Il fascismo e la scienza
Il giorno 31 ottobre 1926, intervenendo a Bologna alla riunione della Società italiana per il progresso delle scienze (SIPS), pochi minuti prima di essere oggetto dell’attentato da parte di Anteo Zamboni, Benito Mussolini chiedeva alla platea di illustri scienziati: «Cosa ho dato io personalmente alla scienza?». Nonostante gli spettatori si affannassero a rispondere «Tutto!», il duce si rispose: «Un bel nulla!». Mussolini aveva ragione. Nei pochi anni avuti a disposizione il governo fascista aveva sostanzialmente ignorato tutte le questioni connesse con l’organizzazione della struttura di ricerca scientifica, che rimaneva ancora quella ricevuta in eredità dall’Italia liberale. Ed era un’eredità carica di problemi.
Al compimento dell’Unità, l’Italia si presentava come una nazione ricca di contraddizioni, riconducibili a una sola, grande questione fondamentale: come unificare realmente un Paese che per secoli aveva vissuto frantumato e diviso. Dal punto di vista della ricerca scientifica la storia preunitaria aveva dato corpo a un’eredità piuttosto singolare per un Paese sostanzialmente agricolo, cioè un numero elevatissimo di istituzioni culturali di livello universitario, il cui valore era assai differenziato.
Il dibattito sul modo più opportuno di riorganizzare e riunificare l’intricata struttura durò molti decenni, vedendo schierati, da un lato, coloro che privilegiavano il modello francese, fondato su pochi grandi istituti controllati rigidamente dal potere centrale, dall’altro, chi guardava al modello tedesco, caratterizzato da un maggior numero di centri dotati di larga autonomia, che ne favoriva la specializzazione e l’inserimento nel tessuto produttivo. Nei fatti però prevalse decisamente e rapidamente la tesi accentratrice. Carlo Matteucci, ministro della Pubblica istruzione dal 31 marzo al 7 dicembre 1862, fu il più deciso sostenitore di questa linea che, nelle sue intenzioni, prevedeva la soppressione delle istituzioni più asfittiche. Il progetto di Matteucci non riuscì: sistematicamente, di fronte alla minaccia di chiusura di un centro universitario, si mobilitavano le forze locali e il tentativo veniva ogni volta bloccato. Questa dinamica si ripeté a più riprese sino alla Prima guerra mondiale e sfociò in un rovesciamento completo dei progetti di sfoltimento.
Se molte erano le università esistenti, assai scarsi erano i fondi da suddividere tra esse. Questi pochi fondi erano ripartiti secondo rapporti di forza molto squilibrati tra le discipline. Nel 1862 esistevano 233 cattedre nelle facoltà di Medicina, 166 a Giurisprudenza e 170 per le facoltà di Scienze fisiche, matematiche e naturali, comprendenti gruppi molto eterogenei, che andavano dai matematici agli zoologi; solo 7 erano le cattedre presenti nelle scuole di applicazione.
Peggiore di tutte era la situazione delle discipline tecnologiche. Nell’Italia preunitaria esistevano solo due scuole di applicazione, a Roma e a Napoli, che svolgevano un’attività circoscritta e finalizzata ai soli bisogni della pubblica amministrazione. I nuclei più attivi della borghesia settentrionale non trovarono invece alcun istituto universitario capace di recepire le loro crescenti richieste di tecnici. Essi pertanto raccolsero le loro energie per dar luogo a istituzioni autonome dedite all’insegnamento tecnico. Con l’Unità nacquero così l’Istituto tecnico superiore a Milano e la Scuola di applicazione per gli ingegneri a Torino, che si dedicarono alla didattica, non alla ricerca. Va tenuto presente, infatti, che la struttura produttiva italiana, incentrandosi su settori tecnologicamente vecchi, non aveva ragioni per chiedere alla scienza importanti aiuti. Nei decenni successivi all’Unità la ricerca scientifica italiana visse sostanzialmente separata dal mondo della produzione.
Il cinquantennio che va dall’Unità d’Italia alla Prima guerra mondiale può essere considerato come un periodo dedicato alla costituzione, o ricostituzione se si vuole, di una tradizione scientifica nazionale, o almeno di alcune tradizioni scientifiche nazionali. Lo spezzettamento politico in cui erano vissuti gli italiani in precedenza aveva costretto l’attività di studio e di ricerca in ambiti locali; con l’unificazione del Regno le condizioni mutarono e, sia pure lentamente, presero vita, o furono rianimate, quelle forme organizzative – riviste, associazioni, convegni – che consentirono un amalgama tra cultori della medesima disciplina. L’individualismo che aveva caratterizzato la scienza preunitaria non scomparve tuttavia in modo rilevante, perché continuò a essere favorito dalla particolare struttura degli istituti di ricerca, che si identificavano generalmente con una cattedra universitaria.
