Il fascismo e la preparazione della guerra: tecnici e politici
Economia armata
Nel 1938, quando ancora la Seconda guerra mondiale non era stata scatenata dai regimi fascisti, in Italia apparve un libro dal titolo significativo, Economia armata. Vi comparivano alcuni importanti discorsi di Benito Mussolini, in cui si dichiarava inevitabile uno scontro di civiltà fra i fascismi e le democrazie europee. Seguivano alcuni scritti del maresciallo Pietro Badoglio, capo dello Stato maggiore generale (cioè delle forze armate) e dal 1937 presidente del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR). Completavano il volume gli interventi dei capi di Stato maggiore delle diverse forze armate. Tutti gli autori si confrontavano con l’obiettivo, indicato nel titolo, della preparazione della guerra e della necessità di instaurare un rapporto fra politica, industria, scienza e istituzione militare.
Alcuni degli argomenti comparivano più volte nella pubblicazione ed erano toccati trasversalmente da vari autori, indipendentemente dal fatto che fossero politici come Mussolini o tecnici come avrebbero dovuto essere Badoglio e gli altri militari. Erano i temi delle materie prime strategiche, delle tecnologie ‘di punta’, delle comunicazioni, della logistica, insomma dell’organizzazione della produzione bellica nazionale, all’incrocio fra Stato e interessi privati, tra militari e civili.
Sfogliando la pubblicazione, si ha la sensazione che le teorie – ormai divenute cruciali anche a livello internazionale – della preparazione di una guerra totale moderna, industrializzata e basata su tecnologie avanzate, non fossero ignote ai vertici dello Stato fascista. Questo non dovrebbe sorprendere per un regime che aveva sempre propagandato l’uso della forza e più volte aveva minacciato, nonché praticato, la guerra (da Corfù alle diverse operazioni in Libia, dall’Etiopia alla Spagna; e imminente era ormai l’invasione dell’Albania), e che già tredici anni prima aveva varato un decreto che prevedeva la mobilitazione dell’intero Paese in vista di un conflitto, ossia la legge dell’8 giugno 1925 nr. 969, Organizzazione della Nazione per la guerra. Come mai, allora, la pratica di quelle teorie risultò così povera? Perché l’Italia fascista giunse alla Seconda guerra mondiale non preparata a combattere quel conflitto? Rispondere a queste domande può contribuire a spiegare il fallimento in guerra del regime fascista. Il ruolo dei tecnici e della tecnica, nell’ambito di tale risposta, non può certamente dirsi secondario.
Una storia da scrivere
Della storia dell’intreccio in Italia, nel periodo fra le due guerre mondiali, fra politici e industriali, militari e tecnici, conosciamo già vari aspetti: ma la storia dell’intreccio in sé è ancora da scrivere. Ovviamente, non mancano le storie politiche del fascismo, della sua ideologia e delle sue ambizioni diplomatiche: ambizioni che, nel clima del primo dopoguerra, vedevano il regime polemicamente schierato a favore di una revisione degli accordi di pace di Versailles (1919). Va ricordato che, dopo la fine della Prima guerra mondiale e con l’eclissi di ben quattro imperi (austriaco, turco, russo e tedesco), oggettivamente la posizione dell’Italia si era fatta più rilevante, anche se più per la crisi degli altri che per merito proprio. E in ogni caso, la richiesta di rivalutare il ruolo internazionale dell’Italia, che il fascismo comunque non inventò, ma ereditò dai precedenti governi liberali, non giustificava la politica demolitrice dell’ordine europeo a più riprese perseguita dal regime.
Né mancano le storie militari delle forze armate italiane, del compromesso da loro stabilito con il regime in nome del consolidamento dei bilanci e dell’autonomia da ogni controllo civile e della preparazione (o impreparazione) dell’istituzione militare, negli anni 1940-43, a combattere la guerra totale e mondiale che pure il regime aveva vaticinato.
La storia economica dell’industria (e più in generale dell’economia) italiana sotto il fascismo è stata oggetto di molti studi e ha sollevato vari dibattiti. Tra le tematiche affrontate in tali studi vi sono: il ruolo delle scelte filoindustriali – ma anche ruraliste – del regime; la politica monetaria di prestigio (prima e dopo ‘quota 90’, il tentativo mussoliniano, nel 1926-27, di ottenere un cambio di 90 lire italiane per una sterlina britannica); i contraccolpi della crisi economica mondiale del 1929; l’indirizzo autarchico a cui il fascismo fu costretto a causa della guerra d’Etiopia e dell’alleanza sempre più stretta con la Germania nazista (e i connessi accordi di clearing, quelli cioè in cui venivano stabilite le ‘compensazioni’ tra Stati); i caratteri dell’intervento pubblico in economia (con l’Istituto per la ricostruzione industriale – IRI – e il resto); le storie aziendali delle maggiori imprese (nel settore di rilevanza per queste pagine, dalla Fiat all’Ansaldo, dalla Macchi alla Breda e così via); infine, la storia dell’ente chiamato dal 1935 a governare tutto questo complesso sistema, ossia il Commissariato generale per le fabbricazioni di guerra (CoGeFaG), diventato nel 1940 un sottosegretariato (noto come FabbriGuerra) e nel 1943 il ministero della Produzione bellica (MiProGuerra).
Già un po’ meno nota è la storia dei tecnici (in primo luogo ingegneri) che innervarono questi enti, queste aziende, questi settori specializzati delle forze armate. E solo negli ultimi anni ha fatto qualche passo avanti la conoscenza dei meccanismi di mobilitazione delle competenze e dei saperi, dei tecnici e più in generale degli scienziati sotto il regime. Quello delle competenze tecniche era, ed è, un nodo estremamente complesso e differenziato, per il quale ogni generalizzazione è azzardata. Anche se studi specifici saranno ancora necessari per questi tecnici civili o in uniforme, alcune immagini generali possono essere desunte dagli studi sin qui ricordati.
Studi separati su politici, industriali, militari e tecnici, dunque, non mancano. Il fatto è, però, che queste storie raramente sono state incrociate tra loro. Eppure i risultati di tali studi sono spesso convergenti, e questo avrebbe dovuto facilitare la storia del loro incrocio, che è poi la storia della preparazione della guerra da parte del regime, la storia del suo ‘sistema militare-industriale’. Questo, però, non è avvenuto, forse perché gli studiosi solo di recente hanno iniziato a tematizzare l’approccio fascista alla guerra totale, che non poteva non basarsi proprio sull’intreccio degli aspetti politici e militari, industriali e tecnici. Manca ancora per l’Italia, insomma, un autore come il britannico Richard Overy, in grado di illustrare (per es. in The origins of the Second world war, 1987, 19982) i diversi aspetti della storia della preparazione della Seconda guerra mondiale.
Consapevoli che, per limiti di tempo e di competenze, nelle pagine che seguono non sarà possibile raggiungere quest’obiettivo, ci si limiterà ad alcune prime note introduttive a tale complessa e incrociata tematica.
Il quadro europeo
La storia della preparazione alla guerra nell’Italia fra i due conflitti mondiali, tra gli ultimi anni dell’Italia liberale e il ventennio fascista, può essere intesa solo se vista nella prospettiva della storia europea.
L’esperienza della Prima guerra mondiale era stata, da questo punto di vista, complessa e devastante. Oltre che alle popolazioni e ai combattenti, una guerra lunga più di quattro anni aveva richiesto sforzi enormi alla produzione: la dimensione delle richieste di armamenti e il continuo sviluppo tecnologico avevano prodotto un’economia bellica smisurata. Si erano inoltre profilati, nei vari Paesi, diversi modelli di mobilitazione militare delle risorse vive, ora inclinanti più verso il ruolo statale (Germania) ora facenti maggiore appello all’automobilitazione degli interessi e delle imprese (Regno Unito). Ma, in generale, l’Europa aveva accantonato il suo liberismo e lo Stato, dovunque, aveva avuto un ruolo di rilievo.
