato dalla nascita di Alleanza Nazionale. Come si è detto, le elezioni del novembre 1919 avevano destato molte preoccupazioni. Fin da maggio, Giuriati si era mosso, proponendo all’assemblea di Democrazia Sociale di farsi promotrice dell’unità delle forze «nazionali» contro il «bolscevismo». Una volta fallita questa ipotesi, aveva promosso un incontro per lanciare la nuova associazione che doveva essere — secondo quanto ci racconta nelle sue memorie — «un collegamento occasionale, perciò transitorio senza altra bandiera che quella nazionale e con un programma apparentemente negativo» ovvero «combattere determinati principi contrari agli interessi economici e politici della nazione vittoriosa». Giuriati non aveva preso in considerazione il Fascio come possibile promotore del blocco antisocialista. Nei suoi Ricordi dirà che non l’ha fatto perché Mussolini e i suoi intendevano ordinare il movimento in partito(97). Ad Alleanza Nazionale aderiscono nazionalisti e fascisti, esponenti liberali e democratici (tra questi ultimi, Bordiga, Fioroli della Lena, Levi, Orsi). A settembre e ottobre si svolgono ferventi trattative che coinvolgono anche il patriarca (insieme ad Azione Cattolica e gran parte dei parroci, favorevoli a una larga intesa, pur volendo mediare tra le varie correnti). Viene così creata l’Unione per il rinnovamento cittadino che unisce Alleanza Nazionale, partito liberale e partito popolare. Il loro candidato è un democratico, il chirurgo Davide Giordano(98).
L’Unione ottiene 12.615 voti, battendo di stretta misura il P.S.I. che pure aumenta i suoi consensi (11.109 voti) rispetto alle elezioni del 1919. A uscirne sconfitta è Democrazia Sociale che non ha aderito al blocco e ottiene solo 1.950 voti(99). Rispetto alle elezioni del 1919, c’è un maggior numero di votanti. Più che esito di una crescente polarizzazione, se confrontiamo queste elezioni con le politiche del 1919 ma anche con quelle del 1921 (che vedranno una frammentazione politica senza precedenti), c’è da rilevare che è soprattutto nelle elezioni amministrative che si riesce a mettersi d’accordo su liste comuni. I partiti ‘borghesi’ cioè sentono particolarmente la questione del potere locale: una minoranza di democratici aderisce alle larghe intese a costo di spaccare il partito; i popolari riescono a sedare temporaneamente le divisioni interne, provocando il biasimo della segreteria nazionale, che considera l’operato della sezione veneziana in contraddizione con le direttive del partito. Persino il combattentismo si spacca tra Democrazia Sociale e Alleanza Nazionale, il cui segretario, Iginio Magrini, è il fondatore e il presidente dell’Associazione degli arditi e dei volontari di guerra(100). Questa situazione ha molte analogie con quella delle elezioni politiche straordinarie del 1912: per le persone coinvolte, la candidatura democratica e il fatto che — anche qui — la Democrazia è divisa. Solo che le divisioni questa volta sembrano definitive, l’appartenenza al Fascio diventa escludente, chi appartiene alla Democrazia e al Fascio si dimette o dall’una o dall’altro. Marsich ora è dalla parte del blocco d’ordine. Il Fascio infatti aderisce ad Alleanza Nazionale, sebbene Fiorioli della Lena — un fascista che nell’anteguerra era vicino al sindacalismo rivoluzionario — esprima gli stessi dubbi che aveva esposto nel novembre 1919, temendo che si tratti di un’alleanza solamente conservatrice e antisocialista(101).
Troppo facile però concludere che il Fascio veneziano sia ormai inevitabilmente incamminato nell’alveo della moderazione come molti altri Fasci, e non tanto perché la scelta venga considerata frutto di momentanee contingenze locali. Per Marsich, al contrario, si tratta di puntare in alto: fare in modo che il blocco non si limiti ad essere «espressione della paura della rivoluzione», ma «l’affermazione della volontà cosciente di tutti i cittadini i quali sentono che, contro lo Stato attuale e l’antistato socialista, bisogna comporre una terza forza» — oltre partiti e pregiudiziali «di uomini e di dogmi» — per affermare un «nuovo ordine nazionale». Il blocco deve essere accettato come «il solo mezzo» per realizzare il «nostro programma». Se questo fallisse, al fascismo e al fiumanesimo non resterebbe che la via rivoluzionaria(102). D’altronde Alleanza Nazionale raggruppa in sé i promotori del ‘plebiscito’ per l’annessione di Fiume all’Italia: con l’aiuto dei commercianti, dopo due settimane, secondo il prefetto, erano già state raccolte oltre 14.000 firme(103). Quando invece Democrazia Sociale si era schierata contro l’ipotesi di occupazione della Dalmazia e — in vista di Rapallo — aveva invitato il Comandante alla disciplina(104). Inoltre, il neoeletto sindaco è iscritto al Fascio. Il movimento, sulla scia della vittoria elettorale, vede un aumento di soci. Da più parti ai fascisti viene riconosciuto il ruolo svolto nel portare «uomini nuovi» e nell’opera di propaganda, vissuta — però — a loro modo, cioè, secondo quanto ricorda Vicentini, riempiendo di scritte «inneggianti a Fiume, al Fascismo, a Mussolini, a D’Annunzio e a Giuriati» i quartieri popolari(105). Quando i fascisti dicono dunque che le elezioni sono una vittoria fascista, non è retorica. Marsich non prende sul serio le voci di aperture dannunziane verso anarchici e socialisti: dopo aver saputo che alcuni democratici avversi al blocco hanno inviato a D’Annunzio una lettera perché sconfessi il Fascio veneziano per la sua posizione conservatrice alle elezioni amministrative, scrive al comandante che si tratta «di una manovra di rinunciatari: i quali hanno già fatto uguale tentativo obliquo telegrafando a Mussolini che ha provvisto a metterli a dovere!»(106).
Dato il nuovo ruolo che il Fascio riveste nel 1920, non sorprende che risalgano a questo periodo i primi finanziamenti a noi conosciuti. Mentre non è emerso nulla riguardo a fondi versati da agrari, diverse fonti indicano finanziamenti dall’A.C.N.I. (Azienda Comunale di Navigazione Interna), secondo Vicentini devoluti a Fiume, e da parte di una società di albergatori del Lido, per l’opera prestata nei vaporetti(107). Anche Volpi viene indicato come un finanziatore del Fascio, per l’opera di agitazione fiumana che facilita la sua trattativa con il governo jugoslavo. Ma un rapporto del prefetto lo indica anche come uno che ha buoni rapporti con i giovani fascisti e come persona che «ha notevolmente contribuito al buon esito delle elezioni, benché si tenga alquanto appartato in apparenza»(108). Non è stato possibile appurare di quale contributo si tratti, ma è facile pensare che si alluda ad aiuti in denaro. Comunque, l’agitazione fiumana porta altri introiti al Fascio: ad aprile D’Annunzio autorizza Marsich a prelevare dai fondi raccolti nella campagna per i bambini di Fiume «quel che occorre per la propaganda e per i legionari» e a settembre versa 5.000 lire in favore di «Italia Nuova»(109).
Marsich aveva fondato «Italia Nuova» a luglio. Il suo rapporto con il settimanale sarà sempre strettissimo, tant’è che quando uscirà dalla politica, nell’agosto 1922, chiuderà anche il giornale. È soprattutto attraverso «Italia Nuova» che verranno diffuse le idee del ‘fascismo adriatico’ — e presto il giornale sarà una voce critica del fascismo. Il titolo è già un programma perché enfatizza l’obiettivo politico e nazionale della costruzione di un nuovo ordine. Lo stesso si può dire del sottotitolo: «voce del fascismo e del fiumanesimo». Il primo numero elenca i punti di un programma: contro tutte «le demagogie», «fede cieca nelle minoranze», concezione pessimista e antiutopica della vita, rivendicazione dei diritti conquistati con la vittoria, orgoglio nazionale, liberismo economico contro i monopoli e i sindacati socialisti, democrazia al condizionale (se i lavoratori vogliono esercitare il potere devono esserne degni), difesa e organizzazione dei lavoratori intellettuali, difesa dello Stato, anche attraverso un cambiamento di regime che instauri maggiore disciplina(110).
Ad agosto, D’Annunzio annuncia l’indipendenza di Fiume e vara la Carta del Carnaro. Le dichiarazioni di fede al Comandante aumentano e i legami con la città istriana si fanno sempre più forti. Marsich, di ritorno da Fiume, scrive a Mussolini entusiasta: «la costituzione è una cosa nobilissima e magnifica. Tutti i postulati del fascismo trovano la loro applicazione concreta»(111). Il 2 settembre il Fascio invia un telegramma a D’Annunzio definendolo «duce spirituale del fascismo»(112). Circa due settimane dopo, Marsich tornato da un’altra visita a Fiume scrive a Mussolini, chiedendo di pubblicare sul «Popolo d’Italia» che «il Comandante ha dichiarato di condividere pienamente le direttive e le vedute del fascismo e di essere pronto ad aiutare con ogni mezzo i fasci» ed è «lieto che il fascismo veneziano lo abbia riconosciuto capo dei fascisti»(113). Parallelamente, D’Annunzio e De Ambris tentano di coinvolgere i fascisti in un atto di forza per compromettere le trattative tra i governi italiano e jugoslavo. Viene inviato a Mussolini uno schema di insurrezione che prevede la polarizzazione di tutte le «energie sane» del paese attorno a D’Annunzio, il ripristino della disciplina nazionale «al di sopra degli interessi contrastanti delle classi e dei dogmi dei partiti e l’affermazione di un nuovo ordine sulla base della costituzione di Fiume», senza «togliere ai lavoratori le loro conquiste economiche» né «restringere le libertà politiche dei cittadini»(114). Difficile pensare che Marsich ne sia all’oscuro. Anzi, siamo tentati, in questa fase della ricerca, di leggere le sue mosse proprio alla luce di questi progetti. L’8 ottobre il Fascio veneziano nomina D’Annunzio — che mesi prima aveva trasferito la sua residenza legale a Venezia — suo presidente onorario(115). Il 14 ottobre Marsich gli scrive per spiegargli che in questo modo il Fascio ha voluto significare che «da lei soltanto si aspetta la parola d’ordine». E aggiunge: «Nella prossima settimana sarò a Fiume con Mussolini e con una delegazione del Consiglio nazionale che le riferirà sul lavoro di organizzazione da noi svolto e sui nostri intendimenti. Purtroppo il governo sta iniziando nella guardia regia un movimento di repressione. Raccomandiamo ai nostri amici pazienza e sofferenza per non pregiudicare tutto. Le porterò a voce maggiori notizie. Forse a giorni accorrerà qui un rinforzo di arditi. Le preciserò». E sotto: «Ho visto Toeplitz. Sono ben lieto della sua nomina [a console della Reggenza]. Ho preso accordi per il lavoro comune»(116).
De Felice è dell’opinione che il progettato incontro non avvenga, perché Mussolini dopo la nomina di Giovanni Giolitti a presidente del Consiglio preconizza l’eventualità di entrare nel governo e vuole sganciarsi dal fiumanesimo intransigente, senza creare fratture all’interno del fascismo. Questo spiega perché rinvii ripetutamente i colloqui a Fiume chiesti da D’Annunzio e perché spinga la commissione esecutiva dei Fasci (della quale Marsich non fa parte) ad approvare lo schema di De Ambris, ponendo però alcune clausole, tra cui quella che i Fasci vengano interpellati sui tempi e le forme dell’insurrezione, precisando comunque che la cosa non può essere fatta prima della primavera 1921(117). Se questo è vero, e può esserlo anche parzialmente, cioè senza che Mussolini avesse le idee veramente chiare, non sembra che Marsich sia stato — in questa fase — al corrente di quello che passava nella testa del capo del fascismo. Forse Marsich non conosce le clausole poste dal comitato esecutivo o intende comunque ‘forzare’ verso l’insurrezione anche perché nel movimento fascista ci sono segni che sembrano puntare nella direzione opposta: il Consiglio nazionale dei Fasci del 10 ottobre, infatti, dichiara di affidare — «in caso di rinunce inique» nel trattato di pace — «a Gabriele D’Annunzio, a Millo, alle loro truppe e ai fascisti di tutta Italia la difesa dei confini della Nazione»(118). Certo è che il leader veneziano continua decisamente sulla sua strada. Il 1° novembre rassicura D’Annunzio su quella che appare la questione più importante: «l’organizzazione delle squadre di azione procede benissimo. Abbiamo instaurato una disciplina rigorosa. Gli uomini inscritti sono pronti a tutto. Hanno un comandante valorosissimo e sono in massima parte ex combattenti»(119). Il 6 novembre, in un’altra lettera al Comandante, chiede un centinaio di bombe e aggiunge che le squadre sono in perfetta efficienza e che «il fascio si sta sviluppando meravigliosamente»(120). E, ancora il 10: «l’ing. Pasquali della presidenza del fascio [veneziano] e suo fratello le rinnoveranno la richiesta di un centinaio di bombe che occorrono d’urgenza prima del 13», cioè — aggiungiamo noi — il giorno dopo la data prevista per la firma del trattato(121).