La crescita del peso delle istituzioni destinate a studi applicativi è certo il dato più significativo che emerge dall’analisi del periodo che va dall’Unità alla Prima guerra mondiale. Questo aumento d’importanza degli studi tecnologici, confermato dall’allargamento degli insegnamenti tecnici nelle università, fu certo il riflesso dello sviluppo della base industriale italiana, ma non si verificò in modi semplici e lineari. Anche nei gruppi industriali più avanzati non fu prevalente l’opinione che la scienza potesse essere un’importante forza produttiva e le iniziative adottate per migliorare le strutture universitarie furono rivolte prevalentemente alla formazione dei nuovi ingegneri o al controllo della qualità.
La crisi in cui piombò il Paese per effetto della Prima guerra mondiale mise a nudo le carenze della nostra struttura produttiva e la sua dipendenza dall’estero, particolarmente dalla Germania. La guerra rivelò quanto l’organizzazione economica di un Paese valesse come arma. A volte assai semplicisticamente si vide nel mancato legame tra scienza e produzione industriale la causa prima dell’assenza di taluni settori produttivi vitali nel nostro Paese e, conseguentemente, si individuò nell’instaurazione di un profondo interscambio tra mondo universitario e mondo del lavoro un obiettivo prioritario.
Certo questo programma non venne realizzato. Ciononostante questa mobilitazione non fu sterile e sortì alcune iniziative che andavano tutte nella direzione indicata di un proficuo sviluppo della ricerca in aderenza a problemi pratici. Gli ambienti governativi si mossero per tentare una ‘mobilitazione scientifica’ con notevole ritardo rispetto a quel che era già stato fatto in Inghilterra o in Francia: solo nel marzo del 1917 il ministero della Guerra istituì un Ufficio invenzioni e ricerche, affidato alla direzione e alla spinta del matematico Vito Volterra. Grazie all’opera di Volterra, l’Ufficio non venne soppresso dopo la guerra e divenne il nucleo iniziale del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR).
La guerra produsse un nazionalismo scientifico-tecnico che poneva con forza l’esigenza di sviluppare sino in fondo le potenzialità di cui il Paese era dotato grazie all’impiego di tecniche adatte alle specificità dell’Italia, tecniche ‘italiane’, svincolandosi così, laddove era ragionevole farlo, da una dipendenza dall’estero di cui la guerra aveva mostrato tutti i pericoli. L’idea di un’industria con caratteri nazionali portava con sé una rivalutazione del ruolo e del valore della ricerca italiana. Dopo il nazionalismo, un secondo tema pare essere stato imposto all’attenzione di tutti dall’esperienza bellica: il valore pratico della scienza. La guerra, mobilitando la scienza e mostrandone il terrificante potere, aveva scosso notevolmente l’ideale di scienza pura e disinteressata in precedenza egemone. Ma se la scienza doveva assumere un valore economico e sociale, essa doveva rinnovarsi profondamente nelle sue strutture. La richiesta fondamentale che venne fatta fu quella dell’istituzione di grandi laboratori di ricerca centralizzati che superassero la polverizzazione delle risorse tipica della storia precedente. Il progetto del CNR fu proprio incentrato sulla necessità di avere una politica della scienza nazionale, capace di indirizzare risorse verso organismi di ricerca qualitativamente superiori agli istituti universitari e destinati a studi su argomenti di rilevante interesse socioeconomico per il Paese.
Il fascismo riprenderà questa triade tematica, nazionalismo, valore pratico della scienza, indirizzamento delle ricerche verso i bisogni della nazione, per fondare su di essa la propria politica scientifica.
Giovanni Gentile, in un discorso tenuto in qualità di ministro della Pubblica istruzione alla riunione annuale della SIPS del 1923 dal titolo La moralità nella scienza, enunciò con chiarezza il programma sopra detto. Proclamò innanzi tutto la volontà del governo di intervenire nell’attività scientifica in quanto momento importantissimo della pratica politico-sociale. L’attività scientifica è morale – cioè va vista come dovere, non come godimento – e la sua responsabilità pesa sugli uomini, chiamati al compito di essere utili alla propria patria. In queste tesi è racchiusa tutta l’essenza della concezione fascista della scienza: attività utilissima da sviluppare in funzione dei bisogni economici e politici del Paese. Negli anni successivi non verrà detto molto di più.
Nonostante le enunciazioni di principio circa l’importanza della scienza, la dinamica complessiva delle forze presenti nella struttura universitaria durante il fascismo fu contrassegnata da un’indubbia perdita di peso dell’area scientifica rispetto a quella umanistica. Clamorosa fu la svolta prodottasi nella distribuzione degli studenti: se nell’anno accademico 1921-22 gli studenti iscritti ai corsi di laurea di area scientifica rappresentavano oltre il 60%, nell’anno 1939-40 erano gli iscritti dell’area umanistica a costituire il 66% del totale. Particolarmente marcata, all’interno dell’area scientifica, fu la diminuzione degli iscritti a ingegneria, che avvenne addirittura in termini assoluti, con un calo dalle 11.423 unità del 1921-22 alle 7818 del 1939-40. Nel corpo docente universitario vi fu un parallelo spostamento di equilibri in favore degli appartenenti all’area non scientifica, notevole, anche se di una entità non paragonabile a quello avvenuto tra gli studenti. Si tratta di un fenomeno socioculturale complesso, dalle cause multiformi, radicate nei mutamenti complessivi della società italiana di questi anni, che richiederebbe uno studio a parte, ma che risulta nella sua fenomenologia chiarissimo.