La fine del conflitto portò a una drastica riduzione di questo sistema industriale-militare. Nella smobilitazione, non pochi grandi interessi caddero, mentre di tutti veniva denunciata la quantità di ‘sovraprofitti’ accumulati grazie alla guerra. L’istituzione della Lega delle nazioni (1919) e la successiva creazione di un sistema di trattati sul controllo delle armi (per es., il trattato di Washington sul disarmo navale, del 6 febbraio 1922) prolungarono questa tendenza. Nel frattempo, altri e contrastanti indirizzi stavano delineandosi. Sull’onda delle innovazioni della Prima guerra mondiale, in ambito militare cominciarono ad affacciarsi nuove prospettive: i tank advocates – come vennero chiamati i sostenitori di un uso massiccio dei carri armati – sostenevano che la guerra poteva finalmente essere ‘economicamente’ combattuta sul campo da questi nuovi mostri d’acciaio, e per realizzare le armate corazzate suggerivano di economizzare sulle fanterie, sposando così la tesi degli ‘eserciti piccoli’; i ‘profeti dell’aria’ profetizzavano invece guerre di breve durata risolte dall’adozione della più spietata guerra aerea, non solo ‘controforze’, ma anche ‘controvalore’ e ‘controcittà’ – colpendo cioè, nei Paesi avversari, sia le forze armate sia i maggiori centri economici e urbani –; qualcosa del genere agitava il dibattito, nell’ambito dei sostenitori del potere navale, fra favorevoli al blocco e sostenitori della guerra sottomarina a oltranza. Oltre, e contro, questi modernisti, c’erano poi i tradizionalisti, i quali affermavano che da sole né l’aeronautica né la marina avevano mai vinto una guerra, e che sarebbe toccato farlo ancora una volta alla fanteria – eventualmente accelerandone la motorizzazione, al fine di evitare una nuova guerra di posizione.
Per questa via, mentre le società civili ripetevano ‘mai più’, i militari andavano riflettendo sulle lezioni apprese dalla Prima guerra mondiale e cercavano tutti, qualunque fosse la loro preferenza, di spingere per un riarmo che fosse diverso nell’oggetto, ma identico nella natura: più industriale, più tecnologico, più moderno. Quando la politica internazionale dimostrò che i distruttori dell’ordine di Versailles rischiavano di prendere il sopravvento, queste diverse tendenze militari si ripresentarono e furono – in misure e modi diversi – tutte integrate in un colossale riarmo europeo. Nella seconda metà degli anni Trenta la corsa alle armi divenne perciò evidente, e si fece parossistica negli anni e nei mesi immediatamente precedenti l’attacco nazista alla Polonia del settembre 1939.
Nella fase di riarmo apparentemente più moderata, all’incirca fra il 1925 e il 1935, così come in quella più spinta, ogni Paese scelse il modello produttivo più congeniale alla sua politica del momento e alle sue tradizioni. I Paesi fascisti brandirono con tutta evidenza l’arma dell’intervento statale, che guidava (in Germania) o prometteva di guidare (in Italia) il settore privato. Altri scelsero una strategia di incoraggiamento più che di irreggimentazione. Comuni furono, comunque, l’intervento del pubblico nel privato, le relazioni ineguali fra militari e civili, il prevalere delle direttive dall’alto rispetto alle iniziative dal basso dei tecnici. Come comune fu la sensazione che, se non la si fosse evitata, il mondo avrebbe assistito a un’altra guerra devastante, lunga, generale, nella quale – nel campo dell’allestimento dei sistemi d’arma – la produzione in serie e in grandi quantità avrebbe avuto un peso non inferiore a quello della qualità. Forse si sarebbe evitata (e infatti così avvenne) un’altra lunga guerra di posizione, ma il conflitto avrebbe comunque avuto, inevitabilmente, un carattere di logoramento, questa volta della produzione industriale.
Le grandi sfide
La Prima guerra mondiale aveva insomma lasciato difficili sfide in eredità a chi doveva pianificare la sicurezza, o la guerra, nell’Europa postbellica. In termini di modelli militari, nessuno Stato abbandonò il sistema della coscrizione – e quindi dei grandi eserciti –, tranne la Germania, che vi fu obbligata per vincolo di trattati, e il Regno Unito, che tornò alla strada da cui aveva momentaneamente deviato nel 1916. La guerra futura avrebbe quindi potuto essere di nuovo uno scontro di immense masse armate.
Un’altra eredità che la Prima guerra mondiale aveva lasciato era la fiducia nel ruolo della tecnologia. Accanto alle trincee, nel 1914-18 le forze armate avevano utilizzato elementi della scienza e della tecnologia più avanzate del tempo: l’aerodinamica per gli aerei, la fisica e la chimica per i cannoni e gli esplosivi, la meccanica per la motorizzazione della fanteria e per la guerra blindata, la radiofonia per le comunicazioni a distanza. Nelle forze armate del dopoguerra, come abbiamo detto, si moltiplicarono i paladini di questa scelta a favore della tecnologia.
Ma soprattutto, in termini di produzione di sistemi d’arma, la guerra aveva illustrato le potenzialità e al tempo stesso la complicazione della mobilitazione industriale. Per i grandi eserciti di massa, da armare sulla base dei più avanzati risultati tecnologici, la serialità e la quantità avevano dovuto competere con la qualità. Direttamente e indirettamente, lo Stato aveva controllato la produzione, in serie e a ritmo accelerato, degli armamenti.
Queste sfide dovettero essere raccolte da tutti gli Stati e da tutte le forze armate. Ognuno vi arrivò con i propri modelli organizzativi, ma le sfide erano comuni. In esse il ruolo della tecnica, dei tecnici, della tecnologia era esaltato, forse come mai in altri dopoguerra. La guerra del futuro – era consapevolezza comune – sarebbe stata tecnologica (e di nuovo industriale e di massa). Essa, quindi, avrebbe richiesto un surplus di tecnica, di tecnici al comando di complesse strutture di mobilitazione, ma anche di politici e soprattutto di militari compresi del ruolo nuovo della tecnologia: militari tecnicizzati, tecnologizzati. Per garantire l’alimentazione della guerra futura, avrebbero giocato un ruolo di rilievo le esigenze industriali di reperimento e organizzazione di investimenti, materie prime, forza lavoro, ordine produttivo.
Tutto sembrava chiaro nelle aspettative, anche se poi lo fu molto meno nella pratica. Per gestire milioni di combattenti, in una guerra ormai di movimento in tutte le dimensioni (e che alla fine si fece atomica) e nell’ambito di quattro continenti, l’organizzazione industriale e l’uso della tecnologia erano centrali: si pensi solo, per fare qualche esempio, allo sforzo nazista per la guerra all’Est, a quello statunitense per mettere sul terreno praticamente dal nulla milioni di combattenti, alle dimensioni ciclopiche (dal punto di vista organizzativo, tecnologico e militare) di operazioni come quella dello sbarco in Normandia, per non dire, infine, degli investimenti e della tecnologia alla base del primo esperimento di big science, il progetto Manhattan.
Se il motto della ‘tecnica al comando’ (per quanto mai da sola) potrebbe funzionare da buona presentazione della Seconda guerra mondiale, andrà però quanto meno chiosato, perché ciò non significò che per vincere bastava un’esasperata tecnologizzazione del conflitto: la tecnologia e i tecnici da soli non potevano pensare di avere l’ultima parola e, in fondo, molte delle tecnologie utilizzate nel 1939-45 furono più un perfezionamento di quelle già delineate nel 1914-18 che invenzioni vere e proprie. Nella Seconda guerra mondiale i carri armati furono più corazzati e veloci, gli aerei più rapidi e armati, i cannoni più potenti che nella Prima, nella quale comunque carri, aerei e cannoni c’erano già stati. Inoltre, non sempre gli Stati scelsero la tecnologia di punta per i sistemi d’arma: la necessità della produzione in serie suggeriva infatti di adottare tecnologie ormai solide. È noto, per es., che, singolarmente presi, i caccia tedeschi erano tecnologicamente più avanzati di quelli statunitensi: ma l’industria statunitense poté produrne in serie una quantità enormemente maggiore di quella prodotta dall’industria tedesca, e fu con questi apparecchi, meno avanzati, ma presenti in quantità gigantesche, che gli anglostatunitensi conquistarono il controllo del cielo. L’importanza della produzione industriale non era inferiore a quella dello sviluppo tecnologico.
Pur con qualche limitazione, insomma, prima il ventennio fra le due guerre e poi il secondo conflitto mondiale rappresentarono comunque – per il loro tempo – il trionfo della tecnica e l’importanza di avere un’economia armata.
Le sfide affrontate dal regime fascista
Come fu declinato dall’Italia fascista l’intreccio – comune a tutte le potenze in armi – fra aspetti politici e militari, industriali e tecnici, nella preparazione della guerra? Come fu ripensata la lezione della Prima guerra mondiale nella progettazione e poi nella conduzione della Seconda? E com’è possibile riassumere tutto questo in estrema sintesi e con un’accettabile generalizzazione?