Il 12, infatti, viene firmato il trattato di Rapallo. Il 13, mentre D’Annunzio occupa Veglia e Arbe, la doccia fredda: esce «Il Popolo d’Italia» con un articolo di Mussolini che lo approva con qualche riserva(122). Il 15 al Comitato centrale dei Fasci, Marsich e altri costringono Mussolini a votare un ordine del giorno che in pratica rovescia quanto era stato scritto sul «Popolo d’Italia»(123). Il 16 si tiene una riunione delle associazioni patriottiche veneziane al Teatro Ridotto, per discutere di Rapallo, nel corso della quale Marsich lancia la possibilità di un moto rivoluzionario che si estenda a tutta la Dalmazia e punti su Roma. Giuriati sconsiglia «una azione di protesta che potrebbe condurre a gravissime conseguenze interne». Viene, comunque, approvato un ordine del giorno che parla del trattato come di un «tradimento degli interessi italiani»(124). Il 23 novembre il Comitato centrale, rispondendo ad una proposta di D’Annunzio di cui è latore Marsich, sconsiglia qualsiasi azione in Dalmazia, prima di aver risolto la questione di Fiume(125). Ciò nonostante Giuriati — lo leggiamo nelle sue memorie — il 26 propone a D’Annunzio una spedizione di volontari in Dalmazia, per riaprire una vertenza internazionale e mantenere aperta la questione adriatica, essendo Fiume — secondo lui — ormai indifendibile. Spedizione sì, insurrezione no. Giuriati va a Zara, si accorda con l’ammiraglio Enrico Millo, ma, al ritorno, il Comandante tergiversa. Giuriati scriverà che questo è perché Mussolini la ritiene improponibile(126). In una missiva dello stesso giorno il prefetto di Venezia fa sapere che i fascisti locali si tengono calmi, purché la situazione non muti, e questo anche grazie ai buoni rapporti di Volpi con i nazionalisti e i giovani fascisti(127). Evidentemente quest’ultimo si prodiga a smorzare gli animi. Il 29 esce su «Italia Nuova» un articolo di Marsich che attacca «chi si limita a mandare malinconici appelli», riferendosi implicitamente a Mussolini, e chiama D’Annunzio a capo del movimento(128). Lo stesso giorno D’Annunzio scrive a Marsich: «Mio caro amico, siamo circondati da un esercito di carabinieri. Caviglia si dispone alla strage dei legionari! Le mando un manifesto da riprodurre nell’Italia Nuova. È necessario agitare l’opinione pubblica contro il misfatto che si prepara»(129). A dicembre Millo comincia a fare sgombrare i soldati da Zara in applicazione del trattato di Rapallo; si chiude così ogni speranza di una spedizione in Dalmazia con possibilità di successo. Il Fascio intanto acclama Marsich che vuole intransigenza assoluta nella difesa di Fiume, critica le incertezze nel campo fascista e auspica l’allontanamento di quelli che non condividono la lotta frontale contro l’attuale regime, la monarchia moralmente indegna e Giolitti(130). Il 21 dicembre D’Annunzio tiene a Fiume il discorso «insorgere è risorgere»(131). Marsich continua a sostenere l’intransigenza. Il 22 Arturo Marpicati porta a Milano un estremo appello: occupare prefetture, assaltare questure. Il 25, D’Annunzio chiama all’insurrezione Venezia e Trieste(132). Giunta la notizia del bombardamento di Fiume da parte della marina, è più che probabile che si sia tentato qualcosa.
Vediamo cosa raccontano le carte di polizia. Già prima di Natale erano state inscenate alcune piccole manifestazioni. Il giorno di S. Silvestro, diffusasi la voce che D’Annunzio è morto, «ucciso dai Regi carabinieri», gruppi isolati in «viva eccitazione» tentano di far chiudere i negozi in segno di lutto. I dirigenti fascisti esortano alla calma, anche se Marsich — per diversi giorni — «si è valso con ogni mezzo per eccitare lo spirito pubblico» diffondendo un volantino che chiama «il popolo [a] insorgere contro il governo responsabile», insinuando però che la notizia della morte del Comandante sia una «manovra di fonte nemica alla causa» e diffidando di false carte con l’intestazione del Fascio che circolano per la città. Le forze dell’ordine arrestano quattordici giovani, dopo che una manifestazione di Alleanza Nazionale aveva tentato di entrare in piazza. Vengono trovate armi a casa di Toeplitz, che è indicato come il responsabile della falsa notizia della morte di D’Annunzio. L’ipotesi è che l’abbia fabbricata ad arte per sollecitare atti terroristici, parte di un complotto che a Milano «si stava organizzando tra fascisti partigiani di D’Annunzio, legionari fiumani ed anarchici». Inoltre si teme che i fascisti possano compiere atti ostili contro Volpi(133).
Vicentini racconta che Marsich già il 21 dicembre aveva sostenuto — in seguito alle minacce di Giolitti di intervenire a Fiume — «fra entusiastiche approvazioni» che i fascisti veneziani dovessero da quel momento «ritenersi mobilitati». Dal 24 in poi il direttorio del Fascio veneziano di combattimento siede in permanenza a palazzo Faccanon. Le autorità militari e di pubblica sicurezza hanno occupato quasi militarmente la città, i principali fascisti sono sorvegliati e sono stati avvertiti che al minimo gesto verranno arrestati. Il 25 — quando si viene a sapere dell’attacco a Fiume — viene convocato il direttorio in seduta segreta. Si attendono notizie sperando che Giolitti desista dall’entrare a Fiume. «Italia Nuova» scrive: «bisogna far cadere Giolitti. Cagoia aspetta nascosto nell’ombra per tornare al potere. Bisogna ricacciarlo nella fogna». Il 26 Toeplitz porta la notizia della morte di D’Annunzio a Giuriati e Marsich. Giovani manifestano in piazza S. Marco, facendo issare le bandiere abbrunate. Viene affisso un manifesto: «insorgere per risorgere». Su proposta di Marsich, «disfatto dal dolore», il direttorio in seduta notturna delibera un provvedimento di «giustizia vendicativa», con un solo voto contrario: quello di Lanfranchi. Si decide che un gruppo di fascisti parta per Roma e faccia giustizia dei principali responsabili della morte del Comandante; che gli squadristi facciano atti di rivolta e occupino la prefettura e gli altri edifici pubblici. Non accade però nulla, nonostante le squadre attendano con nervosismo, per via dell’incertezza delle notizie fiumane, del tradimento di Lanfranchi, dell’abbattimento morale degli altri capi che credono D’Annunzio morto e della mancanza di iniziative del comando delle squadre(134).
Lanfranchi è l’unico, fra quanti hanno lasciato una testimonianza dei fatti, che sia stato presente alle riunioni segrete del direttorio(135). Però ha anche molte buone ragioni per mettere in cattiva luce Marsich ingigantendone il ruolo. Al contrario della testimonianza di Lanfranchi, le altre fonti dunque attribuiscono a Toeplitz e non a Marsich la responsabilità della falsa notizia della morte del Comandante. Suggestiva è l’ipotesi che Toeplitz fosse in qualche modo collegato a moti con gli anarchici: era console del Carnaro e D’Annunzio intratteneva rapporti con Giuseppe Giulietti e altri. Difficile che Marsich fosse coinvolto in questi fatti. Il direttorio, comunque, smentirà categoricamente l’accusa che si stesse preparando una insurrezione con «i bolscevichi», una scelta del tutto contraria alla politica del Fascio fino a quel momento(136). Su Marsich non ci sono dubbi: lo vediamo persino, a novembre, mettere in guardia D’Annunzio contro Allegri (con il quale aveva fino almeno a maggio un ottimo rapporto) perché «è stato visto frequentemente con bolscevichi veneziani»(137). Questo appare un indizio per un’ipotesi: che siano state abbozzate due insurrezioni, una da parte di legionari e persone vicine al Fascio con gli anarchici, l’altra da parte di Marsich. Questo spiegherebbe il perché dei falsi comunicati denunciati da quest’ultimo. D’altronde non sarebbe che lo specchio delle ambiguità e delle oscillazioni di D’Annunzio, deciso a provare tutte le carte, ma anche pronto a fare la mossa soltanto quando il successo è matematico(138). Del tutto inattendibile appare l’interpretazione suggerita da Vicentini: che tutti fossero d’accordo, tranne Lanfranchi, sugli omicidi politici e sull’insurrezione. Le posizioni così diverse sostenute da Mussolini, Giuriati e Marsich sulla questione adriatica non possono non essersi riflesse in quei giorni, nonostante le scarse e distorte informazioni, e l’emozione delle notizie riguardanti la possibile morte del Comandante.
Mussolini non si è mai fidato troppo di D’Annunzio, né ha avuto con lui rapporti facili, pur appoggiando l’impresa di Fiume. Al momento dell’azione ha sempre temporeggiato e ora che si possono aprire nuove prospettive politiche è contento di chiudere temporaneamente la vicenda col trattato che considera la migliore soluzione possibile. In lui prevale l’elemento tattico e di mediazione. Il suo tenere i piedi in più staffe però genera malintesi e disorientamento. Giuriati è stato uno dei protagonisti della vicenda di Fiume. Anche dopo le sue dimissioni, resta molto legato al suo Comandante. Gli dà del ‘tu’, al contrario di Marsich che gli dà del ‘Lei’. Forse anche per l’età: nel 1920 D’Annunzio ha 57 anni, Giuriati 44, Marsich 29. Sono differenze che pesano sui rapporti, ma anche forse sugli atteggiamenti. Giuriati considera il trattato di Rapallo inaccettabile, ma non pensa che bisognasse puntare tutto su Fiume, la cui questione va considerata nel quadro generale delle rivendicazioni adriatiche. Visto che per lui la città istriana non è più difendibile, propone l’impresa dalmata, che dopo il 2 dicembre risulta ormai impraticabile. Marsich invece considera D’Annunzio il leader politico nazionale della sua «rivoluzione», perciò è pronto a seguire il Comandante fino in fondo ed esige anzi l’unità dietro di lui. Secondo Marsich Fiume è una battaglia soprattutto contro lo Stato corrotto, quasi più un fatto di politica interna che di politica estera, volto ad affermare un diritto abdicato e dal quale deve nascere la «nuova Italia».
Dal quadro che abbiamo delineato è difficile presentare i dissidi sulla politica su Fiume come un semplice conflitto tra Mussolini e Marsich. La cosa è più complessa, gli attori e le posizioni sono molte. Inoltre lo stesso Mussolini deve fare i conti con D’Annunzio, che vuol tenere sotto controllo ma col quale non può, né vuole troncare. Che sia Lanfranchi a dover uscire di scena, non stupisce. Non tanto perché Marsich resta un personaggio ancora troppo forte per essere defenestrato dai mussoliniani. Mussolini — dopo il Natale — vuole tutt’altro che uno scontro chiarificatore con il fiumanesimo intransigente. La sua ambizione anzi è quella di evitare a tutti i costi lo strappo, che sembra preannunciarsi con la creazione a opera di De Ambris della Federazione legionaria, la quale sta assumendo tinte antifasciste(139). È un obiettivo in consonanza con Marsich, il cui sforzo è quello di rassicurare D’Annunzio che, se non tutto, almeno una parte del fascismo gli è stata e gli è fedele. Chi meglio di Marsich — che aveva gestito il collegamento tra il Comandante e il Comitato centrale, ed era stato emissario, per conto della segreteria, nel processo di fondazione del Fascio di Fiume — può tentare di ricucire i rapporti con D’Annunzio(140)?
Il 2 gennaio Marsich scrive al Comandante: «non mi faccio vedere perché non voglio essere visitatore importuno. Ma il mio cuore fedele è con Lei. Sono pronto a darle, per il poco che valga, la mia opera. Avrei molte cose gravi a dirle. Quando ella crederà, potrà farmi telefonare non mancherò. Anche Giuriati è ai suoi ordini»(141). A febbraio è a Gardone a conferire «intorno ad argomento politico delicatissimo». Da una lettera dello stesso Marsich a Cesare Rossi, veniamo a sapere che all’incontro era presente Nino Daniele, un legionario di Torino, vicino ai comunisti e in rapporti con Antonio Gramsci, «gravemente eccitato contro il fascio torinese», il quale gli aveva mosso gravi accuse. Marsich promette una relazione sulla lite ma rileva «ancora una volta» come «intorno al Comandante affluiscano persone le quali non mancano di cercare di influenzarlo in senso ostile ai fasci»(142). Perciò il 16 marzo gli invia una lettera per provare «più pura fede fiumana e d’annunziana» del presidente del Fascio torinese, Cesare Maria De Vecchi(143). In seguito alla visita di Mussolini a Gardone, D’Annunzio invita De Ambris a «cessare di tenere in diffidenza i fasci che già si ordinano in Legioni», accettando il programma fiumano(144). E Marsich — siamo ormai ad aprile — così risponderà a una lettera di D’Annunzio, che evidentemente lo incoraggia: «mio comandante, grazie della sua parola che mi conforta a perseverare nell’opera dura e tenace. Mi faccia telegrafare quando crederà poter vedermi»(145). Ci sono poi quasi certamente due viaggi di Marsich e Giuriati a Gardone: uno il 19 aprile, e un altro il martedì successivo al 30 maggio(146). Non sappiamo di cosa si discuta. Rilevante è però che il contatto con D’Annunzio in questo periodo è abbastanza frequente e che coinvolge entrambi i leaders veneziani.