Pur entro questa cornice generale di sostanziale perdita di forza della cultura scientifica a vantaggio di quella umanistica, dal punto di vista dell’attività organizzativa a sostegno della ricerca nelle università il fascismo dimostrò indubbiamente un impegno non trascurabile. Per quanto concerne la fondazione di nuovi istituti di ricerca, questo impegno ebbe andamento diseguale. Vi fu un picco rilevantissimo attorno al 1924, dovuto all’apertura di due nuove università, quella di Bari e quella di Milano. È vero che la nascita di queste due università fu il risultato di un processo iniziato prima del fascismo, ma a quest’ultimo spetta il merito di aver condotto a termine un’impresa che avrebbe potuto protrarsi ancora per molto tempo. Con la seconda metà degli anni Venti rallentarono di molto il rinnovamento e l’ampliamento delle strutture universitarie, per riprendere poi parzialmente in coincidenza con il periodo autarchico, con un significativo calo, tuttavia, in corrispondenza dell’approssimarsi della guerra.
Quest’attività conservò un elemento della tradizione postunitaria, cioè la preponderanza delle iniziative rivolte alla medicina. Vi furono, tuttavia, alcuni rilevanti mutamenti. Innanzi tutto, un’attenzione, particolarmente visibile negli anni Venti, per le scienze agrarie e, in sott’ordine, per la veterinaria. Questo dato è in ovvia sintonia con la politica di ruralizzazione della società italiana seguita dal regime. Nella seconda metà degli anni Trenta appare poi, in corrispondenza con lo sforzo di mobilitazione autarchica, un impegno nei rami tecnologici non agricoli che, per circa un quinquennio, furono privilegiati rispetto a tutti gli altri campi scientifici.
La politica dei laboratori attuata dal fascismo produsse alcuni mutamenti nella loro distribuzione percentuale. Pur basandosi su dati molto parziali, è possibile fare un confronto, largamente indicativo, tra la situazione dei laboratori scientifici italiani al 1915 e quella al 1939. Da questo confronto appare che la quota dei laboratori destinati alla medicina rimase sostanzialmente invariata e largamente maggioritaria (al di sopra del 33%), così come stabile fu la quota del settore contiguo della farmacia (superiore al 5%); diminuì in maniera sensibile, secondo una tendenza già evidenziatasi nell’Ottocento, il dato relativo alle discipline più tradizionali come la biologia (passata dal 16,71% al 13,36%), l’astronomia e le scienze della Terra (dal 12,82% al 10,35%); una leggera flessione ebbero la fisica (dal 3,31% al 3,11%) e la tecnologia (dall’11,95 all’11,05). Quest’ultimo dato è particolarmente interessante, poiché suggerisce che, nonostante le iniziative degli anni dell’autarchia e i proclami della propaganda, l’importanza dei laboratori tecnologici nell’organizzazione della ricerca italiana non mutò in modo significativo. La crescita più vistosa fu quella dei laboratori di agraria (dal 10,37% al 13,06%) che, insieme ai confratelli di veterinaria (passati dal 1,58% al 2,51%), si collocavano alla vigilia della guerra saldamente al secondo posto di questa classifica, a conferma dell’immagine di una società italiana ancora prevalentemente agricola. Lo sviluppo di una base industriale sembra riflettersi solo nella crescita della quota dei laboratori di chimica, passata dal 2,88% al 5,02%.
Tutti questi cambiamenti, tuttavia, non modificarono il carattere più generale della scienza universitaria, cioè la povertà di mezzi rispetto alle persone. Basterà un dato: nel bilancio del ministero della Pubblica istruzione del 1921 il rapporto tra compensi e dotazioni era 1,52, nel 1941 1,55, ossia sostanzialmente invariato.
I laboratori di cui si è detto ora erano laboratori universitari, poiché nelle industrie, salvo eccezioni rarissime, i laboratori che iniziarono a essere organizzati erano essenzialmente dediti al controllo dei prodotti, non a una vera e propria attività di ricerca. Tuttavia, non si deve credere che durante il fascismo la ricerca scientifica continuasse a essere ritenuta, secondo la tradizione ottocentesca, di stretta pertinenza delle università. Fu durante il fascismo, infatti, che venne avviato il CNR, la prima struttura destinata a svolgere ricerca su temi di interesse generale con mezzi che erano il risultato della concentrazione di risorse, sfuggendo alla logica sino allora dominante della ricerca personalistica e dispersa compiuta nelle università. La storia del rapporto tra fascismo e scienza fu fondamentalmente la storia del CNR.
Dopo una lunga trafila che partiva dall’Ufficio invenzioni e ricerche di Volterra, nel novembre 1923 fu istituito in ente morale il Consiglio nazionale delle ricerche. Fin d’allora fu stabilito un collegamento con il ministero della Pubblica istruzione, che avrebbe dovuto versare al CNR la somma annua di 275.000 lire, ma all’ente per tre anni ne arrivarono solo 175.000. La presidenza fu assunta da Volterra, che era un noto antifascista. Fu messa in atto una pressione fortissima per farlo dimettere, bloccando di fatto i finanziamenti. L’istituzione non riuscì ad andare al di là di un’attività di censimento delle nostre strutture di ricerca e di alcune partecipazioni a riunioni internazionali, fino a che non fu riorganizzata nel 1927, alla scadenza del mandato di Volterra.