È infatti evidente che i problemi tecnici della preparazione di una guerra così complessa erano enormemente diversificati. Cosa poteva esserci in comune tra l’allestimento delle corazze per i carri e quello delle corazze per le navi, e fra questo e la costruzione di motori per aereo? E cosa aveva a che spartire tutto ciò con l’organizzazione dell’approvvigionamento di materie strategiche o di manodopera qualificata? Si pensi, per es., agli attori militari (diverse forze armate, con obiettivi divergenti o addirittura in conflitto fra loro) e a quelli tecnici (competenze diversificate, dalle logiche differenti, operanti in varie industrie). La configurazione complessiva del sistema politico-industriale-militare assumeva, dunque, posizioni diverse per ognuno dei problemi menzionati, e per altri. Posizioni che nel breve spazio messo qui a disposizione non sarà possibile dettagliare. Ciò premesso, la preparazione della guerra da parte del regime fascista ebbe alcuni caratteri comuni.
In primo luogo, va rimarcato che il regime voleva la guerra, o quanto meno proclamava che senza il ricorso alla forza gli ‘Stati plutodemocratici’ non avrebbero mai riconosciuto i ‘naturali’ diritti italiani all’espansione. La guerra, quanto meno nelle parole e nella propaganda, era quindi un elemento costitutivo del regime. Ovviamente, da sola l’Italia fascista non avrebbe avuto la forza per sovvertire l’ordine di Versailles, e quindi la sua concreta condotta diplomatica fu più cauta delle sue parole in più occasioni e per un intero periodo. Ma gli scopi di fondo rimanevano costanti. I militari ne tennero conto, e prepararono vari piani di guerra per soddisfare quelle ambizioni. Inoltre, mentre la prospettiva della guerra da locale (Etiopia, Spagna, e in un ipotetico futuro anche Iugoslavia) si faceva generale, oltre ai piani di guerra più propriamente militari, relativi cioè alla disposizione e alle direttive di marcia delle truppe, fu necessario pensare all’organizzazione della nazione in guerra.
In secondo luogo, è noto che, sia pur parzialmente cangianti in relazione alla situazione diplomatica del momento, le ambizioni territoriali e di influenza del regime erano assai ampie, ben superiori alle forze italiane: occupazione da un lato della Corsica e dall’altro dell’Albania, egemonia nei Balcani e in larga parte del Mediterraneo, correzioni di confine in Libia, interessamento al Medio Oriente, proiezione – tanto vaga quanto inquietante – verso ‘gli oceani’, quello Indiano per via etiopico-somala e forse persino quello Atlantico tramite un qualche tipo di influenza sulle colonie francesi dell’Africa settentrionale. Com’è stato definito, un ‘nuovo ordine mediterraneo’ attorno alla penisola, tanto indefinito quanto scardinante l’ordine allora vigente.
Tale ambizioso programma trapelava anche pubblicamente, tramite la propaganda fascista, e non poteva non condizionare la preparazione della guerra, sia nelle direttrici sia nella forma: per espandersi nei Balcani ci volevano truppe, per influire nel Mediterraneo ci volevano grandi navi, per controllare tutto ci volevano enormi flotte aeree e così via. E per raggiungere tali obiettivi, le forze armate italiane erano chiamate, per la prima volta nella loro storia, a scontrarsi direttamente con alcune delle maggiori forze armate del tempo, cioè con l’esercito francese e la marina britannica. Andare fino allo scontro bellico, con tali obiettivi e contro tali avversari, avrebbe comportato di nuovo, inevitabilmente, un conflitto grande, generale e lungo: da qui la centralità della preparazione della guerra, dell’organizzazione dell’economia e della vita pubblica del Paese, in una parola di quell’economia armata per la costruzione della quale politici e militari, industriali e tecnici avrebbero dovuto accordarsi.
Per affrontare una sfida simile, inoltre, antiche caratteristiche della società italiana avrebbero dovuto essere riformate: il fascismo aveva presentito queste difficoltà, anche se poi alla resa dei conti non riuscì a fare molto per emendare i vecchi problemi e anzi ve ne aggiunse di nuovi. E, soprattutto, c’erano le risorse e le forze per raccordare tante ambizioni con i pochi mezzi a disposizione? Alla fine degli anni Trenta, l’opinione popolare guardava al fascismo senza trovare risposte certe a queste e ad altre domande, e quindi esprimeva così tanti dubbi che il termine consenso sembrava ormai lontano e logorato.
Vecchi e nuovi problemi
Il raggiungimento degli obiettivi datisi dal regime fascista contrastava in primo luogo con volontà esterne, variamente, ma spesso fortemente contrarie, e con volontà interne.
All’esterno, la Lega delle nazioni era un tradizionale obiettivo polemico del fascismo e, per quanto poteva contare come soggetto autonomo, sentiva ogni volontà espansionista fascista alla stregua di quello che era: un elemento perturbatore dell’ordine internazionale. La Francia repubblicana e democratica, peraltro direttamente minacciata, osteggiava ogni espansione italiana. Il Regno Unito difendeva il proprio ruolo nel Mediterraneo a protezione dell’Egitto, di Suez, della via per l’India e, in generale, del proprio ruolo di potenza mondiale. Assieme, Parigi e Londra avevano un ruolo di protettrici dei più piccoli Stati balcanici, direttamente oggetto delle ambizioni di Roma. I movimenti nazionalisti o anticoloniali dei Paesi arabi potevano in qualche occasione sfruttare la sponda fascista, ma erano in fondo profondamente sospettosi di Roma e avevano avversato la politica coloniale italiana, in Libia prima e in Etiopia poi. Da lontano, gli Stati Uniti non vedevano di buon occhio il perturbamento dei mercati europei che un’iniziativa italiana avrebbe potuto causare. Nemmeno l’Unione Sovietica apprezzava l’espansionismo fascista, per ragioni ideologiche e politiche, e perché allertata dall’emigrazione comunista nel frattempo riparata a Mosca. Frizioni, se non proprio contrasti, venivano persino dall’alleata Berlino. Nel 1933-34 Adolf Hitler non aveva apprezzato la posizione presa da Roma riguardo alle mire tedesche sull’Austria, e nel 1935-36 aveva venduto armi all’Etiopia; ma anche dopo il maggio 1939, quando cioè Italia e Germania furono strette dal Patto d’acciaio, dissensi non mancarono sui Balcani, sull’opportunità di insidiare ora Parigi ora Londra e così via.
Dato per scontato, quindi, ciò che da una prospettiva puramente italiana è spesso sottovalutato, cioè che l’azione internazionale del regime fascista sollevava perplessità e timori, seppure smorzati da irridenti valutazioni dei concreti margini d’azione italiani, in realtà il contrasto maggiore alle ambizioni del duce e del regime fascista veniva dalla stessa storia d’Italia. E non si pensa qui solo alla volontà degli italiani, che non poteva non risentire di un ventennio di regime e dell’azione dei suoi apparati repressivi (ciononostante, sul finire degli anni Trenta, i segni dell’alterna, ma nel complesso declinante fortuna del fascismo presso gli italiani erano numerosi). Si pensa piuttosto, sempre sul fronte della preparazione bellica, ad alcuni elementi strutturali di debolezza del Paese rispetto all’eccessiva ampiezza delle aspirazioni del regime. Quindi erano tre le limitazioni, o gli elementi di debolezza, che ostacolavano le ambizioni del fascismo.
All’inizio degli anni Trenta, nel Vecchio continente le forze armate italiane avevano ancora un ruolo. Nell’ambito delle tre maggiori potenze militari europee del tempo, Francia, Unione Sovietica e Italia – non considerando quindi il Regno Unito, con la sua marina senza rivali nel mondo, e la Germania, che non aveva ancora iniziato il suo riarmo –, l’esercito e l’aeronautica non sfiguravano troppo rispetto a quelli degli altri due Paesi, mentre la marina non era poi così distante da quella francese ed era superiore a quella sovietica. Ma alla fine degli anni Trenta il panorama non era già più lo stesso. A Berlino il riarmo promosso dal regime nazista aveva dato una forza notevole alla Wehrmacht, alla Luftwaffe e alla stessa Kriegsmarine. A Parigi e a Londra, sia pure in misura diversa, le forze armate si erano rafforzate e i sostenitori della guerra corazzata avevano raggiunto importanti risultati, ottenendo un’estensione dei reparti motorizzati e blindati. Pur travolta dalle purghe staliniane, anche l’Armata rossa si era rafforzata. Modernizzazione, meccanizzazione, professionalizzazione, addestramento e in genere riarmo: furono settori nei quali, con lo scorrere degli anni Trenta (e soprattutto nella seconda metà del decennio), l’Italia militare perse posizioni. Avvenne così che, alla vigilia della nuova guerra mondiale, le forze armate dell’Italia fascista, dissipate in Etiopia e in Spagna molte risorse, avevano perso il vantaggio competitivo del passato ed erano tornate a essere un fattore certo rilevante, ma tutto sommato secondario dell’assetto militare internazionale.