Tra aprile e giugno a Venezia accadono fatti di violenza politica senza precedenti, che provocano sette morti. Si tratta di una spirale innescata fin dai primi mesi dell’anno dalla volontà delle squadre armate del Fascio di reagire con rappresaglie «di quadruplicata violenza» alle aggressioni che — secondo Vicentini — vengono subite da fascisti «isolati» che abitano nei quartieri popolari(147). Le altre fonti non ci parlano di queste violenze, ma è probabile che ufficiali in divisa e persone con simboli politici o militari continuino a subire dileggi e provocazioni. Si tratta — comunque — di una scelta politica avallata dal consiglio direttivo: si cerca la prova di forza. Non si vuole uccidere, ma punire, dare una lezione, sfilando nei quartieri a maggioranza socialista, aggredendo comizi e cortei o i capi socialisti e comunisti, alcuni dei quali vengono sequestrati, distruggendo i circoli e i luoghi della socialità ‘rossa’. Soprattutto da aprile, le azioni dei fascisti locali avvengono con l’aiuto di fascisti provenienti da fuori(148). La capacità di aiutarsi tra fascisti di diverse città nell’esercizio della violenza politica è una caratteristica del movimento, ma a Venezia è anche un sintomo della debolezza delle squadre, o, forse, della forza delle organizzazioni ‘rosse’ per il radicamento che queste hanno in almeno due zone: quella dei portuali, a S. Margherita, e quella degli arsenalotti, a Castello. I fascisti locali inoltre sono svantaggiati non solo dalla forma urbis di Venezia, che rende impossibili azioni lampo con camion e motociclette, ma anche dal fatto che — al contrario dei socialisti — vivono in diverse parti della città e quelli che abitano nelle zone operaie sono esposti alle aggressioni e alle ‘sanzioni sociali’ di vicini e conoscenti(149). Dopo i tre mesi di sangue, i fascisti discutono sulla necessità di rafforzare le squadre «inadatte allo svolgersi di azioni senza il concorso di elementi estranei». Marsich chiama a riorganizzarle un ardito friulano, Gino Covre(150).
Gli scontri appaiono come una ‘guerra’ tra due schieramenti, nella quale chiunque porta i simboli del nemico è responsabile degli atti commessi da altri in nome della stessa bandiera. Ci sono però alcune differenze tra fascisti e socialisti-comunisti che vanno segnalate. I fascisti usano armi più pesanti, come le bombe, probabile eredità della tentata insurrezione; sono organizzati militarmente e agiscono con l’avallo del direttivo e di Marsich. I leaders socialisti, al contrario, rifiutano organizzazioni paramilitari. Inoltre «Il Secolo Nuovo» attribuisce la responsabilità delle violenze alla ‘borghesia’, che rimane il nemico primo. I leaders socialisti soffrono, si può dire, di presbiopia. Aspettano che maturino i tempi della rivoluzione: i fascisti non sarebbero che la manifestazione della crisi del capitalismo. Preferiscono rispondere con le armi tradizionali: lo sciopero e le manifestazioni di piazza. È vero, ci sono gruppi armati che difendono la Camera del lavoro e il sestiere di Castello, ma non hanno caratteristiche permanenti. D’altronde quando i fascisti arrivano, spesso la difesa assume tratti ‘popolari’, ci si difende con il lancio di tegole e acqua bollente. Ciò non toglie che i socialisti verranno più avanti ‘autorizzati’ a girare armati per autodifesa, e siano autori di violenze contro i fascisti: ma queste violenze o assumono l’aspetto di manifestazioni di piazza (tipo l’assalto alla casa del segretario del Fascio) o di violenze isolate, più spontanee che organizzate. Diverso il discorso sui giovani comunisti, che si organizzano in ‘squadre d’azione’, il cui ruolo non è però stato ancora chiarito(151). Comunque, da quanto è finora emerso, né da parte dei comunisti, né da quella dei socialisti vi sono spedizioni del tipo di quelle fasciste. Mai si tenta, per esempio, di bruciare la sede del Fascio — che è la stessa di Alleanza Nazionale — né si ricorre all’aiuto di compagni di altre città.
Il prefetto Agostino D’Adamo viene più volte richiamato dal ministro per non essere stato in grado di prevenire o reprimere i disordini e impedire l’arrivo delle squadre da fuori. Lui adduce a sua discolpa la mancanza di uomini e sostiene — excusatio non petita — di essere stato equidistante tra le forze in campo, prova ne è — secondo lui — che sia fascisti sia socialisti lo accusano di parzialità(152). Incredibile è la mancata repressione e scioglimento delle squadre, dopo l’assalto con spari e bombe della caserma di S. Zaccaria per liberare alcuni squadristi che erano appena stati arrestati. A questi avvenimenti è probabilmente già presente Covre e partecipano anche squadristi friulani e ferraresi. Del fatto esistono in realtà diverse versioni. La sostanza è però che le forze dell’ordine si limitano ad accerchiare gli squadristi nella sede del Fascio, fermarli, perquisirli, sequestrare le armi, dare il foglio di via ai non residenti e rilasciarli(153). D’Adamo spiega il suo comportamento dicendo di aver voluto evitare una repressione che sarebbe stata «imponente» e ricca di conseguenze indesiderabili, per la topografia della città, per l’atteggiamento risoluto delle squadre e perché avrebbe avuto conseguenze sull’ordine pubblico in tutta Italia, comportando la caduta dell’amministrazione comunale. Preferisce invece trattare con Marsich e Giuriati, per «pacificare» le squadre(154). Lo Stato è qui soltanto un mediatore tra le parti e si fa sottrarre il monopolio della violenza. Viene così sacrificata la legalità per il mantenimento dell’ordine pubblico. Del resto, D’Adamo agisce in un contesto in cui uomini delle istituzioni non sono super partes: dopo le diserzioni pro Fiume, ci sono ufficiali della marina che simpatizzano apertamente con i fascisti, il preside del Nautico custodisce impunemente le armi degli studenti squadristi, i magistrati agiscono a senso unico, gli aggrediti non denunciano le aggressioni e le squadre armate hanno la loro base nella sede di uno dei partiti che governano il Comune.
Il rapporto tra la giunta e le squadre è un capitolo di storia della Venezia di questi anni che nonostante la sua rilevanza non è mai stato approfondito. Il fatto però che sia il sindaco a inaugurare i gagliardetti delle squadre in una cerimonia che si svolge alla presenza di signorine ‘bene’ e diversi personaggi dell’élite cittadina la dice lunga, perlomeno sul livello di legittimazione formale che le squadre ottengono, anche se, paradossalmente, dopo la cerimonia gli squadristi si scontrano con le forze dell’ordine(155). Del resto, la stessa «Gazzetta», all’inizio della stagione violenta, parla del fascismo come reazione legittima e come «vibrante resistenza»(156). A maggio lo stesso giornale prende le distanze: la reazione armata potrebbe ormai essere controproducente e, in questo, rappresenta una parte dell’opinione pubblica cittadina che inizia a percepire le azioni violente come causa di disordine, in grado di compromettere gli interessi economici alla riapertura della stagione turistica(157). Proprio in reazione a questo, il 27 giugno «Italia Nuova» esce con un articolo che esalta la violenza purificatrice, criticando la borghesia veneziana(158). Alleanza Nazionale piuttosto che prendere le distanze dalle squadre cerca di rendere più stretti i rapporti col Fascio, forse per controllarne gli eccessi(159). «Il Gazzettino» appare più critico del fascismo — in questo periodo — anche perché il suo direttore Talamini aveva deciso di scendere in campo alle elezioni politiche di maggio, presentandosi non con il ‘blocco giolittiano’, ma con Democrazia Sociale(160). Nessun argine antifascista con i socialisti è però possibile: Democrazia Sociale, come il P.P.I. non ancora veramente investito dalla spirale violenta, mantiene un’equidistanza tra le parti in causa, cercando di promuovere una pacificazione che faccia tornare la politica nell’alveo della normalità(161). Il P.S.I. rimane nel suo autoisolamento rivoluzionario, incoraggiato anche dall’esito positivo delle elezioni politiche di maggio.
Nella città di Venezia ottiene 12.390 voti (aumentando ancora rispetto alle amministrative), mentre l’Unione Nazionale (liberali, fascisti, nazionalisti) 7.359, i democratico-sociali 2.904 e i popolari 2.783(162). Il Fascio aveva aderito al blocco, come del resto tutti i Fasci tranne quello di Verona, ma — questa volta — esplicitando che era una scelta tattica e strumentale, ricordando il fatto che il fascismo è alternativo rispetto ai partiti alleati e allo Stato liberale «col quale [scrive Marsich su «Italia Nuova»] dovremo prossimamente regolare la partita»(163). Giolitti, per lui, resta «la rovina di Fiume» e il proprio spirito «rimane integro per D’Annunzio»(164). In questo modo manifesta una critica ai dirigenti nazionali, accusandoli di parlamentarismo. Resta il fatto che Giuriati si candida e viene eletto, nonostante al Comandante confidi forti dubbi esprimendo il proprio «più vivo desiderio di non riuscire» alle elezioni(165).
Scrive Marsich a D’Annunzio il 16 giugno, il giorno dopo l’assalto fascista alla caserma di S. Zaccaria: «gli avvenimenti di Venezia hanno un’importanza che trascende quanto riferisce la cronaca. La sorte può suggerire una pausa. Ma la situazione può complicarsi. Noi seguiamo la via diritta. E guardiamo a Lei»(166). Gli scontri violenti di aprile-giugno non hanno infatti solo un significato locale: dimostrano l’affermazione dell’azione extraparlamentare contro il parlamentarismo e l’inconciliabilità tra fascismo e governo. È un segnale rivolto anche all’interno del movimento fascista, pro D’Annunzio e contro Mussolini. Da tempo infatti quest’ultimo si muoveva in favore di un accordo con i socialisti per far sospendere le violenze. Il patto viene siglato il 2 agosto, in sede parlamentare: firmano, tra gli altri, i veneziani Musatti e Giuriati. Sin dall’inizio delle trattative però Marsich si era espresso risolutamente contro, tanto da dimettersi dal Comitato centrale e presentare, senza successo, al Consiglio nazionale del 12 luglio un ordine del giorno contrario: si trattava per lui di preservare almeno la parte viva dell’organizzazione, cioè le squadre, dal terreno della collaborazione dei vecchi poteri. La «guerra civile» per lui era conseguenza della crisi dello Stato: si poteva tentare di disciplinare la violenza per «evitare intemperanze», ma l’obiettivo primario doveva essere la sua ricostituzione, senza transazioni né trattative. Il giorno stesso, Covre aveva capitanato una spedizione militare di 1.500 squadristi veneti e toscani su Treviso(167). I fascisti veneziani si erano schierati con Marsich che il 28 luglio pubblicava un articolo nel quale spiegava il suo programma. Secondo lui la pacificazione si sarebbe avuta solo con l’abbattimento di chi aveva fatto precipitare il paese nella crisi rivoluzionaria: la plutocrazia bancaria e lo Stato liberale e socialdemocratico. Il fascismo doveva lavorare per l’unità delle forze nazionali, in attesa che D’Annunzio le portasse «al dominio dello Stato»(168). Il giorno dopo aveva scritto al Comandante: «la gravissima situazione del paese ha consigliato alcuni amici fascisti, tutti a Lei fedeli e non viziati dal male parlamentare che purtroppo affligge qualche nostro compagno, ad un prossimo incontro. Essendo la riunione fissata per il giorno tre agosto, mi sarebbe indispensabile poterla vedere lunedì o martedì. […] Posso assicurarle che la massa giovanile dei fascisti è sempre egualmente devota al suo Comandante e pensa che solo il condottiero di Ronchi potrà essere il Duce della nuova impresa. In quest’ora di crisi del fascismo che spero benefica e risolutiva, è più che mai necessario tenere compatta questa forza che deve affiancarsi agli arditi e ai legionari non riconoscendo che un solo capo»(169). Non sappiamo se l’incontro abbia avuto luogo. È evidente però che Marsich intende concordare con lui il da farsi, per organizzare l’opposizione al trattato. Il 3 agosto, infatti, si tiene a Todi una riunione «molto riservata» tra i rappresentanti dei più forti «fascismi provinciali»(170). Appare evidente il ruolo fondamentale del leader veneziano in questo pezzo di storia del fascismo. Il 16, al convegno a Bologna contro la pacificazione, parla «cercando di attenuare la polemica contro Mussolini». Dino Grandi scrive nelle sue memorie: «il suo viso ascetico, la sua convincente eloquenza conquistarono l’assemblea». Si apre la possibilità di saldare l’opposizione al «fascismo milanese» con il fiumanesimo e, su proposta di Giuseppe Bottai, Grandi e Marsich vengono incaricati di conferire con D’Annunzio. Mussolini si dimette dal Comitato esecutivo e dal Consiglio nazionale. Le dimissioni dal primo vengono respinte subito dopo(171).
A Gardone vanno Grandi e Italo Balbo. Invitano D’Annunzio a mettersi a capo del fascismo, ma D’Annunzio tergiversa(172). Contemporaneamente giunge a Gardone un telegramma a firma di Marsich, come segretario regionale: «nella giornata dantesca i fascisti veneti compresi del cruccioso sdegnato silenzio del condottiero gli attestano fedeltà costante stop essi attendono e preparano l’ora invocata guardando oltre le tenebre della piccola lotta al sole della vittoria romana»(173). Grandi e Balbo si muovono verso un accordo con Mussolini. Al Consiglio nazionale dei Fasci a Firenze, assenti tutti quelli che si sono dimessi, Grandi fa da paciere: vengono respinte tutte le dimissioni(174). Epilogo (provvisorio): il congresso nazionale dei Fasci all’Augusteo di Roma del 7-8 novembre, dove ha luogo la riappacificazione (di facciata) — con tanto di abbraccio tra Mussolini e Marsich — e viene approvata persino la trasformazione del movimento in partito, alla quale Marsich è contrario(175).