Il CNR fu sottoposto a un sostanziale riordinamento. Suo compito diventava quello di «coordinare le attività nazionali nei vari rami della scienza e delle sue applicazioni anche nell’interesse della economia generale». I suoi fondi furono aumentati, passando da 275.000 a 679.000 lire annue e iniziò un’attività di organizzazione che durò un paio di anni.
La presidenza del CNR fu offerta a Guglielmo Marconi, affiancato da un Direttorio che si caratterizzava per la presenza di un solo scienziato (il chimico Nicola Parravano). È questo un sintomo di un rapporto a volte difficile con il mondo accademico. Progressivamente, comunque, il legame con il mondo universitario si strinse per forza di cose, non essendoci scienziati al di fuori delle università, e la maggioranza delle posizioni di comando nei vari comitati e commissioni andò a docenti universitari.
Dal settembre del 1927 all’inizio del 1929 il Direttorio fu impegnato in un lavoro di organizzazione e di progettazione che fu subito caratterizzato da una drammatica penuria di finanziamenti, segno evidente della scarsa fiducia nel nuovo ente che ancora nutriva Mussolini. Di fronte alle chiusure mussoliniane il Direttorio tentò di bussare alla porta degli industriali, ma costoro posero come pregiudiziale, respinta dal Direttorio, quella di avere poltrone direttive per il controllo dei finanziamenti erogati. Nel febbraio del 1930 finalmente il duce concesse un aumento di 430.000 lire sulle 600.000 già stanziate, con la promessa di altre 570.000 lire. Si era però ormai entrati in una fase storica nuova, quella demarcata dalla grande crisi economica internazionale del 1929, che faceva da spartiacque tra un periodo caratterizzato dall’apertura verso i mercati internazionali e quello degli anni Trenta, nel corso del quale prese progressivamente piede l’idea di fare da sé e si materializzò lentamente il grande progetto autarchico.
Se nel corso degli anni Venti lo sviluppo dell’economia italiana era avvenuto in un panorama internazionale che lasciava spazio al libero commercio, con l’aprirsi del nuovo decennio si innescò una spirale di cambiamenti che si caratterizzarono per una sempre maggior ingerenza degli Stati nell’attività economica e una sempre maggior restrizione degli scambi internazionali. Nelle nuove condizioni create dalla crisi del 1929, l’Italia, come tanti altri Paesi, cominciò un movimento di ripiegamento su se stessa che costituì la preparazione al periodo dell’autarchia ‘ufficiale’. Nella prima metà degli anni Trenta riprese piede quel nazionalismo scientifico-tecnico che era stato offuscato nella seconda metà degli anni Venti, il quale risultava ora consentaneo ai tempi nuovi.
Nel 1930 il CNR era ancora all’esordio, con una collocazione provvisoria e non ben definita, senza fondi e senza sede, circondato da diffidenze e disattenzioni; nel corso del decennio si sarebbe rafforzato e affermato come un organismo in grado di incidere nel mondo un po’ sonnacchioso della nostra università.
La dirigenza del CNR cercò di avviare ricerche rilevanti per l’economia nazionale, privilegiando tematiche legate all’agricoltura, nella convinzione che l’Italia fosse sostanzialmente un Paese a vocazione agricola, ma la maggior parte dei fondi finì per andare a ricerche che rientravano appieno nei programmi di studio del mondo universitario, programmi non applicativi, dettati da interessi teoretici personali o di piccoli gruppi accademici. A volte, peraltro, si trattò di progetti destinati a dare risultati di valore assoluto, come quelli poi realizzati da Enrico Fermi nel campo della fisica nucleare o da Bruno Rossi per i raggi cosmici.
La crescita delle difficoltà economiche, e in particolare l’acuirsi delle tensioni nel mercato internazionale, risvegliarono in Italia un’attenzione rinnovata per il tema della valorizzazione delle risorse nazionali. In questa temperie di rinnovato nazionalismo, il CNR ebbe modo di irrobustirsi, puntando a diventare un’istituzione chiaramente dedita allo sviluppo della scienza e della tecnica al fine del potenziamento della nazione. Nel maggio del 1932 fu riordinato e ‘promosso’ organo di consulenza scientifica e tecnica per tutto lo Stato. Tra le iniziative caratterizzanti la politica del CNR a partire dal 1931, la più rilevante dal punto di vista politico fu comunque la costituzione del Comitato per le materie prime, destinato a studiare quali fossero i bisogni e le capacità produttive e quelle di surrogazione di materie prime dell’apparato produttivo italiano. Il Comitato, formato nel febbraio 1932, fu affidato a Gian Alberto Blanc, scienziato-imprenditore. Nel suo discorso di apertura della riunione plenaria del CNR del 7 marzo 1933 Marconi affermò che al centro del programma del Consiglio stava la questione delle materie prime.