In termini di struttura industriale, il fascismo aveva certo accompagnato un progresso dell’economia italiana. Tuttavia, alla fine degli anni Trenta, oltre che sul piano militare, anche a livello industriale l’Italia aveva perso posizioni rispetto ad altri Paesi. In primo luogo, quella italiana rimaneva un’economia prevalentemente agricola, povera di risorse energetiche e di materie prime, con un’industria moderna molto localizzata anche territorialmente. La struttura industriale, al suo interno, vedeva la compresenza di poche grandi aziende, alcune delle quali fortemente legate allo Stato, e di numerose piccole imprese, poco più che laboratori artigiani. L’industria bellica privata, che qui ci interessa, rifletteva le stesse difficoltà: molte delle sue più grandi imprese apparivano sottocapitalizzate, non erano pronte a investire nella ricerca e – nonostante qualche successo nel mercato internazionale – dipendevano in maniera decisiva dalle commesse statali.
Questa ristrettezza della base industriale e questa dipendenza dallo Stato si riflettevano in parte anche sulla realtà dei quadri, indebolendo la loro dinamicità e la loro inventiva nell’ambito della ricerca e dell’innovazione. Nel campo dell’innovazione bellica, i tecnici, gli ingegneri e i ricercatori erano in Italia, come dovunque, sia militari sia civili: le forze armate disponevano di propri laboratori e centri di ricerca, le università svolgevano una parte della ricerca (ma non sempre erano coinvolte appieno), e le grandi imprese avevano centri di studio e di sviluppo tecnologico, ma questi spesso operavano su licenza straniera e solo di rado producevano vere e proprie innovazioni. È però difficile dire quale dei due settori fosse trainante, quello militare o quello civile, quest’ultimo peraltro diviso fra accademico e industriale. Per quanto la situazione, come abbiamo già detto più volte, fosse enormemente articolata e differenziata – per tipo di forza armata, per sistema d’arma e per periodo –, l’impressione generale è quella di una situazione di inutili separazioni (per es. fra centri militari e laboratori universitari) e di pericolose commistioni (fra militari e industrie), che producevano un quadro poco chiaramente distinto – fra committenti e contrattualizzati, o fra inventori e ricettori di innovazione – e, anzi, piuttosto confuso, con connessa incertezza dei ruoli.
Se una certa circolarità fra civili e militari era la norma in questi settori anche all’estero, la non chiara distinzione degli spazi pare essere stata in Italia all’origine di molte incertezze e di molti problemi. Quando era l’interesse privato a imporsi su quello pubblico, poteva risentirne l’interesse nazionale. Quando era il privato ad accettare, su richiesta pubblica, la produzione di sistemi d’arma palesemente non all’avanguardia, esso abdicava al proprio ruolo. Infine, non di rado tutti si subordinavano alle richieste del regime. In conclusione, non era facile, in quel contesto, per i tecnici, per gli ingegneri, per le punte di innovazione – che pure c’erano – riuscire a guadagnare una propria autonomia.
Di fronte alla complessità delle sfide del momento e alla dimensione delle ambizioni del regime, sul terreno della preparazione della guerra queste tre limitazioni di fondo (militare, industriale, tecnica) ponevano molta zavorra nelle ali dei sogni di potenza del fascismo.
Mobilitare per la guerra
Quest’ultimo punto, quello dello spazio occupato dai tecnici e dai tecnocrati nel campo della preparazione della guerra, è un tema in genere poco considerato, e rinvia – esplicitando la propria valenza politica – anche a quell’organizzazione finalizzata alla gestione del Paese in guerra che il regime stava costruendo per successive accumulazioni.
Nella seconda metà degli anni Trenta, i Paesi europei stavano tutti affrontando un’analoga sfida, e tutti a partire da una riflessione sull’esperienza accumulata durante la precedente guerra. La risposta a tale sfida, parlando molto schematicamente, oscillava fra un modello organizzativo (nazista, sovietico) in cui lo Stato e i politici e militari avevano la preminenza, e uno in cui invece – pur in un quadro di ‘capitalismo organizzato’ e di mobilitazione e intervento pubblici – un rilevante spazio rimaneva agli interessi privati. In questo secondo caso, per i tecnocrati era possibile un maggiore spazio di azione e di decisione.
In Italia, al tempo della Prima guerra mondiale la mobilitazione aveva avuto un carattere principalmente militare. Una volta determinati gli obiettivi di massima a livello politico, ovviamente in base a una contrattazione con i grandi interessi privati, la gestione della macchina centrale e regionale della mobilitazione industriale era stata affidata ai militari. Se si mette da parte quello ottenuto nell’imporre lo sforzo bellico alle maestranze, il successo della mobilitazione era stato possibile vederlo sia nei primi due anni di guerra, quando un esercito inizialmente fornito di poche artiglierie era riuscito nel 1917 ad avere reggimenti ben armati, sia nell’ultimo anno, quando l’industria fu chiamata a un nuovo eccezionale sforzo causato dalla necessità di rimpiazzare tutte le artiglierie e tutti gli armamenti (anche individuali) persi nella rotta di Caporetto. Questi due successi avevano decretato il buon risultato complessivo della mobilitazione militare-industriale. Ovviamente, tale risultato non era stato ottenuto senza che emergessero disfunzioni o ruberie, e che i grandi (e piccoli) interessi privati riuscissero ad accumulare a spese dello Stato spazi anche enormi di ‘sovraprofitti’, come si disse allora, e che, in una parola, la mobilitazione si risolvesse in un compromesso fra pubblico e privato: ma, comunque, i governi liberali, con pochi e chiari obiettivi concordati con gli industriali, erano riusciti a ottenere la mobilitazione e l’armamento delle forze combattenti.
Nel caso della Seconda guerra mondiale non fu possibile ottenere un risultato analogo, quanto meno non nella stessa misura. Negli anni precedenti il conflitto, il riarmo dell’Italia fu caratterizzato da numerosi ritardi e da vistose insufficienze. Durante il conflitto, il regime si illuse che la guerra sarebbe stata breve e, sentendo calare il consenso, cercò di blandire la società invece di guidarla con mano ferma. Da qui la rinuncia alla coscrizione generalizzata, l’insufficienza nell’utilizzazione delle competenze scientifiche esistenti e la blanda mobilitazione industriale, nella quale parve anzi che avessero un ruolo di preminenza gli interessi privati piuttosto che quelli nazionali, al punto che dalla seconda metà del 1942 – da quando cioè le sorti della guerra volsero al peggio per l’Italia fascista – si ebbe l’impressione che i grandi interessi privati industriali mirassero (nonostante la sterzata dirigista del regime degli inizi del 1943) più a mettere in salvo macchinari e maestranze che a collaborare sino in fondo allo sforzo bellico.
Ciò non avvenne solo per incapacità pubbliche ed egoistici interessi privati, che pure non mancarono. Il fallimento della mobilitazione da parte del regime durante la Seconda guerra mondiale non può infatti essere derubricato a mero fatto tecnico o essere addossato alla modestia del personale amministrativo. Era invece la conferma che, giunto alla prova suprema della guerra, che pure aveva auspicato sin dalla propria fondazione, il fascismo non poteva non fallire, avendo promesso ai vari strati della società obiettivi e risultati contraddittori fra di loro e che non poteva mantenere. Agli industriali il regime aveva promesso sostegni alla produzione che non vennero nella misura prospettata, viste anche le declinanti sorti della guerra, mentre le forniture di materiali strategici e le fonti di energia si erano inaridite prima per l’autarchia e poi per la scarsa collaborazione dell’alleato tedesco. Agli interessi agrari aveva promesso un’ordinata remunerazione, che poi fallì di fronte alla diffusione del mercato nero. Agli interessi legati all’esportazione aveva promesso mercati di sbocco, che poi non vennero per il fallimento della politica espansionista, mentre l’alleanza di ferro con la Germania (con la quale pure settori dell’economia italiana si erano sempre più integrati negli ultimi anni), le sanzioni e l’autarchia avevano sconvolto le tradizionali rotte del commercio italiano, legate anche alla Francia, al Regno Unito e al Mediterraneo. Ai capitani d’impresa aveva promesso l’ordine nelle fabbriche, che invece l’andamento della guerra metteva in forse, proprio mentre gli operai, cui aveva promesso le risorse assistenziali del corporativismo, vedevano andare in fumo quelle stesse protezioni, con l’effetto di soffiare sul fuoco del dissenso. Al Partito nazionale fascista (PNF) aveva promesso una funzione di guida, che invece mancò, sia perché l’amministrazione dello Stato – prudenzialmente – volle mantenere le proprie competenze, sia perché ormai era tale il discredito accumulato dal PNF che pochi volevano sottostare alle sue direttive e invece finivano per amplificarsi, come in un circolo vizioso, la cattiva immagine che gli italiani ormai ne avevano e la circolazione delle mormorazioni.