La linea extraparlamentare di Marsich ha infatti perso i suoi possibili sostenitori al vertice del movimento, anche perché il Comandante si è estraniato dalla politica attendendo il momento di giocare il ruolo di uomo-simbolo, al di sopra delle parti per realizzare una «pacificazione nazionale»(176). D’altronde, mentre per Marsich, D’Annunzio è «l’Unico Grande Italiano» e solo da lui attende un cenno o una parola, per quest’ultimo il primo non è che uno dei tanti fidati con cui intrattiene rapporti più o meno intensi: non è neppure il più fidato visto che in questo periodo seconda soprattutto, ma «molto alla lontana», De Ambris e la Federazione legionaria(177). Comunque ora anche la base locale di Marsich comincia a scricchiolare. Già a metà settembre il Fascio veneziano risulta diviso sul patto di pacificazione. Giuriati viene «definito dai più accesi come traditore, se non peggio»(178). Così si dimette dal Fascio locale, rientrandovi dopo il congresso dell’Augusteo(179). Secondo Vicentini a ottobre il Fascio è già diviso in tre correnti: quella mussoliniana, formata esclusivamente da squadristi (più per la «sconfinata ammirazione del capo» che per «ragionamento»); quella dell’assoluta intransigenza, capeggiata da Marsich; e quella dei «benpensanti», con «funzioni eminentemente moderatrici», capeggiata da Giuriati. Molti altri però rimangono in disparte(180).
Che posizione assume Giuriati nel contesto della crisi fascista? È stata avanzata l’ipotesi che sia «il catalizzatore dell’opposizione a Marsich». «Ben lontano» dalla sua intransigenza antiparlamentare, abile «nell’evitare il confronto diretto», in attesa che venga isolato dalle sue stesse «impennate ‘rivoluzionarie’ e anti-mussoliniane»(181). Sebbene abbia firmato il patto di pacificazione, per certi versi però Giuriati resta vicino a Marsich. Per esempio, anche lui voterà contro la trasformazione in partito. Non solo, ma mantiene i rapporti con D’Annunzio continuando a esserne legato. Scrive a D’Annunzio, subito dopo la bocciatura dell’ordine del giorno Marsich al Consiglio nazionale: «appena ricevuto il tuo telegramma, mi sono recato da Marsich per chiedergli spiegazioni, visto che egli era presente alla seduta. Marsich mi assicurò che il resoconto non riproduce affatto il pensiero di Bottai, che fu per te riguardoso e deferente. Ho pregato Marsich di telegrafarti testimoniando il fatto. Ora mando subito il tuo telegramma a Bottai perché anch’egli possa scolparsi. Sono molto dolente, come puoi pensare. Tutto ciò che può ritardare il saldamento delle forze nazionali sotto il tuo comando, mi sembra costituire un pericolo per la patria»(182). Dalle sue memorie si evince che il patto per lui è semplicemente un tentativo di evitare inutili spargimenti di sangue, sfatare leggende che incriminano la violenza fascista, riordinare le squadre, «completarne l’armamento e […] disciplinarne l’impiego per l’altro obiettivo, il principale, della nostra battaglia: la conquista dello Stato». Era convinto che questa fosse anche l’opinione di Mussolini(183).
A parte un’opposta opinione su Volpi (che è coetaneo di Giuriati), in sostanza, due sono le differenze tra Marsich e Giuriati: il diverso atteggiamento verso il gioco parlamentare e la diversa valutazione che danno di D’Annunzio e Mussolini. Marsich rifiuta la candidatura a Montecitorio, è sicuro che l’entrata in parlamento corrompa la purezza degli ideali e che il patto di pacificazione ne sia la prova. Giuriati invece si candida (sebbene manifesti a D’Annunzio delle incertezze a riguardo), viene eletto ed è uno dei firmatari della tregua con i socialisti. Sia Marsich che Giuriati probabilmente avrebbero preferito che D’Annunzio e Mussolini restassero dalla stessa parte, uniti. Marsich vede il fascismo come parte di un movimento nazionale che punta su D’Annunzio e ha capito che Mussolini è un ostacolo a questo progetto. Giuriati invece individua in Mussolini il vero leader di riferimento, pur mantenendo i rapporti — probabilmente soprattutto affettivi — col Comandante (troverà persino conferma del suo buon agire quando Mussolini rivelerà a Napoli che D’Annunzio aveva chiesto e consigliato il concordato coi socialisti)(184).
Il Fascio è però lacerato da altre divisioni, causate dall’espulsione di Covre per «indegnità morale». Pare qui evidente che il direttorio fascista locale tentasse un maggiore controllo sulle squadre. Covre resta a Venezia e fonda i Cavalieri della morte che, sganciati da ogni forza politica, diventeranno il gruppo paramilitare più temuto in città(185). Viene così conteso al Fascio il monopolio della violenza ‘nazionalista’ extralegale. Tra il novembre 1921 e il giugno 1922 i Cavalieri della morte saranno più violenti e incisivi degli squadristi. Nella notte del 16-17 novembre, per esempio, assalteranno e distruggeranno i circoli comunisti. Il rapporto col Fascio è però ambivalente: più volte si scontrano tra di loro (marzo-aprile 1922) e almeno in un’occasione operano insieme (tentato assalto alla Camera del lavoro)(186). La violenza politica del 1922 segna una novità: gli scontri, che sono soprattutto contro i comunisti, cominciano a coinvolgere anche persone e associazioni di altri partiti(187). La differenza tra fascisti e Cavalieri sta soprattutto nel fatto che questi ultimi non agiscono più con una strategia propriamente politica, se non quella di combattere fisicamente i ‘rossi’. Inoltre essi si fanno quasi interpreti di forme di ‘banditismo sociale’: in difesa di sfrattati, di alcune categorie economiche e degli ex combattenti disoccupati, che peraltro in quel periodo avevano aumentato le agitazioni. Forse anche per questo ad un certo punto aderiscono al gruppo alcuni comunisti, attirati magari dal modello ‘combattentistico’(188).
Non che il Fascio non fosse entrato nel campo dei conflitti economici. Seguendo la direttiva nazionale anche qui erano stati aperti i battenti del sindacalismo economico che aveva rapidamente fatto presa tra le categorie al di fuori della Camera del lavoro, riscuotendo un certo successo soprattutto tra gli impiegati e i lavoratori ‘intellettuali’. Lo stesso Magrini si era impegnato su questo fronte(189). Ma anche quando Marsich controllava il Fascio locale, questi non avevano potuto muoversi così liberamente. Marsich riteneva i sindacati importanti per la loro opera ‘educativa’, ma temeva che diventassero una copia del sindacalismo socialista, attento alle rivendicazioni economiche di categoria. Lui voleva invece che agissero con «spirito nazionale», che dal lato pratico significava che dovevano restare sotto l’occhio vigile del partito. Quando Mandel rivendica una certa autonomia, Marsich invia le squadre a occupare la loro sede(190). Dopo lo sciopero nazionale legalitario dell’1-3 agosto 1922, indetto per protestare contro le violenze fasciste, i sindacati nazionali assorbono gradualmente associazioni che prima gravitavano nell’orbita della Camera del lavoro. Le ragioni di questo fenomeno stanno anche nella violenza delle squadre, ma soprattutto nell’appoggio che autorità e imprenditori danno alle organizzazioni economiche e ancor di più nella crisi interna che attanaglia il movimento socialista: diviso internamente, in rotta con i comunisti (con i quali ci sarà persino un tafferuglio nella sede della Camera nel settembre 1921). I leaders socialisti non riescono a formulare una politica utile a fronteggiare la situazione, interpretandola come segno dell’inevitabile crisi del capitalismo, e talvolta riconoscendo la ‘buona fede’ dei fascisti(191). Ai primi del 1922 si era sì costituita l’Alleanza del lavoro, ma gli scioperi erano sempre meno praticabili e coesi. La Camera si reggeva sulla forza della solidarietà e sull’efficacia nell’ottenere vantaggi economici per i lavoratori. Quando queste vengono a mancare, la sua consistenza comincia a liquefarsi, tant’è che rischia di chiudere ancora prima dell’occupazione da parte dei fascisti, nei giorni della Marcia su Roma. «Il Secolo Nuovo» chiude a fine mese. Le due amministrazioni socialiste della Venezia suburbana sono costrette a dimettersi. Quella di Mestre già ad agosto, con l’occupazione violenta del Municipio, quella di Murano a fine anno(192). Le azioni e le manifestazioni del Fascio sono sempre più fiancheggiate da nazionalisti, associazioni sportive e altro. A impedire che Fradeletto, inviso perché favorevole al trattato di Rapallo, pronunciasse il discorso all’Ateneo Veneto c’erano anche i nazionalisti con Foscari. Il tutto era avvenuto davanti al prefetto mentre le guardie regie assistevano impassibili(193). Nella seconda metà del 1922 il Fascio ormai ha assunto un ruolo senza precedenti, con un aumento consistente di iscritti. Quando Mussolini viene chiamato al governo, la cosa è sentita da molti come un vero cambiamento di regime. La «Gazzetta» definisce il momento come «la vittoria dello spirito»(194). Molta acqua è passata dal congresso dell’Augusteo e Marsich è già fuori del fascismo. A portare a quella situazione era stato un intreccio tra la lotta delle correnti interne al fascismo e, ancora una volta, gli eventi fiumani.
Le vicende di Fiume non si sono chiuse con la partenza di D’Annunzio del gennaio 1921. Già a giugno si riaccende l’agitazione per protestare contro la cessione di Porto Sauro alla Jugoslavia. Il Ministero teme che a Venezia e in altre città si stia tentando una nuova spedizione su sollecitazione dell’ex sindaco Riccardo Gigante(195). Verso fine mese muore a Fiume uno squadrista veneziano, Alberto Zambon, durante una manifestazione(196). Si rimette in moto il movimento di volontari verso la città istriana e Venezia è nuovamente luogo di transito. Tra il 1° luglio e il 2 ottobre 1921 vengono fermate dalle forze dell’ordine 171 persone; l’età più comune è quella tra i 17 e i 19 anni: i nati a Venezia (5) sono meno dei milanesi (25), bolognesi (14), fiorentini (10), forlivesi (9), napoletani (7), torinesi (6), livornesi (6); almeno 24 sono ex legionari, 21 fascisti, 13 arditi. Il minor contributo dei veneziani, rispetto al 1919-1920, può essere dovuto al fatto che i locali riescono a sfuggire i controlli più facilmente(197). Il 23 settembre il Fascio riesce a inscenare una manifestazione in piazza S. Marco contro la missione militare francese venuta a celebrare l’anniversario della vittoria. Ci sono scontri con le guardie regie, si verifica un incidente diplomatico: Ivanoe Bonomi si deve scusare a nome del governo italiano(198). Il 25 dicembre Marsich scrive a D’Annunzio: «mentre commemoriamo i morti di Fiume, io ricordo con amore devoto il primo soldato e il primo poeta d’italia cui rimarrò immutabilmente fedele. È ora di triste silenzio per chi deve rimanere al di sopra delle piccole lotte infeconde. Creda, mio comandante, che c’è nel fascismo ancora — nonostante il partito e nonostante il parlamentarismo — un nucleo compatto di forze pure e v’è chi vigila affinché questo nucleo rimanga integro per accogliere intorno a sé quanto v’è di buono e di generoso specie tra i giovani. Se non c’è speranza di una riscossa imminente, non per questo vien meno la fede nell’avvenire. Nel nuovo anno come nei passati ella sarà una nostra luce e una nostra guida»(199).
Il 6 febbraio 1922, in occasione della crisi del governo Bonomi, Mussolini in una intervista al «Resto del Carlino» non escluse da parte del gruppo parlamentare fascista la disponibilità di un appoggio a un governo Giolitti. L’accenno esplicito al sostegno a un governo liberale spinse Marsich a scrivere alla direzione del P.N.F. (Partito Nazionale Fascista) per dichiarare il suo pentimento per la «malintesa concordia» che aveva contribuito a stabilire al congresso dell’Augusteo. «Non erano persone che si urtavano allora: erano due mentalità: la mentalità parlamentare e la mentalità nazionale. […] È di ieri l’intervista a Mussolini col ‘Resto del Carlino’: il ‘Capo riconosciuto del fascismo’ designa colui che, in un giorno troppo presto dimenticato, fu detto il Boia labbrone, come il più idoneo a reggere le sorti dell’Italia nuova. […] L’Italia del Carso e di Fiume, anziché cercare soltanto in sé medesima pur giovane e forte, la sua salvezza, vorrebbe dunque consegnarsi al sabotatore della guerra e al traditore di Rapallo? E come se non bastasse, il mio caro amico Giuriati, che pure, quando è fra i nostri squadristi, ne beve il profumo dell’anima ingenua, propone un ordine del giorno in cui la destra dichiara di vigilare perché dalla crisi esca un governo capace di risolvere i grandi problemi nazionali, quando sappiamo a priori che nessun governo espresso dall’attuale Camera potrà risolverli, che la via della crisi parlamentare è una via senza uscita, e che solo dal paese, non da Montecitorio, si deve attendere la nostra riscossa. Invece noi rinsaldiamo ogni giorno più l’alleanza di destra. Trasciniamo dietro la nostra giovinezza i corpi flosci e mosci di quei liberali […]». Marsich conclude dicendo di credere che la maggior e la miglior parte del fascismo condivide istintivamente i suoi sentimenti, «ma purtroppo l’infausta egemonia di un uomo, l’ingenuità e l’immaturità politica dei giovani, la mancanza di mezzi di propaganda di tali idee, la discordia e le piccole invidie tra le forze nazionali, l’ottenebramento dell’opinione pubblica, l’influenza del Parlamento e del Partito, impediscono al nostro punto di vista di prevalere»(200). In un primo momento la lettera rimane segreta.