Tra la fine del 1933 e l’inizio del 1934 il clima politico italiano conobbe una svolta e prese piede il progetto di mobilitare la società italiana in vista di una guerra mediante la costruzione di un’organizzazione dello Stato in grado di dirigere i movimenti economici, tanto quelli interni, quanto quelli da e verso l’estero. Dal governo vennero molteplici spinte in questa direzione con misure legislative che favorivano le ‘produzioni nazionali’.
La mobilitazione del Paese in vista della guerra doveva naturalmente comprendere anche gli scienziati e Marconi nel suo discorso alla riunione plenaria del CNR dell’8 marzo 1934 introdusse una novità rispetto ai suoi interventi pubblici precedenti, intrecciando al consueto tema della valorizzazione delle risorse nazionali quello della mobilitazione imperiale della scienza. Il duce sembrava determinato a coinvolgere la scienza italiana nella preparazione militare.
Nel 1935, con l’inizio della guerra d’Etiopia e le susseguenti ‘sanzioni’ della Società delle nazioni, prese avvio il periodo dell’autarchia ‘ufficiale’: l’Italia avrebbe dovuto combattere al di là dei mari e allo stesso tempo svincolarsi dalle importazioni. Era veramente possibile per l’Italia fare una guerra e, contemporaneamente, riequilibrare la bilancia dei pagamenti con l’estero? Si trattava, per molti aspetti, di un problema tecnico-scientifico, più che politico-economico, e in effetti a partire dal 1935 il governo fascista cominciò a chiedere lumi alla scienza italiana coinvolgendo il CNR nello studio della questione delle materie prime.
All’inizio furono richieste sporadiche, sulla sostituibilità del rame, sull’utilizzazione della canapa come fibra tessile in luogo del cotone, sull’alcool succedaneo della benzina e così via. Al CNR si chiedevano risposte a quesiti difficilissimi imponendo limiti temporali ristrettissimi. Ovviamente il CNR rispettò le scadenze, ma fornì soluzioni o generiche o prive di fondamento.
Meno segnata dalla frettolosità e dal dilettantismo fu l’attività della Commissione interministeriale per le materie prime insufficienti e per i succedanei e i surrogati (CISS), costituita nell’aprile del 1935. Questa Commissione aveva la propria sede al CNR (il quale peraltro non aveva sede propria) ed era formata da tecnici ministeriali, tecnici militari e scienziati. Suo compito era quello di preparare una relazione annuale da sottoporre alla Commissione suprema di difesa, massimo organismo militare italiano, nella quale andavano fatte le stime sui fabbisogni di materie prime del Paese nel caso di un primo anno di guerra e le stime sulle nostre disponibilità, e andavano poi indicati i mezzi mediante i quali l’Italia avrebbe potuto fronteggiare i deficit eventuali, che erano sempre numerosissimi e rilevanti. Questa Commissione andrà assumendo un’ampiezza e una rappresentatività via via crescenti, svolgendo un lavoro di grande rilevanza. Con essa gli scienziati italiani diedero un contributo all’elaborazione delle strategie delle alte sfere politiche e militari.
Un mutamento chiaro nella vita del CNR si ebbe tra il marzo e l’aprile 1936. Il 23 marzo 1936 Mussolini tenne uno dei suoi più celebri discorsi, parlando davanti alla seconda Assemblea nazionale delle corporazioni. Il duce annunciò una svolta nella politica autarchica: se fino allora l’autarchia era stata concepita come una reazione alle sanzioni ginevrine, occorreva ora pensare all’autarchia come un progetto di offesa e di potenziamento della nazione. Al centro del proprio discorso il duce pose il problema delle risorse nazionali, e indicò come fondamentale per la sua risoluzione il contributo della scienza e della tecnica italiane, arrivando ad annunciare un prossimo, congruo aumento dei fondi al CNR.
La dirigenza del CNR prese sul serio la promessa e si attivò per elaborare progetti di ricerche autarchiche che presupponevano un livello qualitativamente nuovo dei finanziamenti disponibili.
All’inizio dell’estate del 1936 sembrava finalmente aprirsi la possibilità di dare vita ai tre grandi laboratori nazionali, per fisica, chimica e biologia, che costituivano il nerbo del programma originario del CNR. Nel clima euforico creatosi con la fondazione dell’impero si aprì una gara, solo in parte spontanea, tra le industrie nazionali, a suon di donazioni al duce, da suddividersi tra laboratori scientifici e opere assistenziali. Il CNR godette ampiamente di questa improvvisa ricchezza, oltre a usufruire di un aumento degli impegni dello Stato deciso da Mussolini: se nel 1935 le entrate erano state 5.930.480 lire, per il 1936 furono 9.887.453. Tenendo presente che nel 1934 erano arrivate 1.588.156 lire, si vede come nel biennio 1935-36 i fondi del CNR divennero oltre sei volte più grandi.