In una situazione obiettivamente difficile, in cui però era stato il regime a cacciare se stesso e purtroppo l’Italia, la mobilitazione del Paese in guerra si rivelò insufficiente, e quando non fu tale rimase pur sempre poco efficace. In taluni settori nemmeno fu dichiarata, oppure non fu praticata come sarebbe stato necessario. Per non infrangere l’immagine di regime potente e vittorioso, non fu realizzata nemmeno la mobilitazione generale delle classi di leva. Alcune classi furono addirittura congedate, per essere poi talvolta richiamate in servizio. Ne derivarono gravi e spesso casuali ingiustizie. La piramide di età degli italiani che prestarono servizio militare durante la guerra non rispettò, come sarebbe stato ragionevole, quella della popolazione. Classi e contingenti più giovani rimasero a casa mentre classi e contingenti più anziani andavano in guerra, talora a lungo, e spesso morendovi: con l’unico effetto di rendere più difficile la condotta delle operazioni, più grave il peso sui soldati anziani, maggiori i sospetti e il discredito accumulati dalla popolazione nei confronti del regime.
In conclusione, il fallimento del fascismo sul campo della mobilitazione militare nel periodo 1940-43 risalta sotto vari profili: comparativamente, rispetto all’Italia liberale di trent’anni prima e rispetto ad altri regimi totalitari dell’epoca (si pensi alla mobilitazione, policratica ma efficace, del regime nazista); in assoluto, tendendo conto che – in astratto – un regime liberticida avrebbe avuto a propria disposizione molti più mezzi di pressione e ‘convinzione’ rispetto a un sistema politico liberale.
Mobilitare ingegneri e scienziati
Il fallimento del regime nella mobilitazione durante la guerra non giunse improvviso e inaspettato. Già durante gli anni precedenti, il regime, che pur pensava ormai in un’ottica di economia armata, era stato scarsamente efficace proprio in termini di mobilitazione delle competenze e dei saperi. Esemplari sono i casi degli ingegneri e, più in generale, della comunità scientifica, a partire dal suo massimo organo, il CNR.
In astratto, il fascismo avrebbe dovuto beneficiare del favore degli ingegneri e dei quadri tecnici: questi, già ben predisposti (come dimostra l’orientamento nazionalista assunto dai vertici dell’Associazione nazionale ingegneri italiani fin dal 1919), condividevano il suo obiettivo di modernizzare la vecchia Italietta. Apparentemente il favore era ricambiato, visto che, quando venne decretata l’obbligatorietà dell’iscrizione al PNF da parte degli ingegneri, il tasso di adesione fu attorno all’80% (anche se gli altri poterono comunque continuare a esercitare la loro professione). Ciononostante, gli ingegneri ebbero molti motivi per dichiararsi insoddisfatti del fascismo, gran parte delle cui scelte – anche nel settore di maggiore loro competenza – apparivano chiaramente dettate dalla politica più che dalla razionalità. Le prese di distanza dal regime degli ingegneri Carlo Emilio Gadda o Primo Levi erano ovviamente eccezionali, ma non isolate.
Ciò rifletteva anche alcune trasformazioni di fondo allora in corso nella professione. Nell’Italia di quei decenni, lo spazio e il ruolo dei tecnici, e in particolare degli ingegneri, erano in crescita. Se nel 1881 ingegneri e architetti erano forse diecimila, negli anni Trenta erano più che raddoppiati. Il dato assoluto, positivo, si ridimensiona però non poco se visto in percentuale sulla popolazione: se nel 1881 ingegneri e architetti erano stati meno di quattro ogni diecimila abitanti, negli anni Trenta erano poco più di cinque. Il netto aumento in valori assoluti, quindi, si riduceva notevolmente se letto in valori proporzionali, anche se segnava comunque un avanzamento lungo la strada già battuta dalle altre potenze europee, dove le percentuali erano più alte che in Italia.
La trasformazione non era solo numerica. Il profilo dell’ingegnere, del quadro tecnico inserito nel processo economico e soprattutto industriale, stava cambiando. La sua formazione era sempre più curata e formalizzata, grazie anche alla trasformazione delle scuole superiori in università. Nel 1923 venne istituito l’albo degli ingegneri e dal 1937 fu resa obbligatoria l’iscrizione a esso per poter esercitare la professione. Inoltre crescevano gli ingegneri industriali rispetto a quelli edili e civili, spingendo così verso una modernizzazione del profilo del mestiere. L’ingegnere, da libero professionista qual era stato nell’Italia liberale, fortemente attaccato alla propria dimensione locale (ce n’era poco più di uno per ognuno dei comuni d’Italia, all’inizio del Novecento circa ottomila), fra le due guerre divenne un quadro nazionale, legato alle maggiori imprese e ai grandi investimenti del regime, sempre più connesso alla dimensione pubblica dell’economia e al nuovo interventismo dello Stato. L’ingegnere diveniva sempre più necessario alla politica del regime in quanto coinvolto su più fronti: dalla bonifica agraria alle grandi infrastrutture e all’IRI. Nonostante queste trasformazioni (e forse anche a causa di esse), il fascismo non aveva eliminato molti dei motivi di insoddisfazione degli ingegneri nei suoi confronti, a partire dal timore di una sottoccupazione.
Ancora meno felice era stato, negli anni Trenta, il rapporto fra scienze e regime, nel senso della loro mobilitazione. Nel 1923 era stato istituito a tale scopo il CNR, proprio dopo alcuni esperimenti legati alla mobilitazione delle scienze durante la Prima guerra mondiale. Articolato in comitati, nei disegni del fascismo il CNR tendeva a rappresentare tutto il mondo dei saperi, non solo al fine di una maggiore circolazione dell’innovazione scientifica nell’economia (obiettivo di base), ma anche di una sua mobilitazione per lo Stato, in un’ottica che presto sarebbe stata di ‘economia armata’. Dopo poco più di un decennio, piombato il Paese nell’autarchia causata e scelta dal regime per via delle sue politiche, la mobilitazione delle scienze attraverso il CNR avrebbe dovuto avere questa dimensione strategica. In parte la ebbe: uno dei comitati del CNR si occupava anche di scienze militari. L’attenzione a questa dimensione strategica è dimostrata, per es., dalla «Bibliografia scientifico-tecnica italiana», una rassegna mensile pubblicata dal CNR a partire dal 1928, il cui gruppo 8 era dedicato a Tecnica, ingegneria, scienze militari, trasporti, comunicazioni (poi gruppo C, Ingegneria, industria, difesa nazionale).
Prima la lunga presidenza del CNR di Guglielmo Marconi (1927-1937) – che con le forze armate aveva già avuto stretti contatti, in particolare in occasione dei suoi esperimenti radio durante la guerra in Libia del 1911-12 – e poi quella di Badoglio (1937-1941), avevano diffuso fra gli studiosi – secondo quanto voluto dal regime – l’immagine di un CNR assai vicino, nella seconda metà degli anni Trenta, all’apparato militare. Ed è innegabile che, nello spazio dell’autarchia, ricerche e prodotti promossi o messi a punto dal CNR furono a ciò funzionali.
Negli anni più vicini a noi, però, studi attenti e mirati hanno messo in crisi la compattezza di questa immagine. Nella sostanza, il rapporto fra scienziati del CNR e militari pare essere stato, tranne forse per le risorse strategiche, piuttosto labile; il comitato che doveva occuparsi anche delle questioni e della tecnologia militari fu piuttosto osteggiato dalla diffidenza dei militari stessi; su tutto gravò la pochezza di risorse in cui si dibatté il CNR. Merita perciò di essere ricordato il motto di spirito, molto diffuso in quegli anni, secondo il quale il maggior rapporto di vicinanza fra CNR e Stato maggiore generale era dato dal fatto di… essere ospitati nello stesso palazzo.