Su sollecitazione di Giovanni Host Venturi, il 1° marzo, in seguito alle agitazioni di Fiume, Giuriati e Alberto De Stefani si vedono con il segretario generale del Ministero degli Esteri per far pressione affinché il sindaco autonomista Riccardo Zanella venga sostituito(201). Il giorno dopo Giuriati scrive a D’Annunzio — che evidentemente segue con attenzione e vuole essere informato — chiedendogli se va bene una relazione a voce(202). Il 3 marzo 1922 il triestino Francesco Giunta con alcuni fascisti e volontari bombarda Fiume e la occupa con le sue squadre, deponendo il sindaco e proclamando l’annessione all’Italia. Invita Giuriati a raggiungerlo. Dopo essersi incontrato con Facta e altri, questi — il 5 — parte per Fiume, dove il Comitato di difesa gli offre il governo della città(203). Nel frattempo il Fascio veneziano convoca «tutti i cittadini di sentimenti nazionali» in piazza S. Marco. Marsich, salito su un tavolo, arringa fascisti, arditi, nazionalisti, volontari di guerra, Cavalieri della morte e i rappresentanti dei Fasci della regione: «Popolo italiano di Venezia, in questa storica Piazza, all’ombra dei gagliardetti neri e tricolori, fra le memorie passate e presenti, noi oggi, fascisti e nazionalisti volontari e cittadini dichiariamo solennemente la nostra volontà in questo voto: ‘Il Popolo di Venezia […] ordina al Governo Italiano di accogliere immediatamente il voto di Fiume e affida alla Legione Nazionale Veneta comandata da Giovanni Giuriati il buon diritto Adriatico subordinato agli ordini di Gabriele D’Annunzio’». Poi chiede ai presenti: «È questa fascisti e cittadini la vostra volontà plebiscitaria?» E i presenti rispondono di sì(204).
La Legione si costituisce seduta stante. Marsich interpreta qui il ruolo che gli è più congeniale, tentando di rilanciare il fronte unitario dietro a D’Annunzio. Con grande tempismo — al quale è difficile pensare che lo stesso Marsich sia estraneo — «La Riscossa dei Legionari Fiumani» pubblica la lettera alla direzione del P.N.F. di un mese prima. Dunque, si cerca un chiarimento risolutivo all’interno del partito. D’Annunzio, subito informato della costituzione della Legione, invia un telegramma a Marsich di piena approvazione(205). È in risposta a questo telegramma che Marsich gli scrive: «il fascismo veneto passa vostri ordini»(206). Ma intanto, il 6, Giuriati aveva rifiutato il comando, cercando però di rassicurare D’Annunzio: «il legionario fedele camminerà modestamente ma risolutamente nella via segnata dal comandante»(207). In una lettera a Marsich, giustifica così il rifiuto: «mio carissimo, ho visto nei giornali la costituzione della legione veneta e la mia nomina. Sono commosso per la designazione e per la bella spontaneità del gesto. Dillo, ti prego, a mio nome a tutti gli amici, ai veterani e ai coscritti ma dì anche che per il momento non occorrono soccorsi di uomini. L’azione ormai si è conclusa con felicissimo esito, per merito precipuo di un fascista autentico, Giunta. Non resta a noi che seppellire i morti eroici e provvedere ai vivi, la cui resistenza non può essere illimitata. Duro compito questo, come sai tu che conosci uomini e cose. Conto di venire a Venezia fra brevi giorni: discorreremo allora e guarderemo insieme all’avvenire»(208).
Questa, che è l’unica lettera tra Giuriati e Marsich finora emersa, testimonia il loro rapporto affettuoso. Ma è una lettera che mette in grave difficoltà i propositi di Marsich. Giuriati scriverà nelle sue memorie che la titubanza con cui ha accolto l’offerta di farsi capo del governo di Fiume dipendeva dal fatto che, al contrario del 1919, ora manca l’apporto di reparti dell’esercito e di armamenti. Perciò temporeggia, subordinando l’accettazione a colloqui con D’Annunzio e col governo di Roma(209). Il 7 marzo Marsich scrive a D’Annunzio, cercando di avere il suo appoggio fattivo(210).
Intanto la lettera di Marsich alla direzione viene pubblicata anche sul «Popolo d’Italia» con un «commento sprezzante» di Mussolini che in quel momento è a Berlino. Marsich riesce a convocare una riunione a Venezia alla quale partecipano tra gli altri Grandi, Balbo e il generale Luigi Capello, senza tuttavia ottenere adesioni di personalità alla sua ‘secessione’(211). Il 13 marzo, Grandi rilascia una dichiarazione al «Popolo d’Italia» in cui deplora l’atteggiamento di Marsich (lo ritiene errato nel metodo perché bisognava discuterne negli organi del partito e nella sostanza in quanto irrealistico), mentre il segretario generale Michele Bianchi dirama un comunicato che smentisce le voci di secessione dei Fasci del Polesine, del Ferrarese e dell’Umbria. Mussolini da Berlino si fa intervistare da un corrispondente della «Gazzetta del Popolo», rendendo noto di aver convocato il Consiglio nazionale del P.N.F. per discutere della questione e definendo la paura del parlamentarismo una cosa «ridicola»(212). Un giornalista — Paolo Monelli — che lo incontra in quei giorni lo descrive «con l’ansia della persona braccata», molto turbato dal «tradimento», tant’è che avrebbe affrettato il suo ritorno in Italia(213).
Il 10 marzo Giuriati è a Gardone con D’Annunzio il quale ascolta la sua relazione e gli dice che sarebbe stato felice se avesse «ridestato le ceneri della sua epoca», «ma si rendeva conto che i tempi erano profondamente cambiati e che sarebbe stato pericoloso esporre Fiume a un nuovo colpo, forse più atroce». Il 10 è a Venezia a parlare con Marsich, l’11 è a Trieste per riferire a Giunta, De Stefani e altri del suo colloquio col Comandante, poi va a Roma dove il capo di governo, Luigi Facta, fa appello al suo ‘patriottismo’ perché rinunci alla carica offertagli: rinuncerà. Mussolini elogerà il suo operato(214).
Il 16 marzo Marsich invia a Grandi un telegramma, nel quale dice che bisogna tornare alla purezza delle origini perché fascisti, legionari, arditi e «tutte le migliori, sincere forze nazionali» possano «raccogliersi», e conclude: «non è possibile che fraternità nostre anime abbia a spezzarsi». Nega che il suo proposito sia una «scissione» come si andava dicendo(215). Due giorni dopo all’assemblea del Fascio riesce a fare approvare un ordine del giorno che afferma «di ravvisare nell’attuale circostanza […] non un conflitto di persone ma una feconda lotta di idee e di principi tendenti attraverso differenti vie al comune scopo della valorizzazione di tutte le sane energie nazionali», conferma la solidarietà a Marsich e rinnova a D’Annunzio «l’offerta di vita e di morte»(216). Il 21 marzo la direzione del P.N.F. ritiene che Marsich «anche se involontariamente — ha compiuto una grave infrazione dal punto di vista disciplinare ed in contrasto con le linee programmatiche del partito»(217). Il giorno dopo Marsich invia un telegramma alla direzione del partito: «deploro che codesta direzione abbia voluto anticipare il giudizio del C.N. dinnanzi al quale mi riservo di esprimere le ragioni della mia opera e di difendere le mie idee. […] Rassegno al C.N. le mie dimissioni dalla direzione del partito»(218). Il 28 marzo esce su «Epoca» una lunga intervista a Marsich, intitolata I dissidi nel campo fascista. Il ‘passiamo a D’Annunzio’ illustrato dall’avv. Marsich, nel quale parla di una possibile «soluzione rivoluzionaria nazionale»(219). Il giorno dopo vuole chiarire a D’Annunzio il contenuto dell’intervista, nella quale si era esposto a ovvi malintesi. Il suo è anche un desiderio, ancora, di concordare con lui il da farsi: «sarebbe necessario, prima del consiglio nazionale dei fasci, che potessi avere un colloquio con lei che io non ho mai pensato — come mi si attribuisce — di metter alla testa del fascismo, ma che voglio si consideri come il Duce spirituale delle forze nazionali a cui tutti i fascisti o legionari — pur divisi — dovrebbero ispirare l’opera, la parola. Il consiglio nazionale si riunirà nei giorni 3 e 4 ed io vorrei, se possibile, vederla il giorno due. Sono quindi ai suoi ordini»(220).
Non si sa se l’incontro ebbe mai luogo. Marsich però non si presenta al Consiglio e le sue dimissioni verranno lette da Giuriati, «che assunse, almeno in parte, le sue difese». Il Consiglio le accetterà e ratificherà la deplorazione. Sulla decisione deve aver influito anche il minor peso di D’Annunzio e il conflitto con il movimento dei legionari fiumani che manifestano ormai uno spiccato antifascismo(221). In una lettera a Giorgio Pini, Marsich dice di sentirsi sollevato da questo distacco dalle cariche di partito e di non aver voluto andare al Consiglio un po’ per disgusto e un po’ per opportunità(222). L’11 aprile all’assemblea del Fascio veneziano viene criticato aspramente l’operato della direzione nazionale nei confronti di Marsich e vengono espulsi alcuni fascisti ‘mussoliniani’(223). La direzione nazionale viene però interpellata perché apra un’inchiesta sulla vicenda. L’8 giugno il maggiore Attilio Teruzzi, incaricato dal partito di risolvere la situazione, convoca l’assemblea generale. Marsich, annuncia le sue dimissioni dal P.N.F. e invita i suoi amici a rimanervi. Ma Teruzzi intima che è impossibile per un fascista seguire D’Annunzio, il cui ideale è irraggiungibile e il cui atteggiamento è ora ostile al fascismo e vicino ai socialisti. I fedeli di Marsich sono costretti a dimettersi(224). Fonderanno, il 14, un Fascio autonomo (al quale prende parte anche De Blasio, uno dei due fondatori del fascismo veneziano). Durerà poco, fino al 15 agosto, anche per la scarsa convinzione dello stesso Marsich, che nonostante la sua intransigenza rifugge da qualsiasi settarismo(225). Il 1° agosto chiude «Italia Nuova»: la data segna il suo definitivo ritiro dalla politica. Anche se in realtà rimane, almeno nel corso del 1922, in attesa di qualche mossa del Comandante. Ad agosto, per esempio, scrive al factotum di D’Annunzio, Tom Antongini, chiedendo notizie sulla sua salute, dopo la caduta dalla finestra del Vittoriale(226). E poi direttamente a lui, dopo il discorso dal balcone di palazzo Marino a Milano, occupato dalle squadre fasciste durante lo sciopero legalitario (accesamente nazionalista, in favore della «pacificazione nazionale», con riferimenti ai martiri, a Fiume; con la contrapposizione tra «l’Italia che vuol vivere dal ventre» e «l’Italia che vuol guardare lontano»)(227).
Lo scritto Perché sia salvato lo spirito, pubblicato nel 1922, è un po’ il testamento di Marsich(228). Tutto si gioca sulla contrapposizione tra materialismo e spiritualismo. Quando governa la materia, le coscienze, gli individui, le municipalità, i sindacati e lo Stato sono in conflitto e si comportano egoisticamente. Quando dominerà lo spirito, questi elementi (considerati tutti, al contrario del nazionalismo politico, come dei ‘valori’) saranno in armonia. Soltanto durante la prima guerra mondiale lo spirito degli italiani si è «levato sulla viltà della materia». Poi, persino il fascismo è diventato un fatto egoistico. I problemi in sostanza sono due: i conflitti sociali e politici che dilaniano il paese e la crisi dello Stato il quale non segue principi etici e nazionali ma è succube degli interessi di partito e delle piccole mediazioni per accontentare il proprio elettorato. L’Italia ha bisogno di «pochi eletti» che spiritualizzino i partiti. Se si mettessero da parte i rancori e l’astio personale, sarebbe possibile un governo di collaborazione formato da uomini competenti provenienti da tutti i partiti. Inoltre è necessario formare una coscienza civica diffusa, risolvibile attraverso l’educazione fisica, intellettuale e artistica delle masse. Marsich guarda oltre il fascismo-partito. Lo ritroviamo in diverse occasioni del suo percorso proporre larghe intese e fronti comuni (come del resto Giuriati, con il quale ha in comune l’esperienza della Trento e Trieste). Non stupisce che abbia trovato in D’Annunzio — che non si è mai schierato con un partito, lavora sull’immaginario degli italiani e incarna l’esperienza combattentistica — l’uomo guida della sua battaglia politica.
Quando Giorgio Suppiej riassume la storia dei primi Dieci anni di fascismo nella provincia di Venezia lo fa in modo efficace(229). Il Fascio veneziano nasce da un precedente: l’esperienza dell’irredentismo di Marsich e Giuriati, delle scuole e della Trento e Trieste, un irredentismo che esprimeva però «una volontà di battersi per un radicale rinnovamento del costume politico italiano». Si sviluppa con azioni squadriste e a favore di Fiume, attraverso il pensiero di Marsich e il suo giornale, l’amministrazione comunale conquistata nel 1920 e l’assorbimento delle organizzazioni sindacali del porto. «La Marcia su Roma trovava Venezia già in mano di forte e ben organizzato fascismo».