L’improvviso benessere del CNR mise in evidenza un problema istituzionale irrisolto. Per la sua natura giuridica il CNR aveva la possibilità di fondare propri istituti, del tutto autonomi rispetto agli istituti universitari, cioè rispetto al ministero dell’Educazione nazionale? Il CNR si fece promotore di un nuovo decreto legge che gli conferisse configurazione giuridica autonoma e lo mettesse in grado di avere propri istituti di ricerca. Questa mossa scatenò la reazione del ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai, non disponibile a cedere le proprie prerogative. Il clima diventò talmente teso da paralizzare parzialmente le attività del CNR. Alla fine occorse l’intervento diretto di Mussolini che diede ragione a Marconi, e nel giugno del 1937 fu pubblicato un decreto legislativo che recepiva le istanze di autonomia del CNR.
La stasi del CNR si prolungò ulteriormente a causa della morte di Marconi, avvenuta il 20 luglio 1937. Si aprì naturalmente un periodo di sosta riorganizzativa, non solo per la necessità di nominare un nuovo presidente, ma anche per adeguare la struttura dei vari organi alla nuova situazione legislativa. Nel novembre diventò presidente Pietro Badoglio, e nel dicembre si riunirono i comitati riformati, così che il CNR dalla metà del 1936 alla fine del 1937 dovette svolgere un’attività ridotta, senza un vertice operante che consentisse una politica incisiva. La fine della guerra d’Africa e la fondazione dell’impero, in definitiva, segnarono un arresto, piuttosto che un rilancio, del massimo organismo scientifico nazionale.
Il CNR rinnovato aveva compiti impegnativi e nuovi poteri. Nel momento in cui il Consiglio iniziava una nuova fase della propria esistenza, il clima politico nel Paese era di forte mobilitazione.
La nomina a presidente di un personaggio come Badoglio, che non aveva certo una preparazione in grado di consentirgli l’opera di direzione culturale di un simile organismo, può essere spiegata solo tenendo presente questo clima generale di mobilitazione. Probabilmente Mussolini nell’offrirgli la carica si proponeva, da un lato, di sfruttare il suo prestigio per costruire attorno al CNR una rete di rapporti che andasse al di là degli ambienti scientifici, dall’altro, di rafforzare il possibile ruolo dell’istituzione nella preparazione bellica della nazione. Badoglio, in qualità di capo di Stato maggiore generale, era il più alto esponente delle Forze armate, e trasferì i suoi uffici nella nuova sede del CNR, stabilendo così un legame fisico tra militari e scienziati. Le attese di Mussolini andarono tuttavia deluse e il CNR non diventò mai un organismo tenuto in qualche considerazione dalle nostre Forze armate. Lo stesso Badoglio fu il primo tra i militari a dimostrare scetticismo verso l’istituzione che presiedeva.
Escluso dunque che si possa parlare di un profondo, strutturato impegno del CNR sul piano militare, resta da vedere se e come l’ente abbia contribuito al progetto autarchico in campo civile. Innanzi tutto occorre tener presente che il clima di alta tensione in cui fu calato il rinnovato CNR si tradusse materialmente in un ingente aumento delle dotazioni finanziarie. Già nel 1936, anno del lancio dell’autarchia, le entrate del Consiglio erano passate, come si è detto, dalle 5.930.480 lire del 1935 a 9.887.453, e salirono poi a 16.867.929 nel 1938-39, a 25.425.420 nel 1939-40. Evidentemente il duce, al cui personale intervento furono dovuti questi aumenti, era convinto che il Consiglio avrebbe potuto essere utile allo sforzo di preparazione bellica, ma la sua fiducia deve essere andata poi scemando, se con l’inizio della guerra, quando lo sforzo d’impiego delle potenzialità scientifiche del Paese avrebbe dovuto intensificarsi, le entrate del CNR scesero a 19.693.402 lire nel 1940-41, risalendo leggermente a 22.780.749 l’anno successivo; i 22.719.257 del 1942-43 e i 30.422.281 del 1943-44, se si tiene conto dell’inflazione di guerra, rappresentarono in termini di valore reale una caduta verticale.
Vi è comunque da sottolineare che i fondi disponibili furono assegnati sempre con caratteristiche aleatorie: gli organi dirigenti del Consiglio non ebbero mai la certezza o la ragionevole sicurezza dell’entità degli stanziamenti, il cui ammontare poteva variare, in aumento o in diminuzione, all’improvviso, in funzione degli umori di Mussolini. Lo scopo fondamentale per cui il CNR era stato costituito era comunque quello di coordinare, promuovere e dirigere la ricerca nazionale in vista del bene dell’Italia. Il CNR non si pose mai il compito di elaborare un piano organico per la ricerca italiana. Tra i suoi dirigenti era opinione diffusa che un tale piano avrebbe dovuto essere elaborato dal governo, ma da quest’ultimo non giunse al CNR nessuna indicazione di carattere generale. La sola indicazione chiara fu quella per l’autarchia, ma essa era troppo generica: era d’obbligo valutare un qualsiasi progetto sulla base della sua utilità autarchica, ma questo attributo finiva per diventare un mero artificio retorico, in quanto poteva essere di interesse autarchico tanto lavorare su prodotti di cui l’Italia era importatrice, per svincolarla dalla sua dipendenza dall’estero, quanto studiare prodotti d’esportazione, poiché in questo modo si favoriva comunque la bilancia commerciale italiana. In fondo, il solo criterio di scelta chiaro che potesse provenire dal programma autarchico era quello di privilegiare le attività di applicazione immediata e deprimere la ricerca pura, cosa che di fatto avvenne, sollevando non poche proteste.