Né è forse un caso che quando la Fondazione Alessandro Volta (istituita nel 1930 presso l’Accademia d’Italia) promosse una serie di pubblicazioni intitolata Un secolo di progresso scientifico italiano: 1839-1939, il 3° volume, Scienze militari (1939), fu redatto quasi interamente da alti ufficiali. Eppure, come abbiamo visto, non sarebbero mancati gli spunti per riflettere sull’ultimo secolo e soprattutto sugli ultimi due decenni di sviluppo della tecnologia militare, nonché sulle sfide che la preparazione della guerra poneva tanto ai civili quanto ai militari. Abbiamo già osservato come varie discipline – chimica degli esplosivi e degli aggressivi, ingegneria delle fortificazioni e delle costruzioni meccanizzate e motorizzate, architettura e propulsioni navali e aeree, balistica del tiro, fisica delle trasmissioni e dell’aerostatica – avessero prodotto rilevanti innovazioni a partire dalla Prima guerra mondiale; per non dire, poi, dell’aumento delle conoscenze in altre discipline non meno direttamente legate alla preparazione della guerra, come medicina, chirurgia, igiene, meteorologia, geografia, cartografia e persino storia militare. Non sarebbe stato difficile, dunque, dimostrare l’ampiezza dello spazio per concrete innovazioni e per possibili cooperazioni fra civili e militari.
Il volume Scienze militari, invece, si risolse in sostanza in una passerella di alti ufficiali che magnificavano le glorie accumulate in ognuno di questi settori dalle forze armate (prima e più che dal Paese). Le autocritiche furono bandite: ciò che non andava – e già a quella data sarebbero state possibili indicazioni precise in tal senso – veniva camuffato retoricamente come «caratteristico del genio italico» o rappresentante l’«odierno spirito italiano», grazie al quale ogni «problema [veniva] rapidamente e facilmente risolto». Mentre in seguito gli storici avrebbero scoperto sotto la coltre dell’autarchia palesi conflitti fra interessi privati e pubblici – culminati in compromessi costosi prima per l’erario nazionale e poi, nella prospettiva della guerra, per la sicurezza e la vita dei combattenti –, ci si limitava a coprire la magagna vantando «il poderoso sforzo fatto, in perfetta collaborazione tra l’industria ed i tecnici […], per garantire al Paese l’assoluta indipendenza» (p. 294).
Non sempre la coperta della retorica, per così dire, era lunga abbastanza. Per es., parlando della difesa dalla minaccia aerea – un tema peraltro esaltato dal regime –, fra i fumi dell’esaltazione di quanto era stato fatto dal fascismo traspare, a un’attenta lettura, la consapevolezza dell’insufficienza della situazione (abbiamo scritto in corsivo le parole più significative sotto questo aspetto):
Nelle difese fisse territoriali, batterie moderne in quantità sufficiente, opportunamente schierate, munite di centrali automatiche […] fanno già intravedere una difesa realmente efficace di questi nostri centri vitali (p. 299).
Si intravede qui la consapevolezza che l’artiglieria contraerea – un punto in cui il fascismo era debole allora e sarebbe stato ancor più debole in guerra – non sarebbe realmente riuscita a difendere gli italiani dalla minaccia avversaria; quindi ci si accontentava, nella speranza che tale minaccia «la si neutralizzerà certamente in gran parte» (p. 299).
Alla vigilia del secondo conflitto mondiale, quindi, il regime fascista mise in atto una mobilitazione per la guerra in cui già emergevano alcune esperienze nient’affatto soddisfacenti. Il fatto di essere un regime totalitario (e liberticida) non bastava per renderlo monolitico ed efficiente. Le crepe emerse in tempo di pace, e sottovalutate, si sarebbero enormemente allargate in tempo di guerra.
Una nuova leva di tecnologi militari
Non tutto andava male, ovviamente. E un certo orgoglio militare del fascismo, riscontrabile anche nel citato volume del 1939, non era senza qualche base.
In parte tale orgoglio era fondato sul processo – possiamo dire – di tecnologizzazione che aveva investito le istituzioni militari italiane negli anni Venti e soprattutto negli anni Trenta. Effetto inevitabile delle lezioni della Prima guerra mondiale, esercito, marina e aviazione italiani avevano visto crescere – come tutte le forze armate del tempo – la meccanizzazione, la motorizzazione e in generale la diffusione di sempre nuove tecnologie. In alcuni campi, e soprattutto nell’aeronautica, il regime si era fatto vanto di aver puntato in misura particolare proprio sulla tecnologia, dotandosi di velivoli capaci di alcune sorprendenti prodezze tecniche – ottime peraltro per influenzare l’opinione pubblica –, come le trasvolate oceaniche o i propagandistici ‘raid aerei’; anche se poi, nella reale preparazione bellica, le specifiche tecnologiche richieste dall’aeronautica militare per i velivoli prodotti in serie e in gran numero sarebbero state assi diverse dalle specifiche richieste in precedenza per i prestanti, ma poco numerosi esemplari utilizzati in quelle imprese ‘sportive’.
Al di là del processo di tecnologizzazione dei reparti, una parte di quell’orgoglio militare di regime che emergeva anche dalle pagine di Scienze militari era dovuto alla recente crescita di centri, istituti, scuole, reparti, corpi, laboratori tecnici moltiplicatisi proprio nei pochi anni precedenti. Si tratta di un reticolo di piccole e meno piccole istituzioni, ancora poco studiate dagli storici e la cui descrizione è invece importante per determinare il profilo dell’istituzione militare italiana di quegli anni. Per dare un’idea dell’estensione di questo sistema, faremo qui solo il caso dell’esercito, precisando però che qualcosa di simile andrebbe replicato per la marina e l’aviazione.
Il Servizio tecnico di artiglieria, al cui interno operava un Istituto superiore armi e munizioni, si trasformò in Direzione generale d’artiglieria, con annesso un Ufficio centrale stabilimenti militari. Durante la guerra avrebbe sovrinteso, fra gli altri, alla Fabbrica armi esercito di Terni, all’Arsenale di Piacenza e al Laboratorio di precisione esercito di Roma (i primi due, nel corso della guerra, arrivarono a impiegare rispettivamente 6800 e 3000 persone). Il Servizio tecnico motorizzazione, poi inserito nella Direzione generale artiglieria, genio e automobilismo (succeduta alla già citata Direzione generale d’artiglieria), disponeva di un Centro studi ed esperienze della motorizzazione a Roma, di un Ufficio autonomo approvvigionamento automobilistico a Torino e di una Officina automobilistica esercito a Bologna. Il Servizio specialistico del genio, soprintendente fra l’altro a un Istituto militare radiotelegrafico ed elettrotecnico, disponeva di officine a Pavia (che nel periodo 1940-43 arrivarono a impiegare sino a 2000 persone) e a Roma, e di centri studi a Pavia, Roma e Torino per le sue varie specializzazioni. Il Servizio trasmissioni, con il suo Istituto militare superiore trasmissioni e le sue officine, ancorché di piccole dimensioni, aveva un’ovvia importanza strategica per una guerra di movimento combattuta su più piani, con reparti operanti a grande distanza fra loro. Infine il Servizio chimico, presto interforze, aveva un proprio Centro chimico militare con varie installazioni, fra cui Civitavecchia.
Perché abbiamo minutamente ripercorso (e solo per l’esercito) questo reticolo di enti, centri e laboratori, che impiegava in tempo di pace decine di ufficiali e che ne avrebbe mobilitate diverse centinaia durante la guerra? Perché, presa complessivamente, tale descrizione ci sembra dia l’idea dello sforzo a cui furono costrette le istituzioni militari del fascismo in vista della trasformazione dettata dallo sviluppo tecnologico imposto dalla guerra, e perché può far intuire il peso nuovo e significativo – anche se non preponderante – dato da una nuova ufficialità militare, profondamente investita dai temi della modernizzazione e dello sviluppo tecnologico.
Provenienti in genere dall’artiglieria e dal genio – le antiche ‘armi dotte’ –, questi ufficiali insegnavano, ricercavano, si aggiornavano; di formazione spesso ingegneristica, transitati dalle severe scuole di applicazione, e in numero ormai di una qualche consistenza, essi rappresentavano una parte ‘nuova’ del corpo ufficiali italiano. Non potevano certo rivaleggiare in numero con gli ingegneri civili, ma rappresentavano – anche nei confronti di questi ultimi – una realtà in qualche modo nuova. Si osserverà che tale reticolo di enti, corpi e reparti non era per niente specifico all’Italia, e che rappresentava, inoltre, solo una parte di quella più generale trasformazione che avrebbe mutato il profilo dello strumento militare nazionale da quello tradizionale – una grossa e sostanzialmente uniforme fanteria appiedata, appena corretta da qualche limitata componente più tecnologizzata (un profilo sostanzialmente appropriato per descrivere l’istituzione militare alla vigilia della Prima guerra mondiale) – all’organismo militare piuttosto complesso e articolato, fortemente innervato di componenti tecnologiche, che avrebbe affrontato la Seconda guerra mondiale.