Questa descrizione celebrativa non fa cenno ai grossi conflitti che hanno investito il Fascio e lo hanno visto al centro del dissenso contro Mussolini. Eppure l’esperienza lascerà il segno. Nei giorni concitati immediatamente successivi alla Marcia su Roma, per esempio, Marsich si rivede, ritorna in piazza nel corso di una manifestazione filofascista alla quale partecipano, tra gli altri, nazionalisti, ex combattenti, liberali, pensionati, piccoli italiani, soci delle associazioni pro Dalmazia e Bucintoro. Scrive persino a Mussolini, congratulandosi. La «Gazzetta» interpreta il gesto come un ralliement col fascismo. Così anche il G.U.F. (Gruppi Universitari Fascisti) veneziano che vota per acclamazione un ordine del giorno nel quale lo invita a riprendere il suo posto nel partito. Non è dello stesso avviso il direttorio che si affretta subito a precisare che, nonostante tutto, Marsich deve essere ancora considerato come un elemento al di fuori del P.N.F. e della sua linea. Marsich risponde all’invito del G.U.F. specificando che si era congratulato con Mussolini come «capo del governo nazionale dell’Italia vittoriosa» e non come capo del fascismo, ribadendo di essere «non contro ma oltre il fascismo». La cosa ha un piccolo strascico di lettere sulla «Gazzetta»: a Mar;sich viene mossa l’accusa di aver creato le premesse di azioni perturbatrici da parte dei giovani fascisti. La vicenda testimonia lo scompiglio che l’ex capo è ancora in grado di provocare nel Fascio(230). In una lettera a Balbo, Marsich, che si sente vittima di manovre contro di lui, commenta: «Gli amici zelanti che vorrebbero una mia rientrata nel partito sono altrettanto infedeli interpreti del mio pensiero quanto gli avversari che vogliono escludermene»(231). Una certa tensione nel Fascio rimarrà. A dicembre, gran parte degli ex marsichiani sono di nuovo espulsi perché denunciano l’ostracismo della dirigenza del Fascio contro i fascisti della prima ora(232). Secondo Piva, dietro a questi conflitti c’è un’alleanza tra Giuriati, Magrini e Volpi, il quale dopo l’uscita di Marsich acquisisce un’influenza sempre maggiore sul fascismo locale. Lo stesso Suppiej, nel 1925, denuncerà di essere stato messo da parte perché si è opposto alle mire di un «gruppo industriale», verso il quale Giuriati appare condiscendente(233).
Mentre Lanfranchi subisce una damnatio memoriae, il ricordo di Marsich riaffiora in diverse occasioni. Dopo la sua morte (1928), «l’unanime commosso cordoglio» e «i grandiosi funerali» (sono i titoli enfatici del «Gazzettino»), gli viene dedicato un busto che è collocato nella sede del Fascio(234). Nel 1935, esce il Diario di Vicentini, autorizzato dal partito. Nonostante quest’ultimo nel ’21-’22 si fosse schierato con Mussolini e non con i dannunziani, celebra Marsich come un grande protagonista(235). In fondo, nonostante le posizioni critiche, Marsich non si è mai convertito all’antifascismo. Il fiumanesimo e D’Annunzio restano parte dei simboli e dei miti del fascismo nazionale e soprattutto locale. Giuriati manterrà i rapporti di amicizia con il Comandante e avrà un ruolo primario nell’assunzione, da parte dello Stato, del Vittoriale degli Italiani a Gardone, in ricordo della Grande guerra e dell’impresa fiumana (1923)(236). Il suo distacco da Mussolini si compirà — dopo essere stato ministro e segretario del P.N.F. — col voto a favore dell’ordine del giorno Grandi nella seduta del Gran consiglio del 25 luglio 1943. Per questo sarà condannato a morte in contumacia dalla neonata Repubblica Sociale, proprio quando a Venezia, invece, si rifarà sentire ‘la presenza’ di Marsich. Infatti, nel gennaio 1944 il federale Pio Leoni, che era stato uno dei principali promotori del Fascio dissidente e dannunziano del ’22, rifonda «Italia Nuova», ispirandosi esplicitamente a «l’indimenticabile capo del fascismo veneziano»(237).
1. In realtà Volpi è ministro delle Finanze tra il 1925 e il 1928.
2. «A Venezia, durante le tragiche giornate Fiumane, io ho mobilitate tutte le mie forze fasciste, sono sceso nelle piazze, ho sgominati i traditori, ho imposto a Venezia, in segno di lutto, per il Vostro sangue e per i Vostri Morti gloriosi, la chiusura dei negozi, delle finestre, e l’oscuramento totale della città. Eravamo in pochi, con poche armi, e nulla di più ho potuto fare. Ma, Comandante, in quelle giornate, io ho forse salvato il Duce, e i destini d’Italia»: Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio fiumano, Carteggi vari, fasc. «Lanfranchi Giuseppe», lettera del 30 novembre 1937.
3. Giuseppe Lanfranchi, «La Verità», 1921, nr. unico.
4. Raffaele A. Vicentini, Il movimento fascista veneto attraverso il diario di uno squadrista, Venezia s.a. [ma 1935], p. 183 [ma p. 189].
5. Renzo De Felice, Mussolini il fascista, I, La conquista del potere 1921-1925, Torino 1966, pp. 146-147.
6. Cf. Camera di Commercio e Industria di Venezia, Notizie sul movimento economico della provincia di Venezia durante il periodo della guerra, Venezia 1921; Comune di Venezia, Il censimento generale del 1° dicembre 1921 della popolazione di Venezia, Venezia 1923; Rodolfo Gallo, Popolazione, matrimoni, nascite e morti in Venezia dal 1911 al 1922, Venezia 1923; Laura M. Ragg, Crises in Venetian History, London 1928, pp. 268-293.
7. Comune di Venezia, Il censimento generale del 1° dicembre 1921, p. 21; R. Gallo, Popolazione, matrimoni, nascite, p. 2.
8. Gino Luzzatto, Il Porto di Venezia ed il suo retroterra, «Ateneo Veneto», 46, 1923, pp. 16-17 (pp. 5-20).
9. Per esempio «Il Gazzettino», 30 gennaio 1919.
10. Numeri indici del costo della vita in Venezia. Bilancio riassuntivo completo per famiglia ‘tipo’ dell’operaio qualificato, «Rivista Mensile della Città di Venezia», 2, 1923, p. 173; Indice del costo della vita in alcune città italiane, ibid., p. 174; «Il Gazzettino», 24 marzo 1919.
11. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1919, bb. 130, 132-134, 138; «Il Secolo Nuovo» e «Il Gazzettino» alle relative date. Per il problema della cooperativa scaricatori S. Lucia cf. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1919, b. 132, lettera del prefetto al Ministero degli Interni, 31 gennaio 1919, e «Il Gazzettino», 31 gennaio 1919.
12. Esempi tratti da «Il Gazzettino», 27 gennaio, 26 febbraio e 1° maggio 1919.
13. Girolamo Li Causi, Il lungo cammino. Autobiografia 1906-1944, Roma 1974, p. 64; Armando Gavagnin, Vent’anni di resistenza al fascismo. Ricordi e testimonianze, Torino 1957, p. 53; R.A. Vicentini, Il movimento fascista veneto, p. 14.
14. Basti vedere «Il Gazzettino», 8 febbraio, 18 aprile e 9 giugno 1919; per il P.P.I., Il partito popolare italiano, ibid., 11 marzo 1919.
15. «Il Secolo Nuovo», 1919, infra; «Il Gazzettino», 2 maggio e infra luglio 1919; utile riassunto in Daniele Resini, Cronologia, in Cent’anni a Venezia. La Camera del lavoro 1892-1992, a cura di Id., Venezia 1992, pp. 392-396 (pp. 317-509).
16. Per cenni sulla fondazione del Fascio cf. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1922, b. 101, prospetto Fascio veneziano di combattimento, 13 luglio 1919; Giorgio Alberto Chiurco, Storia della rivoluzione fascista 1919-1922, I, Anno 1919, Firenze 1929, p. 130; III, Anno 1921, Firenze 1929, p. 360; Giorgio Suppiej, Dieci anni di Fascismo nella provincia di Venezia, «Le Tre Venezie», 1932, nr. 8, p. 625 (pp. 625-641); R.A. Vicentini, Il movimento fascista veneto, pp. 1-2. Notizie su De Blasio in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Cat. A5, Agitazione Pro Fiume e Dalmazia (1916-1922), relazione del prefetto, 5 dicembre 1919.
17. R.A. Vicentini, Il movimento fascista veneto, pp. 1-2.
18. Per primi documenti intendiamo gli appelli pubblicati ne «Il Gazzettino», 20, 26, 30 aprile, 10, 12, 21 23 maggio, 17 agosto, e nella «Gazzetta di Venezia», 20 aprile, 18 e 25 giugno 1919; Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio generale, fasc. LXV/2 «Partito Nazionale Fascista. Venezia», programma, scheda di adesione, lettera circolare (29 aprile 1919) e lettera accompagnatoria di Giurin a D’Annunzio (26 aprile 1919). Per le dichiarazioni di S. Sepolcro cf. Scritti politici di Benito Mussolini, a cura di Enzo Santarelli, Milano 1979, pp. 184-190.
19. Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio generale, fasc. LXV/2 «Partito Nazionale Fascista. Venezia», programma, scheda di adesione, lettera circolare e lettera accompagnatoria del Fascio veneziano di combattimento.
20. «Gazzetta di Venezia», 9 aprile 1919.
21. Ibid., 18 aprile 1919.
22. Cf. per esempio la poesia del futuro fascista della prima ora Eugenio Genero, La vose del cuor, in Soto el çiel de Venezia. Rime in vernacolo venezian, manoscritto, in Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio generale, fasc. XVIII/3 «Genero Eugenio».
23. «Gazzetta di Venezia», 20 maggio 1919.
24. Il comizio del Fascio di combattimento, «Il Gazzettino», 12 maggio 1919.
25. Un appello del Fascio di combattimento, ibid., 17 agosto 1919.
26. La propaganda del Fascio veneziano di combattimento, ibid., 26 aprile 1919.
27. Luca Pes, Il fascismo urbano a Venezia. Origine e primi sviluppi. 1895-1922, «Italia Contemporanea», 38, 1987, nr. 169, pp. 63-84.
28. La democrazia contro Musatti, «L’Adriatico», 6 marzo 1912, e Elettori del primo collegio: votate per Pietro Orsi, ibid., 14 marzo 1912; Giovanni Giuriati, La parabola di Mussolini nei ricordi di un gerarca, a cura di Emilio Gentile, Roma-Bari 1981, pp. 18-20.
29. Piero Marsich, Il nazionalismo, «L’Adriatico», 30 settembre 1911; P. M., Ciò che l’ora presente ammonisce, ibid., 9 ottobre 1911.
30. Si confronti per esempio Il movimento elettorale in Italia, «Gazzetta di Venezia», 27 ottobre 1904, e Violenti e timidi, «L’Adriatico», 7 maggio 1904, con La lotta politica nel I° collegio, ibid., 3 marzo 1912, e Il comizio democratico al Marco Polo, ibid., 21 marzo 1912.
31. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1914, bb. 6, 20, 24, 25, e Cat. A5G, I guerra mondiale, b. 125; Luciano Pomoni, Il Dovere Nazionale. I nazionalisti veneziani alla conquista della piazza (1908-1915), Padova 1998.
32. Un elenco dei sostenitori della Trento e Trieste in A Venezia. La festa di mezza quaresima del Comitato studentesco, «La Voce della Patria», 15 aprile 1914.
33. Sezione studentesca della Dante Alighieri, «L’Adriatico», 20 dicembre 1911; A Venezia. Assemblea del Comitato studentesco, «La Voce della Patria», 15 gennaio 1914; Anime nostre. Piero Foscari, ibid., 15 marzo 1914; Perché i repubblicani d’Italia non sono più irredentisti?, «Pro Venezia Giulia», 15 luglio 1914; Il nuovo consiglio, «La Voce della Patria», 15 giugno 1915; La nuova presidenza, ibid., 17 gennaio 1915.
34. Mario Isnenghi, «Il Dovere Nazionale». Lettere di Alfredo Rocco a Gino Damerini, in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 449-459.
35. Richard A. Webster, L’imperialismo industriale italiano, 1908-1915. Studio sul prefascismo, Torino 1974.
36. Il dovere dei Veneti nell’infiammata parola di Attilio Tamaro, «La Voce della Patria», 17 gennaio 1915.
37. Piero Foscari, Per il più largo dominio di Venezia. La città e il porto, Milano 1917; Armando Odenigo, Piero Foscari. Una vita esemplare, Rocca San Casciano 1959; Cesco Chinello, Foscari, Piero, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLIX, Roma 1998, pp. 46-48. Più in generale sull’istituirsi fin dall’anteguerra di un «nuovo blocco» cf. Mario Isnenghi, Fine della Storia?, in Venezia. Itinerari per la storia della città, a cura di Stefano Gasparri-Giovanni Levi-Pierandrea Moro, Bologna 1997, pp. 418-431 (pp. 405-436).
38. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Cat. A5, Agitazione Pro Fiume e Dalmazia (1916-1922), b. 1, fasc. 1, relazione dattiloscritta anonima, 12 marzo 1919.
39. Ibid., fasc. 2, telegramma del prefetto Cioja, 15 gennaio 1919.
40. Ibid., b. 2, fasc. 6, telegramma del prefetto, 30 aprile 1919.
41. Il velivolo ‘N. Sauro’ offerto dagli Irredenti Adriatici alla squadriglia ‘S. Marco’, «Il Gazzettino», 16 settembre 1918, p. 3; Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Cat. A5, Agitazione Pro Fiume e Dalmazia (1916-1922), b. 2, fasc. 6.
42. Piero Foscari, Interessi italiani nel Mediterraneo nostri diritti sulla Dalmazia, Venezia 1916, p. 17.
43. Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio fiumano, fasc. «Chiggiato Giovanni», lettere 25 e 27 febbraio 1920; ibid., fasc. «Venezia. Il leone di S. Marco donato da», foto; ibid., fasc. «Marsich Piero», lettera del 25 febbraio 1920.
44. Per la vittoria e per i combattenti al consiglio comunale di Venezia, «Il Gazzettino», 1° dicembre 1918, p. 3.
45. Cf. D’Annunzio e Venezia. Atti del convegno, a cura di Emilio Mariano, Roma 1991, in partic. Mario Isnenghi, D’Annunzio e l’ideologia della venezianità, pp. 229-244.
46. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Cat. A5G, I Guerra Mondiale, b. 125, fasc. 254, sottofasc. 5, telegramma del prefetto, 10 luglio 1917, e relazione, 8 ottobre 1917.
47. Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio generale, fasc. LIII/3 «Marsich, P.», lettere ottobre 1918-giugno 1919. La pubblicazione esce come Di Gabriele D’Annunzio. Lettera ai dalmati, Venezia 1919.
48. Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio generale, fasc. XVII/6 «Levi Raffaello»; Bruno Coceni, 1919. L’opera della ‘Trento Trieste’ nelle terre adriatiche e la spedizione di Fiume, Trieste 1933, p. 38.
49. Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio generale, fasc. XVII/6 «Chiggiato Giovanni».
50. Giovanni Giuriati, La vigilia, Milano 1930, pp. 165-279.
51. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1922, b. 101, prospetto del 13 luglio 1919. Per Levi cf. Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio generale, fasc. XVII/6 «Levi Raffaello».
52. Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio fiumano, Corrispondenza varia, fasc. «Acerbi Domenico», lettera senza data e messaggio del 14 giugno 1936.
53. Gaetano Salvemini, Le origini del fascismo in Italia. Lezioni di Harvard, Milano 1966, pp. 210-211.
54. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Mostra della Rivoluzione Fascista, b. 107, fasc. «carteggio C.C. - Venezia», lettera del 21 agosto 1919, cit. in Francesco Piva, Lotte contadine e origini del fascismo. Padova-Venezia: 1919-1922, Venezia 1977, p. 135; R.A. Vicentini, Il movimento fascista veneto, p. 9.
55. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Cat. A5, Agitazione Pro Fiume e Dalmazia (1916-1922), b. 2, fasc. 6, sottofasc. «Venezia», infra.
56. Nostre elaborazioni sulla base delle carte contenute presso Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio fiumano, Varie, cartt. 178-193, fogli matricolari Legione Volontari Fiumani.
57. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Cat. A5, Agitazione Pro Fiume e Dalmazia (1916-1922), b. 3, fasc. 7.
58. Ibid., b. 2, fasc. 6 «Venezia», fonogramma del prefetto, 18 settembre 1919.
59. Ibid., b. 2, fasc. 6 «Venezia».
60. Ivi, Mostra della Rivoluzione Fascista, b. 107, fasc. «carteggio C.C. - Venezia», lettera di De Blasio a Pasella, 18 settembre 1919, e lettera di Pasella a Baseggio, 19 settembre 1919, cit. in F. Piva, Lotte contadine, p. 141.
61. Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario. 1883-1920, Torino 1965, pp. 559-560.
62. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Mostra della Rivoluzione Fascista, b. 107, fasc. «carteggio C.C. - Venezia», lettera del Comitato esecutivo del fascio al C.C., 4 novembre 1919, cit. in F. Piva, Lotte contadine, p. 155 n. 46.
63. R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, p. 571.
64. «Secolo Nuovo», 18 novembre 1919; F. Piva, Lotte contadine, p. 131.
65. Emilio Gentile, Storia del partito fascista. 1919-1922. Movimento e milizia, Roma-Bari 1989, pp. 57-59.
66. Silvio Tramontin, Patriarca e cattolici veneziani di fronte al partito popolare italiano, in Id., Cattolici, popolari e fascisti nel Veneto, Roma 1975, pp. 10-11 e 16 (pp. 1-61).
67. Giovanni Giuriati, Con D’Annunzio e Millo in difesa dell’Adriatico, Firenze 1954, pp. 87-120; Paolo Alatri, Nitti, D’Annunzio e la questione adriatica, Milano 1976, pp. 338-346.
68. Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio fiumano, Corrispondenza varia, fasc. «Levi Raffaello», lettera del 19 dicembre s.a. [ma 1919].
69. G. Giuriati, Con D’Annunzio, pp. 119-162. Per le trattative con la massoneria cf. Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio fiumano, Corrispondenza varia, fasc. «Giuriati Giovanni», lettera 8 febbraio s.a. [ma 1920].
70. Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio fiumano, Corrispondenza varia, fasc. «Levi Raffaello», lettera indirizzata a «egregio capitano», 3 gennaio 1920.
71. «Mio comandante, […]. Parmi che d’ora in poi il posto del legionario non possa essere che a Fiume: e io la prego di comandarmi all’ufficio anche il più umile, non vorrei assolutamente mancare nell’ora della prova», Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio fiumano, Corrispondenza varia, fasc. «Marsich Piero», lettera 28 gennaio 1920.
72. Ferdinando Gerra, L’impresa di Fiume, I-II, Milano 1966.
73. F. Piva, Lotte contadine, pp. 137-138.
74. Moreno Guerrato, Silvio Trentin un democratico all’opposizione, Milano 1981, pp. 73-74.
75. F. Piva, Lotte contadine, pp. 137 e 139.
76. Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio personale, Corrispondenza varia, fasc. «Marsich Piero», lettera 7 febbraio 1920.
77. Ibid., fasc. «Giuriati Giovanni», lettera 8 febbraio s.a. [ma 1920].
78. Ibid., fasc. «Marsich Piero», lettera 12 febbraio 1920.
79. Ibid., fasc. «Venezia. Comitato pro Fiume», lettera del Fascio veneziano delle lavoratrici della guerra, 11 febbraio 1920, e fasc. «Marsich Piero», lettera 30 marzo 1920.
80. Ibid., fasc. «Marsich Piero», lettere 12 aprile 1920 e 18 aprile 1920.
81. Ibid., lettera 1° giugno 1920.
82. R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, pp. 593-598; tesi ripresa in Guglielmo Salotti, Breve storia del fascismo, Milano 1998, pp. 23-26.
83. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1920, b. 109, 27 maggio-7 giugno 1920.
84. «Il Gazzettino», 25 e 26 aprile 1920; R.A. Vicentini, Il movimento fascista veneto, pp. 41-43. Ricostruzione in D. Resini, Cronologia, p. 397.
85. R.A. Vicentini, Il movimento fascista veneto, p. 46.
86. Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio fiumano, Corrispondenza varia, fasc. «Marsich Piero», lettera 20 aprile s.a. [ma 1920].
87. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Mostra della Rivoluzione Fascista, b. 107, fasc. «Carteggio C.C. - Venezia», lettere 22 e 23 agosto 1920, cit. in F. Piva, Lotte contadine, p. 158 n. 83.
88. Paolo Nello, L’avanguardismo giovanile alle origini del fascismo, Roma-Bari 1978, p. 76.
89. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1920, b. 118, 22 luglio 1920; R.A. Vicentini, Il movimento fascista veneto, pp. 56-57; «Il Gazzettino», 23 luglio 1920.
90. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1920, b. 109, 31 marzo 1920.
91. Cesco Chinello, Igino Borin (1890-1954), Venezia 1988, pp. 58-90.
92. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1920, bb. 109 e 129, lettere 2 luglio 1920; ivi, Mostra della Rivoluzione Fascista, b. 107, fasc. «carteggio C.C. - Venezia», lettera di Lanfranchi al c.c., 21 giugno 1920, cit. in F. Piva, Lotte contadine, p. 140.
93. R.A. Vicentini, Il movimento fascista veneto, p. 26.
94. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1920, b. 126, 21 gennaio 1920; b. 128, 18 gennaio 1920.
95. F. Piva, Lotte contadine, p. 145, e Giulia Albanese, Alle origini del fascismo. La violenza politica a Venezia 1919-1922, tesi di laurea, Università degli Studi di Venezia, a.a. 1998-1999, pp. 70-71 (ora edita, Padova 2001).
96. F. Piva, Lotte contadine, p. 208.
97. G. Giuriati, La parabola, p. 20; F. Piva, Lotte contadine, p. 139.
98. S. Tramontin, Patriarca e cattolici, pp. 15-28, e Id., Il fascismo nel ‘diario’ del card. La Fontaine, in Id., Cattolici, popolari e fascisti nel Veneto, Roma 1975, p. 77 e n. 12. Elenco candidati in Sergio Barizza, Il Comune di Venezia 1806-1946. L’istituzione, il territorio, guida-inventario dell’Archivio Municipale, Venezia 19872, pp. 61-62.
99. «Venezia» e «Il Gazzettino», 1° novembre 1920, cit. in S. Tramontin, Patriarca e cattolici, p. 25.
100. F. Piva, Lotte contadine, pp. 130 e 139.
101. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Mostra della Rivoluzione Fascista, b. 106, lettera del 2 ottobre 1919, cit. in R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, p. 541; Una dichiarazione di Fiorioli, «Italia Nuova», 28 ottobre 1920.
102. A proposito di blocco, «Italia Nuova», 7 ottobre 1920, e Il blocco e il nostro atteggiamento, ibid., 13 ottobre 1920; F. Piva, Lotte contadine, p. 146.
103. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Cat. A5, Agitazione Pro Fiume e Dalmazia (1916-1922), b. 6, fasc. 44 «Venezia. Plebiscito per Fiume», prefetto, 12 agosto 1920.
104. Fiume, «Il Popolo», 6 settembre 1920, e Italia e Jugoslavia, ibid., 8 novembre 1920; F. Piva, Lotte contadine, p. 137; M. Guerrato, Silvio Trentin, pp. 77-78.
105. R.A. Vicentini, Il movimento fascista veneto, p. 75.
106. Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio fiumano, Corrispondenza varia, fasc. «Marsich Piero», 1° novembre 1920.
107. F. Piva, Lotte contadine, p. 140; Lo sciopero dell’Azienda, «Il Popolo», 10 luglio 1920; R.A. Vicentini, Il movimento fascista veneto, p. 59.
108. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1920, b. 7, fasc. pers. «Giuseppe Volpi», relazione del prefetto del 26 novembre 1920.
109. Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio fiumano, Corrispondenza varia, fasc. «Marsich Piero», ricevuta del 27 settembre 1920.
110. «Italia Nuova», 29 luglio 1920.
111. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Mostra della Rivoluzione Fascista, b. 107, fasc. «carteggio C.C. - Venezia», lettera 30 agosto 1920, cit. in F. Piva, Lotte contadine, p. 156 n. 68.
112. Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio fiumano, Corrispondenza varia, fasc. «Venezia. Fascio di combattimento», telegramma del 2 settembre 1920.
113. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Mostra della Ri;voluzione Fascista, b. 107, fasc. «carteggio C.C. - Venezia», lettera del 14 settembre 1920, cit. in F. Piva, Lotte contadine, p. 156 n. 68; cf. Giorgio Alberto Chiurco, Storia della Rivoluzione fascista. 1919-1922, II, Anno 1920, Firenze 1929, pp. 121-122, lettera 19 settembre 1920.
114. R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, pp. 637, 640-641 e 749-750.
115. L’adunata dei fascisti, «Italia Nuova», 13 ottobre 1920. Sull’avvenuta iscrizione di D’Annunzio nel registro della popolazione di Venezia cf. Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio generale, fasc. XLIII/5 «Venezia (città)», lettera del commissario regio, 2 marzo 1920.
116. Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio fiumano, Corrispondenza varia, fasc. «Marsich Piero», 14 ottobre 1920.
117. R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, pp. 640-643.
118. Ibid., pp. 635-636.
119. Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio fiumano, Corrispondenza varia, fasc. «Marsich Piero», lettera 1° novembre 1920.
120. Ibid., lettera 6 novembre 1920.
121. Ibid., lettera 10 novembre 1920.
122. R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, p. 645.
123. Ibid., p. 647.
124. L’imponente assemblea del fascio e delle associazioni patriottiche, «Italia Nuova», 22 novembre 1920; R.A. Vicentini, Il movimento fascista veneto, pp. 78-79; F. Piva, Lotte contadine, p. 142.
125. R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, p. 650.
126. G. Giuriati, Con D’Annunzio, pp. 171-178.
127. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1920, b. 7, fasc. pers. «Giuseppe Volpi», relazione del prefetto del 26 novembre 1920.
128. Gabriele D’Annunzio, «Italia Nuova», 29 novembre 1920; F. Piva, Lotte contadine, p. 142.
129. Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio personale, fasc. «Marsich Piero», lettera del 29 novembre 1920.
130. La funzione politica del fascismo e del fiumanesimo, «Italia Nuova», 13 dicembre 1920; F. Piva, Lotte contadine, p. 157 nn. 76 e 79; R.A. Vicentini, Il movimento fascista veneto, p. 84.
131. Scritti politici di Gabriele D’Annunzio, a cura di Paolo Alatri, Milano 1980, pp. 250-251.
132. F. Gerra, L’impresa di Fiume.
133. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1922, b. 8, fasc. «Pro Fiume», infra.
134. R.A. Vicentini, Il movimento fascista veneto, pp. 84-90.
135. Cenni sui fatti successivi al «Natale di sangue» anche nel diario del patriarca (cf. S. Tramontin, Il fascismo nel ‘diario’, p. 78) e in quello di Gavagnin (A. Gavagnin, Vent’anni di resistenza, pp. 94-95), ma non aggiungono sostanzialmente nulla.
136. Fascismo e bolscevismo, «Venezia», 6 gennaio 1921.
137. Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio fiumano, Corrispondenza varia, fasc. «Marsich Piero», lettera 6 novembre 1920.
138. Cf. per esempio il ritratto che fa di lui Sorel in una lettera del 30 gennaio 1921 a Mario Missiroli (Georges Sorel, Lettere a un amico d’Italia, Bologna 1963, p. 303, cit. in R. De Felice, Mussolini il fascista, p. 131 n. 4).
139. R. De Felice, Mussolini il fascista, pp. 65-70.
140. Per l’importante ruolo di Marsich nella fondazione del Fascio fiumano si rimanda ad Antonella Ercolani, La fondazione del fascio di combattimento a Fiume tra Mussolini e D’Annunzio, Roma 1996.
141. Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio generale, fasc. «Marsich Piero», lettera del 2 gennaio 1921.
142. Ibid., lettere del 21 febbraio e del 1° marzo 1921; Roma, Archivio Centrale dello Stato, Mostra della Rivoluzione Fascista, b. 107, fasc. «Venezia», lettera del 3 marzo 1921, cit. in R. De Felice, Mussolini il fascista, p. 70; Annamaria Andreoli, Il vivere inimitabile. Vita di Gabriele d’Annunzio, Milano 2000, p. 589.
143. «Coloro che hanno sinceramente abbracciato la causa di Fiume che è la causa stessa della Patria [scrive a D’Annunzio] non possono non soffrire amaramente sapendo che c’è chi cerca di gettare ombre sulla loro azione diritta e sul sentimento incontaminato, ma ognuno d’essi è sicuro che il Comandante riconoscerà i fedeli dagli infedeli», Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio generale, fasc. LIII/3 «Marsich, P.», lettera del 16 marzo 1921.
144. R. De Felice, Mussolini il fascista, pp. 72-73.
145. Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio generale, fasc. LIII/3 «Marsich, P.», 6 aprile s.a. [ma 1921].
146. Ibid., telegrammi del 18 aprile e 30 maggio 1921.
147. Cf. R.A. Vicentini, Il movimento fascista veneto, p. 100.
148. Le relazioni di polizia sugli scontri di aprile-giugno sono in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1921, b. 113; utile riassunto in F. Piva, Lotte contadine, pp. 213-215.
149. R.A. Vicentini, Il movimento fascista veneto, p. 183 [ma p. 189] dove si parla di «difficoltà dell’ambiente» a Venezia.
150. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1921, b. 113, relazioni del prefetto, 19 e 25 giugno 1921.
151. Ibid., 1922, b. 98, lettere del prefetto 17 novembre 1921 e 13 febbraio 1922; C. Chinello, Igino Borin, pp. 97-98; L. Pes, Il fascismo urbano, p. 80.
152. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1921, b. 113, relazione prefetto 4 maggio 1921.
153. Cf. soprattutto ibid., relazione del 15 giugno 1921.
154. Ibid., relazioni del 18 e 19 giugno 1921.
155. Cf. l’offerta di gagliardetti alle squadre fasciste da parte «delle donne veneziane» raccontata in R.A. Vicentini, Il movimento fascista veneto, p. 103.
156. «Gazzetta di Venezia», 8 aprile 1921. Più in generale cf. Gianni Boldrin, Aristocrazie terriere e finanziarie all’assalto della stampa (1919-1925), in Giornali del Veneto fascista, Padova 1976, pp. 17-78.
157. «Gazzetta di Venezia», 24 maggio 1921.
158. «Italia Nuova», 27 giugno 1921.
159. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1921, b. 113, relazione del prefetto, 10 giugno 1921.
160. G. Albanese, Alle origini del fascismo, p. 132.
161. Ibid., pp. 116-117.
162. Cf. I riassunti per le 81 sezioni di città, «Il Gazzettino», 17 maggio 1921.
163. Cf. R. De Felice, Mussolini il fascista, p. 81; Elezioni fasciste, «Italia Nuova», 11 aprile 1921, cit. in F. Piva, Lotte contadine, p. 210.
164. La nostra via, «Italia Nuova», 5 maggio 1921; F. Piva, Lotte contadine, p. 210.
165. «Ho imparato molte cose [gli scrive] se si trattasse di rifare il cammino, rifiuterei la candidatura», Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio generale, fasc. XIII/4 «Giuriati Giovanni», lettera del 16 maggio 1921.
166. Ibid., fasc. LIII/3 «Marsich, P.», 16 giugno s.a. [ma 1921].
167. Il fascismo e il gruppo parlamentare, «Italia Nuova», 11 luglio 1921. Cf. E. Gentile, Storia del partito fascista, pp. 261-262. Sulle vicende del patto e sulla spedizione a Treviso cf. anche F. Piva, Lotte contadine, pp. 211-213.
168. Il fascio contro le trattative, e La pace non si fa fabbricando i trattati ma cambiando i governi, «Italia Nuova», 28 luglio 1921; R. De Felice, Mussolini il fascista, pp. 143-144.
169. Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio generale, fasc. LIII/3 «Marsich, P.», 29 luglio 1921.
170. E. Gentile, Storia del partito fascista, pp. 288-290. È una lettera di Marsich a Balbo che ci consente di collocare la riunione ad agosto e non più a settembre come si era fatto finora (cf. per esempio R. De Felice, Mussolini il fascista, p. 167 e n.).
171. E. Gentile, Storia del partito fascista, pp. 290-294. Dino Grandi, Il mio paese. Ricordi autobiografici, Bologna 1985, pp. 146-148.
172. D. Grandi, Il mio paese, p. 151.
173. Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio generale, fasc. LIII/3 «Marsich, P.», 14 settembre 1921.
174. R. De Felice, Mussolini il fascista, pp. 172-173.
175. Ibid., pp. 182-184.
176. Ibid., p. 217.
177. Ibid. La definizione di Marsich di D’Annunzio come «Unico Grande Italiano» si trova in Il fascismo nel giudizio di un fascista. Una lettera inedita di Piero Marsich, «La Riscossa dei Legionari Fiumani», 5 marzo 1922. Il testo è riportato in R. De Felice, Mussolini il fascista, pp. 198-199.
178. G. Giuriati, La parabola, pp. 92-95.
179. F. Piva, Lotte contadine, p. 235 n. 36 e p. 283 n. 24; Giovanni Giuriati rientra nel fascio veneziano, «Italia Nuova», 28 novembre 1921.
180. R.A. Vicentini, Il movimento fascista veneto, pp. 163-164 [ma pp. 169-170].
181. F. Piva, Lotte contadine, pp. 270-271.
182. Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio generale, fasc. XIII/4 «Giuriati Giovanni», lettera del 15 luglio 1921.
183. G. Giuriati, La parabola, pp. 93-94.
184. Ibid., p. 95.
185. F. Piva, Lotte contadine, pp. 281-282 n. 3; A. Gavagnin, Vent’anni di resistenza, pp. 107-108.
186. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1922, b. 161, fasc. «Fascio veneziano di combattimento», infra.
187. Ibid.
188. Cf. la lettera su «L’Eco dei Soviet» riportata in C. Chinello, Igino Borin, p. 98; G. Albanese, Le origini del fascismo, p. 227.
189. L. Pes, Il fascismo urbano, p. 79.
190. La vertenza con i sindacati, «Italia Nuova», 4 marzo 1922, cit. in F. Piva, Lotte contadine, p. 270 e p. 282 n. 20.
191. L. Pes, Il fascismo urbano, pp. 79-83.
192. «Gazzetta di Venezia», 5 agosto 1922; C. Chinello, Igino Borin, pp. 103-115; D. Resini, Cronologia, pp. 407-412.
193. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1922, b. 161 «Fascio veneziano di combattimento», telegramma del 24 settembre 1922; Un discorso del Sen. Fradeletto all’Ateneo Veneto, «Gazzetta di Venezia», 26 settembre 1922.
194. «Gazzetta di Venezia», 31 ottobre 1922.
195. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1921, b. 8, fasc. «Pro Fiume e Dalmazia», 9 giugno 1921.
196. R.A. Vicentini, Il movimento fascista veneto, p. 138.
197. Nostre elaborazioni sulla corrispondenza che riguarda i fermati nel giugno-settembre 1921, in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1921, b. 8, fasc. «Pro Fiume e Dalmazia».
198. R.A. Vicentini, Il movimento fascista veneto, p. 157.
199. Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio generale, fasc. LIII/3 «Marsich, P.», lettera del Natale 1921.
200. R. De Felice, Mussolini il fascista, p. 199.
201. G. Giuriati, La parabola, p. 25.
202. Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio generale, fasc. XIII/4 «Giuriati Giovanni», lettera 2 marzo 1922.
203. G. Giuriati, La parabola, p. 26.
204. R.A. Vicentini, Il movimento fascista veneto, p. 197 [ma p. 203].
205. «La Legione Veneta costituita non potrebbe avere un più nobile comandante stop credo ormai sia necessario riprendere la lotta e condurla fino al termine», Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio personale, fasc. «Marsich Piero», telegramma del 7 marzo 1922.
206. Ivi, Archivio generale, fasc. LIII/3 «Marsich, P.», telegramma del 9 marzo 1922.
207. Ibid., fasc. XIII/4 «Giuriati Giovanni», telegramma del 6 marzo 1922.
208. Ibid., fasc. LIII/3 «Marsich, P.», minuta di lettera di Giuriati a Marsich, 6 febbraio 1922 [ma si tratta sicuramente del marzo 1922].
209. G. Giuriati, La parabola, p. 28.
210. «Il fascio veneziano rimane tenacemente fedele a voi e alla causa. La legione veneta che si è formata per raccogliere in sé non solo i fascisti ma tutte le forze schiette della gioventù attende il vostro comando. Ma occorre non tardare perché l’assopimento minaccia di riprendere l’organizzazione ormai contaminata e perché da ogni parte si suggerisce la capitolazione. Noi continuiamo a mantener Venezia in un’atmosfera di entusiasmo e cerchiamo di diffonderlo a cerchia più vasta. Ma solo la vostra parola e la vostra presenza potranno ottenere il miracolo. Io persevero — con Italia Nuova — nella lotta assidua», Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio generale, fasc. LIII/3 «Marsich, P.», lettera del 7 marzo 1922.
211. R. De Felice, Mussolini il fascista, p. 199; D. Grandi, Il mio paese, pp. 157-159.
212. R. De Felice, Mussolini il fascista, pp. 199-200.
213. Paolo Monelli, Mussolini piccolo borghese, Milano 1950, pp. 102-105.
214. G. Giuriati, La parabola, p. 29; E. Gentile, Storia del partito fascista, pp. 452-453.
215. R.A. Vicentini, Il movimento fascista veneto, p. 200 [ma p. 206].
216. Ibid., pp. 200-202 [ma pp. 206-208].
217. Ibid., p. 202 [ma p. 208].
218. Ibid., pp. 202-203 [ma pp. 208-209].
219. R. De Felice, Mussolini il fascista, p. 200.
220. Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio generale, fasc. LIII/3 «Marsich, P.», lettera del 29 marzo 1922.
221. E. Gentile, Storia del partito fascista, pp. 456-457.
222. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Carte Pini, b. 1, fasc. 4, lettera del 4 aprile 1922, cit. in G. Albanese, Le origini del fascismo, p. 247 n. 23.
223. R.A. Vicentini, Il movimento fascista veneto, pp. 206-207 [ma pp. 212-213].
224. Ibid., pp. 224-226 [ma pp. 230-232].
225. Ibid., p. 227 [ma p. 233]; Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1922, b. 161, fasc. «Fascio veneziano di combattimento», relazione 17 agosto 1922.
226. «Nessuno è necessario all’Italia com’Egli è oggi: Egli solo potrà sovrapporsi a tutti i partiti e a tutti i discorsi per dire in Roma libera la parola augusta e sovrana della patria. Io spero il destino non contenda all’Italia nostra questo bene ch’essa attende ancora dal suo figlio più grande e più affezionato», Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio generale, fasc. LIII/3 «Marsich, P.», lettera del 16 agosto 1922.
227. «Ho trepidato ma ero sicuro che l’Iddio d’Italia avrebbe vigilato su Colui che ne rappresenta il più puro spirito. Sciolto ogni vincolo di partito per poter ubbidire soltanto alla disciplina della Nazione, rimango e rimarrò sempre fervido e divoto credente in Lei: in Lei, mio comandante, credo come credo alla religione della Patria. La parola di Milano è stata la più alta che gli Italiani abbiano udito dal giorno dell’armistizio: io spero che i cuori generosi della gioventù ne raccolgano l’insegnamento e che presto sul Campidoglio libero ‘abolite le leggi infauste’ Ella sia salutato non senatore del governo di Roma, ma vate ed eroe della compiuta Italia», ibid., lettera del 7 settembre 1922; Scritti politici di Gabriele D’Annunzio, pp. 256-262.
228. Piero Marsich, Perché sia salvato lo spirito, Venezia 1922.
229. G. Suppiej, Dieci anni di fascismo, pp. 625-627.
230. Imponente manifestazione patriottica, «Gazzetta di Venezia», 1° novembre 1922; Il ‘ralliement’ dell’avv. Marsich, ibid., 2 novembre 1922; Il partito fascista e il Gruppo universitario, ibid., 3 novembre 1922; L’avv. Marsich al GUF, ibid., 4 novembre 1922; Replica all’avv. Marsich, ibid., 5 novembre 1922; lettera di Genero, ibid., 8 novembre 1922.
231. E. Gentile, Storia del partito, p. 458 n. 140.
232. F. Piva, Lotte contadine, p. 283 n. 31.
233. Ibid., pp. 272-273.
234. Unanime commosso cordoglio per la morte di Piero Marsich, «Il Gazzettino», 23 dicembre 1928; I grandiosi funerali di Marsich, ibid., 25 dicembre 1928.
235. «Quasi mistica figura del Fascismo Veneto […] uomo indimenticabile per i camerati della vigilia, vero tipo di apostolo […] egli vivrà nei cuori dei fascisti veneti per avere prodigato tutto se stesso alla causa fascista e fiumana», in R.A. Vicentini, Il movimento fascista veneto, p. X.
236. In partic. Gardone, Fondazione del Vittoriale, Archivio generale, fasc. XIII/4 «Giuriati Giovanni», infra.
237. Simon Levis Sullam, La rinascita del Partito Fascista a Venezia (1943). Cronaca e spunti interpretativi, «Venetica», n. ser., 13, 1996, nr. 5, pp. 101-139 (pp. 101-160).