La questione fondamentale che poneva lo sviluppo organizzativo del CNR fu, ancora una volta, quella del rapporto con le università, cioè con il ministero dell’Educazione nazionale. Il desiderio di creare istituti autonomi era stato il fulcro dell’azione di Marconi, che aveva condotto alla riforma del 1937, ma, una volta realizzato il desiderio e ottenuta la possibilità giuridica di fondare propri istituti, l’ambizioso progetto di realizzare alcuni grandi laboratori nazionali, che era stato costantemente presente nel periodo di presidenza di Marconi, fu lasciato cadere. La dirigenza del CNR ritenne che, dalla nuova posizione di forza conquistata, fosse produttivo cercare di ricucire lo ‘strappo’ avvenuto con il ministero dell’Educazione nazionale e puntare a un’organizzazione della ricerca fondata su una collaborazione con le strutture già esistenti negli istituti universitari. Tutti erano disposti a dichiarare che questa scelta era da intendersi come provvisoria, ma vi fu di fatto l’unanimità nel lasciare nel cassetto quei progetti sui grandi laboratori nazionali che nel 1936 erano stati stesi e che erano sembrati sul punto di trasformarsi in realtà. Le condizioni oggettive imponevano la necessità di appoggiarsi ai laboratori universitari esistenti.
Sotto la presidenza di Badoglio quattro realizzazioni occuparono il centro dell’attenzione dei responsabili del CNR: l’Istituto per lo studio dei motori di Napoli, l’Istituto nazionale di chimica, la costituzione della rete geofisica nazionale e la riorganizzazione del Comitato talassografico. I compiti relativi alla rete geofisica nazionale e al Comitato talassografico furono imposti per legge al CNR, non furono una scelta autonoma, e furono compiti molto gravosi dal punto di vista finanziario, che finirono per erodere la maggior parte dei fondi destinati alla ricerca, distogliendoli da quei progetti che erano stati individuati come prioritari.
Alla fine del 1941 il CNR era arrivato a dotarsi, sia pure in forme ancora incomplete, di un insieme di centri di ricerca, pochi, che avevano una vera e propria dimensione nazionale, oltre a estendere sul territorio nazionale una rete di centri coordinati in vario modo al Consiglio, i quali, a loro volta, facevano del CNR un organismo che cominciava ad assomigliare a quello che si era sin dall’inizio vagheggiato: una struttura di respiro nazionale capace di interagire con l’intricato mondo delle istituzioni di studio esistenti in Italia.
A differenza di quanto avvenuto nel corso della Prima guerra mondiale, le operazioni belliche del secondo conflitto non rappresentarono alcuno stimolo per l’attività di ricerca scientifica. Con la svalutazione della lira i finanziamenti diminuirono rapidamente in valore reale, il richiamo alle armi allontanò in modo generalizzato i più giovani tra ricercatori, assistenti, tecnici di laboratorio e, in breve tempo, il lavoro scientifico rallentò fino alla quasi totale paralisi. Se Mussolini aveva per un certo tempo creduto nelle potenzialità della scienza italiana, con lo scoppio della guerra sembrò dimenticarsene. Neppure il CNR poté sottrarsi a questa deriva.
Badoglio lasciò la presidenza del CNR il 30 settembre 1941, ufficialmente per avere raggiunto i limiti d’età. In realtà Badoglio, a seguito del cattivo andamento delle operazioni belliche, il 4 dicembre 1940 era stato costretto a dimettersi da capo di Stato maggiore generale e da allora era stato rapidamente isolato dal fascismo, finendo nel corso del 1941 per scomparire dalla vita pubblica. La sua sostituzione al vertice del CNR non fu dunque legata a vicende interne al Consiglio: così come la sua nomina, anche il suo esonero fu dettato dalla situazione politica complessiva.
La guerra era ormai giunta al punto di paralizzare gran parte della vita della nazione e la ricerca scientifica non fu in grado di sottrarsi a questa deriva. A rendere cupo l’ambiente scientifico italiano aveva già contribuito una scelta politica fatta dal fascismo che ebbe grande impatto sulla comunità degli scienziati: la promulgazione delle leggi razziali. Fu questa una svolta fortemente voluta da Mussolini nel 1938, per rendere ancor più stretto il legame di alleanza con Adolf Hitler. Questa scelta si poneva in contrasto con le idee che in tema di razzismo erano dominanti all’interno della cultura scientifica italiana, era una scelta voluta e imposta da un dittatore che poteva trascurare del tutto le idee degli italiani.
Il razzismo nazista si fondava su una concezione biologica delle razze, secondo la quale il miglioramento di una razza (nella fattispecie quella tedesca) era ottenibile con interventi diretti sulle modalità di generazione di nuovi individui, quali il divieto di sposarsi tra appartenenti a razze diverse o l’eliminazione dei portatori di tare ereditarie, secondo una prospettiva di eugenetica ‘positiva’ che sfocerà nelle camere a gas.