Modelli di mobilitazione e regime politico
L’impressione, dunque, è che al Paese non mancassero le forze e le competenze per avere una mobilitazione efficace. Una nuova leva di tecnici e ingegneri, civili e militari, ormai esisteva. I militari erano più consapevoli del problema. L’industria si era rafforzata, rispetto all’Italia liberale, e aveva a suo modo superato prima gli scogli del disarmo seguito al possente riarmo della Prima guerra mondiale e poi quelli della grande crisi economica del 1929. In ognuno di questi ambiti non mancavano criticità, ma in ognuno di essi l’Italia degli anni Trenta era più robusta di quella di quindici o trent’anni prima (seppure solo in valore assoluto e non in confronto agli altri grandi Paesi europei, come si è visto in precedenza).
Diverso invece era il fronte del regime politico, che purtroppo trascinava con sé anche gli altri ambiti, radicalizzandone le criticità piuttosto che sfruttarne i punti di forza.
L’assenza di libertà, la vaghezza degli obiettivi strategici del regime fascista e il divario fra questi e la realtà del Paese, in termini anche militari e industriali, mettevano di per sé forze armate e industria in una falsa posizione. Contraddire il fascismo, il PNF e il duce poteva infatti essere rischioso, in un regime che deteneva il controllo totale, oltre che dei mezzi di repressione, del bilancio e dello Stato. Come in altri sistemi totalitari, indipendentemente dal tasso di policrazia, il fascismo finiva per radicalizzare gli esiti peggiori. Da qui, allora, vertici militari e forze armate che non contraddicevano il regime obiettando che i suoi obiettivi erano irraggiungibili, industrie che non miravano al prodotto più efficiente o più avanzato, ma si accontentavano di quello che poteva essere gradito al regime e così via. Per tale ragione, la forma del modello di mobilitazione trascinava la sostanza delle relazioni fra politici, militari, industriali e tecnici.
Tutto ciò è stato ampiamente confermato dalle numerose ricerche già disponibili sulle produzioni belliche e sulla preparazione della guerra sotto il regime fascista. Vari potrebbero essere gli esempi. Nel caso dei carri armati, il problema era già emerso (per es., nel rapporto con l’Ansaldo):
L’Ansaldo era un contraente in grado di condizionare la controparte [lo Stato e le forze armate] sia inducendola a volere determinati prodotti sia costringendola di fatto a commisurare la propria azione esterna, ossia la condotta della guerra, alla quantità e al tipo di forniture prestate.
Ma questo non era certo l’unico caso, e nell’atmosfera del regime il condizionamento non andava solo dagli industriali allo Stato, bensì era reciproco:
La lunghezza dei tempi industriali si riflesse sul rinnovo del reggimento carri armati e sulla formazione di altri reparti corazzati. Il ritardo industriale risaliva a sua volta alla lunga incertezza dei responsabili militari.
La sostanza politica del regime fascista non era in ciò irrilevante: «Le conseguenze del soffocamento della concorrenza non devono essere né esagerate né sottovalutate». Poteva avere un proprio peso anche qualche responsabilità da parte dei tecnici, cioè «una non sovrabbondanza di idee (forse anche di informazioni su quanto si faceva altrove) nei nostri progettisti», ma ben di più gravava la struttura con la sua «modesta capacità produttiva e il suo carattere anelastico» sommato al «monopolio di fatto, difeso tenacemente contro ogni tentativo ministeriale di aprire il mercato ad altri produttori». Tutto ciò ebbe chiare conseguenze anche su un punto decisivo per la guerra: «Considerando in generale il problema della meccanizzazione, sembra che, durante la guerra, l’Italia sia stata, fra i paesi sviluppati, quello dove si verificò la più forte dissociazione fra i bisogni militari e la qualità della produzione industriale» e ciò nonostante il fatto che «l’industria italiana uscita dalla prima guerra mondiale aveva tutto il necessario per concepire e realizzare veicoli da combattimento non inferiori a quelli di altre potenze» (Ceva, Curami 1989, p. 454).
La mancanza di una chiara e realistica visione strategica da parte del regime, nonché il suo incoraggiare interessi particolari palesemente contrastanti, legittimavano una serie di azioni che potevano produrre inefficacia piuttosto che efficienza:
L’industria cercò di scaricare i suoi problemi occupazionali sull’esercito e questo si rassegnò (1936 e 1937), la prima volta supinamente, e la seconda dopo qualche protesta, ad acquistare inutili partite di carri superatissimi. L’industria fallì il progettato ‘carro d’assalto’, ma l’esercito si limitò ad annullare la commessa senza esercitare il dovuto pungolo soprattutto per i carri medi […]. È vero che fu in sostanza l’industria a proporre modelli come l’M13 e l’L6 ma ci vollero il ritardo e l’impreparazione dell’esercito per creare le condizioni dell’accettazione urgente di tali pessimi modelli (p. 462).
Numerose sono le vicende analoghe che accantonavano le competenze dei quadri tecnici a favore di un incontro deteriore fra interessi economici dell’industria e mancata precisione e severità militare nel chiedere e accettare commesse, il tutto sotto gli occhi della politica e del regime. Dalla questione delle corazze navali alla mancata portaerei italiana, dall’incapacità di avere motori adeguatamente potenti per le cellule degli aerei alla sottovalutazione dei radar per la guerra aerea e del sonar per quella subacquea, varie sono state le occasioni concrete in cui un modello di mobilitazione a marcata presenza politica nel contesto di un regime fascista in calo di consensi produsse pesanti inconvenienti alla preparazione della guerra.
Un caso eccezionale, ma non tanto
Che il Paese potesse più di quanto il regime faceva, lo dimostrano molti indicatori: per es., proprio le competenze dei tecnici. Gli storici hanno ampiamente discusso delle riviste militari ufficiali, considerate in quanto luogo di discussione fra i tecnici ‘in uniforme’. Giorgio Rochat (1967, 2005) ha sostenuto, con buona evidenza, che il dibattito militare italiano fu fortemente coartato dall’atmosfera e dalle istituzioni del regime fascista, impedendogli la libertà che il sessantennio dell’Italia liberale a suo modo aveva garantito e che in quello stesso ventennio era possibile riscontrare nelle omologhe riviste di altri Paesi a regime democratico. Ferruccio Botti e Virgilio Ilari (1985) hanno obiettato che invece un vero dibattito ebbe luogo, in particolare fra tradizionalisti e modernizzatori. Che due tendenze di questo tipo esistessero non è stato negato da John Gooch in un suo recente e monumentale studio (2007); egli ha però di fatto confermato le prime analisi di Rochat, dimostrando come, anche fra i militari, frizioni fra personalità e aree diverse esistessero, ma operassero – più che in pubblico – nei limiti dello scontro sotterraneo di natura policratica tipico del regime, e che insomma non avessero quei caratteri aperti e chiari riscontrabili in altri Paesi e in altri sistemi politici, caratteri che soli potevano produrre rinnovamento ed efficienza.
Ma nella preparazione della guerra totale, di una ‘economia armata’, i militari non erano i soli attori. Tecnici, ingegneri e scienziati giocavano un ruolo non secondario. Purtroppo deve ancora essere condotto uno studio attento della pubblicistica tecnica del periodo fascista sui temi della produzione dei sistemi d’arma. Tuttavia, da alcune prime analisi sembra emergere che non mancavano i quadri attenti a queste tematiche, preparati e competenti. Sfogliando le annate della citata «Bibliografia scientifico-tecnica italiana», è facile trovare articoli, anche di riviste civili, che coglievano assai bene le grandi linee dell’evoluzione della tecnologia militare del tempo e che si adoperavano concretamente in singoli settori, compresi quelli strategici. È difficile sfuggire all’impressione che possano essere estesi anche ai tecnologi gli studi – per es., quello di Roberto Maiocchi (2004) e Libere professioni e fascismo (1994) – sul volenteroso ‘consenso’ degli intellettuali e sulla loro fattiva cooperazione alla politica autarchica del regime. Più difficile, invece, comprendere quanto e se il regime mise a frutto le loro competenze.
D’altro canto, persino sul terreno della preparazione della guerra non è detto che l’impegno scientifico per la risoluzione dei problemi più tecnici comportasse un immediato consenso politico. Per quanto eccezionale, merita qui ricordare la figura non comune dell’ingegnere piemontese Filippo Burzio (1891-1948).
Spirito critico, laico e liberale, Burzio si era messo in luce al Politecnico di Torino, dove si era laureato nel 1914 e con cui aveva collaborato sui temi dell’aeronautica e della balistica dopo aver prestato servizio militare come tecnico balistico nella Prima guerra mondiale. La sua carriera accademica, già ben avviata, fu ostacolata dal suo desiderio di autonomia (che lo portò, tra l’altro, a non voler entrare nell’amministrazione universitaria). Ma Burzio trovò comunque una propria via: ancora giovane, nel 1921 fu chiamato come professore di meccanica razionale all’Accademia d’artiglieria di Torino. In quella veste non solo formò una generazione di ufficiali d’artiglieria, ma continuò i suoi studi di balistica, raggiungendo importanti risultati, non di rado pubblicati sull’ufficiale «Rivista di artiglieria e genio» (e di recente commentati da Vittorio Marchis: si veda il suo Filippo Burzio, ingegnere politecnico, in F. Burzio, Scritti scientifici. Tecnica, etica, politica, a cura di G. Pellegrino, 1997, pp. 47-77).
Fermandosi a questi dati, sarebbe facile sbagliarsi e pensare a Burzio come a un tecnico completamente inserito nel clima e nelle istituzioni del regime. Chi conosce invece la sua biografia intellettuale e politica sa bene che Burzio, pur essendo – come ha scritto Luigi Bonanate nella prefazione al libro appena citato – «forse più liberale che democratico», non si annullò affatto nel regime. Produsse, anzi, prima un’ampia pubblicistica, per es., attorno alla figura del ‘demiurgo’ (un ‘tipo umano’ in grado di moderare i contrasti tra le diverse civiltà europee), un tema che forse concedeva qualcosa all’atmosfera del regime, ma che non era assolutamente riducibile alla sua ideologia. In seguito, durante il periodo della Repubblica di Salò, si mise in vista per le sue idee nient’affatto ‘allineate’, al punto da essere arrestato nel 1944 dalle forze naziste occupanti. Per questo, a molti sembrò naturale che nel 1945 assumesse la direzione del quotidiano torinese «La stampa»; direzione che tenne fino alla morte, nel 1948.
Per quanto individuale e dai caratteri certo non comuni, vista la statura del personaggio, ricordare la vicenda di Burzio ci pare estremamente utile per chiarire il tema di quanto il regime si sia avvantaggiato delle competenze dei tecnici, e di quanto questo abbia significato in termini di un loro coinvolgimento o addirittura di un loro pieno consenso al fascismo. Un tecnico del valore di Burzio collaborava con le istituzioni militari e quindi, indirettamente, con il regime, ma non era affatto prono a quest’ultimo, ed era anzi visto con sospetto.
La resa dei conti
Una guerra totale non si vince solo sul campo di battaglia: serve la mobilitazione di tutte le risorse del Paese o dell’alleanza. La lezione della Prima guerra mondiale, da questo punto di vista, si ripeté con la Seconda. La forma della guerra in questo contava meno: quella del 1939-45 non ebbe trincee, non fu quasi esclusivamente europea e così via. Più che la forma – guerra di movimento, guerra ideologica, guerra di logoramento delle truppe come delle forze produttive delle società coinvolte ecc. – contò, di nuovo, il carattere di guerra di mobilitazione.
Si è già osservato che, sino alla prima metà degli anni Trenta, le forze armate italiane erano dotate di mezzi in generale non troppo distanti da quelli delle altre maggiori potenze, e che però tale giudizio non sarebbe più adeguato se riferito al 1938 e sarebbe addirittura pura retorica mistificatrice se riferito agli anni di guerra, tra il 1940 e il 1943. Questo, come abbiamo detto, per due ragioni: l’affinamento tecnologico-qualitativo, proprio nel cruciale periodo della seconda metà degli anni Trenta, dei sistemi d’arma in altri Paesi, e l’incapacità del regime fascista di produrli in serie e in quantità sufficienti per una guerra di massa e mondiale.
Quando l’Italia fascista entrò in guerra, il regime aveva sulla carta una vasta capacità di mobilitazione: come abbiamo visto, la legge Organizzazione della Nazione per la guerra era pronta sin dal 1925. Ma nella realtà il fascismo, pur parlando di nazione guerriera e di otto milioni di baionette, attuò, come detto, una mobilitazione solo parziale. Inoltre, quella mobilitazione evidenziò innumerevoli pecche e problemi. A partire dal suo aspetto decisivo: la preparazione della guerra, la produzione di armamenti. Politici, industriali, militari e tecnici ebbero tutti qualche responsabilità, anche se in misura diversa e con conseguenze diverse. La mobilitazione non formò le coscienze:
[La] collaudata macchina per l’organizzazione del consenso non valse a ottenere una partecipazione alla guerra capace di reggere alle sconfitte […]. Non ci sono dubbi sul calo del consenso generale durante il conflitto.
Né tale mobilitazione fu sufficiente per produrre gli armamenti che sarebbero stati necessari alle forze armate per condurre quella guerra che il regime aveva voluto:
Per introdurre il discorso sulla produzione bellica bastano due serie di cifre. Il totale degli aerei prodotti in Italia nel 1939-1943 è di circa 11.000 […] rispetto ai 25.000 aerei tedeschi, 26.000 inglesi, 35.000 russi, 86.000 americani prodotti nel solo 1943, tutti o quasi tutti di caratteristiche superiori agli aerei italiani. Carri armati. Nel 1940-1943 furono costruiti 2.565 tra carri medi e semoventi, 624 autoblindo, più 516 carri leggeri L3 e L6 di scarsissima efficienza. In tutto 3.705 blindati, a fronte di 20.000 carri tedeschi, 24.000 russi, 29.500 americani costruiti nel solo anno 1943, tutti o quasi tutti di prestazioni superiori (Rochat 2005, pp. 305-306).
Avendo alle spalle questo tipo di mobilitazione e di produzione bellica, la guerra voluta dal regime non poteva essere vinta. È stato osservato che questa struttura e questi prodotti della mobilitazione non potevano servire né alla guerra ‘parallela‘ del 1940 e dei primi mesi del 1941, né alla successiva guerra ‘subalterna’, che vide poche forze disperse sui tanti fronti delle tante aspirazioni del regime. Questa struttura e questi prodotti potevano bastare al massimo per una ‘piccola’ guerra, condotta contro uno o due avversari minori e avente come obiettivi solo modeste correzioni territoriali o limitate occupazioni non distanti dal territorio nazionale. Ma questa non era la guerra reale, e il risultato di tale, ipotetica piccola guerra non poteva comunque essere quella revisione dell’ordine mediterraneo a cui Mussolini e il fascismo avevano affidato la propria sorte di fronte al Paese. Non c’era, quindi, alcun allineamento tra obiettivi di guerra, natura del conflitto e caratteri della mobilitazione. Si pensi, per es., che lo stesso commissariato (poi sottosegretariato e poi ministero) per la produzione bellica aveva solo poteri di coordinamento e non di controllo totale. In queste condizioni, era il tipo di modello di mobilitazione che non funzionava.
Nei primi decenni successivi al 1945, la storiografia militare ha gettato la croce sull’industria, mentre la pubblicistica ‘nostalgica’ si è chiusa in un’accusa indiscriminata al Paese. Studi più recenti hanno dimostrato che, dopo quelle del regime, che rimangono comunque le maggiori, e oltre a quelle degli industriali («interessati a guadagni senza controlli sulle forniture belliche»), anche i militari ebbero le proprie responsabilità. È stato osservato a tale proposito che, sia in termini di strategia sia in termini di armamenti, le tre forze armate sembravano combattere tre guerre diverse. Infine, gli studi relativi ai tecnici sono solo nella fase iniziale.
Se non fosse per l’Italia, trascinata in una guerra che sarebbe stata persa e che avrebbe finito per dividerla per due anni, precipitandola in due regimi di occupazione e in una guerra civile, e per gli italiani, che ne patirono le conseguenze, sarebbe un assai triste paradosso che un regime bellicista rimasto al potere per vent’anni non sia mai riuscito a preparare una propria ‘economia armata’.
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