La cultura scientifica italiana fino al 1938 aveva pressoché totalmente rifiutato una simile prospettiva, sostenendo invece una concezione di ‘razzismo all’italiana’, che mirava a migliorare le caratteristiche psicofisiche del popolo italiano per mezzo di misure ambientali: campagne contro le malattie endemiche, risanamento delle abitazioni, la chiusura delle osterie, le colonie estive per i bambini poveri, vaccinazioni, sanatori, attività sportiva e così via. Tutto questo era inteso come l’applicazione di una eugenetica latina, più morbida, il cui obiettivo generale era indicato nella ‘difesa della razza’. Obiettivo specifico era quello di incentivare la crescita quantitativa degli italiani, poiché, lo aveva detto Mussolini, «il numero è potenza». Le iniziative del governo trovarono ampi riscontri nella comunità degli scienziati: medici come Nicola Pende, demografi come Corrado Gini prestarono la loro prestigiosa presenza operante a sostenere e realizzare le misure del fascismo.
Quest’attività fu accompagnata da un intenso lavoro propagandistico, che presentò la razza italica (o, più usato, stirpe italica) come un gruppo umano dotato di caratteristiche di eccellenza, una razza superiore alle altre, come si vedeva con chiarezza studiando la storia, la quale insegna che un solo popolo, quello italiano, era riuscito nel corso dei secoli a raggiungere il primato tra tutti i popoli per due volte: l’impero romano e il Rinascimento. Furono pertanto arruolati (molti si presentarono volontariamente) antichisti, antropologi, archeologi, paleontologi, glottologi, e messi al lavoro per trovare conferme alla grandezza della ‘razza’ italica.
Questi studi avevano di fronte un ostacolo difficilmente aggirabile: dal punto di vista biologico era da escludersi che si potesse parlare di una ‘razza italica’. Troppo grande era la varietà dei tipi presenti nel Belpaese; troppo diverse, da Nord a Sud, le tipologie degli individui perché si potesse indicare quali caratteristiche fisiche hanno in comune gli italiani. Non potendo ammettere il concetto biologico di razza, tutti si orientarono verso un concetto ‘spirituale’: la potenza amalgamante di Roma avrebbe creato un popolo italiano che, disomogeneo dal punto di vista fisico, sarebbe divenuto omogeneo per cultura, religione e filosofia spontanea. Nacque così l’idea di una razza italiana, non unificabile nel fisico, già unificata nello spirito. Gli ebrei italiani non erano per nulla stati esclusi da questo processo di unificazione culturale.
Partendo da questa base, non poteva certo piacere la teorizzazione sulla purezza del sangue del nazismo, che non solo usava a piene mani la biologia, ma sosteneva anche la superiorità degli ariani del Nord sulle razze mediterranee. La cultura italiana degli anni Trenta fu punteggiata da frequenti polemiche, anche aspre, contro il razzismo germanico, rivendicando la superiorità di un razzismo all’italiana spiritualistico. Mussolini semplicemente decise di andare contro questa consolidata tendenza.
Il Manifesto degli scienziati razzisti, che fu pubblicato nei giornali il 14 luglio 1938 dando avvio ufficialmente alla trasformazione dell’Italia in un Paese razzista, negava recisamente le idee che circolavano tra gli studiosi italiani. In esso si proclamava che il razzismo è una concezione puramente biologica, che esiste una pura razza italiana ed è di origine ariana, che la concezione del razzismo in Italia deve essere di indirizzo ariano-nordico, che gli ebrei sono una razza non europea inassimilabile, dalla quale la purezza della razza italiana non deve in alcun modo essere inquinata.
Era stato scritto sotto dettatura di Mussolini, anche se era pubblicamente presentato come il frutto del lavoro di «scienziati» che invece erano completamente all’oscuro di tutto, tranne quello che lo aveva steso materialmente, il giovane e sconosciuto antropologo Guido Landra. Fu una sorpresa per la cultura italiana, così come la politica razzista lo fu per tutto il popolo italiano. Una novità che si tradusse immediatamente in una altrettanto nuova e vergognosa legislazione antisemita, che veniva a colpire anche scienziati e tecnici di primo piano.
Nel 1938 occorreva essere eroi per opporsi apertamente alla volontà di Mussolini. Eroi non ve ne furono e la comunità scientifica cercò di adattarsi al nuovo contesto, al pesantissimo clima che si era inaugurato. Vi fu chi stette in silenzio, e questi furono la stragrande maggioranza; chi aderì prontamente, più che per convinzione, per opportunismo; chi cercò di dare un’interpretazione spiritualistica del Manifesto, compiendo vere e proprie acrobazie intellettuali. Alla guida di questa corrente, in sotterranea lotta con la variante biologica, fu Giacomo Acerbo. La guerra porterà alla quasi scomparsa di questa tendenza mediatrice: la sempre più stretta alleanza con la Germania, cementata dalle vicende sui campi di battaglia, fu accompagnata da un allineamento sempre più deciso con il razzismo nazista, tanto dal punto di vista delle idee circolanti, quanto nella prassi orribile della persecuzione.
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